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Full text of "Studj critici"

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302877750$ 





4,d, 9 






ORIEL COLLEGE LIBRARY. 




Bequeathed by 

David Binning Monro, Provost, 

'9©5- 









ASHMOLEAN MUSEUM LIBRARY 

OXFORD 

Deposited on loan by Orlel College 

1968 



[00, 1 h^ . 



STIDJ 



orientali e linguistici 



SACCOLTA PERIODICA 

di 

«. J. A9CmWJL 

membro della Società orientale germanica di Halle e Lipsia. 



Fascicolo primo 



la HIliAlKO 

presso lo stabilimento librario Volpato, 

lai VKMBBIA, TRIKSTK, VERONA 

presso H. F. MvNSTE* 

(Tipografia Paternolli in Gorfcia) 
1854. 



ALLA MEMORIA 
DI 

FILOSSENO LUZZÀTTO 

CHE INCOMPIUTO IL QUINTO LUSTRO PERIVA 

d'alta LODE GIÀ FATTO SEGNO 

NELLO ARINGO DEL SAPERE 

QUESTA RACCÒLTA 

CHE TANTO EI SOSPIRÒ SORGESSE 

E NASCE IN ORA DOVE LE HUOft CON LUI 

LA SPERANZA PIÙ BELLA 

MONUMENTO MAL CONDEGNO 

ALLA AMMIRAZION PROFONDA 

AHI FRATELLO MIO LAMENTANDO 

INTITOLO 



Introduzione. 



S**a»m sua 10IMIA •■& ujmoaoam. Oripae e fbrauuoae M Impacio; orifiae fella «erittan, tlfitbetof 

Cria • Kritteif tiraanaMai di tìagae, mairi, trulonauiaai, nccediadtì, »▼ vkandianti ; iaplbua 
i Adj * lisfa. — Cimi rroaici suoli studi omuttaci ■ uwowwtici. L'Antichità; 9 medi* ero» 
ia* ataaps, slad j biblici; ausanti; filotofii •aernaioai; il amcrilas wnilismo e nascrilbno; ideati èsile 



•Hnologic; Oriaataliaa» e Liaganiici; importai!» degli itadj oriaibU; Oriate • Occidealt; Oocidata • 



L li il linguaggio opera umana, o ne va l'uomo debito- 
re a snperior possanza ? Questa formola segna gli estremi del 
quesito sulla origine e suli' indole della favella, quale per varj 
secoli fu discusso dall'Antichità pagana, e quale si presentò 
tra i filosofi di nazioni professanti religione rivelata. Le Scuole 
greche si domandavano se il linguaggio fosse prodotto della 
natura o frutto della convenzione, se fosse immagine degli 
oggetti, connaturale ed indefettibile alle qualità loro, o parto 
dell'arbitrio che solo nell'uso avesse radice; le nostre scuole 
filosofiche si chiesero e sr chiedono tutt' ora se la parola sia 
opera divina od umana, largizione del Creatore o trovato della 
creatura. I più profondi pensatori, contemplando in varie guise 
la origine e la formazióne delle lingue, attestarono come la 
gagliardia del loro intelletto non potesse penetrare a farsi piena 
luce nella questione. Orìgene vi dirà : essere profondo ragio- 
namento e misterioso, quello intorno alla natura delle parole 1 ); 
Vico : niuna cosa (o un' altra sola) involversi in tante dub- 
biezze quanto la origine delle lingue *); Humboldt: sca- 
turire il linguaggio da ininvestigabile profondità *). 

*) Aóyoq pi&vq xcà àfTÓQ$ijtO£, ó iteQÌ (pvcTewg dVbjttaror. Contra Cela. I. 24. 
*) Ha niuna cosa è che s'involva dentro tante dubbiezze ed oscurità quanto 

1' orìgine delie lingue ed il principio della propagazione delle nazioni 

L Scienza nuova, C. X. 
*) Die Sprache ist tief in die geistige Entwickeldng der Menschheit verschlun- 

gen; Die Sprache entopringt zwar aiis einer Tiefe der Menschheit, welche 

Oberali verbietet, aie ala ein eigentlickes Werk and als eine Schòpfung 



6 INTRODUZIONE. 

Chi propugni la origine divina, la rivelazione della pa- 
rola, o chi per le difficoltà d' immaginare la società primitiva 
senza lingua compiuta disperi di rappresentarsene la umana 
creazione, a codesto principal argomento è ridotto : che la ri- 
flessione non sussiste senza linguaggio, e che perciò supponendo 
questo una invenzione umana si presuma un tempo dove la 
facoltà riflessiva senza parola abbia lavorato a formarlo , il 
che importa contraddizione 4 ). Ma lo stabilire il pensiero inam- 
missibile senza parola, è principio che permette illazioni oppo- 
ste. Chi sostenga la umana creazione del linguaggio, lo ema- 
nare di questo dalle facoltà dell 9 uomo, può ripetere anch'egli 
quell'assioma ancipite 5 ), inducendone al contrario essere il 
linguaggio coevo alla ragione, ambo esistere per simultaneo 
sviluppo, ambo antichi quanto F uomo; ed escir assurda la 
rivelazione della parola perchè a comprendere tale rivelazio- 

der Volker za betrachten. Sia besitzt eine sich uns sichtbar offenbarenie, • 
wenn auch in ihrem Wesen unerklàrliche SelbstthatigkeiL......; Wenn man 

es wagt, in die Uranfànge der Sprache hinabzusteigen ; Vber die Ver- 

schiedenheit des menscklichen Sprachbaues und ihren Einfluss auf die 
geistige Entwickelung des Menschengeschlechtes; IL e XVIL 

4 ) Sùssmilch (Beweis da** der Ursprung der menscklichen Sprache gàtt- 
Uch sei. Berlino 1766.) vuol provare (C. II.) che Fuso della lingua sia 
necessario air uso della ragione. Quindi avvertisce la contraddizione qui 
accennata. (Kein Mensch kann sich selbst Sprache erfunden haben, weil 
schon sur Erfindung der Sprache Vernunft gehóret, folglich schon Spra- 
che hàtte da sein mùssen, ehe sie da war). — Rousseau: (Discours 
sur V origine et les fondemens de T megaliti parmi les hommes, I. P.) "car 
ai les hommes ont eu besoin de la parole pour apprendile k penser, ila 
ont eu besoin encore de savoir pensèr pour trouver l'art de la parole.,, — 
Gioberti: (Del primato morale e civile degli italiani, Capolago 1846, 
I. 16.) u La quale (rivelazione) è madre altresì della parola, che essendo 
lo strumento necessario per ripensare le idee, non può essere un trovato 
umano; giacché se il fosse, la riflessione, che non può stare senza di 
quella, dovrebbe andarle innanzi ; il che importa contraddizione. „ 

5 ) Veggasi Herder (Abhandlung iiber den Vrsprung der Sprache, IL ed. 
Berlino 1789, pp. 66-73) dove confuta Sùssmilch, citato nella nota pre-» 
cedente. Questa dissertazione di Herder ottenne il premio dell'Accademia 
di Berlino per il 1770. Il P. Soave (Ricerche intorno affa istituzione 
naturale di una società e di una lingua. Opuscoli metafisici, Venezia 1820) 
ebbe allora l'onore del primo accessit. — Humboldt: (op. cit Berlino 
1848, pag. 59) tf Wie oline diesa (die Sprache) kein BegrifT mógiich 
ist., Abonda di passi consimili. .. . . 



ne veniva necessaria la ragione, e se ragion Vera, per comune 
Consenso là parola non mancava. I sovrannaturalisti però lungi 
dalP essere sconfitti, oggi piuttosto sembran tener dessi il cam- 
po; tanto sono numerosi i seguaci di quelle dottrine della 
origine rivelata, che, propugnale da SOssmtlch nel secolo scorso, 
furono indirettamente dannate dall'Accademia di Berlino, esal- 
tatrice delle confutazioni di Herder e di Soave. Còsi Gio- 
berti, per nominar uno dei moderni settatori di quelle, stima 
aver fatto il callo ad ogni assurdo, chi pensi atto l'uomo a 
rinvenir da sé vocaboli e grammatica 6 ). 

Ma ai prodigi che ammiriamo nelP indole delP anima 
nostra, Siam noi veramente costretti ad aggiungere quello della 
rivelazione di un idioma, per appianarci le difficoltà della ori- 
gine e della formazione del linguaggio? ci è poi forza ac- 
cettare la congerie di miracoli inerente alla ipotesi, che l'uo- 
mo primiero avesse compreso la relazione dei vocaboli con 
idee non ancora concette e sensazioni non ancora provate e 
rapporti non per anco avvertiti? Io propendo ad asserire il 
contrario, so pur io certo non osi sostenere che sia dato al- 
l' intelletto nostro di ricostruire con evidenza il processo per 
il quale la prima società giungesse, di proprio lavoro, a pro- 
durre una lingua. I primi uomini, (dirà chi tenti cosiffatta 
indagine) esprimendo involontariamente la gioja e il dolore, 
scuoprirono nel suono la immagine delle proprie sensazioni e 
si avvidero di averla comunicata e la ritennero ; spinti mol- 
tiplicemente dalla loro natura ad enunciare, articolando, cose 

•) tt Vero è che l'acume del passato secolo ebbe per ferma, non che pos- 
sibile, F invenzion del linguaggio, e spiegò a maraviglia come gli uomini, 
sbucati dal suolo a uso dei funghi, e vissuti lungo tempo muti, eslegi, 
nomadi e silvestri, abbian potuto trovare successivamente e raccapezzare 
le vocali, le consonanti, i dittonghi, le sillabe, e tutle le parti del discorso 
semplici e composte, dell' interjezione e dell' articolo sino alFaoristo, al 
gerundio e al supino. Ma queste belle spiegazioni non sono più ammesse 
aldi d'oggi se non da qualche eclettico francese che ha fatto il callo 
ad ogni assurdo.,, (op. cit. ibid.) — Cantò: (Storia universale I. Unità 
della specie umana) u Onde io intendo, che il linguaggio sia stato dap- 
prima insegnato da Dio; e che con esso abbia egli partecipate all'uomo 
le più importanti cognizioni morali, scientifiche e religiose. „ 



8 INTRODOtlONE. 

e pensieri, quando sentirono nell'aria distintoci movimento 
dal suono, appresero a simboleggiare con questo Fazione ; 
nel particolar suono o nelle peculiari qualità degli animali 
e d'altri oggetti esteriori, fu pòrto a loro il modo d' indicarli 
o imitativamente o con nomi derivanti da voci create per le 
proprie sensazioni o per i proprj movimenti; il gesto fu vei- 
colo di simili ritrovati con cui si attaccavano voci a cose 
e ad idee ; più tardi, a formar nomi per le affezioni dell'ani- 
mo contribuirono per metafora quelli degli oggetti esterni, 
come a vicenda dai vocaboli per sentimenti ed idee deriva- 
vano appellazioni per le cose; mano mano insomma che il 
pensiero si sviluppò confrontando e discoprendo, si disvin- 
colò contemporanea la parola, stro mento e monumento della 
riflessione. Colali serie di supposti che i campioni della ori- 
gine divina respingerebbero come inani e puerili, furono in 
vero offerte da alcuni autori con soverchia apparenza di gretto 
meccanismo, donde sorgevano difficoltà nuove ; ma se teniam 
giusto conto della natura umana e della suscettività propria 
agli uomini primi che, senza vincoli d' esperienza o di ci- 
viltà, candidi s'ispiravano alla impressione di tutto quanto il 
creato, non ci vedremo forse venir lume non iscarso da ipotesi 
simigiianti ? — Certo, comechò sia evidente la facoltà della 
parola insila nell' uomo, contessuta al suo pensiero, tuttavia 
una lingua colta, com'ora si offre a noi, (dove una nazione 
intera fatta individuo deposita le sue tradizioni e palesa il 
suo genio) ci manifesta fenomeno stupendo così, che all' uomo 
facilmente vien meno 1' ardire di appropriarsi fattura tanto 
sublime : ma d'altronde, più la scienza si avanza, più estende 
la indagine, e sempre in maggior copia trova nel linguaggio, 
non già le impronte d'unico getto primevo, ma sparse do- 
vunque le traccie d'un progressivo sviluppo, ma la serie delle 
osservazioni e delle scoperte primitive dell' uomo specchiale 
nella parola, ma il conquisto, per così dire, della inflessio- 
ne, sì nel vocabolo che nel periodo. Tutto dimostra la parola 
divina in potenza, umanamente tradotta in alto. T ) 
7 ) Mi umbra die dal contemplare come una scrittura figurativa (la cinese p. e.) 



Nei homi, nelle radici verbali, è più evidente per hot 
questa espansione storica della parola, che non lo sia nelle 
flessioni, e nelle voci che segnano gli svariali rapporti nel 
discorso (pronomi, congiunzioni, preposizioni ecc.), con quella 
pieghevolezza onde sfuggono spesso alla difinizione. V IV e ile 
scoprire come un'onomatopeja si dilati a copiosa famiglia di vo- 
caboli ; non è malagevole, osservati i congegni delle parole 
che nascono a tempi storici, a tempi nostri, spiare consimili 

nasce e diviene comune a un gran nomerò (T nomini, sì ottenga un" im- 
magine (sia pur pallida) della formazione e della diffusione del linguaggio. 
E vero che oltre al gesto che avrebbe ajutalo la propagazione della fa- 
vella, presso la scrittura dobbiamo tener maggior conto della viva voce 
che la agevola a diffondersi ; ma la uniformità neir oso dei caratteri fi- 
gurativi, la guisa dei loro derivati e composti, perfin le alterazioni gra- 
fiche, sono analoghe allo estendersi d' una lingua, e al modo in cui, per 
onoxiatopeje* per metafore, per filiti zioni e congiungimenti, essa si sviluppa 
e col tempo si trasforma. Una completa scrittura figurativa è una lingua 
scritta nello stretto senso del vocabolo. Dove, come in Cina, èantichis- 
«ima e crebbe colla lingua e colle nozioni, è ritratto pregevolissimo dei 
progresso dello spirito umano e del contemporaneo della parola. Come 
T ebraico dice -*-{ zè6u*6 per mosca , il mansciuo co co per gallo* 
gallina, il cinese miao per gatto, il sanscrito gi Ili per grillo: così la 
scrittura cinese per cane, bove, cavallo, ma j ale vi delineò un cune, un 
bove, un cavallo, un majale; come V arabo, il persiano, il greco, l'ebraico, 
il latino, a dir pupilla adoperano voce che indica la piccola immagine del 
guardante che si specchia neiP occhio del guardato ( Ì^K ì: s 01 n , xoqtj , 
pupula, pupilla, ecc.), il cinese per scrivere questa parie mette il segno 
di fanciullo accanto a quello dell' occhio*, non lasciando sentire nella pro- 
nuncia che il monosillabo significante fanciullo, tum; se per Tira, per 
r impeto domato la lingua parlata adopererà man-suetudine alludendo 
a fiera dimesticata, la scrittura figurativa vi dirà che V ira non è libertà 
ma schiavitù peggiore di quel freno, dipingendovi per collera un cuore 
sormontato dal segno per schiavo ; del pari che il germanico ha v o 1 1- 
herzig (di-cuore-pieno) per sensibilissimo, il cinese ad esprimere com- 
mozione dell animo porrà allato al carattere per. pieno quello per cuore, 
pronunciando il primo soltanto, t ó ù n g ; scorarsi lo trae l'ebraico per me- 
tafora dal liquefarsi (^8 ' CD? m ut g, mafof); © il cinese dalttnipallidire, 
e connette cuore e bianco per indicar temere. — E quando il selvaggio per 
mostrare armonia d" intenzioni disegna due cuori e li unisce con una li- 
nea, che fa egli altro che scrivere il nostro con + cordia? — Vedo 
citato con plauso: Piper, Bezeichnungen des Welt-und LebensavfanneH 
in der chinesischen Bilderschrift. — V. altresì Humboldt l e. il, in- 
terno al divino ed umano del linguaggio. 



!• nmODITZTOffE. 

fallare fin se rimontisi ai primordj della parola, ossia additar- 
le in nomi dei più ovvj oggetti , o in radici proprie alle idee 
più comuni 8 ). La parte più spirituale del linguaggio che or'ora 
mentovai, parve forse trinciera meglio sicura ai propugnatori della 
origine rivelala; potè sembrare esclusivamente fruito di un 
dinamismo, del quale fosse aflallo inconcepibile la origine uma- 
na. Ma quando la scienza ebbe allargalo le sue ricerche, 
quando a lei fu concesso di nolomizzare i parlari delle orde 
selvaggie dell'America e dell'Asia, e studiare air Indo ed al 
Gange le forme antichissime del sistema grammaticale delle 
principali lingue antiche e moderne d' Kuropa, le si disve- 
larono nelle flessioni i più vnrj processi atomistici, che presso 
a popoli meno culti lasciarono tuttodì numerosi agglome- 
rameli intatti, significativi, gravi al pensiero; mentre presso 
ad altre nazioni gli atomi si fusero, le forme s' isnellirono, 
si ridussero prodotti ideali di faltori indiscernibili, sui quali 

•) Sì prenda per esempio V onomatopoetico a n g , che esce sotto la pressio- 
ne che interchiude il respiro. È in angoscia, angustia, forse in s/nn- 
g olare ; traslato in a n g heria, angolo («yjfco, F- , "\ e n g) ecc. — p a, pò, 
primi balbettamenti del fanciullo alla poppa, si rinvengono, per non dar 
che pochi esempj, nel p à sanscrito bere e sostentare ; nel greco ni tm^o, 
nóìftì^ latino pò-tum, pa-6u/tim, pa-tem; nel sanscrito pi-'r podi e cioè 
quello che alimenta, (ir è il suffisso regolare che v'ha in gen-i-t o r ecc.) 
eoi tendo e Ialino e germanico ecc. p ti ture, pater, fatar ecc. — 
pad andare in sanscrito, sembra dal suono dei passi; onde pad piede 
che le altre indo-europee serbano, e p à d a piede, radice; al quale com- 
ponendosi il p a bere che abbiamo veduto prima, se ne ha p à d a p a (quel 
che bere dai piedi ) che è in sanscrito albero. — L'articolazione s t, s d, 
pare naturale per indicare la cessazione del moto , dell' atto : sscr. s t i 
sfare, estesissimo per la famiglia, come s a d sedere. La esistenza (il vo- 
cabolo lo annunzia prima eh' io "1 dica) è riguardata, il più ovviamente, 
sircome una permanenza, qnasi dopo anteriori rivolgimenti; quindi l'idea 
astraila dell' essere, per quanto romore se ne meni, non è che uno scatu- 
rente da quella di stare; e nella lingua si confondono, (v. pure n. 12.) 
X» in sanscrito vai essere e sedere, e sfa essere e stare-, nei tempi 
comporti il verbo essere prende 'ancora a prestito da stare, presso di 
noi (sono stato), e in francese, e in ispagnnolo, e in portoghese; presso 
le due ultime lingue slare può anzi sostituirlo nei semplici (s o y o estoy, 
aoii n est 011). In dacota (America seltentr.) un vale essere e restare 
{ron der (Jabelent*, Gramm. della lingua dacota, Lipsia 1852. p.28).— 
La lineali delavare (Amer. Mttcntr.) è un notevole .esempio del modo 



IKTR0DUZ10!<E. 1 1 

aleggiò più liberamente il pensiero, reso pronto dalia svelta 
parola *). 

con cui, per composizione descrittiva o metaforica, nascano benanche i 
vocaboli più volgari. — (v. pare la n. seg.) 
*) Per es. in curivi, lingua nell'America meridionale, la seconda persona plu- 
rale presente del verbo e o t ò rubare, è e e o l ò à, composto intatto dì 
e te, tuo, colò, e a particola per des-gnare la pluralità : abbiamo quindi 
tuo v più = rostro, e rubare, cioè rostro rubare per voi rubale', l'indole 
del verbo periclita; da padzù padre abbiamo nello stesso idioma coi 
medesimi elementi e-padzu-à vostro padre. Tocchiamo cosi alle lingue 
dette senza flessione; il cinese p. e. volendo esprimere al disopra d'ogni 
equivoco voi temete, dirà parimenti, tu f pi à temere (nì-men pà). — Na ad 
Origine mollo simigliane giugniamo spiando la storia delle nostre armoni- 
che flessioni; la voce giugniamo appunto, in latino ci è jung-i-mus, in 
sanscrito jung-mas; è una composizione che si può tradurre giungere- 
io-pitr, rinviensi il radicale, poi lo stipile del pronome di prima persona 
(m a, ni e), infine la regolare desinenza plurale. L 'dea del presente non 
è espressa, come non lo è quella del passato in ££**? baleni veniste 
(ebraico), dov' è *2 -j. z:r*t t cioè venire f voi(~ tu + più, AK + E), o quella del 
futuro in K-3 taóò vetrati cioè tu venire (!*[«] e *C, cfr. K2 e *\ C*?, 
del passato). E qui si appalesa il vantaggio della vera flessione, vale a 
dire delle forme grammaticali dove son fusi i componenti; giacché per 
T effe Ilo di simili fusioni nascono realmente nuove voci, alle quali il pen- 
siero non istenta di annettere una attinenza anco non espressa. W e s a y 
in inglese, o ngò(-men)suè in cinese, hanno i medesimi elementi che 
"»5N- nomar ebr. (ISNfwK), cioè noi dire; ma il "W- potrà disegnar 
da sé il futuro, mentre air inglese o al cinese ci vorrà l'ausiliare (volere: 
we will say; ngò[-men]juó sue). Questi per esempj, tra i tanti 
che si affollano, dulie forme primarie. Nelle secondarie, la composizione 
è ancora più evidente, in lingue le più ammirate per flessione ; in am-a-b o, 
a m- a- barn, vedi un composto del radicale con un ausiliare corrispon- 
dente al 5 esseie sanscrito; come in scrip-sit ne scorgi uno colTal- 
tro ausiliare (as, asmi, santi sscr.; ES, sum, sit, sint lat.) che il 
si mani Cesia pure negli oorisli greci {-(?a,-oa^ y -<7s ecc.). Il turco per amo 
dice s e v e r i m, per amavo s e v e r 1: m i s e m, ma etimologicamente pro- 
nuncia io sono, era amante, perchè v* è pretto pretto un composto del 
participio attivo (6ever) colle voci relative del verbo essere. — Le voci 
grammaticali (congiunzioni, preposizioni ecc.) parimenti servono meglio 
dove la loro origine è più occulta, perchè sono allora puri segni degli 
alti del pensiero; ma del pari ci è possibile penetrare nella genesi loro, 
con disvelarne storicamente la derivazione da nomi. Il cinese ad espri- 
mere nel regno, pone regno e poi la sillaba indicante metà, mezio (cùo- 
cung); in caldaico '2 be: è casa ed in, e probabilmente gli è affine il 
r bé... ebraico, in, il quale nella dizione in mezzo, tra, si attacca a 
dirittura al vocabolo per ventre, (pTiy2 béqereo); quindi V^lI^ES 
béqereo Aakkéna'ani: tra il Canaanita* dove abbiamo letteralmente 



1 1 INTRODOTTONE. 

IL Come la interjezione inarticolata che si svincola in- 
volontariamente dall'anima, è l'origine della musica ch'è lingua 

nel ventre del Canaanita, e rimontando al più antico traslato, forse 
casa-(del)-ventre~del Canaanita. Il caldaico ha ^? b è g ot, propriamente in 
visceri, per in, in mezzo. In messioano, ilhuicatl itic r che suol tra- 
dursi incielo, vale nel ventre del cielo (V. Humboldt nella preziosissima 
dissertazione: Dell'origine delle forme grammaticali, e della loro ènfluen- 
za sullo sviluppo delle idee, nelle opere raccolte III. pag. 293). In mixteca, 
{Humboldt ibid. pag. 294) lingua neh" America centrale, per dietro la 
casa hai sata huahi schiena casa. Ma chi non vede fenomeni somi- 
glianti ne' nostri circa, intorno, mercè ecc.? riguardo sta a 
giorni nostri divenendo preposizione ; tra pronomi e particole v'hanno le- 
gami strettissimi, testimonio il nostro e h e ; t r a (giacché lo incontriamo) e 
abbreviato d' i n t e r (intra) rispondente al sscr. a n t a r, composto pronominale 
analogo ad a n t a r a' differenza, intervallo, e all'aggett. a n t a r a altro. — A 
simili risultameli arriveremmo non di rado coll'analisi del suffissi che ser- 
vono alla formazione dei nomi; ma qui lo spazio interdice trattarne. Mi 
limito a notare come nella serie dei suffissi sanscriti vi abbiano voci pa- 
recchie, che hanno senso anche isolate. — 1 primi elementi dei nomi nu- 
merali stessi non lasciano frustranee le indagini etimologiche; il messi- 
cano già al sei comincia a comporre, dicendo quasi cinque inno. Cinque 
nella lingua dei Tamanachi, narra Gilj, ò amgnaitòne che vale una 
mano intera-, un-dalf-altra-mano è sei, ambo-4e-mani (amgna ace- 
p o n à r e) dieci. G a la tin riferisce d'un dialetto americano (di tribù fra il 
rio Norte e s. Antonio di Texas) in cui fin nel numero tre v' è chiara 
composizione: due e uno (ajticpil; aite-c-pil). Poti raccolse noti- 
Eie etimologiche sui nomi numerali nell'opera : Die quinàre und vigesimale 
Zàhlmethode bei Vólkern aller Welttheile. Halle 1847. —Né resta ornai 
ovunque misterioso quel metamorfosi smo per cui in alcune lingue si al- 
teri il senso della parola con alterarne il suono iniziale che appar radicale. 
Si palesò chiaramente come ciò possa essere conseguenza di prefissi, rosi 
dal tempo. — Non vo' pertanto con questo asserire che di ogni forma 
o voce grammaticale e di ogni processo di derivazione siano possibili 
cosi (Tu Uè analisi, nò che la flessione non sia spesso dinamica e non ato- 
mistica. L'affezione varia dell'animo, che si manifesta nella differente me- 
lodia della parola, o nell' enfasi che reca alla reduplicazione per fino delle 
sillabe; il meccanismo imitativo, che allunga e raddoppia suoni e nuovi 
ne aggiunge, per raffigurar date qualità, o le dimensioni di tempo e di 
quantità; l' addestrarsi del suono articolato a ritrarre le modificazioni del 
pensiero con semplici segni di modificazione nel vocabolo; la tendenza a 
modellare molti vocaboli su d' un dato tipo, per piegare le diverse radici 
o parole ad un analogo alteramento di significato : sono sorgenti (e for- 
se non le sole) di flessioni e formazioni estranee agli aggregati di sil- 
labe significative, quali abonduno, per esempio, nelle lingue semitiche.— E 
queste a rincontro offrono nel corpo delle radici, frequentissime traccio di 
{spanatone storica, (v. ancora no. 11 e 13.) 



INTOODUZIOICE. tS 

universale: così è linguaggio universale il gesto, parte al- 
trettanto antica dei parlari, favella dell' occhio sussidio a quella 
dell' udito, origine del disegno , che genera la scrittura , in 
cui si perpetua la parola. La società che sente impulso di 
favellare ai lontani od ai posteri, tenta d' imprimere con se- 
gni durevoli i proprj avvenimenti o pensieri; e cominciando 
dal semplice delineamento di jjuadri d'oggetti materiali, può 
venire col tempo e secondo la particolare sua immaginativa, 
ad assumere il disegno di singolo oggetto e pure di aggrup- 
pamenti interi, in senso metaforico ; finché progredendo giunga 
ad una raccolta di simboli idonei a rappresentare e le azioni, 
e le modificazioni del senso capitale inerente ad una figura, 
e pure le idee astratte. I quali simboli alternandosi con vere 
rappresentazioni d'oggetti reali, e queste e quelli per 1' uso 
e per la convenzione semplificandosi nell' eseguimento, si ar- 
riva ad una vera scrittura (ideografica), cioè a produr serie 
di facili segni che, cessando d' aver un nesso tra di loro 
quali figure, rivelano con sufficiente chiarezza il pensiero di 
chi scrisse, vestito delle parole che questi immaginò. 

Un segno però è qui sempre una parola od almeno la 
flessione d'una parola, ed il suono non è ancora analizzato. 
Nasce fin dai primordj il bisogno di distinguere 1' individuo 
della propria specie con nome particolare, il quale vien sug- 
gerito da qualche avvenimento o proprietà peculiare air in- 
dividuo. Del pari succede pelle stabili adunanze d' individui: 
città, famiglie, nazioni ; o per contrassegnare le uniformi di-» 
visioni del tempo. Un popolo arrivato alla ideografia scrive 
con facilità anche i nomi proprj significativi nella sua lingua, 
facendo con questo però il primo passo a togliere dui ca- 
ratteri il valore ideografico, per lasciar loro il fonico soltan- 
to. Ma quando un tal popolo viene in contatto con altro di 
lingua affatto diversa, e perciò gli sorge occasione di scri- 
vere voci e nomi stranieri, allora per poter rappresentare 
questi colla sua scrittura ideografica gli è forza riguardarli 
quasi composti di elementi della propria lingua, e venir così 
per approssimazione indicandoli, astraendosi totalmente dal 



ti WTRODUMOHE. 

valore ideografico dei caratteri. Arrogo che se la lingua sua 
non è d'indole affatto monosillabica., gli riesce assai malage- 
vole anche questa singolare versione per ottenere a un di 
presso il vocabolo straniero, e deve ricorrere ad artifi/j per 
cui non solo faccia astrazione dall'idea attaccala al carattere, 
ma pure da buona parte del suono che a questo è proprio; 
e lo riduca all'espressione della sillaba, delia lettera iniziale 
soltanto o della finale, toccando così alla più mirabile dello 
scoperte umane, l'alfabeto. Procedimento analogo deriva dal 
fatto, che una medesima voce devegli inevitabilmente servire 
a più significali, per le omonimie, che in . ciascuna lingua 
s'incontrano. Da un lalo parrebbe, è vero, che per il desi- 
derio di tórre gli equivoci delle omonimie, ne dovesse al 
conlnirio sorgere predilezione e prevalenza della scrittura 
ideografica, figurativa; ma in realtà si dimoslra che per le 
difficultà molteplici che inceppano 1' uso di simili scritture, 
avviene (come se ne ha esempio nelle volgari transazioni in 
Citta) che un dato carattere, una volta divulgato, si adopera 
fin quanto si può per il suo valor fonico, in più sensi, pre- 
scindendo dall'ideale che gli è inerente; come se, per tras- 
portarci cogli esempj nella lingua nostra, il segno per ara 
aliare, si scrivesse anco per (egli)ara. Succederà presso po- 
polo giunto a tal punto, una scrittura mista d' ideografia e 
fonia; per circostanze speciali o egli più non progredirà, o 
non saprà compire la discoverta dellYlfubeto e applicarla per 
intiero al proprio idioma; ma il tesoro che traluce non più 
si nasconde, e, a parlar colla tradizione, vien un Cadmo fe- 
nicio a sorprendere nel jeroglìfico egiziano il germe delPal- 
fabeto, per Impiantarlo in terra dove si disvilupperà alla sua 
perfezione * °). 

10 ) La genesi della scrittura ha naturalmente lume dai differenti stadj in cui 
si rinviene questa presso i varj popoli. Reco in prima alcuni esempj (e 
T interesse dei soggetti mi fa non curante della taccia di soverchia lun- 
ghezza che potrebbe venire alle mie note) da Schoolcraft: Histori- 
cal and statistical informativa of ihe Indiati tribes of the united stales, 
riportati dal D.r Steinthal nella sua: Entwickelung der Schrifl, Berlino 
1852, pp. 61-80. " Due cacciatori (indiani degustati Uniti) dopo a?er 



nvf noi) uu om» i S » 

ITI. Come il pensiero procede più libero colla flessio- 
ne dinamica o con quella che dall'atomismo sdruscito si pre- 
navigato coatro il fiume, riposano allo riva, uccidono un orso e pigliai! 
pesci. Ecco un fallo degno di non rimanere ignoto a veruno del loro 
popolo che passasse per di Io. Lo si scrive su d' una tavola che si erige 
a monumento. Il passeggere vi scorge due battelli, e sopra ognuno di 
questi un animale, distintivo della famiglia {totem) cui ambo i cacciatori 
appartengono; quindi sa che due persone della famiglia così disegnata 
(sembra che i nomi proprj particolari agi' individui non siano indicali mai) 
sbarcarono quivi. Un orso e sei pesci gli narrano le gesta di quelli.., — 
Qui è puro disegno d'oggetti materiali, in senso materiale. La seguente 
canzone di guerra: 

1. Oh avessi la velocità dell'augello! 

2. Io sguardo ho rivolto alla stella mattutina, 

3. il corpo mio consacro alla pugna, 

4. l'aquila ^alto vola, 

5. son pago se giaccio tra gli uccisi, 

6. gli spiriti superni glorificano il nome mio, 

è così figurata: 1. un uomo colle ali in luogo delle braccia ; 2. un guer- 
riero sotto a una stella colorita d'azzurro; 3. un guerriero armato sotto 
Ja volta celeste; 4. un'aquila sopra il cielo; 5. un guerriero giacente 
collo strale nel petto; 6. un genio celeste. — Qui è pittura che serve 
• memorie che non hanno gran copia di cognizioni da ritenere; comin- 
cia il simbolo, e per esprimere aito si pone la figura sopra il cielo. 
Nell'esempio seguente il simbolo predomina, ma d'una specie che travia 
la scrittura. È una petizione di molti capi Cippivei diretta nel 1849 al 
presidente degli Stati Uniti; scritta su cinque striscio di corteccia di be- 
tulla. u [Sella prima veggonsi sette differenti animali che indicano (quali 
totem, v. sopra) i nomi delle tribù. Dall' occhio dell'animale che sta 
dinanzi sono (ratte sei linee conducenti all' occhio degli altri, per dimo- 
strare la eguale intenzione di tutte e sette le tribù. Gli animali sono co- 
loriti al naturale ; il cuore però è rosso, e da quello del primo si di- 
partono altre linee che vanno al cuore degli altri, sempre per esprimere 
come fosse unanime il sentimento e la intenzione. Altre due linee escono 
dell'occhio del primo animale: l'una nel duvanli, sciolta, indica il corso 
del viaggio; l'altra passando per di dietro sopra (iiber) tulli gli animali 
tocca a quattro piccoli laghi, congiunti uno all'altro e dipinti in azzurro 
sotto all'ultimo animale. Tra questo e i laghi v'ha una grossa lista az- 
zurra, che si allunga anche al di sotto di tutti gli altri animali e rap- 
presenta il lago wpertore. Due linee parallele partendo circa dal mezzo 
di questa lista azzurra discendono per di dietro obliquamente ai piccoli 
laghi, nello scopo di segnare una strada dal lago supcriore a questi, io 
. vicinanza ai quali gì' Indiani vogliono stabilirsi e darsi all' incivilimen- 
to; ciocché formava appunto il soggetto della petizione. — La seconda 
striscia, la quarta e la quinta recano altri totem) di tribù animate dulie 
medesime inteuiooi che spingono quelle i cui legati ai presentano. Nella 



l6 INTROtXmoftfc. 

senta quasi dinamica, perchè non costretto a sempre ripetere 
il medesimo processo negli atomi significativi delle forme - 

terza sonvi più aquile dinotanti più persone (Tana tribù che ha per totem 
quest'uccello. Dalla testa della prima s' innalzano due brevi linee che dicono 
capitano quell'individuo, del che dà pure indizio il becco più lungo degli 
altri; l'occhio ne è congiunto con linee a quello degli altri, e dinanzi 
gli sta il presidente degli Stati Uniti nella sua abitazione ufficiale di 
Washington. L'occhio pure di lui è unito a quello della prim' aquila, ed 
ambo (sic) stendonsi le mani in segno d'amicizia. Sotto alle aquile havvi 
tre case. Si vuol abbandonare la vita venatoria e prendere stabili domi" 
cilj.„ — Poveri d' idee e d'avvenimenti i popoli cui giovano siffatte scritture. 

Da puri disegni o gruppi simbolici giungiamo in Egitto alla vera 
ideografia; serie di figure prese in senso proprio o metaforico che tra- 
ducono date parole. Basti citare il notissimo esempio della iscrizione rap- 
presentante: un fanciullo, un vecchio, uno sparviere, un pesce, un ippo- 
potamo; per dire: Nati, morienti, dio odia (pesce simbolo dell'odio) la 
impudicizia (ippopotamo simbolo dell'impudicizia). 

Rimane il passaggio dal valore ideografico del carattere al valor fo- 
nico soltanto, e finalmente la riduzione a parte sola del suono a lui ine- 
rente come figura. Tutto ciò troviamo pifre' successivamente avvenuto in 
Egitto. Per iscrivere, a mo' d' esempio, un nome proprio che avesse co- 
minciato per r o, 1' Egiziano avrebbe un tempo principiato a tradurlo col 
segno ro bocca, astraendosi onninamente dal senso di bocca proprio a 
quel carattere, e così di seguito. (Cfr. Lepsius, Lettre sur tatph. hiér* 
p. 35.) Identico uso conservano oggidì ancora i Cinesi. Rinveniamo in- 
fine presso gli Egiziani pur quell'analisi del suono per cui agep aquila 
venne all'ufficio di rappresentare la semplice vocale «, o la boi leonessa 
la consonante / oppure l'affine r. Per modo tale le tre prime lettere del 
nome Cleopatra (Cleopatra) erano rappresentate da un /atto, da una fto- 
nessa e da un albero, in copto Kebi, Laboi, li (Uhlemann, Inscrip. 
Roseti, p. 107), e le quattr' ultime da un'aquila, una mano, una bocca 9 
e un'altr'a^utTa, in copto 4% sfa Tot, Ro, Ai*\jl. — Ho nel testo indi- 
cato come si aprisse l'adito a giungere, per propria creazione, all' im- 
portantissimo risultamene della scrittura sillabica e poscia alfabetica, cioè per 
nomi proprj ed omonimie. 11 dottor Steinthal nella bell'operetta che citai, 
tratta (p. 93-94) delle omonimie con molta sagacità, non fa però caso 
dei nomi proprj. Ma mi sembra non dover desistere dalla grand'influenza 
che a questi assegnai. Abbiamo veduto or' ora tra i selvaggi dell'Ameri- 
ca chiamarsi una famiglia p. e. tigre; disegnando la tigre s* intende allora 
nn uomo o più uomini; ecco la prima astrazione dal valore ideografico, 
il modello, per così dire, di quelle omonimie che spingono alla scrittura 
fonica. — Vico (Seconda scienza nuova; della logica poetica, penula 
timi corollarf) aveva detto: tt La certezza de* dominj fece gran parte 
della necessità di ritrovar i caratteri e i nomi nella significazione natia 
di case diramate in molte famiglie...... Così Mercurio Trimeqisto, carattere 

poetico dei primi fondatori degli Egizj ritruovò loro § U leggi § le lettore. „ 



MhMlMJUOfifct l ^ 

del pari la lingua che si tira dall' angustia della scrittura 
Ideografica dov'è serva dei segni, spazia Ubera e sicura col 
docile stromento dell'alfabeto. Il suono che è finalmente de- 
positato e perpetuato nello scritto, si rende più pieghevole 
dalla sua decomposizione; è in potere della parte eulta della 
nazione, che ha un organo per domarlo. Le flessioni, se pur 
in origine atomistiche, fuse col corpo del vocabolo s'acco- 
modano sotto T impero dell'accento, della melodia ; e la po- 
tenza dell'alfabeto fa compatti e distinti quegli armoniosi vo- 
caboli che, rampolli d'unico ceppo, ci appajono multiformi nel 
solenne gioca di Yjflsa, nel verso maestoso .d'Omero, nel 
terso di Virgilio, o nell'ispirato di Dante. E le lingue dei po- 
poli dalla immaginazione più fervida, dove la composizione 
nei vocaboli, si per le forme e si per gli alteramenti o le 
relazioni del significato (derivati, composti), è meno fre- 
quènte, e il principio dinamico maggiormente domina : non ò 
a dirsi quanto agevolamento dovessero rinvenire nella scrit- 
tura alfabetica. Essi che molta parte della loro grammatica 
producevano per modificazioni interne nelle vocali, nella mu- 
sica della loro radice; che creavano le forme più per pro- 
cedimento sintetico, sto per dire, che analitico, dovevano 
trovar ben forti inconvenienti nel raffigurare (se mai '1 fecero) 
1 loro vocaboli coli' ideografia. Quanto avidamente non ebbero 
ad accettare l'analisi del suono, l'alfabeto; per il quale fa- 
cile riesciva loro, alterando con isvariati segni vocali l'in- 
terno del radicale, d' adagiarvi sicure le più sottili distinzioni 
del pensiero * *). 

n ) Le semitiche (v. n. 9. verso la fine) confrontate alle sanscritiche* e 
assai meglio ancora al copto od al barmano, servono d'esempio delle lin- 
gue qui indicate. Nell'indiano antico (sanscrito) si può dir che, iu gen- 
nerale, la radice rimanga nella conjugasione nucleo intatto* non alterantesi 
che per leggi eufoniche ed euritmiche, accanto al quale sorgano le fles- 
sioni , per il congiungimento di nuove articolazioni. Così il passivo si 
ottiene annettendo alla radice la sillaba ja, in cui per l'analogia dell' in- 
dostano, del bengalico, e del Ialino (amatum iri), profondi linguisti 
{Haughton, Bopp) furono indotti a riconoscere la consuonante radice 
per andare, quindi quasi eo-fft-ucctiiofté per $ono ucciso (vengo «c- 
aio), n copto, generalmente parlando, dà poco valore alle vocali deUe 



l8 WTIL0MJZ10NE. 

IV. Àirnmmirando sviluppo cui portarono alcuni popoli 
le lingue dalla flessione e dalla scrittura così prosperamente 
progredite, fanno- spiccante contrasto i parlari d'altro genti 
che non seppero assodare la favella nella scrittura; e rimasti 
privi del mezzo di perpetuare il pensiero, lo fanno incedere 
lento per combinazioni (spesso moltiplicale fin di soverchio, 
per dar voce particolare a ogni atto cui sanno disccrnere 
nel pensiero) che fino ai dì nostri presentano intatta, più o 
, meno, l'accozzalura primitiva f -). Uno stadio di mezzo ci si 
appalesa dove non surso la scrittura alfabetica, ma l'ideo- 
grafica presto raggiunse buon'attitudine ed estensione. Qui il 
genio della lingua propendendo con assoluta inclinazione al 
monosiKabismo, ch& è forse proprio in origine del linguag- 
gio in generalo, vi s'incatenò polla ideografia; nella quale 
(benché l'elemento fonico venisse snsseguentemento ad appag- 
ane radici, e lascia ini muta le queste rimpetto agli atomi grammaticali che 
vi si agglomerano. Nel Inumano, che alla struttura cinese vjen ancora 
molto piti vicino, si ha per segno del causativo la radice per comandare. 
A lingue che propendevano a simili flessioni atomistiche, è lecito suppor- 
re che in nna dal a epoca più o meno fosse opportuna la scrittura ideo- 
grafica. Ma nell'arabo (semitico) all' incontro, . per dar uu solo esèmpio tra gli 
iuliiiiti, se q a t a 1 a è uveite) q u t i I a è fu ucciso; non v'ha composizione, 
ma interno mutamento. K nou toma inutile V osservare che l'alfabeto comune 
(sebbene con molte varietà) a parecchie lingue semitiche, si manifesta e per la 
fórma e per i nomi delle lettere, prov venuto immediatamente da jerogliftci 
fouetici. K notorio che Àlef, p. e., vai bove e che nell'alfabeto fenicio la 
prima lettera così chiamata raffigura una testa di bove; che Da lei vai 
«scio e che la forma di tal lettera (è /f, l'uscio d'una tenda) non disdice 
al nome, e così via. — 
,a ) V. n. 9. In tuitano, p. e., per dormo troviamo: te taoto nei au il 
dormire adesso io. Nella lingna dei Jarura (America, v. Humboldt, da 
Ilervas [v. n. 59] nell'op. cit. alla n. 3., §• XXI) hai per mangiò (man- 
giava) jura-ri-di; jura mangiare, ri particola che indica lontananza, 
di egli; ri-que, la particola medesima col pronome io (que), per dir 
ero, dove l'idea dell'essere è sottintesa. — La negazione di quello scer- 
nimento che isola i suoni per fonderli e che sa per conseguenza indivi- 
duare alfabeticamente i vocaboli fiorenti di flessione, è evidentissima in 
quelle lingue che si potrebber dire ammucchiarti, dove, fatto centro del 
verbo, le altre parti del discorso nude vi s'incrostano. Humboldt, mae- 
strevolmente come suole, trattò del messicano qnal prototipo di simili fa- 
velle, ch'egli appella incorporanti. 



nmoDfJZfoJE* . 19 

jarsi all'ideografico) gli , atomi linguistici che Tanno in altri 
idiomi fondersi e nel suono e nell'idea colle radici, son 
tenuti distinti, isolali, ognuno dalla special figura, cho si of- 
fre all', occhio ed al pensiero pnrlo staccata nel discorso. 
L' ingegnosità potrà rinvenire infiniti spedienli per creare 
un 9 immagine scritta ad ógni oggetto, ad ogni idea: ma la 
favella rimarrà sempre imperfetta, resterà asservita in sommo 
grado alla scrittura. Il suono non ritratto, irrigidito nel mo- 
nosiliabismo, non porge al pensiero comoda veste; a questo 
è giocoforza riadattarsi per fin centinaja di volte con vario 
senso nel medesimo monosillabo, nutrirsi più di segni che 
di suono, camminare inceppato dalle figure di cui deve 
cingersi, anziché secondato dal pieghevolissimo suono della 
voce scritta. Ivi è una selva di caratteri, dove, coll'apparcnza 
di faticoso trastullo, il suono e l'idea confusamente tentano 
d'assicurarsi ; il primo senza alfabeto, Y altra con rifiutar per 
modo le nostre accezioni grammaticali, da metter sossopra 
nome verbo ed avverbio, e non aver (o quasi} per arte 
della lingua, che le simmetrie della sintassi. Eppure il pen- 
siero vi si esercita felicemente in ogni lato del sapere 13 ); 
eppur simile scrittura divenne il cemento d'una grande na- 
zione. Perchè la conformità di attiguo suolo e quella delle 
abitudini che ne derivai* fa comunanza delle intraprese, delle 
credenze, delle tradizioni, e precipuamente le affinità genea- 
logiche e la somiglianza della favella, si* possono bensì im- 
maginare circostanze concorse a preparare le nazioni; ma 
civilmente le crea,, qualunque essa sia, la compiuta scrittura. 
Ove dessa non penetra gli nomini a minute frazioni sonò 
divisi dagli idiomi diversi; solo ov'essa regni, unica lingua 
può dominare vaste regioni. Scritta una favella, le si pie- 
gano i dialetti affini; e le rozze genti, circonvicino in- 
vestite, parlanti idiomi non consanguinei a quella, sono in- 
vase dalla superior civiltà de 1 possessori della lingna scritta, 

t9 ) Della speciale attitudine dei caratteri cinesi a sussidio delle scienze na- 
turali, scrìsse Abel-ìlémutat: Nouv. Journal Asiat. Qf828) II.pp.81 



30 INTR0DDZ10WL 

la quale accoglie e si assimila parte del lóro parlari che 
sconfigge. Scritta la lingua, essa offre raccolto e comune il 
lavorìo secolare del pensiero, e ricovra sotto alla tutela del 
savj, dei grandi, dei sacerdoti, che ne ottengono facile or- 
gano di potenza e di incivilimento. Nessuno idioma, per sel- 
vaggia che fosse la gente che lo usava, 'fa sorpreso nel 
periodo della vera creazione; ognuno si trovò intero, più o 
meno diafano che fosse il processo per cui si disviluppò; 
dovunque si rinvenne che lo idee si acquistavano o s'incar- 
navano, dirò quasi, per reminiscenza, con parole che già le 
espressero ; giacché il linguaggio apparisce sempre completo, 
quantunque sempre in mutazione. Ma dallo stretto cerchio 
dell'orda e della tribù, la scrittura sola potè estendere à grandi 
sezioni dell 9 umanità il medesimo tesoro di cognizioni, e con- 
seguentemente il medesimo civile ordinamento per credenze 
e per leggi. 

V. Da nn centro di popolazione in cui per concorso 
di opportune facoltà intellettuali, sensitive, ed organiche, non- 
ché di esteriori condizioni propizie, la lingua abbia attinto 
un raro grado di perfezionamento, se s'irradiano per varie 
contrade della terra genti che seco portino codesta favella: 
per quanto tali rami si stendano e lontani dal ceppo conti- 
nuino a pullulare, per quanto i varj climi, le variate co- 
stumanze in mezzo a cui vengono a fiorire siano ad avervi 
influsso ineguale, le alterazioni possono succedere* come quelle 
d'una melodia che da un tuono all'altro si trasporti, sempre 
regolari, conseguenti, se pur diverse in ciascuno di loro. 
Motti secoli dopo la divisione se si esamineranno questi 
differenti rami di lingue e si confronteranno cogli avanzi del 
tronco ond'escirono, una rassomiglianza sorprendente, orini- 
moda, ne svelerà l'origine comune 14 ); nò sarà impossibile 

"**)' Così comparando tra di loro 11 aanicrìto, lo Bendo, fl greco, lo flavo 
(particolarmente ne' dialetti antichi), il gotico, ed il latino, nella gram- 
matica tatù quanta e in grandissimo numero di radici e di vocaboli al 
palesa un'affinità strettissima; e si discuoprono leggi che presiedono «Ho 
divenite che in meato alle sonrigfagnM Ti regnano. 



il riconoscere, quantnnqne per legp d'analogia assimilate, le 
parti che accolsero dal frequentar genti d'altra stirpe, o quelle 
die assunsero dalle favelle estranee, che trovarono parlate, 
aia da minor numero d'uomini di quello dei sopravvenuti 
con loro, sia da uomini più rozzi, i quali, abbenchè mag- 
giori di numero, soccombettero alla forza della civiltà su- 
periore. Se monumenti si scuopriranno in idioma di indole 
siffatta, creduto spento o ignorato del tutto, la regolare 
alterazione rimpetto alle lingue affini conosciute, renderà 
agevole il decifrarli; da scarsi rimasugli si vedrà l'attento 
scrutatore riedificare la struttura dell' idioma perduto,' e sco- 
perte ulteriori sanzionare le sue divinazioni ; come l'anatomia 
comparata, da avanzi d'ossa fossili, ardisce ricomporre l'ani- 
male scomparso dalla superficie della terra * *). Ma dallo stesso 
centro donde partirono queste emigrazioni lungamente custodi 
tenaci dell'avita parola, si originano altre colonie nelle quali 
(sia per essersi staccate dallo stipite comune in tempo dove 
r originaria favella non avesse raggiunto ancora quella ma- 
turità xhe ebbe dappoi, sia per contingenze estrinseche a cui 
andarono incontro) la lingua, lontana dalla culla, vegeta m 
modo cosi diverso, cb(f jrtù difficilmente se ne ravvisa la 
provenienza, o soggiace ad altri idiomi in cui lascia 1 suoi 
frantumi, o isterilisce in forma infantile, monosillabica, ato- 
mistica 1 •). ÀI mirare la infinita varietà cui è dato ancora 
rintracciare unica sorgente, l'osservatore ben s'accorge the 
all'unità della razza umana non si oppone la moltipticità delle 
lingue. Il linguaggio, esclusivo patrimonio dell'umanità, co- 
mune a tutti i popoli, ò anzi documento della unità della 

**) Le iscrizioni in persiano antico di' caratteri e di lingua la eoi tradizio- 
nale cognizione per lunghissimo spazio restò recisa, divennero a* di nostri 
intelligibili col mezzo delle lingue omogenee dell 1 Asia antica. La consimile 
lingua di Zoroastró, lo zendo, mercè il sànscrito. 

**) Gli idiomi celtici dèi pari che i eatkcasei (armeno, georgiano ecc.) ri- 
Telano parentela col sanscrito, ma d'altr' indole di queUa che si mostra 
nelle classiche, o nel gotico, o nello slavo. Humboldt e Bvpp diseuo- 
prirono elementi mnecritici nelle lingue idàlajo-poUne«Uofc^ f bterflraVm quei 
parlari di struttura differente» a pania Badi di Jeestoa* 



93 IlUILODUUOCnC 

specie; e la varielà e la succedaneilà delle favelle sorgono 
solo ad attestarci che l' uomo è libero, non servo, degli istinti, 
non ischiavo delle locali contingenze. 

I varj idiomi pertanto o i dialetti esistenti allorché una 
lingua scrilla allaga il terreno, e che a lei accennammo as- 
similarsi e piegarsi, non periscono già del tutto. Oltre a qual - 
che avanzo che per circostanze particolari resta indeboliate) 
dalla lingua irrompente, (come avvenne del basco nella pe- 
nisola ..iberica, o del cimrico al nord della Francia e al 
sud dell' Inghilterra) essi convivono spesso languidamente ma 
perennemente alla lingua scritta, e si. nutricano di corruzioni 
di questa, suggerite dall'amore alla brevità, colla speciale 
tendenza a semplificare la pronuncia. E allorquando, decrepila 
o per urto esteriore, rovina od è rimossa la civiltà che si .specchia- 
va nell'antica lingua scritta, vedi talvolta gl'idiomi popolari a 
lei consimili; restar fiacchili dalla impressione della decadenza, 
della .nuova barbarie 17 }; tal altra l'uno di questi (forse 
quello che più assomigli all'antica lingua, nell'analogia spe- 
cialmente delle forme) sollevarsi a nuova lingua nazionale 
die nuovo incivilimento saluta 18 ); o infiqp gl'idiomi non 
consanguinei, o non evidentemente «(fini alla vecchia lingua 
scritta ma ad essa più o gsen soggiaciuti, risorger? arricchiti dalla 
convivenza con «fucila e dispiegarsi a nuove lingue letterarie 1 ')• 
Intanto i vocaboli, depositar] delle, idee che si vanno alte- 

17 ) Come p. e. i dialetti preteritici dopo il tramonto del sanscrito, o i ro- 

. inaici dòpo quello del greoo antico. — ■ Gt' idiomi indiani sanscritici se- 
riori, e quelli sanscriUci della moderna India, mostrano nelle alterazioni, 
coi subirono coi secoli, più di qualche analogia con quelle avvenute presso 
elle lingue europee consanguinee. Come V ut de* nominativi latini si è 
trasformato in o negl' italiani, V as de' nominativi sanscriti ò costante- 

, mente o in pracrjto ; il t dell' antica lingua vi si attennua a rf, come 
succede dal Ialino all'italiano (pater, padre), ecc. Ma. le favelle sanscriti- 
che della moderna India, ansi dell'Asia odierna, presentano più fievole la 
rassomiglianza grammaticale (e lessicale pur anco) coli' antico sanscrito, 
di quello che la offrono molti parlari, moderni pure, dell' Europa. 

19 ) Avvenne cosi all' Italia, spenta la latinità. 
- !■) Tali varie favelle non sanscritiche dell'India, dopo che T antico idioma 
brahmanico divenne lingua morta; o, con diversa attinenza, pure le cel- 
tiche, germaniche, slave, crollati Roma. 



tUTRODUliOAK* aS 

rancio da una eia, da una civiltà in V altra, pèrdono la co- 
scienza della loro derivazione; la composizione del vocabolo, 
nelle antichissime lingue diafana, va sempre più oscurandosi, 
grado grado avverandosi pur negli elementi cardinali della 
parola e con analogo effetto, ciocché nacque agli atomi delle 
forme* ); le flessioni stesse arrozziscono, ammisefano, dis- 
pajono, e il genio della lingua si adatta per bisogno di chia- 
rezza a piana architettura di periodi, dove un giorno potea 
lanciare in vigoroso disordine gli elementi del discorso, fatto 
ardito dalla florida flessione che connetteva le parole dis- 
perse 81 )? I dotti delle nazioni sempre con maggior istento 
cercano sicurezza alla lingua nella etimologia; e il pensiero 
spigolando tra le varie forme d un medesimo vocabolo, ne ap- 
profitta per collocar visi in arguti discernimenti, che l'uso san- 
ziona se pur la ragione non approva ■ "). 

Mirabilmente nel corso dei secoli i popoli, le civiltà e 
con loro le lingue, s* incrociano , si avvicendano. 11 semi- 
turno neir antichità si stende con Cartagine dall' Asia occi- 
dentale fino all' oriente dell'Africa, agognando il sud dell'Eu- 
ropa; sconfitto dalla sanscritica Roma latina, esso riappare 
molli secoli dappoi banditore del Corano sulle medesime co- 
ste dell'Africa, coli' Arabo che invade il mezzodì dell'Europa; 

*•) H vocabolo gettatore p. e. ha radice comune a senilità (cfr. i Cfl?J z é- 
qéni:n in Israele), con cui ansi l'ha pure signore (senior) stesso; ma 
non suona ornai contraddizione il giovane senatore, o il più giovane «- 
gnor e; — pagano non vale che abitante del villaggio', noi lo abbiamo 
nel senso d' idolatra da un'epoca che vedeva confinati nei villaggi gU 
avanzi del politeismo ; — offro, suggerisco, sono segni del pensiero di- 
venuti puramente convenzionali air italiano; ma il latino vedeva chiaro in 
o b- f e r o porto-innanzij in a u b-g ero porto-sotto. Son ovvj esempj, tra 
gl'innumerevoli, che per dar evidenza al testo qui raccolgo alla sfuggita. 

S1 ) Nelle lingue dove la flessione non alligna, vedemmo a p. 1 9 la importanza 
delle simmetrìe della sintassi; ma ben devono talvolta accostarsi alle condizioni 
di quelle, gl'idiomi di famiglia dalle forme lussuriami che perdettero quasi 
tutto l'antico tesoro di forme; come T inglese, p. e.» o il persiano mo- 
derno. — Perduta la ricchezza dell'antica flessione, la tendenza a brevità 
ed energia compone talvolta, come accadde in Italia, nuove forme da nuo- 
vi agglomeramenti. 

**) Confiate e gonfiare hanno p. e. i medesimi componenti, ma servono a 
idee distinte; così pure reclamare e richiamare, esaurito ed esausto eco. 



%4 tBT&UbUUOttt* 

e priora k elegia semitica ha pianto nel deserto laconqufsta 
dpi Francese, omogeneo per lingua al distruttore di Carta- 
gine 83 ). Una frazione del sanscritismo, tanto progredito lon- 
tane dallq patria, rifa col greco Alessandro la strada, e 
aenz' accorgersi della consanguinità di favella , giunge nel 
séguito ad innestare all'India cognizioni europee* 4 ). L'Ara- 
to, semitico, visita e domina pur desso 1' antichissima sede 
del sanscritismo; profitta della sapienza indiana * ft ), e, rac- 
colti mediante un organo semitico tesori di dottrina anco 
dal sanscritismo europeo 89 ), secoli porta all'occidente d'Eu- 
ropa, in Ispagna; donde è destinato a diffonderli in varie 
contrade europee, ajutato da altro veicolo semitico, dal Giu- 
daismo, che prodigiosamente s'insinua per tutta la terra 97 ). 

**) Un'elegia araba sulla conquista d'Algeri ai legge nel. Journal AsiaL IH. 
S.; T. Vili., pp. 503-5. 

* 4 ) Intime relazioni coU'India ebbero I regni sórti in Asia ed in Africa dalle 
conquiste d'Alessandro. Nell'astronomia indiana specialmente acorgpnsi trac- 
eie d'influsso greco; su di che ò da consultarsi: Weber, Akademiscke 
Vorlesungen ecc. pp. 224-227. 

**) V. ibid. 228; astronomia e aritmetica indiana in onore presso gli Arabi. 

**) Anche tra i Siri transeufratensi, cioè, la lingua e la civiltà greca ebbero 
tempo di mettere radici, non uveite dalla dominazione romana, e favorite 
dal cristianesimo, il quale congiunse le chiese sire e greche. Al cadere 
dal quinto secolo i Siri nestoriani d'Edessa traducevano libri d'Aristotile 
Dell'idioma siriaco; quando, distrutta l'accademia d'Edessa per ordine di 
Zenone imperatore (489), i dottori di questa portarono la dottrina gre* 
ca (autori di medicina, filosofia e matematica) in Persia ed in altre re- 
gioni asiatiche; e ve la mantennero. I Califfi Abbassidi, e Àl-Mamura 
specialmente (IX secolo), furono zelanti protettori dei dotti Siri, e me- 
diant'essi si procacciarono versioni arabe degli autori greci: Ippocrate, 
Galeno, Aristotile, Euclide, Tolomeo ed altri. Si consultino: J. G. Wen- 
rtcA, De auctortm graecorum versionibut et commentarti* etc.\ mal B. 
Renan, De philosophia peripatetica apud Syro*. 

■^ Gli Ebrei adottarono, non senza danno delle loro dottrine religiose, la 
• filosofia aristotelica che ebbero comune cogli Arabi in Ispagna (Averroi- 
smo)^ v. S. 0. Lu**atto y Dialogues eurla Kabbale, p. 51. Sulla prio- 
rità degli Ebrei (di Spagna) negli studj filosofici, v. FiL Lunatto: 
Hatdal ibn Schaprout, p. 60. — Michele Scoto, lo scolastico, traduce nel 
secolo XIII due opere d'Averroè (Ébn-Rold) col soccorso d' un giudeo. 
Gli Ebrei furono pure di utilità agli studj orientali per l'opportuna istru- 
zione che offrivano negli importanti idiomi orientali a loro familiari (ebr. 
• caldaico), la cognizione dei quali, agevolmente li rendeva versati neU 



tHT&ODUZtOltìC* IO 

L* Arabo sbaraglia nell'Africa le incolte razze indigene; dorè 
si abbatte in civiltà anteriore, lascia, come in Persia o in 
Ispagna, treccie più o meno profonde, ma non dissipa il 
carattere nazionale; mentre altrove, altri invasori presto o 
tardi soccombono alla maggior coltura dei Tinti, o due ci- 
viltà eqnillbrantisi fondono so stesse e le lingue con loro* 
La civiltà europea preponderante cuopre l'America di favelle 
sanscriticbe; una delle quali, la inglese, estesissima colà, s'ode 
ne* moderni tempi saviamente imperiosa anche sulle rive sa- 
cre del Gange. Quivi s'incontra l'antichissima cultura della 
famiglia indo- europea colla più moderna, vicendevolmente 
ammirandosi ; e nel tempo che il dolio inglese tributa vene- 
razione ai vetusti monumenti dell' indiano sapere, il bramino 
con verso sanscrito ti esalta la scienza di un Hill, di un 
Jones, di nn Colebrooke * *). In tanto alternarsi di razze e 
d'impeij, in tanti cozzi e riversamenti e fusioni di civiltà, 
sempre, o quasi sempre, V invasore e f invaso, se restano di- 
stinti, scambievolmente ne improntano le memorie nel loro 
idioma. Monumenti d* odio e di adulazione, di dominj e cre- 
denze lottanti, di preminenza in scienze ed in arti, ne 9 quali 
si leggono le venture e le sventure di tanti mescolamenti* 
VI. Quindi lo studio filosofico-storico delle lingue spia 
il reale procedimento dello spirito umano, avvertendo con- 
seguentemente la impressione degli oggetti esterni su di lui, 
scnoprendo la istoria dei sentimenti e delle idee; esso svela 
ne' diversi tipi de 9 vocaboli e de' periodi, la varia indole 
de* popoli, riuscendo, come 1' anatomia alla medicina, cri- 
terio di sicurezza alla filosofia; esso porge i monumenti 
storici più vetusti e più importanti, non tanto col diciferare 
iscrizioni o eolla conquista degl'innumerevoli testi che vien 

l'arabo pure. Giudei battezzati, per recar altri éaempj, prestarono aodcorsd 
nella costatane della poliglotta compiuteli»* (▼. o. 49. Alter, loco ivicit., 
p. 38); Teseo Ambrogio (v. n. 55.) ai valae del Rabb. Gius. Gallo, figlio 
del medico di Giulio II. (Predar*, Dello studio delle lingue orientati 
tu Italia, p. 9; e S. D. Lunotto, Prolegomeni ad una gramm. rap 
della Un*, eòr. p. 69). 
**) Journal of the Asiane Society of Bengal, VI. 710, 
a* 



*6 ICTAODUnotfE* 

dichiarando, ma colla speculazione del materiale delle fa* 
velie, nel quale utilmente indaga le origini, le filiazioni, i 
costumi, le credènze e la sapienza dei popoli cai apparten- 
gono, la culla e i progressi e la diffusione delle arti è delle 
scienze, la storia de' miti, la genealogia dei diritti, te vi- 
cende tutte, morali, intellettuali e geografiche delle nazioni, 
risultando sempre il più valido appoggio della tradizione, spesso 
organo unico d'antiche istorie; esso spiega nella decompo- 
sizione delle candide espressioni primève i saggi più puri di 
poesia, e col rivelare affinità tra le stirpi apparentemente 
più diverse, viene in ajuto ai principj di tolleranza e fraternità 
delle nazioni'; offre infine tale una sterminata serie di os- 
servazioni peregrine e tali attrattive di scoperte còntinove, 
che difficilmente alcun'altra ricerca può prometterne maggiori; 
e, per dir breve, la scienza in cui si riflettono tutte le 
scienze, è la cultrice della parola , che è F anima della 
umanità. 

TU. Ha per creare la UnguMica, questa scienza che 
ancora è fanciulla, era d'uopo scrutare un buon numero di 
lingue le più differenti; rimontare per istudioo per felice 
evento alla sorgente comune d'idiomi che vanamente dispu- 
tavansi la priorità, e rendersi in conseguenza familiari vàrie 
letterature all' Europa straniere. L' antichità classica non at- 
tese a simili lavori preliminari. II contatto con tante diverse 
genti o dome o frequentate, doveva talvolta di necessità por- 
tare alla conoscenza de 9 loro idiomi, e vediamo Plauto in- 
trodurre sulla scena romana un personaggio che parla punico" 8 •): 
ma ciò che dal lato intellettuale ertf peculiare agli estranei, 
ai barbari, poteva esser bensì osservato quel tanto' che va- 
lesse a distinguerli, che fosse indispensabile ai rapporti in- 
ternazionali, non aveva però a meritar molta attenzione dalla 
scienza intollerante che ammetteva gli schiavi * •}. Qualche 

*•) Poenulus, Atto V, prime scene. 

ìù ) E qnal mai «more per studj intorno a popoli stranieri poteri esistere 
dove il sapiente esclamava: Saper ULmillia, Donarmi* telisqve Romani*, 



umopuziong. 97 

filosofo greco, non vedendo al mondo che Greci, sosteneva 
esser la parola immagine siffatta degli oggetti, che impossi- 
bile fosse di produrre altro snono che il solito per nominare 
una data cosa 31 ); fu di mestieri che Aristotele riflettesse 
ciò non essere ammissibile, perchè una sola favella non era 
comune a tutta 1' umanità 3 *). In mezzo alla interminabile 
discussione se la lingua fosse naturale convenzionale, e 
quindi se la logica (analogia), oppure 1' uso (anomalia), do- 
vesse reggerla, nacque dalla filosofia greca la grammatica, 
che fu a Roma trapiantata. Gli Stoici specialmente spesso 
trattarono di etimologie; dei latini, Varrone si segnalò sovra 
ogni ahro ; ma la indagine si restrinse nell' angusta cerchia 
delle due lingue classiche 3 3 ). L'arroganza politica si ripeteva 
nella scienza, e perfin i nomi proprj stranieri si volevano 
soggiogare a etimologie classiche 34 ). Tacito che non dirado 
si sofferma a parlar delle lingue barbare e di alcuni loro 
vocaboli 3 *), non giunge a discuoprire 1' affinità del gotico 
col suo latino ; che più ? mai, eh' io sappia, è dagli antichi 
avvertita la consanguinità tra il cartaginese e l' ebraico, 
consoni cosi da dirsi quasi identici. 

Esteso in Europa il Cristianesimo, seco trasportò colla 

sed, quod magniflcentius est, oblectationi oculisque ceciderunL Maneat, 
quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certo odium sai. Ta et lo, 
de Germania, XXXIII. 

") Eraclito e Cratilo p. e. stimavano che ad ogni ente fosse connaturale 
la denominazione: órófucto<; ÓQ&ónjta tirai ixa&ty %m onta* <fv<m 
mqroxvìav. Si consulta con profitto: L ere eh: Die Sprachphiiosophìe der 
Alien; y. I, 11 e SO. 

,s ) V. ibid. p. 37-38. 

w ) Assai se le antiche italiche (come l'etnisco, il sabino, Tosco) erano dai 
latini consultate. Nei nomi d'oggetti la cui provvenienza dall' Oriente era 
manifesta, si cedeva talvolta alla evidenza riconoscendone la etimologia 
orientale, v. Varrone, L. L. 1Y. pp. 17, 29, esc. 

M ) È noto p. e. che 'EQavvofÌQaq (dal romor delizioso), nome che sfega- 
tatene dà a un fiume indiano, è corruzione del sanscrito hiranjabàho 
dal braccio (Toro. Astarte (fro**), tenuta per la Inno, è ridotta 'AatQO- 
Óqm (guida degli astri); v. Poli, Etpn*Forsch. I. XXXIV; Schlegel, 
Ind. BibL L 251. 

*) \eài p. e. De Germania: 3, 6, 20, 28, 40, 43, 45, 46; Agric 11; 
kuml U. 6, 60, XI. 14, storia della scrittura; Histor. m. 47, ece. 



a 8 INTRODGZIOftl. 

Bibbia una preziosa pianta orientale, destinata ad innestarsi 
alla scienza e alla letteratura dell'Occidente. Però F ebraico 
fu negletto fin dai primi secoli della Chiesa, la quale teneva- 
pi paga della traduzione greca (deiLXX) del vecchio testa- 
mento (o delle ritraduzioni da questa), omogenea siccom'era alla 
lingua originale del nuovo, e venuta ben prima di Cristo in 
stima tale, pur presso buona parte del Giudaismo, da farne 
trascurare la cultura dell'idioma originale. Orìgeije che mise 
pell'EsapIa li- testo ebraico a fronte delle versioni greche, e 
S. Girolamo che per la sua Vulgata risali agli originali, sono 
luminose eccezioni. Più tardi, canonizzato il volgarizzamento, 
l'autorità della Chiesa non favorì di molto lo studio filologico 
dell' ebraico, se pur non venne a incepparlo , come i pro- 
testanti gliene danno accusa. 

Vili. Nel medio evo si moltiplicano Invero le occasioni 
di conoscere ben dentro ai confini dell 9 Europa i parlari di 
Varie genti orientali, I Saraceni, in Ispagna ed in Sicilia, fon- 
dano regni, mantengono accesa la fiaccola degli studj, e insieme 
recano un contingente di pregiudizj orientali ad arricchirò 
l'ammasso delle ubbie europee ; la loro civiltà si radica tra 
le indigene popolazioni d' Europa 3 •); i saggi di fratellanza, 
di fusione, non son rari, e stuoli d'arabi, come d'altri mao- 
mettani, si arruolano sotto allo stendardo di cristiani principi 3 7 ). 
Le migliaja dei mille si versano crocesignati dall' Occidente 
in Oriente ; un torrente d' opposto corso irrompe contempo- 
raneo, invade il terreno dall'Est della Cina alle porte del- 
l' Aleraagna, e il nipote di Gengiscnn viene a trattati con 
Luigi il Santo * •)• Quando a un estremo del nostro conti- 

* 6 ) Io Sicilia p. e. due civiltà <T incerta preminènza ai mostrano per un peno 
confase, pur dopo caduto il dominio arabo; ne siano simbolo le monete 
battutevi da principi cristiani, colla croce da un lato, e l'emblema musul- 
mano dall'altro. 

J7 ) V. Muratori, Annali dfltaUa, 837, 842, 932, 1260, ecc. È citato 
esattamente con altri italiani da Fit*-Clarence: ObservaHons sur 
T emploi des mercenaires makométans dans les armées ckréHeunes. Jour- - 
nal Asiat. (1827) X. 65-93; XL 33-58; 106-113; 172-183. 

?*) Sulla corrispondenza di Luigi IX e Filippo il Bello (1240-90) eoi prin- 
cipi tatari, è da vedersi; Abel~fiému$a$, Méwwéra $urk$Uek*Qm 



Dente, in hpagna, la Luna impallidisce dinani alla Croce , 
all'altro gli Osmani si avanzane spaventosi a farsi posto tra 
le nazioni europee. D'altronde lo zelo delle missioni, il genio 
del commercio italiano, si aprono la via fino all'estremo Oriente; 
un arcivescovo italiano risiede nella capitale della Cina 99 ); 
Habco Polo compie e descrive i viaggi, che, sembrati fole 
a secoli posteriori, saranno con ammirazione illustrati dalla 
critica del decimonono 40 ). 

All'epoca della invasione mongolica si parla d'una cattedra 
di lingua tatara da aprirsi a Parigi; si dovevano raccogliere 
con interesse, per uso dei missionarj, dei diplomatici, dei 
viaggiatori d'ogni specie, vocabolarj d'idiomi orientali; e alla 
Serenissima Repubblica vediamo Petrarca legarne uno, per- 
siano-comano~latino, trascritto forse di suo proprio pugno 41 ). 
La erudizione europea attingendo in queste età soccorsi dalla 
saracena , la cognizione dell' arabo s' introduce fra i dotti 
europei, e in varie università s' istituiscono cattedre di quella 
lingua 49 ); nò i papi tralasciano di raccomandare si apprenda 
l'arabo e l' ebraico, per aver armi a confutare e a convertire 

poUUfuee des princes chrétiens, parHculièremeni des rois de Fumee, 
atee le* emperews mongoli. 

Sf ) V. Journal Asiat. (1825) VI. 379. 

**) 1272-1295. — Y. Klaproth intorno a Marco Polo, nel Joarn. Ai. 
IV. 380; V. 35; DL 299; Noav. Joarn. As. I. 97-120. — Commer- 
cianti anco d'altre nazioni europee, e nomini di ogni specie, profittarono 
delle relazioni eoi mongoli, nel secolo XIII, per ispingersi ben dentro in 
Oriente. 

41 ) È pubblicato da Klaproth, nel HI. voi. del: Mémoires reladifs à T Asie; 
v. Rapporto alla Società Asiat di Parigi, del 1828, p. 25. — Ant. 
Piga fetta, viaggiatore vicentino, è dato d*Adelung (Mithridates I. p. v.) 
cerne quello che, primo, (intorno al 1536) raccogliesse vocabolarj ne" paesi 
visitati ; ma il legato di Petrarca sembra far pia remoto V oso di simili 
raccolte. — 

*') Già nel duodecimo secolo abbiamo an traduttore di Avicenna (Ébn Sina:), 
cioè Gherardo da Carmona (Andalusia). Regiomontano, tra 
il 1460 e il 1470, dava a Padova pubbliche lettoni su d' JU-Ferftànù. 
L'Averroismo, secondo Renan, durò nella scuola patavina fin dentro il se- 
colo XVIL D'altri italiani cultori dell'arabo nel secolo XV (e XVQ 
v. De Wette: OrientaUscke Studien, nell'Enciclopedia di Ersck • 
Qrmber. 



30 IHT»0*UZIOffE. 

gl'infedeli 4 »). Ma per amore delle lingue e delle letterature 
d'Oriente^ poco vedi fatto o natta nel medio evo, che agli 
etadj in generale non correva molto propizio. Bisogno di 
tradar testi ad appropriarsi cognizioni <T immediata utilità (o 
tale creduta), necessità del traffico o delle ambascerie o si- 
mili, e soprattutto desiderio di propagazione di fede, erano 
i moventi allo studio degli idiomi orientali 4 3 ). Al risorgi- 
mento delle lettere, V adorazione dei modelli greci e romani, 
fece, direi quasi, dimenticare le ispirazioni bibliche 44 ), non 
che lasciar campo a indagare altre letterature orientali. S'ag- 
giungeva tratto tratto a danni di tali studj la intolleranza re- 
ligiosa, colle cautele dell' apprensione, collo sgomento che 
esclude l'opera riflessiva; giacché a simiglianza dell'odierna 
Europa che stende le mani sull'Asia, vedemmo nel medio evo 
l'Asia all'inverso, minacciar l'Europa più d'una fiata. Fede- 
rico secondo d'Alemagna, il più grande monarca cristiano del 
ano tempo, adopera Saraceni a spavento di Roma, ha rela- 
zioni scientifiche, fors'anco dogmàtiche, coli' Arabo 4 *), e H 
Papa ne tiene accusa in quel concilio, dove si manifestava 
lo sbigottimento per le conquisto rapide dei, Mongoli 44 ). La 
erudizione alimentata dalla nuova scoperta che moltiplicava 
con facilità i libri, oserà più tardi pubblicare in Italia -un' 
edizione del libro di Maometto; ma la Chiesa estenaineranne 
ogni esemplare, che il Corano sarà in quél mentre recitato 
alle porte di Vienna 47 ). 

**) Innoeenso IV (1243-54, quegli che mandò i padri Ascelioo e Giovanni 
da Carpi ed altri presso i Gengiscaoidi); Onorio IV (el. 1285); Clemen- 
te Y (concilio di Vienne, 1311), per laoer d'altri pontefici del medio evo, 
•i segnalarono in questa tendenza. — Tutti sanno di Raimondo Lullo 
(1235-1315), martire della Missione. 

**) A Petrarca, comparato a Dante, si comincia a rimproverare di Inscu- 
rir la Bibbia. 

**) n eelebre Siciliano Michele Amaria tratto agli studj arabici dalle ricerche 
intorno alle storie siciliane, ha testé (Pebbrajo-Harcè 1S53) pubblicato 
nel Giornale asiatico di Parigi: Qme&ons nkihe a p h i f aae -aémeées aus 
•acanto masuknans par Pamparanr Fréème IL 

") Coneflio lionese, del 1245. 

47 ) Sanie Pagnini (Predati: Detto Indio detta Ungma aHmtUM m 



Si 

IX. Venuto un Tolta la Stampa ad agevolare gli atndj, 
le grandi scoperte geografiche le ai uniscono à dilatarne il canw 
pò, e ad annunware di nuovo là superiorità, delle genti eu- 
ropee verso il resto del mondo. La Riforma genera libertà 
nelle discussioni bibliche e porta in fiore lo studio dell' an- 
tichissimo originale, protestanti e cattolici ricorrendo a tro- 
var appoggio nel testo ebraico- Gli Ebrei che nella Spagna 
avevano dagli Arabi appresa la grammatica "e se la erano- 
applicata alla lingua santa, porgono facile l' arte di questa 
ai dotti europei. L'arabo e gli altri idiomi affini air ebraico, 
sono culti con amore a soccorso della esegesi biblica, oltre 
che a stromento di proselitismo; lo studio del persiano viene» 
ad aggiungervi^ e per sussidio di quella, e per iseopo di 
missione, e per la sua qualità di lingua diplomatica e let- 
teraria, che schiudeva più contrade dell' Oriente 4 •} ; e le 
poliglotte originano preziosi vocabolari, svariatissime disser- 
tazioni intorno all'indole delle lingue, ed importanti lavori 
ermeneutici e comparativi, talché ne scaturisce finalmente 
una filologia orientale 4 9 ). 

itaha pp. 8, ,10, 61, ha per errore Paganini) aveva compito nel 1530 
un'edizione del Corano, che fa distrutta dalle fiamme per ordine di Clemente VIL 
lo quegli anni (1529-1532) la scimitarra di Solimano mandava lampi in 
Ungheria, in Austria, in latina. 

**) Ncir India stessa fa lingua del governo, dei dotti tra i dominanti e fra 
gl'Indi medesimi, durante l'impero mongolico; e in qualche «so v'è oggidì pare. 

**) Noto tra gli antichi tentativi poliglottici il pentateuco in ebraico, caldaico, per- 
siano ed arabo, stampato a Costantinopoli, secondo De Welle I. e. nel 
1551, secondo Alter, che lo vide, nel 1546; (y.Bibliogr. Nachrichlen 
wmaerukiedenan Autgaben orioni. Bibelteste, ecc. Vienna 1779, pp. 43 e 
81); un ebreo, Giacobbe figlio di Gius. T avuti porse la versione per* 
nana. — Le quattro celeberrime poliglotte sono : L fca Compiutene (da 
Complutum, l'odierna Alcala de Henares, luogo defila stampa), fautore 
Ximenes, compiuta nel 1517; ha V ebraico, il latino, il greco e il cal- 
daico. IL fAntverpiana, d'ordine di Filippo II, diretta da Aria Montano 
1569-1572; ha V ebraico, il greco, M latino, il caldaico e, nel Ni T., 3 
sirìaco. IH. La Parigina, situilo Guy Mi eh. La «Jay, che aggiunse alle lin- 
gue delTAntverpiana il samaritano e l'arabo, ed ha anco per SI ¥. T. la tradumona 
tiriaca; 1628-1645. IV. La Waltoniana, stampato a Landra, audio et 
opera Briani Walton y ne) 1657 e seguenti, eoi Leaiton Haptaaht- 
ma di Edmendo Calteli*, 1058, cioè ebr., caNL, air., samara, etiop., 



M TFTWfJBUnCKlK* 

Frattanto lo stabilimento della Propaganda giganteggia * *). 
I Missionari illuminati non si appropriano della lingue orien- 
tali solo quél tanto che basti per comunicare cogli indigeni, 
ma si addentrano nello letterature dell'Oriente, spiano le ten- 
denze nazionali, s' impossessano delle idee e delle tradizioni, 
e le piegano a profitto della loro missione e della civiltà. 
Matteo Ricci 51 ), a citarne uno, nomo italiano xhe i Cinesi 
impararono a Venerare, sparge nel celeste impero cognizioni 
geografiche, e compone le carte che ancora vi sono con- 
sultate, dove il dotto gesuita fa riescire nel centro la Cina, 
$1 regno-di-mezzo. D' altra parte gli studj filosofici procedono, 
e scuotono il giogo della scolastica e dell 9 autorità; con Ba- 
cone da Verulàmio si rivolgono anche al linguaggio, anelano 
una grammatica filosofica e quindi indagini sulle proprietà 
delle lingue più discoste tra di loro (1561-1626**); Leib- 

arebo, a persiano. Questa poliglotta è in nove lipgue, ma non tatti i libri 
vi ci trovano» in tutte nove; le quali sono : ebr., lat, gr., eald., pera.» etiop., 
arabo, siriaco, samaritano. Va adorna di grandioso apparato critico. Il 
persiano del pentateuco vi è quello del Tavusi. 

50 ) Un terso di secolo dopo la scoperta del nuovo mondo, la propaganda 
cattolica vi salì in auge. S. Francesco Saverio (Xavier, 1506-52) 
P Apostolo delle Indie, primo recò in molto lustro le missioni all'India e 
alle regioni pia orientali dell'Asia. Gregorio XV nel giugno del 1622 
istituì in Roma la Congregazione De propaganda fide, e Urbano Vili 
ampliò T opera del predecessore. Altre citta d'Europa ebbero dappoi, in 
proporzioni minori, istituzioni analoghe che pure ancora durano. La pii 
recente è V Opera della propagatone della fede, fondata a Lione nel 
1822. — La propaganda protestante, per cura particolarmente deir In- 
ghilterra, trovasi con istabili ordinamenti già nella prima metà del secolo 
decimosettimo. Ha oggidì organi numerosissimi nelle auodaùoni centra- 
li ed affiliate. Niuno ignora la grandiosa attività della società biblica di 
Londra, fondata nel 1804 (British and foreign Bible Society established 
in the year 1804). 

51 ) n. 1552 m. 1610. Il suo nome presso i Cinesi che non hanno la r T 
è Li-éi-, Givl.Aleni (che arriva in Cina nel 1613 e vi muore nel 1650), 

< di cuti Cinesi tengono pure in istima le carte geografiche, è da loro 
chiamato 'Ai-ài. Frane. Brancate che visse nel celeste impero dal 
1637 fin verso al 1670, autore del catechismo finn àia ho ai co, ha 
il nome cinese: Pan-cue-cuafi. 

**) È noto come la grammatica generata volle divenire dappoi scienza par- 
ticolare; creato il modello del linguaggio filosofico, tentarono gettarvi una 
lingua universale il vescovo Wilkins (1668), ed altri. Leibniiio « 



UTTBODUZIOltE* 53 

usuo a tolta possa incoraggia le ricerche linguistiche, segna 
la via a simili studj,, raccoglie vocabolari d'idiomi barbari*, 
noia egli medesimo e discute le analogie, e presente come 
da niun lato maggior lume potrà venire intorno alle origini, ed 
alle parentele, e alle migrazioni dei popoli, che dalla scienza dei 
parlari 53 ) (1646-1716); per Vico infine, la parola è mo- 
numento continuo di filosofiche istorie (1668-1744). 

1/ immensa copia di materiali che i missionari e i ge- 
suiti specialmente, procacciarono all'Europa per lo studio delle 
lingue orientali (ed americane 54 ) nei tre secoli che tennero 
dietro alle grandi scoperte geografiche, e la brama di più 
ampie dottrine storiche e letterarie ispirata dalla filosofia pro- 
gredita, accrebbero gli sludj su di varie letterature orientali, 
non bastarono però a gittare i fondamenti alla Linguistica 5 5 ). 

Condorcet pensavano a una specie di lingua universale, mediante segni che 
agevolassero e rendessero sicuro il lavoro della ragione, a guisa delle cifre 
nei calcoli, (v. Leibni%io in Valer, Pasigraphie und AntipasigrapMe 
pp. 233-239, e Condorcet, Tableau historique des progrès de f esprit 
tomai*, verso la fine.) 

fta ) In Annover nel 1717 si pubblicarono: G. G. Leibnitii, CoUeclanea 
etimologica. Quali lucidi tratti in Leibnisio, visto lo stato degli studj di 
lingua a' tempi suoi, ne cito: P.I. pag. 172-73. 176.257. 258. 264. 
283. 289. 297-298; IL 253. 254. 255. 284. 309. Nella lettera ad 
Àndr. Acolvthvs, del 10 ottobre 1695, staffila Gorop e Rudbeck 
(v. n. 56.), i medesimi che sono acremente censurati da Ki'co, Seconda 
sdenta nuova, della logica poetica. 

u ) L'Egitto fu sempre studiato coll'Asia ; il punico, l'etiopico, lingue africane 
semitiche, continuarono ad involgere gli studj africani fra gli asiatici ; oggi 
nel nome di orientate, soglionsi comprendere in generale anco quelli 
intorno alle lingue africane, di qualunque ceppo siano. Al polo, l'Asia e 
l'America si fondono pure nel linguaggio (v. Klaproth, Asia poliglot- 
ta, p. 322), e cogli studj orientali giungiamo cosi anche nell'emisfero 
occidentale. Però le lingue americane non si tengono fra le orientati.— 
*) Lontanissimo dal voler essere completo, e solo sperando di non aver mal 
scelto, qui tocco di autori ed opere che appartengono all'epoca indicata 
nel testo, non separando i missionarj dagli altri dotti europei. — Al 
cadere del secolo XVI abbiamo un dizionario giaponese stampato al 
Giapone, Amacusa 1595, dalla Società di Gesù (Dictionariu m latino-kisì- 
tanicum oc japonicum)\ lo precedette (1593), pure in Amacusa, la gramm. 
giap. di Em. Alvaro*. Nella prima metà del XVII rinveniamo altri lavori 
dei missionarj sul giaponese, stampati a Nangaeaki, Manilla, e Roma, per 
studio di Rodrigve*, Collado ed altri. Tre grammatiche messicane 



34 MTBODUZrOtlE. 

11 pregiudizio di lingue barbare e non barbare; quello di voler col 
fatto provare la derivazione di lutto da una medesima e conosciuta, 

si registrano nel XVI (A.deOlmos, de Molina, del Rincon); una 
brasiliana (de Anchi eia); due peruviane (ambo del de S.Tkoma*).-~ 
Si resero celebri: Bustorfio il vecchio (1564-1629) che si dedicò 
specialmente agli studj rabbinici; Bochart (1599-1667) eruditissimo, 
ma fenicomano; <f Uerbelot (1625-95) noto per la sua BibUothèque 
orientale.- Érpenio, Giggeo, D. Germano, Golio, B.Pococke, 
F.Gvadagnoli, Hinckelmann, Maracci, per tacer d'altri, fe- 
cero Morire nel secolo XVII lo studio dell' arabo, dando mano eziandio 
alla pubblicazione di opere originali in quella lingua ; nel medesimo 
secolo Ludo l fio progredì nell'etiopico per modo che oggi ancora rimane 
autorevole; Kircher tentò il copto; F. Rivola, Clemente G«- • 
lano si avanzarono nell'armeno, che neppur nel secolo XVI aveva man- 
cato di cultori in Italia (Teseo Ambrogio, IntroducHo in chaldaicam 
linguam, syriacam, aique armenicam etdecem alias linguas,? wiz 1539); 
le americane non restarono incoltivate: Gvtman, Carichi, deVetan- 
court, Vasquez trattarono il messicano; de Torres Rubio, Hol~ 
gain, D. de Olmo s, de Melgar, il peruviano (quichua). Al cadere del 
secolo XVI il gesuita Girolamo Saverio (Xavier) pubblicò in India 
opere in persiano a gloria del Cristianesimo; nel XVII s' innoltrarono 
negli studj persiani: Elichmann, Greaves, Wheloc, Hyde, Igna- 
zio da Gestì; al malese si applicarono : Willem, Ruyl,Heurnius, 
J. van Hasel; al turco: Megiser, Molino, Maggio, Seaman, 
Meninshi consultassimo tutt'ora, Podestà; al tataro: Gerbillon; 
al cinese: Martino Martinio,Prospero Intorcelta (del Ricci, 
che più appartiene al XVI già parlai, v. n. 51.) non i soli italiani, con 
parecchi stranieri, tra cui nomino: Verbiest salito alla corte cinese in 
cosi alta stima. Dal 1700 al 1780 si fecero chiari negli studj ebraici 
e caldaici: Alb. Schultens,due Michaetis, Simonis; ne* siriaci f 
Gios.Sim. Assemani, siro (maronita) d' origine ; negli a rmeni :Schró- 
der; negli arabi: Alb. Schultens, G. D. Michaelis, Reiske, 
Joner, ne' persiani : Richardson, Jones; nelle antichità persiane, e 
indiane pure, Anquetil du Perron (1731-1805); negli studj 
cinesi e tatari: Bayer, Fourmont, B. da Gì emona*), Deshav- 
terayes, de Guignes, padre, (Histoire generale des Hnns, Parigi 
1756-58), Amiot, Ganbil, Pallas (che ha gran parte nel Voca- 
bularium Catharinae); nel tamutico : Ziegenbalg (1716), B esc hi, 
Walther; nel malese: Bowrey; nel tibetano: Beligatti, Giorgi 
(Alphabehtm Hbetanum, Roma 1762); nelle lingue americane, per dir 
d'un solo, Gilij (Saggio di storia americana, Roma 1780-4). A questi 
vanno aggiunti alcuni illustri che antecedentemente mi accadde di citare.— 

•) Io stmi-fralano avrei gran desiderio di vendicare al Frinii la gloria di questo grande sinologo eoe Prt- 
iari (I. e. p. 53) dà per friulano, tenia alare però alcun appoggio, demone, nel dialetto del paese, er 
od borgo del Frinii che nelle carie trovasi scriUo Gtmona. Bla V origine italiana del P. Basilio da» 
Glenona,per quanto cercassi, non mi fa confermata da aWaotoriUi ansi to Agi* lo dice a diritta* 
mùtorit* portoghesi. 



ICTRODCZIOtVI. 55 

o almeno la evidente primitività dell 9 una, la quale, per 
pia aberrazione o per boria nazionale, ora doveva essere l'ebrai- 
ca, ora per fin la s vezzose 5i ); la pretesa di rinvenire sparsa 
in tutte quante la primitiva estinta 57 ), e simiglienti vanità, 
andarono invero a mano a mano diradandosi collo estendersi la 
cognizione delle lingue. La Etimologia tuttavolta che dai con- 
fronti tra le due classiche e tra i dialetti semitici non era 
escita con norme sicure da applicarsi ad altre favelle, restò 
fino allo scorcio del secolo decimottavo poco meglio d'un tra- 
stullo d'analogie di suono. Qualche importante parentela giu- 
stamente scorta, come quella del germanico col persiano 5 *), 
o i pregevoli lavori di Hervas 60 ), dei compilatori del Fo- 
nai tipi della Propaganda, onore d'Italia, per istudio d'italiani e stranieri, 
escirono nei due secoli di cui parliamo (XVII e XVIII) opere ragguar- 
devoli e in gran numero concernenti il georgiano, il copto, fl tibetano, 
▼arie lingue indiane, ed altri molti idiomi che lo spatio qui vieta di enumerare. 
* 6 ) Barbane aive barbaricae linguae praeter graecam et latinam dicuntur 
omnee. Nos etiam hebraicam excipimus. . . . Gesner, Mithridates, Zurigo 
1555 f. 3. — John Webb nel Hìstorical Essay tendeva a dimostrare: 
mot the language of the empire of China is the primitive language. 
Leibniiio, nella lettera citata alla nota 53, parla con ischerno di tre, 
dei quali : primus in belgica, alter in snecica, terlius in hungarica, vetera 
deorum vocabula nullo negotio invenit 
* 7 ) Sogno di Court de Gobelin. 

**) Elichmann (morto nel 1639) notò quest'affinità. Leibnitio vi ai- 
tese, ma fa maraviglia leggere presso alcuni com'eccedesse nel decantarla, 
quando egli all'opposto; (Collectan. I. 75.) Post EUchmanni assevera- 
Uonem multo plura germanica in persicis sperabam, guam inspectis feri- 
rò deprehendi. Fateor hnguam minus nascenti parum apparere connewiones. 
Aggiungi ibid. pp. 176 e 280. 
* 9 J Spagnolo, che molto però scrisse italiano in Italia. Aspirò a classificare 
tutte le lingue conosciute. Per citare una sola delle sue opere, nominerò 
il Saggio pratico delle lingue; con prolegomeni, e una raccolta di ora- 
sdoni dominicali in più di trecento lingue, e dialetti, con cui si dimostra 
r infusione del primo idioma delVuman genere, e la confusione delle 
lingue in esso poi succeduta, e si additano la diramazione, e disper- 
sione delie nazioni con molti risultati utili alla storia. Cesena 1787. 
Per tango tempo furono in uso le raccolte poliglotte di Pater noster, 
quasi a criterio del sapere del collettore o dello stato delle cognizioni 
tingiiatiche in una data epoca. In fine del primo volume del Mithridates 
di Adeking (ehe ha quasi 500 P. N.) hawi elenco di tali raccolte; quel- 
la del nostro Hervas vi è in, serie cronologica la XXXVI. 



36 WTRODOZIOWE. 

cabularium Catharinae* °), e d'altri, non erano sufficienti a 
metter freno alle traviazioni etimologiche. L'abondariza della 
messe accresceva la confusione; nell'infinito campo dei feno- 
meni linguistici ognuno ricoglieva senza regola quello che 
alla sua premessa a modo suo corrispondesse; e nessuno 
cercava senza presumere d'aver trovato 61 ). Il pubblico che 
sentiva vantare conclusioni diametralmente opposte, finiva per 
mandar sane tutte le induzioni degli etimologisti; e lo sto- 
rico perplesso aveva udito spacciarsi ora per egizia, ora per 
fenicia, ora per ebraica, ora per greca, or per latina, la 
scrittura o la lingua delle tavole eugubine • *). 

X. Nell'agosto del 1783, Guglielmo Jones, spinto dal 
suo genio e dalla vasta erudizione, vedeva la spiaggia del- 
l'India lungamente sospirata "mentre a sinistra gli si affac- 
ciava la Persia, e una brezza dall'Arabia vicina soffiava in 
poppa 6 3 ).„ E l'India e la Persia e l'Arabia, che il suo 
pensiero abbracciava con entusiasmo, grandemente furono 
illustrate dalla Società che nell' anno seguente egli ebbe fon- 
dato in Calcutta per investigare la storia e le antichità, le 
arti, le scienze, e la letteratura deW Asia 6 4 ). Le memorie 
da questa pubblicate, unite ad altri studj fatti nel me- 
desimo tempo in India e in Inghilterra da dotti inglesi, spar- 

•°) Linguarum totius orbis vocabularia comparativa. Augustiasimae cura collecta. 
Petropoli, 1786-89. 

6I ) Scia euim, qoam proclive aitqnidviaex qua vìa lingua exsculpere. Le iò- 
ni* io. Nò dopo le recenti discoverte linguistiche cessò l'abuso delle eti- 
mologie; giacché per isventura non v'ha chi ai creda profano quando si 
tratti d' esercizj etimologici. Grandi e piccioli, dediti a tatt'altre ricerche, 
vi si sentono sedotti e vi si danno senza neppure sospettar di traviare. 
Romagnosi, a recar venerando esempio d'errori, era ben soddisfatto 
di trarre saffo (v. qui avanci illustr. al Naia, n.° 76) dal numerale iaf 
set, col quale nulla ha da fare. (Supplim. *\ Robertson, India antica, 
p. 492). 

**) V. tossi, Saggio di lingua etrusco; ed II., v. I. 9-10. 

•*) tt that India lay before us, and Persia on our*left, whilat • breese 

from Arabia blew nearly on our stero. „ Discorso d'apertura della So- 
cietà di Calcutta. 

e4 ) Society instituted in Bengal, for inquiring into the history and antiquities, 
the arte, sciences, and literature of Asia. Sono celebri le sue Iramamoni, 
note sotto il nome di Asiatick Researches. 



nrrnoDUziOffE, S7 

sero, tra altro, luce abondanto sulla lingua e la letteratura 
dell'India antica; le quali al principio del secolo decimonono 
ai potevan dire presso che ignote air Europa, e oggidì vi 
sono professate nelle principali Università * ft ) La rivelano- 

**) Credo che Filipp S astetti, fiorentino, (viaggiò nelle Indie orientali dal 
1578 al 1588) citato dal dotto Maggi (Due episodii di poemi indiani, 
Milano 1847, p. XIV.) fosse veramente il primo a dare air Europa no- 
tizia del sanscrito, e ad avvertire qualche affinità di questa lingua colle no- 
stre. A messo il secolo XVI nulla ne sapevano i dotti europei, se €fe- 
ener (Mithrìdates, Zurigo 1555 f.° 6-7) accetta l'assentane di Munster: 
Ubi obiter est notandomi duplicem esse Indiam: unam orientalem, quae 
scilicet in Asia extremum occupat locum, cujus linguam et Uieras om- 
tùno ignorarmi*. — Roberto de 9 Nobili, quello cui si attribuisce la 
contraffazione di libri vedici, missionario italiano alle ìndie al principio 
del secolo decimosettimo, fu dotto di sanscrito. Enrico Rotk, mis- 
sionario, apprese questa lingua (nel 1664, al dir di F. Schlegel), e ne 
diede F alfabeto a Kircher (v. Chamberlayne, pref.).— Paolino di &. 
Bartolomeo (è Giovanni Filippo Wessdin, austriaco, italianato) fi men- 
zione di un dizionario sanscrito-malabarico-portogh. ras. nella biblioteca della 
Propaganda, opera del padre Giov. Ern. Hanxleden, partito per le 
Indie, secondo Federico Schlegel, nel 1699; e pur d'altro sanscrito-ma- 
labarico-portoghese del padre Bis copiti g (?); cita altresì Marco della 
Tomba , perito di cose sanscritiche, che al pari di lui negava resistenza 
dei Veda. Rimaneva però tale studio proprietà esclusiva di questi e pochi 
altri dotti; Chamberlayne nel 1715 non potò aver nemmeno la ver- 
sione sscr. del P. N.— Il Padre Paolino pubblicò, cadente fl secolo 
XVm e in principio del XIX, varie dotte opere intorno alla lingua sscr. 
e air archeologia indiana; il cattolico che in lotta estrema cede anco 
scientificamente il terreno indiano al protestante, trapela spesso dai suoi 
lavori. — Carlo Wilkins e 0. Chambers, inglesi, prima ancora della 
fondazione della Società calcottense, avevano coltivato con buon frutto il 
sanscrito in India. Il primo pubblicò a Londra, fin nel 1785, la B'aga- 
vadgìtà tradotta in inglese sull'originale; più tardi (1808) si rese 
altamente benemerito colla sua grammatica sscr. — Halhed, ohe nel 
1778 die fuori in India una grammatica bengalica, è, al dir di Robert- 
son (India antica, trad. it illustrata da Romagnosi, p. 411), [il primo 
inglese che abbia imparato il sanscrito. Ma assai tardi cominciò a di- 
vulgarsene lo studio in Europa e ad escere adoperato con crìtica severa 
a prò' della scienza delle lingue» Adelung nel Mitkridates (1806) L 
141, annoverando le cagioni che davano importanza al sanscrito, non ai 
fa ancora un'idea netta del vantaggio filologico derivante dalla sua affi- 
nità colle europee. U celeberrimo Bopp aprì la via col suo : Conjuga- 
tkmuffstem dee Sanskrit, Latem., Pere., GrìèeA., md Germ. Francoforte 
1816. Da quest'epoca il grande linguista continuò sempre e 
» tal sentiero, col pili splendido risanamento. 



38 IHIHUDUWONE. 

ne della veneranda lingua sanscrita, che palesava uno sviluppo 
di perfezione incomparabile ; alla quale le persiane, le greco- 
italiche, le germaniche, le slave, si riconoscevano congiunte 
dalla più stretta affinità, e da cni erano rischiarati i rap- 
porti tra ognuna di queste e 1* intimo organismo di ciasche- 
duna, — segnò F epoca più importante per gli studj di 
lingua. La consanguinità delle semitiche (arabo, ebraico, si- 
riaco ecc.) è in generale da ogni lato di un 9 evidenza talmente 
superiore a ogni dubbio, che ad onta di varie trasmutazioni 
di lettere dall'una all'altra nella medesima radice, la rasso- 
miglianza del suono basta sempre, o quasi, ad attestarne la 
parentela, V identità ; né le semitiche (quelle almeno che più 
ai coltivano) si alterarono a nostra cognizione nel corso dei 
secoli per modo tale da cangiar faccia, e, come di frequente 
presse le indo-germaniche (sanscritiche) succede, da non 
esservi a prima vista riconoscibile per affine Y identico vo- 
cabolo, osservato in epoche differenti. Se, a mo* d' esempio, 
avrete la voce con cui Mosè esprime il numero quattro, 
(vnt) vi troverete senza stento la parola medesima che il 
Siro e Parameo e l'arabo di Maometto e 1' odierno ci ado- 
perano; ma éatur e «'w^ e four che pure per anelli 
istorici vi si manifesteranno d'un ceppo comune, esterior- 
mente non vi si annunziano prossimi né anco. Lo studio 
delle semitiche non aveva quindi potuto valere a distruggere 
la mala abitudine di prender V orecchio per unica guida nelle 
ricerche etimologiche; esso produceva grammatiche armoni- 
che**}, quello delle sanscritiche venne a creare le gramma- 
tiche storiche, le comparative. La parte delle favelle sanscritiche 
che pure l'orecchio credette riconoscere a tolta prima comune ad 
esse tutte od a varie, invitò ad attento esame; e le cure 
d'ingegni potenti, e la mirabile struttura e conseguenza delle 
più antiche sanscritiche fecero sì, che tra breve ^arbitrio 

**) Lodot.deDiev, Viccart, Ho Minger, Rane, Senuert, Fintiti, 
eoe. Come mole Belle caratteristiche dello liague, questa dietkuiooe ebe noto 
Ini V effètto degli etudj semitici e quello de' meeritioi, e ohe ia gene- 
rale mi sembra inattaccabile, aoa va presa ia senso assoluto. — 



OTRODUZIONE* 59 

degli etimologisti fosse, in questo campo almeno, sostituito 
da fermi precetti; che fosse scoperta la relazione e la 
corrispondenza dei suoni anche indipendentemente dall'ana- 
logia fonica; che anzi questa, quando d'altronde non con- 
fermata, fosse, come fallace conduttrice, rifiutata; e la eti- 
mologia indo-europea s' innalzò degna del titolo di scientifica, 
divenne modello alle ricerche intorno ad altri ceppi di fa- 
velle, e con ciò se non il fondamento, certo il lume della 
linguistica, la quale è il complesso dei ragionamenti elimo- 
logici. E fu il sanscrito il più prezioso tra tutti quanti i 
frutti, che la intelligenza europea cogliesse ne 9 moderni tempi 
in Oriente. 

XL II continuo estendersi della potenza inglese in Asia, 
le comunicazioni rese più facili, 1' ardore degli studj storici 
impazienti di sussidj etnografici, e anelanti a indagare nelle 
letterature de 9 popoli più lontani le vicende politiche e in- 
tellettuali di questi, la colossale istituzione delle Società bi- 
bliche protestanti, il desiderio di conoscere sempre maggior 
numero di lingue per amore dello studio linguistico medesimo, 
e infine le Società asiatiche, le raccolte di manuscritli, le 
cattedre e le tipografie di lingue orientali che in Europa, 
neir Asia europea e nell' America stessa si vennero succes- 
sivamente multiplicando, promossero in modo prodigioso nel 
secolo nostro, e particolarmente negli ultimi tre decennj, le 
ricerche intorno alle lingue in generale, ed intorno alle let- 
terature dell'Oriente 67 ). Non soltanto lo studio della liqgua 

,7 ) Dì Società e di giornali dediti all'Oriente qui raccolgo i titoli a sim- 
bolo della diffusione di siffatti studj, senza presumere di offrire un elenco 
completo: (I.) Società Miotica di Calcutta (v. n. 64); suo frutto sono 
le AsiaUck Researches (v. ib.); il celebre Prinsep vi fondò dopo il 1830 
il Journal of the AsiaHc Society of Bengala obe dura tuttora; ne usci- 
rono già più di 230 puntate; dal 1848 la Società aggiunse al giornale 
la pubblicazione della BibUotkeca indica. — (IL) Società asiatica di Parigi 
fondata nel 1822; stampa dall'origine il Journal asiaUque in fascicoli 
mensili; ora imprende una Colleùone di opere orientali. — (ìli.') Società 
asiatica di Londra, creata nel 1823; suo organo è il Journal of the 
rogai AsiaHc Sodetg {of Great Britam and Ireland); nel grembo di que- 
sta Società nacque (IV.) il Comitato orientate di traduzioni, cbe ebbe 



4o INTRODUZIONI!» 

e della vastissima letteratura sanscrita, cominciato in Europa 
cosi tardi, raggiunse in breve tempo se non il primo, certo 
un posto a verun altro inferiore nel complesso della scienza 

per cosi dire il complemento nella (V.) Società per la stampa di testi 
orientali formatasi pure a Londra intorno al 1840 sotto la presidenza 
di Lord Mnnster. — (VI.) Società asiatica di Bombai; ha il Journal of 
the Bombay branch of the Royal Asiatic Society. — (VII.) Società di 
Madras; Madras Journal of Uterature and science. Poco tratta di stndj 
propriamente orientali — (Vili.) Società farti e sciente a Bataeia\ da 
molti anni (dal 1781) dà alla luce le VerhaendeUngen «hi het Bata- 
viaasch Genootschap x>an Kunsten en Wetenschappen. — * (IX.) Indisene 
Bibliothek di A. G. Schlegel) cessò. — (X.) Vydsa periodico di Frank, 
dedito pure all'India; cessò. •— (XI.) Zeitschrifl fuer die Rande des 
Morgenlandes, herausgegeben v. Chr. Lassen. Giornale fondato da Ewald 
nel 1837. — (XII.) Società egizia (Egyptian Society) formatasi al Cairo 
nel 1836. A questa sembrano appartenere le Miscellanea aegyptiaca mentovate 
nel Journal asialique, 1845, luglio, p. 18. — (XIII.) Società orientale, 
a Parigi, costituitasi tra il 1840 e il 1841; suo organo è la Reoue de 
VOrient, de T Algerie etc. — (XIV.) Società orientale americana di Boston; 
ebbe vita nel 1 843 ; pubblica il Journal of the american orientai Society. — 
(XV.) Orientalia, raccolta edita in Amsterdam da dotti olandesi; comin- 
ciò verso il 1840. — (XVI.) Società orientale germanica in Halle e 
Lipsia; costituitasi nel 1845 in Darmstadt Stampa la Zeitschrifl der deu- 
tschen morgenlaendischen Gesellschaft. — (XVII.) Società siro-egi*iana di 
Londra^ surta verso il 1845. Se ne hanno: Originai Bapers tead before 
the Syro-Egyptian Society of London. — (XVIII.) [Società sira, sedente 
a Beyrouth; ha giornale in arabo. Fondata circa il 1847 al pari della 
seguente.] — (XIX.) Società archeologica di Dehli. — (XX.) Società asia- 
tica di Colombo (Ceylan). — XXI. Società cinese a Hong-Kong; ha le 
TransacUons of the China branch of the Royal Asiatic Society, (il 
L voi. nel 1848). — (XXII.) Indisene Studien, herausgegeben v. A. • 
Weber. — (XXIII.) Società letteraria di Gerusalemme, fondata nel 1849» 
(XXIV.) Società asiatica di Costantinopoli ; di recentissima istituzione per 
parte d'Europei — Mentre scrivo (1853) a Londra si costituisce, col favore 
del principe Alberto, la (XXV.) Società Assira (Assyrian fund Society). In 
Vienna, per opera particolarmente del celebre de Hammer (più tardi Hammer- 
Purgstall) videro la luce dal 1809 al 1820 sei volumi in foglio, a guisa di 
periodico, sotto il titolo di (XXVL) Miniere deW Oriente (Fundgrnben des 
Oriente). Se pur non consacrati alla scienza dell'Oriente, vi gettan lume giornali 
come la Calcutta Review^ il Chinese ReposUory di Canton, V Asiatic Jour- 
nal and monthly Register di Londra, la Tijdschrifl t>oor Nederlandsch 
indie (olandese), e fl Journal of the Indian Archipelago di Singapor. È da 
aggiungersi quel gran numero di dotte opere periodiche in Europa, che 
accolgono articoli concernenti gli studj orientali; le memorie dell'Accademia 
di Pietroburgo, p, e, ranno ricche d'importanti trattati relativi a questi. 



INTRODUZIONE. 4t 

orientale 6 8 ) ; non soltanto gli studj ebraici e gli arabi (che 
interessi religiosi e storici manterranno sempre importantissimi 
alla scienza europea) e i persiani e i cinesi e gli armeni e i tur- 
chi progredirono con alacrità, ma pure la lingua e la letteratura 
indostana, tibetana, mongolica, georgiana, barmanica, malabarica, 
siamese, ed altre tante, si rallegrarono di splendide ricerche 
per parte di dotti europei. Altre lingue dell'India di qua e 
di là del Gange, e le potinesiache , e il curdo e V afgano, 
per tacer di molte ancora, furono sottoposte ad analisi scien- 
tificità * • ). I materiali preparati anticamente su buon numero 

La Russia, potenza che cementa l 1 Asia coll'Europa, ha grand 1 interesse nella 
esplorazione dell'Oriente, e non cessa di favorirla. — Non fa d'uopo avver- 
tire come a questa servano i lavori delle Società geografiche, archeologiche, 
etnografiche (p. e. le Tratuaclions of the Bombay geographicai Society), 
e quelli attinenti alla scienza biblica e giudaica. Havvi d' altronde giornali 
intenti unicamente a ricerche linguistiche, come la Zeitschrifì fuer die 
Wissenschaft der Sprache dìHoefer^o quella fuer ver gleichende Sprach- 
forsclumy di Aufreckt e Kuhn (nel 1853 di Kuhn soltanto). 
M ) I più chiarì sanscritisti sono: degF inglesi, oltre il Wilkins già nominalo, 
(n. 65) Jones, Colebrooke, Wilson, degni di accostarsi primi a mesti* 
così ubertosa, Carey, Haughton, Yates, Forster, Prinsep; dei francesi : Chézy, 
Barnouf, Loiseleur dea Longchamps, Troyer, Ariel, Pavje; dei tedeschi: Federico 
eAug. GugL Schlegel, Guglielmo Humboldt, Bopp, Pott, F. Rosen, Lassen, Ko- 
segarten, Stender, A. Weber, R. Roth, Bòhllingk, Benfey, Brockhaus, M. 
Moller....; degl'italiani: Gorresio, Flecbia ....-, dei danesi: Nyerup, Wester- 
gaard; ecc. 

••) Vanno segnalati tra i contemporanei, negli studj ebraici: De Rossi, Ro- 
senmùller, S. D. Luzzatto, Gesenio, Ewald, ben noto anche per lavori su 
d'altri dialetti semitici, Hartmann; negli arabi: De Sacy, Freytag, Hammer- 

PurgstaU, Quatremòre, Castiglioni, Reinaud, Fleischer ; ne' persiani: 

F. Johnson, Gladwin, Hammer- Purgatali, Oosely, Quatremère, Mohl, 
Lumsden .....; nelli zendi: Rask, Barnouf, Bopp, Olshausen, Spiegel, We- 
stergaard ; ne" copti: Quatremòre, Peyron, Tattam....; negl'indostani: Tay- 
lor, Gilchrist, Shakespeare, Garcin de Tassy....; ne' bengalici: Carey, 

' Haughton ....; ne 1 tibetani: Csoma de Kdròs, Klaproth, 1. J. Schmidt, 
Foucaux-, nei tatari (del turco v. appresso): Langlès, Klaproth (autore dell' Asia 
polyglotia), Rémusat, Conon von der Gabelentz, Schott, 1. J. Schmidt. — 
[L* università russa a Casan giova molto agli studj mongolici.] Ne' cinesi : 
Rémusat, Klaproth, Hontucci, Staunton, Morrison, Harshman, Medhurst, 
Juiien, Davis, Goncalves, Gtttzlaff, Biot, Callery, Endlicher ...; ne' turchi ; 
Hammer-Purg., Jaubert, Davida, Kieffer (trad. della Bibbia), Bianchi, Bohtlingk, 
KtzemBeg; negli armeni: St. Martin, Zorab, Petermann, e l'infaticabile Congreg. 
dei Meehitaristi; ne' georgiani : Brosset....; ne* giaponesi : Klaproth, Siebold, 



42 OTHODUZgpil* 

di lingue americane, e le relazioni 41 moderni viaggiatori in-* 
torno a queste, offrirono soggetto di profondi studj al grande 
Guglielmo Humboldt; ed ora, agli Stati Uniti ed altro ve* ai rac- 
coglie con zelo il molto che resta di quegli idiomi aborigeni. Le 
lingue africane non semitiche attirano pur desse V attenzione) 
dei dotti, aprendo l'adito a nuova serie d' importanti scoper- 
te 70 ). Si lessero i monumenti fenici 71 ); i jerogUfici egiziani 
cessarono d'essere impenetrabile mistero 78 ); i libri di Zo- 
koastbo [furono letti nella loro lingua originale, divenni* 
accessibile col sussidio del sanscrito 7a ); le iscrizioni dei 
Re dei Re, mute da tanti secoli, parlarono alla dotta Europa 
la favella con cui i monarchi persiani minacciarono la Gre- 
cia 74 ); e forse non è lontano il giorno in cui la sagapità 
europea avrà interamente diciferate le innumerevoli leggènde 
prodigateci dai. monumenti assiri, che in copia sterminata si 
dissotterrano, e ne* quali sta probabilmente la istoria del va- 
sto impero degli Assiri, che nella favola ai perdeva 7 *). 
V Europa salva dal naufragio V erudizione indiana e l'araba 
e la persiana, che nelle patrie loro periclitano, sicché a Ox- 
ford, a Parigi, a Berlino, ponpo andar a scuola con profitto 
il patita e gli 'ulama. I Veda, di cui Paolino da S. Bar- 

Pfizmaier; ne' palici: Burnouf, Lassen, Turnour, Spiegel ...; ne' malesi, gia- 
vanesi, polinesiaci: Marsden, G.Humboldt, Buschmann, Leyden, Roorda; ne* 
siamesi: Leyden, Low e ultimamente Pallegoix; Dora fece stuàj siuTaljgano; 
Carey e Leyden estesero le loro, ricerche a gran numero di lingue 
indiane. Tentativi universali, che il nostro secolo oppose ai troppo pre- 
maturi degli antecedenti (v. n. 60; nel XVII s'ebbe: Dvrei, Trésar de rito tot- 
re des Langues de cesi Univers, Colonia 1613, e Yverdnn 1(5 19.), sonoil Jfi~ 
thridates d'Adelung, compiuto nel 1817 da Valer, *Y Alias ethnograpkiqte 
di Balbi, Parigi 1826. Ad Al. Humboldt molto deve lo studio delle liag. ameno. 

7a ) L' Inslitot nationaf premiò or ora V opera di Steinihal: Vergleichenda 
Darstellung ejnes afrikanischen Sprachstammes (susu, mandingo, bambara, 
vei) nach seiner phonetischen und psychologischen Seite. 

71 ) Gesenio, Hovers, Munk, con altri vaij, felicemente vi si adoperarono,. 

75 ) Young, Champollion, Rosellini, Leprina, Brngsch ........ 

73 ) V. aUa nota 69. gli orientalisti nominati quali cultori degli studj sendi 

74 ) Grotefend, Burnouf, Lassen, Rawlinson, Holtamann, Benfey, Fil. Lmaatto. 

76 ) È incerto ancora a quel ramo di lingue appartenga l'idioma delle iscri- 
zioni assire; stanno per il semitico, Rawlinson, Sanlcy, Lòwenateru; lo 
crede sanscritico EiL LuuaUo, di cui ai consulti il cosciensioso lavoro: 



IlfTKODUnOKE. 43 

Tolomeo negava ancora la esistenza 7 •), sono in buona parte 
pubblicati in tipografie europee, con commenti ed illustrazioni 
ohe i dotti indigeni invidiano; la letteratura cinese, dalle col- 
lesioni d f opere i citi repertorj sono più decine di volami 77 ), 
è dischiusa alla scienza iiostra, che investiga nelle istorie, 
nelle credenze, nelle cognizioni cinesi, le vicende, la reli- 
gione, il sapere, che più meno d' appresso toccano forse 
meglio d' un terzo degli abitanti del globo ; e V istoria del 
Buddhismo che, nato in India, meravigliosamente si diffuse 
per l'Asia, è approfondita con quello interesse cui donno 
ispirare la origine e le vicissitudini d'una dottrina, che va 
superba di tanti' milioni di seguaci 7 *). Rotti i ceppi che 
Panlico scheletro della grammatica latina imponeva all'analisi 
degl'idiomi più ribelli alle forme che vi si volevano rinve- 
nire; denudate le imperfezioni delle grammatiche generali 
colla scoperta di nuovi fenomeni, che sturbavano quella uni- 
versalità di regole cosi pericolosa infetto di lingue: sorgono 
le grammatiche comparative a sviscerare le più recondite 
sotniglianze tra gl'idiomi, le più scerete storie dei vocaboli; 

Études sur Ics inscriptions assyriennea de Persépolis, Hamadan, Van et 
Khorsabad, Padove 1850. — Hincks pure lo vuol d'indole arìca. 

'•) Systema Brahmanicum p. 281. Trasse in errore Romagnosi, 1. 0. p. 546. 

77 ) Una raccolta delle migliori opere nazionali cinesi, cominciata nel 1773, 
contava nel 1818 volami 78731. v. iV e ti man», Nonv. J. asiat XIV, 
p. 63. Aveva a contenere 10412 opere, il cui catalogo ragionalo forma 
120 volumi. — A dar idea della vastità d'altra letteratura orientale, cito 
un passo del Rapporto annuale dato quest'anno (1853) da Moni alla Società 
asiatica di Parigi, relativo alla Storia delia letteratura araba che Hammer- 
Purgstall sta pubblicando : tt .... il (M. de Hammer) s'adresse aux bibliographies, 
aux collections de biographies, aux anthologies, aux histoires des villes savantes, 
aux collections de pièces, enfin à celle quantité de travaux que les Arabes 
eux-mémes ont faits sur V histoire de leur littérature; et làencore la masse 
des materiata devient presque un obstacle, car M. de H. enumero 758 
ouvrages de ce genre, dont quelques-uns sont d' une étendue très-oonsi- 
dérable; ainsi, une seule histoire littéraire de la ville de Bagdad se com- 
pose, si ma mémoire ne me trompe pas, de 114 volumes.„ 

78 ) Ré musai studiò il Buddaismo cinese; S e àmidi e doma deKòròt 
lo investigarono tra i Mongoli e i Tibetani, Turnour tra i Cingalesi; 
Hodgson scuoprì nel Nepal i testi buddaici sanscriti, trasmessi & Burnouf, 
coidevesi k grand 1 * opera Intróduetion à r histoire du Buddhisme mdien, 
Paris, 1844, I. Voi., rimasta per la sua morte incompiuta. 



44 IRTRODUZKHfE. 

e codeste dotte t analisi sono raccolte da menti superiori che 
s'inalzano a leggervi non solo gli avvenimenti territoriali 
dei popoli, ma ad esaminarvi altresì il vario svflnpptf del 
pensiero, e a seguire e a dichiarare nella parola le vicende 
della intelligenza umana. Sorvola a tutti in siffatte indagini, 
inarrivabile forse, Guglielmo di Humboldt; mentre Ghoim e Bopp 
fra i tedeschi, Eugenio Burnouf tra i francesi, s' inoltrano 
negli studj comparativi con merito imperituro. 

XII. Del pari che uno stipite comune alla lingua del 
Bramino, d'Aristotile e dello Zingano, seuopresi di là. dal- 
l'Eufrate il punto di partenza dell'arte greca ed etnisca 79 ); 
e simiglianze irrefragabili si manifestano tra la mitologia 
perso-indiana e la classica. I confronti delle idee religiose e 
filosofiche puranco, si tra le varie nazioni orientali e si tra 
queste e le antiche europee, si eseguirono dapprima non 
senza qualche allucinazione, naturale in chi veniva a sfiorare 
in campo cosi vasto e intatto quasi; anzi si succedettero 
talvolta con licenza non dissimile da quella che nelle etimo- 
logie osservammo, i vizj delle induzioni etimologiche riflet- 
tendosi sulle altre illazioni 80 ). La scuola filosofica del secolo 
decimottavo, tutta intenta ad affievolire l'autorità della Bibbia, 

79 ) 1 monumenti assiri che in Mesopotamia si stanno diseppellendo, danno 
a divedere agli archeologi come da nn lato air arte assira siasi educata 
la persiana, e a quella vadano dall' altro congiunte e la greca e la etnisca. 

80 ) Già in Strabone (da Megastene) XV. I, troviamo circa i Bràhmana (Bramini): 
IIsoì frollar Ss toì$ "EXXtjctip ópodo£$Tir ... xcd tisqì aniQ^icctog Òè xcd yvpjg 
opoia Xéyetat, xcd càia nXdco- nctQcmXéxovcri Òè xcd pv&ovg, acmtQ xcd 
IRdt(ùv n$Ql te à^&aqalag t/wjpjs, xcd fmp xa&* qÒov XQiamv, xcd 
Olla toutvra. Paolino da S. Bar tolomeo (Syst. brahm. p. 18): Mini 
etiam auspicio suborta fuit, doctrìnam hanc Pythagoram a Brahmanibus hausisse, 
et ipsum primum suae scholae tra di disse. — Veggasi: Jones, On the 
Gods of Greece, Italy and India, nelle Asiatick Researches I. uc; J. D. 
Paterson, On the origin of the Hindu Religion, ibid. Vili, ui; avventato 
proprio è p. e. Wilford, On Egypt and the IVife, from the ancient 
boote of the Hindus, ibid. III. jciu, e più innanzi (IV. xxvi) On Semi- 
ramis, the origin of Mecca efe, from the Hindu sacred books. — Si 
legge con interesse; Abel-Rémusat, Sur Lao-tseu philosophe chinois 
du VI siècle avant notre ère, qui a professe les opinions aUribuées 
à Platon et à Pythagore. J. as. (1823) III. 3-15. 



ntnoDUDovEa 45 

s'impossessò degli stndj di alcuni orftentalisti per desumerne 
vanti di superiore antichità ad altri monumenti asiatici, e di 
migliori dottrine presso popoli orientali men noti. Né tornò 
essa disutile con ciò agli stndj sull'Oriente; giacché invo- 
gliando a simili indagini, apri col fanatismo della novità 1 la 
via a tali confronti, e quindi alle discussioni sulla relativa 
antichità dei monumenti. L' ebbrezza delle grandi scopèrte e 
i dati presuntuosi delle letterature orientali istesse, indussero 
dappoi anche gli europei veramente studiosi delle cose d'Asia, 
a superficiali ed esagerati giudizj, tanto sul contò della co- 
mune origine di nazioni e d'idee, quanto su quello dell* età 
de 9 prodotti intellettuali ed artistici* 1 ). Ma subentrata la calma 
delia riflessione, e guadagnato spazioso terreno agli esami 
della critica, ora con: moltiplicati sforzi intende mirabilmente 
la scienza a raccogliere materiali sicuri, per ricostruire la 
storia dell' umanità rifacendo quella dell 9 Asia antica. Opere 
simili 9\V Archeologia indiana del Lasszk, danno criterio del 
come la erudizione odierna sappia illustrare le antichità di 
quel continente, dove tutti sentirono e sentono irresistibile 
propensione a cercar la culla dell' uomo e del sapere. 

XDL Alimentare la scienza delle lingue , illuminare 
1' istoria e prepararla ad èssere un di filosofica veramente 

91 ) Stretto dai limili di questa introduzione», qui non fo che raccorrà qualche 
dato succinto ad appoggiane il testo. Ws/&tns attribuiva al MahàBIrata, la 
pia recente delle due grandi epopee indiane, un'antichità di 5000 anni; 
Jones del pari la faceva rimontare a un 3000 anni* a. C. (v.Adelung y 
Mithr. L 136); Roth air incontro (Zar Utteratur und Gesehichte dea Weda, 
£tuttgard 1846, p. 47) non sa persuadersi che tale poema risalga ad 
«poca anteriore al Buddhismo, il cui fondatore, secondo le accurate in- 
dagini d'Euge». Burnouf è da porsi al VII secolo a. C. — Troyer 
(1843) li viver Rama, protagonista dell'altra epopea, 4100 anni avanti V era 
volgare; e Qorretio noi mette che al XIII sec. a. C. — Ai Veda, gli anti- 
chissimi libri sacri degl'Indiani, i più recenti non sanno negare rimotis- 
«ima origine; veggasi p. e. Weber il quale ha nelle Akademisehe Vor- 
lesvngen, p. 2 : tt La letteratura indiana passa per la più antica di cui si 
abbiano documenti scritti, e a buon dritto. „ (allude ai Veda). Mail nqu e til 
du Perron faceva risalire le Upanisad (Oupnek'at), elemento seriore 
dei Veda, a 2000 a. C, e parte ansi ne poneva immediatamente dopo il 
diluvio. (v.Adelung, ibid,; Laujuinait Joum. a*. II. [1833] p. 316-7). 



46 PtTBO P P a O M. 

ed universale* furoao *e stranilo splendidi risnilamenli delle 
comunicazioni cogli Asiatici e degli stadj conseguenti ; ma 
non furono nò saranno i doli, se pur si prescinda dai van- 
taggi della opulenza e dell'agiatezza^ dalla utilità delle lingue 
e delle cognizioni orientali per le bisogne religiose, diplo- 
matiche e commerciali, e dalle ricchezze che gii esploratori 
antichi e moderni acquistarono dui sbolo d'Asia per le scienze 
saturali Che altresì ai popoli orientali, siccome a quelli 
altra Tolta più progrediti degli occidentali, la scienza e l' ar- 
te europea devono non poco; già accennammo alle dottrine 
della filosofia greca in parte rifluiteci eolia mediazióne degli 
Arabi; i quali, poco men che creatori della chimica, colti- 
varono la medicina per modo che ne divennero celeberrimi 
tara noi nel medio évo, e scrissero trattati in gran copia, 
da eui il medico europeo ricavò importantissimi ammaestra- 
menti 88 }; si rese cittadina tra di noi la fantastica loro* 
architettura dagli ornati che ci sono familiari sotto il nome 
ff arabeschi 89 )-i algebra e almanacco son vocaboli sara-> 
ceni, e dal nome inferisci alia coda 04 ); la ottava rimaf 
ò invenzion degli Arabi 85 ); ed opera loro erano le carte 
nautiche, che verso il principio del secolo decimosesto dovevano 
servire ad alcuni grandi navigatori europei 8 •). Ritiene che ar 

**) v. Nouv. J. as. XV (1835) 202-206. — Sonlheimer mollo attese 
alla mediciia araba. (Grosse Zusammensfelhmg uber die Krfifte der be- 
tonateli einfacheo Heil-und Nabrungsttrittel, von Abn Mahammed Abdallah ben 
Anmed, ans Malaga, ecc., aus dem arabisehen von D.r J. Ton S. 2 Voi.) — 
V. pure Journal asiatique, Aprile-Maggio 1853.— Non v'ha cai ignori ohe: 
elisir, alcool, sciroppo, nafta, zafferano, eoe. son arabe voci. 

8S ) Si crede pure che mediante l'organo intelligente degli arabi, sianci pervenute 
dall'Asia orientale, la polvere e le earte da giuoco; v. Caniù, St Un. 
L. Xffl. CI, e LXI. C.X.;cfr. il Journal Asiatique, IV. serie, voi. XIV. 
p. 257-327. — L'origine orientale del giuoco degli scacchi non è da 
alcuno contestata* 

M ) tt L'Algebre nous est Tenne de? Arabe», voilà un fair qui n* est pòint 
conteste. n Sédiltol; il quale diffusamente trattò tette matematiche presso 
gli Arabi. — Dell' influenza dell'araba astronomia parlano ancora termini 
come MaWl, nadir, eoe. 

**) Hommer-PurgHall, Journ. as. Agosto 1930, p. 159 e segg. 

**) Stdillol, UwL giugno 1851 p-5eS-97.-Co*dorc*l,wiropura calata 



h 

Talari venisse Ja earia dalla Gina; e ohe gli Arabi, appreso 
(la . loro a fabbricarla, trasmettessero dappoi questa Industria 
alla Spegna, donde si divulgasse per l'Europa 8 7 ). Quante utili 
nozioni non dovevano ammassare gli europei del medio evo* 
e pur di secoli posteriori , venendo a contatto con genti 
che avevano, carne i Cinesi, regolari amministrante stabilita 
con uniformità su vastissime regioni, e, ben prima di noi, 
stampa, e bussola, e banche di sconto, per tacer di molta 
altre preminenze e industriali e politiche, le quali in buona 
parte non furono superate dalla civiltà europea che negli 
ultimi tempi, e tutte ancora forse dir non si penne sparite 8 g > 
Le sorti sono mutate; nulla per avventura in dottrina, poca 
in arte, ha, per pratica utilità, ad acquistar P Europa nei tempi 
nostri dall'Asia; ma al contrario, possiede immensi tesori A 
dottrina e d'arte da comunicarle* lo studio delf Oriente non 
ha compiuto la sua missione finché è rivolto solo ali 9 in- 
teresse scientifico Q alle necessità politiche e commerciatt 
degli europei; conviene indirizzare lo studio delle lingue 
dell'Asia, e delle moderne in {specialità, allo scopo della 
istruzione degf indigeni ; trar giovamento daHe indagini sui 
costumi e sulle cognizioni dei popoli asiatici, per rinvenire 
la via ad insinuarla agevolmente, Di quanta nobiltà non si 
veste la scienza dell' Oriente, contemplata quale stromento 
di civiltà! Sulle treccie dei missionaij che incominciarono 
per opera di fede, ma, in China particolarmente, a questa 
non si limitarono, va V Europa a portare , quasi in tributo 
di gratitudine, i frutti della propria intelligenza all' Oriente 
scaduto 89 ). A Dehli si traducono in hindùstànt le migliori 

(n. 52.), ha nell'Epoca VII: Od apprit la langue dea Arato; on lai leurn 
onvrages; on a' instruisit d'une partie de leurs déconvertee; et ai Ton 
ne a' eleva point au-deseua da point où ila ayaient laissó lea aoienoes» 
on cut du-moins Tambilion de lea egaler. 

87 ) Per la carta, di cotone credo ninno pia impugni simile prowenienta. 

**) I missionari giovarono alle arti europee cotte relazioni ohe porsero intorno 
alle aaiatiota, — Carta, seta, colori, porcellana, poni artesiani, eco* Nel 
nec XVm riferirono dalla Cina di ponti sospesi e gas illuminante. 

**) Veggasi nel VoL X (1827) del Jomn. ae. a pag. 08 V estratto del 
Prospectus dìun.&feuioriale scientìfico e industriate, ohe- eoa aiutili ten- 



So WTHODUnOWE. 

gue e dell' Oriente , ma per modo che del progresso della 
dottrina europea vi fosse sempre profittato, giungendosi non 
di rado nelle illustrazioni a risultamenti non inutili nep- 
pure ai provetti; ed altri infine, che di ragione esclusiva 
dei dotti intesi alle lingue ed air Oriente, rendessero il pe- 
riodico italiano non indegno confratello di quelli, che a consi- 
mile meta sono oltramonti rivolti. Troppo vago è forse il titolo; 
ma le circostanze nostre, o erro , non sono tali da suggerirne 
di limitarci a date lingue, o a dati paesi d' Oriente. Troppo 
tenue è certo rincominciamento; ma presunsi il tentativo non 
inutile dal lato almeno di eccitar chi più vale, e questo ri* 
.flesso mi rinfrancò dalla mia trepidazione. 



A pf . io, sella Ima Ita iella wla, 2 da canceDanh j tmkto in an^htrìè 



Trascrizioni. 



I. 

L II sistema da me adottato per trascrivere r alfabeto indiano, è il 
seguente, tolto per la maggior parte da Bopp: 

Vocali e dittonghi, aàituùrt}eaioau 

Cattanti, e ò g è tt h 

Palatine, 6 8 è | H 

Cerebrali, ( f 4 tf n 

Dentali, t I d tf n 

Labiali, p $ b B m 

Semivocali, j r 1 v 

Sibilanti, èia 

Anmsvdra, n 

Visarga, / : 

II. Per dar norma nella pronuncia a quelli cui non è familiare tale al- 
fabeto, noterò brevemente: 1.° che r f l sono vocali proprie all' indiano, 
partecipanti del suono delle consonanti latine adoperate a rappresentarle; 
2. 6 che le consonanti segnate di ' (<T, £ , ecc.) sono le aspirate, e si pro- 
nunciano come se fossero seguite da un' h tedesca ben distinta; 3.° che : è 
ut' aspiratone; 4.° che 6 e I si avvicinano a se italiano in sciensa; 5.° che 
e e g devou essere letti sempre come nell'italiano in cuore e gusto, e fi 
e g sempre come in cima e gelo, qualunque vocale gli uni e gli nitri pre- 
cedano; se quindi sono muniti di c (e, & ecc.), V aspirazione si fa sentire 
dopo pronunciata la consonante nel modo indicato mediante questi vocaboli 
italiani. — Mantengo fedelmente questo sistema di trascrizione anche pei 
nomi proprj ne 9 versi italiani; soltanto per r vi scrivo ri. 

ii. 

m. A recar l'alfabeto e la puntatone araba, ideai' il metodo che se- 
pie appresso. Ad ogni singola lettera dell'originale feci pur qui corrispóndere 
4 



52 TRASCRIZIOKI. 

una sola lettera latina, per modo tuttavia che, mercè brevi indicaiioni del 

valore de' vaij segni applicati ai caratteri Ialini, si ottenesse facilmente osa 

pronuncia prossima, per quanto si può, alla retta; e sperai, malgrado la 

complicata puntazione araba, una* trascrizione atta a ridare con sicurezza la 

ortografia^ originale, a chiunque abbia conoscenza dell'araba scrittura. — 

Accanto al nome d'ogni lettera araba ho posto tra parentesi la trascrizione 

ebraica che è in uso. 

1. é'lef ; [*} è indicato dal cfrettieBS* della vocale alili àierea- 
te; ove è quiescente, la vocale o consonante che 
immediatamente gli va innanzi, è grave ; se sta mi- 
nuscolo in luògo del fa t h a soltanto, dopo cui quie- 
scerebbe, la trascrizione serba il fa tha(a) grave. 
L'&'lef col M adda. £ trascritto fi, e suona « fango. 



2. bà ; 


,Pì b 


"• ; 


3. là 


,["] * 




4. |à 

5. gi:m 




simile a ih inglese, & greco. 
g italiano in gefo. 


C ha 


, ["] h 


eh tedesco. 


7. bk 


. fcl * 


aspirazione più forte dell'antecedente, simile alla 
seconda delle gutturali indiane. 


8. dal ; 

9. dal ; 




d the volge al sibilo. 


10. rà ; 


,Cì r 




11. sa 


fi « 


italiano in wlo. 


12. n:n ; 


P] » 


in scuola. 


13. ila 


; [*1 * 


se italiano in scevro. 


14. éàd 


, Pj 6 


ss ita]. 


15. dàd 


, [SÌ * 


d enfatico. 


16. fa ; 


Fi t 


1 enfatico. 


17. d% ; 


isa i 


ci enfatico che volge al sibilo. 


18. '.JD ; 


M « 


gutturale Ionissima, quasi impercettibile nella pro- 
nuncia. 


19. frjn ; 

20. A ; 


pi t 


g italiano di gaUo % alquanto enfatico. 


21. qàf 

22. kàf 

23. tta ; 


, Pi q 

,P] k 

Ù 1 





TSttCUZIOKL, 53 

24* mi:» } m m . ' 

3$. tutu ; p} uÈ trascritto 9 quando, « ansa essere seguita nella. 

scrittura da doppia (v. VII.), perde il proprio 

suono assimilandosi itila iniziale susseguente,' che 

' vien lette doppie. 1& me n la jl**, kggim*l- 

1 a i l e n* 

~ 26. M ; pf h aspiraxione più leggiera di avella del ha (0. n > 

27. Ai co % 2 pun- 
ti sovrapp.; fft] # 

: $8. ..irà* ; P] v che ha sempre , un , suon? prossimo all'affine, w- , 

> • cale «; ed « lo schivo quando è secpndo elemeotp. 
. d'un dittongo (j atim). Allorché il vàtt è quie- 
scente » ne indica la esistenza* 

28. Jè jf] j il quale, dalla particolar situazione, vie» talvolta 

il suono della vocale affine, t. Quando il jà è 
quiescente, : ne indica la esistenza. 

IV. lì fatha è sempre rappresentato dall' a; il kasra da e, oppur 
da i; '4 d'anima da 0, oppur da u. 

V. n Aamza è indicato dall' aceento acuto sovrapposto: I.° alla vo- 
cale inerente all' i'I e f Àamzato (p. es. ò'nzela); IL alla consonante in cui 
questo si trasmutò (p. es. suv'àlon); III.* al suono vocale [o al sito vacuo] 
rimasto dopo sparita la lettera cui egli apparteneva (p. es. jas-a'lu); 
IV. alla vocale della nunnazione (v. Vili.) che gli si accoppia. — Quando V à'1 e f 
Aamzato è quiescente, l'acuto rappresentante il Aamza sta sopra il gritare 
che annunzia (III, 1.) la quiescenza dell' l'i e f (fata?, jimorukom). 

VI. Il t a £ di: d è indicato dal raddoppiamento della consonante. Tali conso- 
nanti doppie si stanno più vicine l'una all'altra di quel che lo sieno alle altre lettere. 

VII. Un apostrofo equivale air l'I e f col va sia, lìef phe resta muto; due 
apostrofi di séguito equivalgono all' l'i e f col vaéla e al làm susseguente 
dell'articolo, quando ambo queste lettere rimangono prive di pronuncia.— 
Ove làm dell'articolo, senza esser il caso che l'I e f col vaéla lo preceda, 
o nutn finale (in caso diverso di III, 25.), riesconmuti (1**44* feri, ne* 
rr abbi Ai, leggasi leddekp? merrabbiAi), li metto corsivi. 

Vm. I tre tanvi:n sono cosi recati: on, «n, on • — La quiescente 
preceduta dal segno di nunnazione, se è à'Ief, è indicata dal grave sulla vo- 
cale di nunnazione (cfr. ni, 1.); se è altra quiescente, ve ne ha in linea il 
rappresentativo 0» dopo la vocale della nunnazione. 



54 TRASCRIZIONI. 

IX. Per non moltiplicar qui di soverchio le nome e gli esempj, ni 
riservo a dar spedale avvertimento quando occorresse di trascrivere qualche 
ben rara combinazione delia ortografia araba; e pertanto, a mostrar applicate 
le regole addotte, reco il principio del secondo capitolo del Corano: 

1. daleka Uketàbu là rajba fi: Ai hoàain lelmottaqi:na 2.'IIa- 
4i:na jui'menuitta be'lfrajbi vajoqi:mmna "ssalatla vamemmi 
razaqnàAom jonfeqnma 3. va'lladùna jatmennina berne 
6'nzela tflajka vani ò'nsela meo qablika vabe'U&erafi 
Aom juiqenwna 4. ù'ilaij'eka 'ala: Aoda:n men rabbiAem 
vaù'tlaij'eka Aomu Mmoflehutna 5. é'nna 'lla<}i:na Icafaru? 
navaàVi» 'alajAem tfà'ndartaAom fm lam ton<)erAom là jtu- 
menoiDa 6. catama "UaÀu 'ala: qoluibiAem va'ala: sam'iAem 
▼ s'ala: tfbiàriftem freiàvaio» valaAom 'acjabo» 'a<fi:mon 
7. vamena "nnàsi man jaqutlu imannà be"llaAi vabe'ljanmi 
'làceri vamà Aom bemui'meniina 

E il principio del cinquantesimoquarto: > 

l.tfqtarabati "ssà'aiu va'nàaqqa Mqamaru 2. vaé'n jaratk àja- 
tan jn'reoTnf vajaqutlu? aehron mostamerro* 3. vaka<J<)abm 
va'ttaba'uf à'AvaàéAom vakolln à'mren mostaqerrofl» 4. va- 
laqad éaia'Aom mena 'M'nbaàj ma fi: Ai mosdagaro». — 

ni. 

X. Nel trascrivere l'ebraico mi attengo, in generale, al sistema adottato 
per r arabo; (be:f, b; gi:mel, g; dalet, d; Aè, A; ybu, v, u secondo elemen- 
to d'un dittongo [I6i:n ft6ot*a:u Tgjt f VpteJ}], , quando è quiescente; aajin, 
x; he:f, h; le:f, t; jotd, j, i secondo elemento d'un dittongo, : qoiesc; 
ka/>, k; lamed, 1; me:m, m; nutn, n; fame*, f; 'ajin, '; pè, p; éadi:, é; 
qotp, q; re:i, r; si:n, s; si:n, i; tau, t). 6 è sempre da pronunciarsi come 
g italiano innanzi ad a, qualunque vocale esso preceda. -—Il dajeà forte è 
indicato come il taSdi:d arabo (VI.); il lene è rappresentato negativamente; 
scrivo cioè b, g, d, k, p, t, per 3, 3, % 3, B, B; le quali lettere, quando 
prive di dagei, sono rappresentate in corsivo: b, g, d, k, p, l. — B, K, 
p y T* prive di da ^es, si pronunciano quasi v, eh (ted.), f, d. — Le va- 
rietà d'una medesima vocale non appajono nella trascrizione. Solo Io 8 iva 
mobile semplice, e brevissimo, è distinto; fc 



Epica indiana. 



Ceni btorM al MakDrinb t prtkolaramlt Mono att* tpMiot JMla. — Teda, a Muìom itali» 
dai primi dieci capitoli 4i avolo, eoa illutrashmi. 



Di m a h à grande e Barata patronimico da Inarata ' ), 
componsi il titolo di queir epopea indiana, i cui centomila 
«distici sanscriti or si dispiegano innanzi alla critica europea. 
Inarata, a quanto narra la tradizione dell'India, discendente 
«la Pura, fu potentissimo re della dinastia lunare, domina- 
tore della terra tutta (sarvadamana, sàrvaBauma); 
« siccome dal celebrato nome di re Pura venne ai successori 
l'epiteto di Paurava (Puruide), parimenti da B'arata si ebbe il 
^patronimico di Barata, di cui nella tarda posterità menavan vanto 
ancora i principi dell'India. Cura, varie generazioni dopo Barata, 
«continuò la dinastia lunare, e da lui i successori si chiamarono i 
Cura, o Caurava, o Cauravja. La più ampia genealogia esposta dal 
MahàBàrata riferisce che un Caurava, di nome Viéitravlrja, 
figlio di éantanù, venne a morte senza prole; cosicché la 
gloriosa dinastia pareva dovérsi estinguere, e il trono deserto 
dava forti apprensioni. B43ma fratello di Viéitravlrja era bensì 

*) Onesta etimologìa che dà il senso di Gran-Barateide, mi pare da pre- 
ferirsi ad ogni altra, (v. qui più avance Bopp> Arguna's Reise $. \\ 
Lassen, Ind. Ali. I. 486.) ed è appoggiata dall'autorevolissimo gram- 
matico indiano Papi ni (IV, 2. 56. citato da Lassen ih. 691.) quand'egli 
dice: chiamarsi Barata la pugna ove pugnarono i Barata. (y.Bopp 
kL Gr. $.579; gr. cr. §. 647.) — Col patronimico Barata s'intitolò 
qualunque cosa ragguardevole si riferisse ai Baratidi; sia la pugna, sia 
il poema intero, sia anche un racconto particolare, relativo al soggetto 
delT epopea; e per metonimia pure uno squarcio d'altro soggetto, innestato 
alla Gnm-Baraieide. — 



56 DEI PANDAVA 

superstite ed al timone dello stato ; egli però non solo aveva 
fatto voto di castità rinunziando alla successione, ma non 
poteva in verun modo ottenere discendenza umana, per esser 
desso l'incarnazione di un semi-dio 1 ), e generato da una Dea. 
Viveva ancora per ventura la moglie di re éantanu, Satja- 
vatl (dotata-di-verità), che il pio Paràsara aveva fatto madre 
di Vjàsa»), prima ch'ella si fosse unita in matrimonio al Caurava. 
Satjavatt ricorse adunque a Vjàsa, che dal lato materno rie- 
sci va fratello del re defunto, e colFassenso di Bosnia lo eccitò, 
secondo la legge del levirato *J, a procacciare discendenza a 
Viéitravlrja. Vjàsa acconsenti, e, per parlar con frase indiana, 
gettò semente nel campo di quello, per modo che ne nacquero 
Durastra (dallo-slabile-impero) « Pà^du (il pallido, bian- 
co-giallastro). Dall'ancella d'una moglie di Viéitravlrja ebbe 
ancora Vidura, il saggio, e, generati questi tre figli, il santo 
sapiente se ne ritornò all'eremo suo, riserbandosi di apparir loro, 
quando gravi frangenti avessero richiesto il divino suo consiglio. 
D ; rtaràstra f nato cieco, non potò aspirare al trono; il 
quale fu occupato da Pà?du sotto la reggenza di B'iéma, che 
prese a curare i figli di Vjàsa come proprj. Illustri si resero 
i tre giovani per la eccellenza dell' educazione; e B4£ma a 
perpetuare la cospicua prosapia, fece che tutti e tre pigliassero 
moglie. Dei cento figli che D'rtaràs$ra $bbe dalla consorte Gàn- 
d'art, fu primogenito Durjod'ana (malo-battagliere) che nacque 
nel di medesimo in cui vedeva la luce tra inqspite terre il 
secondo figlio di Pàntfu. Questi cioò dopo qualche guerresca 
impresa gloriosamente compiuta, sia per amor alla caccia sia per 
darsi, qual eremita, ad una vita penitenziale, (poichò intorno a 

') Era l'incarnazione d'uno de' Fotti, sai; qnali v. HUnstr. al Natan. 9 100. 

*) Vjlaa è reputato dagl'Indiani l'ordinatore dei Veda • e l'autore del MahàHàrata. 
Mentre però il nome di lui viene a indioarci Y ordinamento (delle tra- 
dizioni), l'etimologia oi addita in eoa madre quasi una personificazione 
della verità; e chi pur ai limiti a rapidamente deliaeare oneste antiche 
leggende senza lasciar la lettera del testo, non può non soffermarsi a 
notare oome qui l'allegoria con più evidenza che mai ri manifesti. 

' ò j Nel libro nono del codice di Mann (4L 58-68) ai hanno le regolo per 
il levirato indiano. 



■ tm coiti. 57 

eie Variai], come suole, le tradizioni) erasi ritirato in aspre regioni 
montane; e Durastra aveva dovuto assumere le redini del 
governo, assistito da Blàma. Canti e Madri mogli di PAqìJu 
accompagnarono il consorte nel nuovo soggiorno, ove nacquero i 
cinque Pacava, figli soltanto nominali diPàgdu, avendoli con-» 
oepiti le mogli di lui da celesti imenei. Primo venne al mon- 
do Judiàfira (saldo~alIa-pugna) figlio di Conti e di D'arma, Dio 
della giustizia; né il Pflqcjava primogenito ismentl la origine 
sua, giacché lo troviam decantato qual cTarmaBrt sostenitore 
dei-diritto, «far maràga, re di giustizia. Cuntt ebbe poscia 
da Vàju, Dio dei Venti, IMma il forte dei forti, detto pure Blmase- 
na » ); e terzo, da Indra principe dei Celesti, Àrguna s ) il valoro- 
sissimo, per la cui discendenza si mantenne la dinastia deiP&cuJava. 
Nacula e Sahadeva chiamaronsi gli ultimi due, <T importanza 
minore nell'epopea; figli dell 9 altra moglie Màdrt e degli Aévin, 
che son gemelli di perfetta bellezza, medici degli Dei 3 ). 

Venuto Pàpdu a morte, non molto dopo alla nascila dei 
cinque Pàrujava, Madri sali con lui il rogo funereo. Cuntt 
sopravvisse, e vegliando alla conservazione dei cinque figliuoli, 
eoa loro si recò a Hàstinapura 4 ), presso lo zio D'rtaràgtra« 
I Pacava, accolti in corte da questo, furono istrutti unitamente 

] ) 6 1 ra a , tremendo ; B 1 m a s e n a , dal? -esercito-tremendo* 

l ) Arguii a vale albeggiante, ed è perciò affine al senso di pàfcdu (v. la 
pagina antecedente). Lassen lo tien per metatesi di raguna, radice 
r a R g colorire, r I g splendere, rammentando regata argento (argentoni, 
aoyvQog ecc.), e l'etimologia par felice; soltanto mi sembrerebbe di 
ricorrere unicamente a rag splendere coìr 4 abbreviato (cfr. ànitra, 
da suft splendere, che vai splendente e bianco)-, e non a raffg che 
piuttosto dà racta rosso e simili.— Bopp: ut videtur a rad. ar£ 
[acqtùrere, facere] y suff. una. 

*) Ltssen, Ind. Alt I. 638, notando le relazioni tra le qualità dei Pappava 
e quelle degli Dei cui si attribuisce la loro nascita, osserva che a primo 
aspetto poco evidenti sono tali rapporti Tra gli Asvin e gli ultimi due 
Mudava. Ma ve n'ha uno di evidentissimo che sembra sfuggito al va- 
lente indianista, perchè Nacula e Sahadeva aou gemelli e leggiadri pur 
dessi. Nello Svajamvara (Journ. As. 1839. Marzo p. 241.), Arguni 
annovera i Pfindava così : JucTiàfira, B'Ima, sé, Nacula e Sahadeva; e riepilo- 
gando dice: a B'ima, io, e i due gemelli, ecco l'ordine,» v. pure ib. 226* 
231. ecc., e 1842. Genn. p. 41. - Degli Asvin v. avanti, p. 90, 

4 ) Città-degli-elefanti, detta anche Nàgapura che vale il medesimo. 



53 MI PA9DAYA 

ai suoi proprj figli, da Crpa o da Dro«a, Bréhmaga Tao e l'altro, 
che non valevan meno in faccia all' inimico di quello che a 
interpretare i Veda. Ed i figli di Panda crebbero grandi in 
virtù come in sapere, valorosi in arme ed amati dai popoli; 
per modo che, dopo breve tempo, Dilartàtra indotto e dai pregi 
di JudiSfira e dall'affezione che i sadditi per Ini nutrivano, lo 
nominò ano successore, juvarftga, giovarne re. 

Abbiamo di sopra veduto come Cauravja valga incendente 
da Curu, Coroide; e perciò questo patronimico non meno 
proprio sarebbe ai figli di PAQdn? che a quelli di Dilar&àfra. 
Si suol però restringere ornai tale denominazione a questi 
ultimi, distinguendo gli altri con quella di Pannava 1 ); ambe 
divenute celebri per la lotta che più tardi scoppiò fra gl'in- 
dividui cui si attribuirono, e che formò l' argomento capitale 
della nostra epopea. La quale assumendo il nome di Gran- 
Barateide volle probabilmente rimontare ad un patronimico 
che senza equivoco comprendesse ambo le parti contendenti*), 
e che fosse venerato dall'India, siccome quello onde il pae- 
se stesso, stando agl'indigeni, si nominò 3 ). 

Saliti i Pacava a tanta potenza e venerazione, non 
poterono non destare la gelosia dei figli di D^rtarft&tra, che 
si erano per un tempo abituati a veder sgombro il soglio 
avito di PàQdn e de 9 suoi. Debole e cieco, D'Ttaràstra cedette 
alle male insinuazioni del figlio maggiore, Durjodana, invido 
più degli altri, e inimico personale di B'fma* 1 Pacava colla ma- 
dre Cunlt furono relegati a Vàrav&vata sul Gange 4 ), otto giorni 
dalla capitale; ma il feroce Durjodbna non pago di ciò, aveva com- 
messo ad un suo fido,chiamato Puroéana, di farli tutti perire a tradi- 

') Non già che nel Mahfiftàr. i Pannava non sieno detti spesso: Curo, ram- 
pollo di Cora, Cauravja e simiglienti, (v. p. es. Ar£unasamàg. V. 5; 
X. 25, ecc.; nel nostro episodio stesso V. 31. fcfr. 27.]—). 

*) Nel MahàMrata, ugualmente i Pàn<Java e i Cura son chiamati 1fàrala\ p. e. 
B'agavadG. I. 24, ove si parla a un Cora, e Naia V. 10. dove a un 
Pèndeva. 

*) B'àrata^India; v. As. Res. Vffl. vii. 

*) Lascio scrìtto, per eccezione, all'europea onesto nome tanto famoso; in- 
dianamente si deve dir Gafigi, ed è feminile. 



e do cuna. Sg 

mento in meno «Ile fiamme. Vidima, il terso figlio di Vjtea, 
eie sempre troviamo virtuoso consigliere di moderazione e 
intento a proteggere i P&pdava, svela ai nipoti l'infame di- 
segno; aHora i Fatava ptessi appiccano l'incendio, Puro- 
fona vi umore, essi fuggono, e mentre tutti li credono estinti, 
valicano il Gange e 'S'internano nello selve. 

Popò un anno polo di tranquilla dimora in VAra^ftvata, 
si ritrovavano ramipgJu : per boschi orrendi, ove il forte dei 
forti, filma, vegliava con amorqso valore alla difesa dèi suoi» 
Hìdimba, antropofago, re dei RàcSasa*), che infestava quelle 
selve, moti per mano di lui. Andarono' dappoi i Pannava 
errando da foresta in iòrésta in sembiante dì Brfthmsga; e si 
ridissero in fine alla città di Betonerà. Qai stanziarono lungo 
tempo sicuri, ricettali da un povero Bràhmaga; ed in Quelle 
vicinanze altro gigante antropofago, di nome Vaca, fu prostrato 
da BHma, mosso ai lamenti dell'ospite suo, cui era venuta la 
velia di satisfare alle ingorde voglie del mostro*). Serbando 
le foggio dei Bràhmava, vivevano piamente, approfondivano 
la scienza dei sacri libri, e si sostentavano di elemosine. Vjftsa 
che ne 9 boschi si era già manifestato ai nipoti per consigliarli 
ili fissar dimora in Eeaéaert, riapparve loro in questa città 
eelf annunzio che Draupadt, figlia di Drupeda potente re dei 
PaBéftla, la quale era per scegliersi «no epose, doveva per éolerè 
telerie esser moglie dei cinque Pàrujava*). Questi abbando- 
nano £caéacrft, si attaccano per via D^aumja, br&hmaQe, qua! 
sacerdote consigliere {paro hit a), e, giunti alla capitale dei 
Palétta, per la valentia d'Arguna ottengono la bella Draupadt, 
come Vjàsa avevo predetto. ( 

L'alleanza che tale consanguinità seco recava e Y ami- 
cizia che congiunge va i Pacava a Cr^a 4 ) re dei Jàdava, in- 

] ) V. k nata 26. al Naia. 

*) n Sig. G. Fischia dì Torino diede ma remane italiana delT episodio: 

La morie di Vaco, Torino 1848. 
*) Non se ne deduca nna sanzione della poliandria, o un indino di simile 



*) Cfi^a, vai nero, violaceo. 
4 1 



80 SCI FAKDAVA 

carqaziono del Dio Viftpu, rendettero i Pacava bea presto 
foitòfttabilL. I Cauravja dal loro seggio di Hfistinepura ne senti- 
r^o gelopia, ma la prudenza vietò di dar mano all'arme, e 
indusse DYtarftgtra a cedere ai nipoti metà del regno. Sul 
fiume Jamunà surse allora Indraprasta 1 )* capitale dei Pàrjdava, 
che non tardò a gareggiare colla vetusta città degli Elefanti, 
e per il culto delle scienze e per la possanza dei PAgdava, 
il cui dominio si andava sempre in più per le conquiste in- 
grandendo. Durante questo splendido periodo, Arguna dovette 
separarsi dai suoi, e recarsi a passar dodici anni in peni-» 
tenza nelle selve. A tal pena lo condannava la infrazione da 
lui recata ad un patto (concernente Dratipadl) che: i fratelli 
avevano conchiusq; ma questo pellegrinaggio gli diede oc** 
casione d' incontrare nuove nozze, che lo legarono d' affinità 
a Cr$pa, il quale a lui portava particolare affetto. Crioa 
s'era fatto il buon genio dei Pacava; dopo 1' elezione di 
Draupadt li aveva accompagnati col fratello Rama*) ài nuo- 
vo soggiorno, assistendoli fin ch'ebbero fondata Indraprasfa; 
egli ci si offre nuovamente presso a loro, scorsi i dodici anni 
della condanna di Arguna; e pur quando i Pacava si videro 
giunti a tanta altezza, che Judìéfira credette poter aspirare alla 
dignità di Samràg 8 ), compiendo il grande sacrificio detto rè ga- 
sùja, dove i re vinti ministrano al sacrificante. 

La mala sorte . nel giuoco, se crediamo alla tradi- 
zione , precipitò i Pacava dall' apice della gloria e della 
potenza. I Cauravja sempre astiando l' incremento e lo splen- 
dore dei rivali, invitano Judìgfira a giuocare; questi accetta, 
e perde sé stesso, i fratelli, la moglie, i tesori e l' esercito, 
contro a éaconi, cognato di D'rtarààfra, che ribaldamente giuo- 

*) Da Indra, Dio del firmamento, e prasfa tt planities in monti» vertice.,, 
È detta pure Ci n d a v apra sfa, da Conciava, la foresta ove i Pin- 
zava la fondarono. L' incendio di questa selva e la lotta sostenuta contro 
f l'infesti suoi abitatori, Tengono più tardi ad accrescere la gloria d'Argon. 

*) Questo Rima non è identico all'eroe dell'altra epopea, il Rlmàjana. 

*) Da sani con e rìg r*, quasi molti re in uno si concentrassero. È detto 
nel Hahftftarala che il Re dei Re, coi la terra tutta è soggetta, quegli 
ha raggiunto il s4arì{ja. 



* dei ctmir. Ci 

cava per Dmjoffana. Durastra, atterrito da sinistri presàgi, 
s' mtramette ed attenua di molto la perdita di JncTlg£ra, che 
ritorna al suo regno. Ha, quasi trascinato dal destino, al se- 
condo invito JucTiéfira non si rifiuta; ed accetta la sfida che 
condannava il perdente e i suoi ad abbandonare il regno, a 
viver dodici anni nelle foreste e tenersi celati ad ognuno 
durante il decimoterzo, per ricuperare jnel decimoquarto il 
dominio; che se poi fossero nel teraodecìmo discoperti, per 
altri dodici s'intendesse prolungato f esilio. Judfó£ra soccombe, 
ed ecco Durjodhna, il Cauiwtja, inalzarsi sulla rovina dèi 
Pacava, che per la tersa volta accompagniamo all'aspro pelle- 
grinaggio 1 )- Pe* le selve di CAmjaca e Dvaitavana passarono i 
Pacava dodici anni d* esilio, vivendo come al solito di emoia, 
e ancora in veste da anacoreti. Bfma uccise altro gigante; 
Àrguna Qfebe armi dal Dio Éiva 9 dal Die delle acque, dal 
Dio ideila morte e dp quello deDe dovfeie, ed ottenne di 
Visitare Indra suo padre nel propria aitilo* Molti Bràhmarja 
si unirono agli esuli; Cr&gta colle sue gGtitf, ed altri poten- 
tati li visitarono; e un superbo re che, attraversando quei 
boschi con splendido séguito, aveva osato rapire Draupadt, 
ebbe a soffrire dai Pacava una piena umiliazione. 

Volgeva al termine il duodecimo anno dell* esilio, quando 
D'arma Dio della giustizia (cui sappiamo vero padre di Ju- 
dlèfira) si manifestò ai Pacava per conceder loro di vivere in- 
cogniti Fanno tredicesimo, nella capitale di Viréta re dei Hatsja. 
Abbandonando la foresta essi accommiatarono quindi DHiumja 
loro purohita ed ogni altro del séguito, si rendettero alla 
città indicata spacciandosi per addetti a JucTiSfira, e con finti 
nomi assunsero varj uffici nella corte del re dei Matsja. 
Non tardarono a segnalarsi pur qui. I Caurava, quantun- 
que ignorassero il domicilio dei Pacava, mossero guerra 
al re Virala, alleati siccom' erano al re dei Trigarta inimico 

l ) Alla loro nascita il padre si trovava in pellegrinaggio; discacciati neUa 
loro gioventù da Hìstinapura subirono il secondo; questo è il taqo per 
quattro Pinzava ed U quarto per Àrguna, che anche durante la gcan- 
deua della famiglia vedemmo averne incontrato uno. — 



6% ma P ANDATA 

di quest'ultimo* Re Yiràfa.armò amiche i Pfifeda*** e urie** 
mente dia loro prodemsa dovette la vittoria; At&vm che 
serviva in corte qual eunuco in veste da domai, getta all'ape 
prossimali del pericolo gli ornamenti feminili, impiglia il 
formidabil arco, rivelai al figlio del Ref so stesso^ la moglie 
e i fratelli, ma l'inimico tremante allò stridore dell'arca iri-t 
vincihile, non ha d'uopo eh 9 égli si nomini per ricónoEtecrio 

Breve tempo rimangono incogniti i Pacava dopo ter-" 
minata la guerra. Virata «iHfando un^p^o nell'aula, scorge 
JurfiSfira, cui egli pochi di in*»» aVeVa ìti&ltato, Splendente 
in regal seggio circondato dagli ri*** Pacava. Scuoprèndò 
quagli illustri ospiti egli avesse accolto. Virata si gloria di 
darla figlia al figlio d'Arguna (ABimtìnju) v e, rtretta alleane* con 
Judiéfira, gli cede il regno. Signori dei Matsja, confidenti nel" 
r ajuto di CrM venuto a godere delle, loro gioje, ulteatì 4i 
PaBéàla sudditi del suocero loro e ad altri popoli àncora, i 
Pà&dava risorgono patitissimi e si accingono a ricuperare 
armata mano il dominio, nel quale i Canravjà non si mo- 
stravano più in-'^cun modo* disposti a rimetterli 1 ). 

Formidabilmente ambo le parti si preparano al conflitto* 
non interrompendo i guerreschi provvediménti alcune amba- 
scerie indarno scambiate. Le schière si Avanzano quinci e 
quindi, e stuoli innumerevoli d* aratati vengoho alle mani; 
B'ìgma capitana l'esercito dei Caurava e dei loro alleati; i 
Pàvdava fanno prodigi di valore alla testa delle proprie mi* 
tìzio e di quelle che i popoli amici hanno mandato a pugnar* 
per la loro causa. À nessuno secondo, Arguii*, il terrerdei 
nemici, sfolgora indivisibile da Crésta che gli serve dà auriga* 
La zuffa dura dieciotto giorni; i Gaurayja peritala Pan 

*) Quando nel campo dei Caurava ai credette riconoscere Arguna, com- 
* battente per il re dei Matsja, DurjocTana si confortava con dire : a Se 
questi è Arguta, hommi raggiunto Io scopo; i Pannava- sono scoperti, 
ed altri dodici anni dovranno errare per la foresta. „ v. Goharana V. 
in fine; Journ. Asittique 1839, giugno, p.484. — È aerittopérò (Ma* 
nifi. V. 2280-2) che i Pinzava fosser vissuti incogniti durante Tanno 
decimoteno, e quindi legittimamente ricttedeasero il dentine net de- 
cimoquarto. 



s w cw, 65 

dopo l'altro I più celebrati eepitfiai; Dwje4aia,il prunege-t 
Dito di D^rtófàà^a^ muore per mano di Bima; tre poli fedi-* 
vidai 1 ) soprar vivono di tanti re, di tanti guerrieri e popoli 
pugnanti per i Canrfevja*); ma questi tre., assalito di notte 
il campo del Pàjtfava lineanti, vi menano alla lor volta strage 
tale, che vivi ne rimangono i cinque Pacava soltanto^ Cffr* 
e Jajadàna 3 ). 

Il Vecchio D^rtarflàfrat udita la morte de 9 suoi, abban- 
dona la capitale per recarsi a prestare agli estinti i funebri 
uffici. I Pàftdara s'avanzano verso Haatioftpnra; Vjàsa e CrS^a 
ai adoperano a riconciliare gli avanzi della famiglia, e Ju- 
cGéfira, preceduto da D ; rtaró$ra, fa il suo ingresso solenne 
nella capitale. Riceve da ogni parte omaggi; Citila pone sul 
capo a lai ed a Draupadt la Corona regale, ma, risplendente 
di gloria nel trono incontrastato, Judtffift riconosce tuttavia 
r autorità del fratello di suo padre, del cieco D^aràètra* — 

Ecco brevemente accennata la concatenazione dei più 
ragguardevoli avvenimenti òhe si riferiscono alle dissensioni 
ed alla lotta fra i Pacava ed i Guru. La descrizione di queste^ 
forma, come già si notò, il perno del Mah&Bdrata, il quale* 
dopo il ristabilimento dei Pacava in Hastinftpura, continua 
a narrarne le gesta, conducendo fino alla lor mortef, del pari 
che a quella di D^arfiStra e di Cr'sna. Paricslt e (? anamegaja, 
padre tì figlio, succedono Pun dopo l'altro a re Judfjfira «}• 

') Àivatt&man figlio det bràhmanà Droga che ci è boto dall'educazione dèi 
Placata; Crpa, il nrftèmaneche nella medésima occasione abbiamo co- 
nosciuto, e Crtavarman, prìncipe d'alcune tribù dei Jidava. I cento figli 
(y. p. 56) di D'rtarfótra muojono tutti ; J u j u t s u (bramoso-di-pugna) però, 
ch'egli ebbe (non da Gàndfrt) oltre i cerilo, lo vediamo in azione anche 
dopo la battaglia (M. B. IH. Strlparvan X1L ecc.), favorito dai Pinzava. 
B'iima cade bensì nella pugna, ma non muore immediatamente. 

*) V. però Strìparvan XI. (Journ. As. 1842. Genu. p. 35). 

*) Dei Jadava egli pure ì quali quindi combattevano parte sotto il vessillo 
dei Pannava e parte sotto a quello dei Curu. Sàtjaci ò altro suo nome; 
è l'eroe deiSàtvata. I cinque Pannava e Grana erano assenti nel mo- 
mento dell'assalto notturno. (Saupticaparvan Vili, in fine). 

') Dell'istoria dei Pannava ohi avesse desiderio di più sapere senza poter 
attingere allo fonti, consolli Vlndische AUerthumsktmde ài Lassen, L 



64 de* PAWBAtA tua cima 

La tradizione figura che, All'occasione d'un sagrifleio augnino, 

il poema, òpera di Vjàsa, fosse recitato 4a Vaiiampàjanà, 

discepolo di lui, inanzi a G'anamegaja, pronipote d' Arguna. 

Ugraérava figlio di Loraaharfiana avrebbe ripetuto il poema 

davanti al Bràhma^a Saunaca, parimenti durante un solenne 

sagrificiOr 

La gara dei Pacava e dei Cara occupa però un quarto 
appena del MaMB&ràta; gli altri tre si compongono di episodj, 
che più o meno spontaneamente si attaccano air azione prin- 
cipale. Son questi di un contenuto il più vario; dall'apologo, 
alla disposizione legislatoria ; dai soavi canti che confinan 
colla lirica, alle più serie digressioni filosofiche e teologiche. 
Il MahàBArata stesso ci annunzia essere sno assunto d' istruire 
nel buono, nel vero, e nel bello, ed essere in lui la base 
d'ogni narramento. Egli è il grand 9 itihft,sa, la narrazione per 
eccellenza, P à è j à n a lussureggiante dinpàòjàna, 1 ) la 
vasta istoria degli avvenimenti ai quali è convissuto ed ha 
cooperato il narratore, intessuta di racconti i più svariati d'ogni 
intorno raccolti, per erigere questo stupendo monumento alle 
tradizioni dell'India prisca. 

Mentre rimando alla Introduzione della Raccolta (p. 45. n.) per qualche 
scarso cenno intorno all'antichità del MahlBArata, e ricordo le citazioni dell* 
nota 4. nella pagina precedente a chi bramasse d' essere informato con* la 
critica europea, per cavare frammenti almeno di vera istoria, abbia cominciato 
a spogliare della sua mitica veste il racconto della tradizione: tocco ora 
dell' upàèj dna più celebrato, quello di Naia e Damajantl, parte del quale, 
testo e traduzione, terrà dietro a questi cenni preliminari 

Vedemmo come Judiàfira, perduto al giuoco il regno, avesse dovuto 
ritirarsi nelle selve. U brlhmana Vfhadaéva, che lo accompagnava, gli narra 
per consolarlo V istoria di Naia, che similmente in conseguenza del giuoco 
era rimasto privo di regno e tesori, di moglie e di figli, ma che pur tutto 

626-707; nella qual opera dei poemi epici particolarmente si tratta nel 
T. I. 478-499; 837-839; T. IL 493-501. 
*) Itihìsa $toria di remote età; àcjina narra%ione\ uptcjftna iwr- 
ra%ione secondario, episodio; da upa e ftfcjfina, eolla relazione in ani 
, sta upastri concubina a atri [emina. 



DEI. tULA* SS 

«reva k fine naoquisUto. Cori si annoda all'epopea questo episcMÌio prtiioso, 
il col telo, ebbe dee edizioni in Europa pria» ancora che il lUMftàrata in* 
taro fosse pubblicato 4a torchi inglesi nelT India *)• Ambo queste edi- 
zioni ai devono a Francesco Bopp, fl fondatore dello stadio del sanscrito in 
Germania, l'untore celeberrimo della G ram m a t i ca comparativa. La prima fide 
la luce in Londra nel 1819; la seconda in Berlino nel 1832; un manoscritto 
di Parigi e varj jdi Londra, formarono la suppellettile critica del Bopp, Dei 
lavori di quest'ultimo, e dell'edizione calcnttense dell 9 intero Mahloarata, si 
servi Ottone Boehtlingk nel riprodurre I 9 episodio del Naia in capo alla Cre- 
stomazia sanscrita da lui pubblicata a Pietroburgo nel 1845*). Sì alla prima 
che alla seconda edizione Bopp uni la traduzione letterale latina; nel 1824 
egli medesimo diede un saggio di versione tedesca (Canti IX - XIII) nel me- 
tro dell'originale,, all'occasione <«he pubblicava altri episodj del MahàMrata 8 ); 
Kosegarten *ià nel 1820 aveva offerto V episodio intero in tedesca pari- 
ci Non fu lieve impresa la pubblicazione dell'epopea colossale. Nel 1835 ne 
era stampato un volume per cura del comitato d'istruzione pubblica in 
Calcutta; ma il governo avendogli allora fatto sospendere il lavoro e ri- 
tirati i fondi necessarj, la società asiat del Bengala residente a Calcutta 
continuò e compi l' edizione che forma complessivamente quattro volumi 
in quarto, oltre all'indice. Nel 1840 Mobl riferiva alla Società asiatica 
di Parigi che si era data mano alla stampa di quest'ultimo. 
*) Per il testo mi servii dell' edizione berotinense del 1832, consultando pure 
la petropolftana. La Crestomazia or nominata è commendevolissima e per 
la scelta dei pezzi, e per la maestria del collettore che ne curò l'edizione, 
e per il modico prezzo ohe la rende accessibile ad ogni studiosa Mentre 
scrivo ricevo la notizia consolante che il Boehtlingk ha cominciato la 
stampa del suo dizionario sanscrito, il quale, a giudicarne dal primo fo- 
glio, sorpasserà di gran lunga l'estensione del Wilsoniano. 
) Supposto il numero 1 al nostro episodio, continuo annoverando queste 
pubblicazioni boppiane: (2) Indralocagamana, il viaggio d'Argon* 
al cielo del suo genitore. (3) Hidimbabacfa e (4) Brlhmana vili ps, 
che si riferiscono all'uccisione dei due giganti Hidimba e Vaca, vinti 
da B'ima. (5)Sundopasundopàcjàna, episodio narrato ai Pappava da 
Nftrada per raccomandar loro che di Draupadt non facessero argomento di 
discordia. — Aggiungo poi menzione d'altri squarci del M ahftbftrata, pubbli- 
cati in Europa oltre (6) la B'agavadgttft, poema filosofico di cui ci 
avverrà di trattare a parte. Dal medesimo Bopp nel 1829 si ebbero: (7) 
Matsjopdcjàna, breve descrizione del diluvio; (8) S à v i t r j u p I e j à n a, 
bell'episodio dove si narra come Sa vi tri, sceltosi a sposo Satjavat, 
avesse colla sua virtù ricuperato al suocero il trono perduto e recato prospe- 
rità allo sposo, ai genitori di questo ed ai proprj, alludendosi a Draupadt 
che similmente avrebbe operato a prò dei Pannava (YU, 15.)* (9) 



€6 DEL «ALA. 

menti imitando il verso sanscrito, ed altrettanto leee Bepp atteso nel 1838 1 ). 
hi «Uro metro avevi impreso ROckert nel 1628 a vestire germantcftaaente il Naia*), 
e da ultimo, nel 1847, Ernest* Meier* professore m Tnbinga, n* mandò «Ila 
luce a Stoccarda una versione tedeeoa in istrofe nbehingìaie*)» 

fi nostro poemetto è pnre recato in «lare lingua d v Europe v ed in India 
piace tanto che «oltiptki ne sono- le imitamoal, al in* fingo* indiana viventi 
e ai nel sanscrita dei tempi posteriori alla compilazione delle epopee 4 ). Moa 



Draupadlpramàfa, il ratto di Draupad!, e (10) Àrgunasamftgama, 
dove Arguirà ritornando dal cielo tT*ndra ira i fratelli, canta dell* armi 
concesse a Jwdagii Dei, del ano soggiorno e dette ine imprese in celeati 
regioni. — (1J) éacun tal opàcjàna, episodio di éacuntala, edito da 
Chézy in appendice al dramma di quésto nome. (1 2) G' a m b u e a n 1 1 i, 
favola (l'astuzia deHo eciacaffo) narrata « D'iiarlitra; fa parte dell' jto- 
thelogia $*n*cri#ca di lasfen, p. 4,5-48,^- Nel pitfnab detta società 
asiatica di Parigi abbiamo la traduzione francese (senza il testo) dei 
pezzi segnanti: (13)Svajanvara, la scelta d'uno sposo (per Dranpedì), 

1839, Marzo, 218-246; (14) Frammento dal G oh ara na, oveArgunasi 
rivela n Uttara figlio di Virala; 1839, Oiugno, 465-498. (15)Sanpti- 
caparvan, il decimp lit>ro del % B. descrivente l'assalto nettarne dato 
dai tre seguaci superstiti, de' Cura al campo dei Pjnd&va vittoriosi; 

1840, Novembre, 431-466, e 1841, Gennaio, 7Q-92; tradotti questi tre 
dal Pa vie. — (16) Strtparvan (Xllibrej,ilG'ai«pradAnica; trad. di 
Ed. Foucaux; la scena è dppo la battaglia. (1842; Gena, 5 e aegg.; Marzo, 
259 e segg.) Il Prof. Brockhaus (Zeit. der deutech. ex Gea. 1852. p. 
531.) pone il G'ajapradànica nel decimo libro anziché nel undecimo, detto 
Strtparvan, (StrlviUpa) l^ro delle donne y del kmentQ delle donne, 
perchè vi primeggiano le querimonie delle donne cfce piangono gli estinti 
delle tremende dieciotto giornate. — T. Beoiey (Corea*, aus Sanskritwerken 
Lipsia 1853) ha (17) l'Amboptcjtua, Episodio di Amba. Ambi è 
la figlia maggiore del re di Casi, di cui le ajtre due furon da BlSam 
procacciate in mogli a Vióifaravìrja. 

2 ) V. Ernesto Meier, Nal und Damajanti, p. YIL 

*) Rùckert è ben noto per la sua versione delle Maqaatàt di Hari:ri: (1 826); 
egli ha tentato altresì, ma non daJT originale, un volgarizzamento 
tedesco dello Si-king cinese; 1833. v. Journal a*. (XU) 1833. 
p. 480. 

*) Cioè ad imitazione delle strofe dell 1 antico poema germanico Per Nibe- 
knge% Lied. Una strofa comprende due éloca; ecco la prima: Es war 
eia Kdnig Naia, - Dea Virasene Spross, - Schòn, hochbegabt end michtig, - 
Vertraut mit Wagen und Ross; - Die Herrscher flberragend - Wie 
Indra die Gótterwelt, - Und alle «berstrahlend - Wie die Sonn'am 
HimmelszelL 

4 ) V. la prof, della seconda ed», del ifefc*; Berlino 1832. 



DEI. ff ALA. <ty 

è, eh* io sappia, fatto ancora italiano queat' aureo episodio, che ha de- 
stato l'ammirazione pur di moderni poeti europei (v. più avanti n, MI); 
nolo dei primi cinque canti ha tentato una traduzione in isciolti V erudito 
milanese signor Pietro Maggi (Milano 1847). Delle ventiaei brevi letture oud* 
si compone, escono ora dame voltate dal sanscrito in italiano le prime dieci* 

n lettore tollererà che poche volte io pure mi soffermi alle rsr0 
bellezze di questo poema in mezzo alle note fikh-mUo^archeoloffickp che 
pubblico colla traduzione. Alle quali ho voluto dare maggior estensione 
di quanto comprendimento del testo rigorosamente chiedesse, essendomi 
sembrato ubi cosa nello scopo della Raccolta |' introdurci con quelle 
Meli 1 India più innanzi di ciò che fosse indispensabile per gustare il fiala* si 
perchè esse renderanno al lettore più agevolmente familiari altre opere in* 
diane» e si perchè la loro ampiezza permettendo di rimandartelo in avvenire 
pie spesso che non l'avrebbero fatto troppo anguste dichiarazioni, quest'aro» 
piezza, che può parer ora soverchia, avrà non soltanto tolto l'aridità, ma ri* 
sparmiato altresì ripetizioni, e giovato coir annodare passi che vicendevole 
mente si rischiarino. Mercè copiosi repertori alfabeticamente ordinati che tratto 
tratto riassumeranno il contenuto della Raccolta, il lettore potrà consultar? 
le molto notizie sparse in siffatto modo sull'India antica, con uguale od anzi 
maggior comodo che se io trattati speciali fossero disposte. Simile ioten* 
Amento mi ha indotto a discorrere in questa prefazione delle storie dei 
Pinzava e dei Curo ben più di quello che fosse di stretta necessità * 
manifestare l'occasione del Nala\ perchè mi parve provvida misura preparare 
Un d* ora la cornice storica ove agevolmente si potessero accomodare altri 
squarci tratti dal MahàBIrata, che venissero successivamente ad arricchire la 
Maccotok 

Beatami a dire dei principj che mi guidarono nelle traduzione. La volli 
fedele cosi che se pur non valesse come la boppiana quasi di glossario* 
aoccorresse tuttavia validamente chi per studio del testo sanscrito si ateo* 
«tasse al Naia, II quale è semplice nello stile come Io è iq generale l'epo» 
pea, e non è irto, come altre poesie* di quei tratti che hanno un ca* 
sattere troppo esclusivamente indiano per non offerire gravi difficoltà a chi 
non è ben addentro nello studio dell' India antica. Sperai nello stesso tempo 
di foggiare la versione in modo non disadatto a diffondere la cognizione depa 
WttaraJura indiana tra i lettori che del sanscrito non tanno il lord stadio ape* 



68 Dtt NALA. 

ciale. Ho esperimentato cinque modi di traduzione, falche il presente è ai 
saggio In tutta la estensione del termine; ma non mi sono carato dell'ap- 
parenza d'instabilità, e volli sottoporre ai giudici competenti più tentativi ad 
un tempo. Provai la prosa misurata che ridesse la maestosa tranquillità dei 
testo; la quale mi lusingai di ritrarre anche in terzine rimate e in non ri- 
mate, del pari che nelT endecasillabo allatto sciolto e in un 9 imitazione del 
metro originale. 

Nella prosa che offre minori ostacoli alla fedeltà dal lato della versione 
dei vocaboli, si perde, pare a me, assai facilmente il colore dell' originale; 
la terzina, che traduce le trentadue sillabe dello élooa Indiano con freniatra 
italiane, fa bensì disparire la forma del distico sanscrito ma mi sembra ne 
imiti passabilmente il gusto ; la pausa uniforme, nell'assenza della rima, porri 
forse di troppo strana all'orecchio italiano, ma pur qualche compenso se ne 
troverà nella fusione dei versi, che nell' interno della terzina non rimata ari 
studiai di produrre. La prova più pericolosa stimo quella in versi del tutto 
sciolti; dove, tolta la stereotipia dei periodi, il genio della lingua in cui si 
volta, seduce quasi irresistibilmente il traduttore. La più difficile chiamerò 
quella in terza rima, perchè, data anche una spontaneità ariostesca nel rimare, 
sempre improbi stenti sarebbero necessari ad ottenere in questo modo la tra- 
duzione fedele d* un canto ; ove fosse taluno cosi fortunato da potermi smen- 
tire, ei certo avrebbe il merito di porgere versione gratissima a lettore 
italiano. La prova più ardita ma la meno infelice giudico quella dell' imitazione 
del metro originale, lo iloca epico. Altrove sarà di questo parlato più dif- 
fusamente; qui basti il dire che uno iloca epico si compone di due versi 
da sedici sillabe, i quali si suddividono in due emistìchi parisillabi ; le quattro 
ultime sillabe del primo emistichio di ciascun verso presentano solitamente 
un giambo ed uno spondeo, o un giambo ed un trocheo (cioè un epitrito 
primo w--- od un antispasto ^ — u ), mentre le quattro ultime sil- 
labe del secondo emistichio di ciascun verso danno un digiambo ( w-w-) 
oppure un peone secondo O-o^); piedi che, per legge comune alla prò* 
aodia classica, equivalgono in fine di verso. H primo emistichio incede adunque più 
grave riposando sulle lunghe combinate nel suo piede finale; ed 9 secondo 
ha un andamento più mòsso, cantando sui due giambi che lo chiudono. In 
italiano, dove l'accento è l'arbitro dei metri* credetti si potesse recare il verso 
sanscrito coll'identico numero di sillabo facendo corrispondere al primo eam- 



DEL HALA. 6$ 

stichio un reno di otto sillabe, con accento sullo pari, elio lo renda quui un 
novenario tronco» ed al secondo emistichio un altro verso puro di otto sil- 
labe, cioè un settenario sdrucciolo. Se non erro ho, per quanto la varia in- 
dole delle lingue fl comporta, conservato per tal modo la reiasione metrica 
fra i due emistìchi, e trovato il messo di tradurre lo éloca indiano con una 
fedeltà, che ritrae pur l' anima dell' originale. Spero non sia cieco amore per 
la mia povera creazione che mi fa confidente d' aver dato, in questi éloca italiani, 
saggio d' un modo proprio meglio d'ogni altro, se da mani più esperte trattato, 
a presentar la immagine più viva del verso epico sanscrito a quei molti studiosi 
che desiderano conoscerne 1' impronta, pur ignorando la lingua dell'originale. 

Non so invero con quanto frutto io mi sia adoperato perchè alla fe- 
deltà e alla sincera immagine del gusto indiano andasse congiunta un'itala- 
mia passabile. Sono convinto però che per i buoni studj sulla letteratura 
dell'Oriente non giovino traduzioni che più d'un poco aieno della mia meno 
fedeli, quand' anche fl traduttore non voglia provvedere al bisogno di chi ai 
applica alla lingua dell'originale. Se pur ogni cura debba porsi per vestire 
i concetti indiani in forma che possibilmente alletti il nostr' orecchio, (non 
fosse per altro, affin di guadagnare anche per la via del facile diletto qualche 
cultore di più a questi studj) stimerei assurdo ogni sacrificio della giusta 
fedeltà alla soverchia delicatezza che fa manumettere quella vetusta poesia, 
acciocché in questo o quel passo non sia lesa una qualche scrupolosità della 
nostra estetica. E tanto più assurdo lo stimerei, perchè alcuni lisciamenti nello 
stile sarebbero una mezza misura inutile, ed un abisso resterebbe sempre 
fra il gusto dell' Europa moderna e quello dell'India antica. Se i Cesarottiani 
ponti dalle singolarità che riescono tediose e ributtanti rispetto a noi 1 ) pur- 
gano un classico greco di ciò che a loro par non bello, possono almeno quasi 
tempre con semplici levigazioni raggiunger pienamente l' intento. Non fa loro 
d' uopo di sovvertir l'originale per averne la desiderata contraffazione che al 
gusto moderno si attagli; perchè infine si ritrovano in una letteratura dove 
ninno radice le nostre, con una mitologia che dall'infanzia ci è famigliare, e 
che vive ancora nelle nostre frasi più comuni. Ha se con tali divisamene 
dall'Olimpo e dall'Elicona passaste all' Himàlaja ed al Mera, vi converrebbe 
non soltanto imbellettare, ma rifar da capo a fondo i classici dell'India.— 

*) v. il Ragionamento isterico-critico che preceda 1' Omero di Cesarotti, 
princìpio della parte III» 



IValopàc'jànam. 



Astd rt#t nato nàma 
apapa&iio guijair iètai 



vtrasenasuto bali \ 
rùpav&n aèvacovida: *1» 



attèfaa matìu£e&drè£àm 
uparj upari «arve&m 

brahmano vedaviè Saro 



mùrdfoi devapatir iva t 
àditja iva tegasà t»2tf 

ntèatfeèu mahìpati: i 
acàapryat ealjavàdt mahàn acàauhìplpati: #3* 

lpsito varanàrUiàm tidàra: ganjatendrija: s 

sàcèàd iva mana: svajam «4* 



racèìtft tfanvlnàà éreèfa: 

tataì \à *sld vidarBefo 
éùra: tamgwgiair jactat 

a* precàrie paraò jatnam 
tarn aBjagaèSad brahmar&r 

taà sa Btma: pragàcàmas 
taahiéjà saha ràgendra 

tasmaì prasanao damaaat 
ca&jfiratoaB camàrSùà éa 

daiaajaiitta daman dentari 
^pannati gtmai: sarvair 



filmo Btmaparàcrama: % 
pragàcAma: sa 6à 'praga; «5« 

acarot susamàhita: * 
damano nèma Barala i6# 

to&yftmftsa d'armavi* i 
satcàreflia suvaréasam *7« 

saBàrjftja varan dadau i 
Irta tidarto mah^jtóft: *8* 

damanaR éa suvaréasam i 
filmài* Bimaparficramàn #9« 



NAIA. 



Brlhmaja Vffcadalva narra innanzi al Pàntjara JodBfira, cui ai rivolgo 
ratto tatto durante il racconto, chiamandolo; Crateja, B' arata, Pancata eoo» 



Canto primo. 



. Vera un re di nome Naia 1 , figlio gagliardo di Vira- 
sena 8 , » dotato di ambite virtù, bello della persona e 

. aperto a maneggiar corsieri. Dei re de 9 mortali stava 
alla testa pari al prence dei Deva*, i alto alto sovra a 

. tutti, simile al sole in isplendore. Egli pio, egli 

nei Veda 4 dotto, eg\i Y eroe, correggeva la terra dei 
Nigadà', « amava a trarre il dado 6 il veridico, l'ec- 

, celso signore delle schiere ; era il desire delle elette 
femine, generoso e donno dei sensi f egli il reggitore, 
l'ottimo degli arcieri, in tutto eguale a Manu 7 istesso. 
£ anche ne 1 VidarBa * v'era IMma* dal formi- 
dabile vigore ; « eroe d' ogni virtude adorno, che, avido 

• di prole, orbo ne andava *• Pel desio di figli estreme 
prove aveva fatte con intenso zelo; t quando a lui 
venne un sapiente bràhma^a, o Barata, di nome Da* 

. mana 10 . Àvido di prole e conscio dei doveri 11 , 
IMma procacciò gioja a quest' s uomo preclaro colla 
ospitalità, nò men di lui la moglie, o re dei rei 

. Propizio allora Damane a lui e alla consorte insieme 
in premio concedette s la gemma delle figlie, e gene- 

. rosi tre figli gloriosissimi ; Damajantt quella e questi 
Dama e Dànta e Damane preclaro, i dotati di tutte le 
virtù, tremendi, formidabili in vigore. 



7* 

damajanlì tu rtìpepa 
sauBàgjena éa locata 

afe tàft vajasi pràpte 
éataà éatan saòlaàB éa 

latra ama ràgate Baimi 
saèìmad]e -navadjàfigt*) 

na deveàa na jacSegu 
mànugegv api éà 'njegu 

nalaj éa naraéàrdùlo 
candarpa iva rùpeQa 

tasjà: samìpe tu nalam 
nai£adasja samlpe tu 

tajor adr$tacàmo -Bùi 
anjonjam prati caunteja 



PALA 

legasà jaéasft órijà « 
jaéa: pràpa sumacTjamà «10# 

dàstnàn samalaHcrtam • 
parjupàsaé Saéim iva «11* 

sarvàBàraQaBù&tà • 
vidjut saudàminl 15 jalà #12» 

tàdrg rùpavatl cvaéit » 
dr$(apùryà 'tavft érutà »13# 

loceàv apratimo Buvi » 
mùrtim&n aBavat svajam «14» 

praéaéaftsu: cutùhalàt i 
damajanltm puna: puna: «15* 

olivato: satalaa gufali ♦ 
sa vjavarcTata hrécaja: «16» 



aéacnuvan naia: càman tadà cTfirajitun hfdà • 
antatpurasamtpasfe vana aste raho gata: «17« 

sa dadaréa tato haùsàn gàtarùpaparigcrtàn « 

vane viéaratàn te£àm, ecaS gagràha pacdiuam «18» 

tato -ntarlcgago vàéan vjàgahàra nalan tadà ♦ 
hantavjo smi na te ràgan caricami tava prijam #19f 



damajantìsacàée tvàs 
jalà tvadanjam purudan 

evam uclas tato hansam 
te tu hansà: samulpatja 

vidarBanagarìn gatvà 
nipetus te garutmanta: 



cafajiàjàmi natóadb * 

na sa mansjati carhiéit #20* 

utsasarga mahlpati: * 
yidarBàn agamans tata: «21* 

damajantjàs tadà 'ntice ♦ 
sa dadaréa éa tàn gaflàn «22* 



*) Mei caso di sineresi di vocale finale e vocale o dittongo iniziale (v. p. 
es. al. 5.) un apostrofo precede il vocabolo la cui iniziale manca per* 
•he andò a congiungersi; nel caso di vera elisione di un a iniziale, 
duo punti ne rendono avvertito il lettore, come neU'eiempio attuale. 



CAUTO 1. 7S 

). Ha Damajantt e per la persona e per 11 fulgora 

e per la gloria e per la venustà « e per la splendida 
sorte, la figlia dal vago se<io 1 * attinse celebrità in fra 

i. le genti 13 . E l'adolescenza quand'ebbe. raggiunta, 
a lei d'intorno ancelle parate vagamente * cento, e 
cento amiche siedevano come d'intorno a éaét 14 . 

ì. La B fc aimi*), fregiata d' ogni ornamento, ivi brillava ♦ 
colle perfette membra alle amiche in mezzo, qual fol- 

J. gore che in mezzo a nubi guizza 1 5 ; in verun 
luogo, non fra i Deva, non fra gli Jac§a ltf , simil beltà « 
nò fra il resto de 9 mortali si vide in pria se ne udì. 

I, Naia d'altronde, degli uomini il signore x 7 , nelle genti 

in terra non avea l'eguale; 1 pari ad Amore in bellezza 

5. quantunque egli corpo vestisse * 8 • Presso a colei narrate 
con dileltamento eranle laudi di Naia, * e al Naigadfe *'• 

5. d'appresso quelle di Damajantt reiterate. E scam- 
bievole quindi nacque un amore per l'oggetto non vi- 
sto 90 , dal continovo udirne le virtù; * amoroso desir 
che all' un per 1' altro andò crescendo, Caunteja. 

Ornai Naia impotente a chiudere in cuore l'amor 
suo**), t sen va ad ogni sguardo occulto e siede nella 
selva, vicina al penetrai della reggia 81 . Ivi scorge 
dei cigni 9 * auro-adorni; t e mentre vagavan perla selva, 
ei piglia uno di questi augelli. Ma il volatile allora a Naia 
prese a dire : s u uccider non mi devi, rege, e grato 
9 ufficio presterotti ; innanzi a Damajantt, Naisada, 
„ favellerò di te * per modo che ad uomo altro che te, 
yy ella non pensi mai. „ A tai parole il rege della 
terra liberò il cigno s e i cigni spiegando il volo an- 
darono ne 9 VidarBa. E venuti alla città di VidarBa, 
al cospetto di Damajantt s discesero gli aligeri, ed essa 



) Cioè: la Bimide, la figlia di Blma. 

*) Letteralmente: A sostenere col cuor Vomere. 



74 »*l* 

aà Un adButaràpàn vai drftvft aatigav&vrtt \ 

kràjà grahttnfi éagamàÉs tvaram&jo 'paóacrame «23* 

ala hansà visasrpu: sarata: pramadAvane s 
ecaicaéas tadà canjàs tàn hansàn samupàdravan #24# 

damajantl tu jaù haùsaù aamnpàcTàvad antico * 

sa mfinuSlB girali crtvft damtyanllm ala 'bravlt «25* 

damajanti nalo nàma ntèatfesu mahlpali: ♦ 
alvino: Sadréo rupe na sam&s lasja mànugà: n26« 

tasja vai jadi Bàrjà tvam Bavelà varavantfni i 
Bacalai* le Baveg ganma rtìpafi óe Mai sumadjame «27 

vajaù hi devagandhrva — — mànu§oragarfic§asàn * 
d^lavanto na éà 'smàBir dréfapùrvas tatàvicfa: «28« 

tvaB éà 'pi rateati nàrtijàn naregu 6a nalo vara: s 
Tiéi§(djà viiiàfena gangamo gugavàn Bavet «29» 

evam uctà tu haùsena damajantl viéàm paté 97 % 
abravtt taira tan hansan tvam apj evan naie vada #33 

tale Hj nctvà 'fldaga: caq&b vidarBasja vietai paté s 
panar ftgamja nifodta naie aarvan njavedajat «31» 

• iti nalopàójftne pralama: saiga: «1« 



CINTO I. 76 

ne vide gli sciami. Qnand 9 essa li ebbe scorti mera- 
vigliosamente belli, cinta dalla schiera delle amiche 1 
gioconda e frettolosa si diede a pigliare gli alati. 
Ovunque si dispersero allora i cigni per il delizioso 
boschetto * e ugualmente sparpagliate le fanciulle a 
inseguirli E il cigno incontro a cui lanciossi Da- 
majanll * cosi le disse assumendo umana voce: * 

a Damajantt! Re della terra v'ha nei NiSacTa 
yy che Naia ha nome, * uguale agli Ààvin* 8 egli ò in 
yy beltà, a lui gli uomini non somigliano ; augusta 
yy donna se tu moglie di lui divenissi, * e i tuoi natali 
n e tanta tua beltà coglierebbero frutto, figlia dal vago 
9 seno! E i Deva e i Gantfarva 24 e gli uomini 
yy e gli Uraga* 5 e i Ràcàasa* 6 noi * vedemmo, ma 
yy un siffatto pria non mai mirammo. Tu la gemma 
yy sei delle donne ed è l'eletto fra i maschi Naia; 1 
^ feconda di virtù saria in vero la union della insigne 
^ collo insigne t „ 

Tali i detti del cigno a Damajantt, mio signo- 
re* 7 , * ed essa a lui: "Tu pure a Naia similmente 
n parla ! „ u Sì yy rispose quel nato dall' uovo alla 

figlia di VidarBa, mio signore, s e alla terra de' 
NiSatfa ritornato, riferì il tutto a Naia. 



76 IV ALA CAUTO I. 



NOTE AI PRIMO CANTO. 

1* fiala significa orundo; ò congettura felice di Meier (Nal und Damajanti 
p. 195.) che fosse preso nel senso di nal ina ninfea, loto, analogamente 
a p uà cara, nome del fratello di Naia, che vale fior di loto (v. n. M). ì 
noto in qual stima sia questa pianta presso agi' Indiani, che si figurano fl Dio 
Brahman sedente nel calice del loto (v. B ( agav.-G. XI. 1 5.); anzi moto dal 
loto, come cel dice ano de' suoi nomi [amoogaganman] *). 

ft. Virasena; composto di vira eroe e sena esercito; perciò : avente* 
esercito-oV-eroù 

Z. Prence dei Deva, Derapati. —I. Questi ò Indra, il Giove degT Indiali, 
tra i cui nomi v' ha quello di Divaspati, signore del cielo ; che nella prima 
parte (diva s), sta in relazione etimologica col diesdiDiespiter (zzJuptiery. 
La seconda parte del nome latino è parallela «1 pitar (piti) sanscrito* 
padre, che ha radice comune a pati. 

Deva=detfs viene dalla radice div splendere**). 

*) v. pure n. 5. - Lassen (Ind. A. 1.289. n.) dà a naia anche il valore oli 
olezzo (Duft); questo mi sembra senso derivato da quello di cannai 
perchè naia può aver indicato cannee aromatiche ; n a 1 a d a dante-olexU* 
vien poi a denominare specialmente una pianta fragrante, V andropogoe* 
tnvricatutn; cosi da vira (che al maschile vale Aero*, al neutro arundo^ 
si ha ugualmente vtrana, andropogon muricatum. 

**) D'indra non è chiara l'etimologia; in fine di composto significa aneh#* 
re, ma la radice id, ind regere che Casjapa (ap. Westergaard) dica^ 
non esser soggetta a flessioni, si sappone finzione dei grammatici pe*~ 
derivarne indra. Kuhn (Allg. Litt Zeitung 1846. N.° 250. v. Lasse** 
Ind.AlterthumskundeI. 756.) e Lassen credono poter tradurre inér^ 
44 aria azzurra „ appoggiandosi a indaravara, indtvara loto avventa 
e ad indranlla zaffiro. Questa induzione arriderebbe, essendo Indr^ 
il Dio delP aere; ma non è ancora etimologia rigorosa, e vacilla quandc^ 
si pensi ad indiri sinonimo di Lacimt moglie di ViSnu. Meno ri— ^ 
gorosa ancora quella di Roth da i<f, ind*, flagrare. È ipotesi di M ei e&~ 
(Nal ecc. p. 195.) una derivazione da ind? = und mode facete, (*"— 
Westergaard; Bopp, credo erroneamente, madidum esse) che 
disdirebbe alle qualità d'indra. Benfey trova in I n d r a il Tuonante, trae** 
dolo da un intensivo di n a d (n i n d), sparita l'iniziale. (Gloss. alla Cre*M.v.~ 



tLLUSTtAZion. 77 

IL Nei Veda (v. la n. seg.), Indra riesca il primo degl'immortali, il più 
sublime tra gli Iddìi, il Dio delle battaglie, il Dio dei cieli, che, armato del fulmine, 
uccide gli spiriti maligni che trattengono la pioggia, e col mezzo di questa 
fa ringiovanire là térAu — Fra I demóni da lui prostrati sono famosi Vrtta, 
Bali, e Baia; e perciò nel nostro episodio *), come spesso altrove, ìù 
troviam nominato: Vuccnor di Baia e Vrtra; ...di Baia; ...dì Bali. 

III. Nelle epopee però e nel codice di Manu, Indra non è pia quel 

sommo Nome; è bensì il re dèi Deva, il dio dell'aria e delle tempeste, ma 

soggetto alla suprema triade Brahman, ViSnu, Si va; ha stanza nello 

s Targa, paradiso degl'Indù; ò uno dei custodi del mondo**); è preposto 

all'oriente, e al suo servigio stanno le Apsaras (ninfe), ed i Gancfarva 

<v. la n. •#.!). Net poemi epici, i Deva in generale, fatti figU di 

Caéjapa ***), ci appajono di limitata poteva; gli eroi talvolta sotto loro 

eguali, e pur li superano. Indra stesso teme d'essere rimosso dal suo pò- 

sto, sbalzato perfin da qualche mortale, che, dedito a vita contemplativa, per 

gnadi astinenze e divozioni arrivi a grado eccelso di santità, f). 

IV. I Deva son detti pur Stira ^ che equivale anche etimologicamente ■ 
Deva. Indra in conseguenza è anche il Sureivara (sura i isvara) signore dei 
fora [àae.e&Chézy 146, 14. ff)J; e altri nomi di lui che rivelano pure sue 
proprietà, sono: Marutvat cAe dispone dei Venti; Sahasradfs o Sa-* 
hasrdcia il miW-oculo-, éacra che si ritiene dalla radice éao potere \ 
éitacratu dai~cento-sacrifici. Il Dio del cielo che brilla dei suoi mill' oc-» 

*) v. H. 17. 23. 

**) Lo capala, v. n. SS. ***) v. n. SO. II. 

t) V. p. es. Sacuntalopàcj. IV. 20. 21. e qui più avanti alle note 71. e 
98. — Lo vediamo valersi di qualche eroe contro schiere di demoni 
alni mimiche, (v, Argunasamàg.V. e seg.; cfr. Sacunt. di Càlid. atto VI. e VII.) 
Nel Hahàbàrata (Episodio del pesce il 51.) Brahman annunzia al Manu 
superstite dal diluvio : " Da me in sembiante di pesce voi foste libe- 
„ rati da questa tema ; or da Manu tutte le creature, Deva, Atura e 
„ uomini, tutte son da crearsi; e i mondi tutti, ciò che ha moto e ciò 
„ che non si move. „ — Bìma il Pappava canta (Hidimbabada IH. 10.): 
„ vicramam me jafe 'ndrasja dracàjasi„ vedrai che la mia 
fona uguaglia quella d? Indra.— Nel Ràmàjana (Viévfim. X. 22.) Visvàmitra 
irato, grida minaccioso : tt Altro Indra io farò, o l' universo sen vada 
privo dell'Inora „ e nell'ira comincia a creare divinità. In ambo le epopee 
si narra delle gesta dei Deva per ottenere l'ambrosia. 

ti) Bóktlingk ha amareé vara liquor degf immortali i 97, i5. 



I 



78 KALA GA^TO I* 

chi come il firmamento per le migliaja di stelle, fi abbassa al peri di Giove 
ed amar la figlia deWuomo\ e brandendo , il vagra, la folgore, monta il 
colossale elefante Airàvata*), o espande lo splendido carro guidato da 
Matali, auriga suo. In dra danna arco-d? ladra, è l'arco baleno, (v. pare 
un. 84* »5.) — Moglie di ki è jSaét; v. n. 14* 

4. Veda. — I. Da vid conoscere, sapere, e vale quindi scienza. Com'è noto, 
a'intitolan così i quattro libri sacri degl'Indiani, in cai sono riposti i mo- 
numenti più antichi della loro letteratura**). 

Qui non disdiranno alcune succinte notizie, intorno alla struttura ed ti 
contenuto del canone vedico. 



*) Immaginano gì' Indiani, che elefanti giganteschi postati sotto alia tern j ' 



ne' diversi punti cardinali, la sostengano. Indra presedendo all'Est, ai 
colloca il nostro Airàvata a sorreggere la sezione orientale. Variano però 
nelle differenti fonti i dati sa codesti Elefanti. Cfr. A m arac. Set. 11. 
e Ràmlj. (S.) I. xlt. 13-22. 
**) Rodolfo Roth asseriva nel 2 ottobre 1845 dinanzi al consesso degli 
orientalisti tedeschi : * esser sua convinzione che alla istoria dell'antico 
oriente, snzi forse a tutta l'antica istoria, niun servigio migliore attualmente 
prestar si possa, che quello di far conoscere le scritture vediche e <fi 
sottoporle ad esame accurato. * Né certo si troveranno esageranti quest* 
parole, ove si badi alle intime relazioni che ogni giorno in più discuopron^i 
tra l'idioma non meno che tra i miti dei Veda e quelli dei libri di 
2oro8Stro, ed ai lumi che i Veda diffondono sulla priscs istoria del popolo 
incivilitore dell' India, fratello per lingua e per civiltà agli altri popoli 
ano-europei; ove prezzar si sappia l'antichità e l' indole di quel!* 
scrittore, nelle quali una candida e robusta poesia primeva divinizza 1* 
potenze della Natura, e inneggia gli attributi morali inalzati a Genj ; 
ove si consideri finalmente la importanza linguistica che da tale antichi 1 ** 
deriva, perchè ne' testi vedici abbiamo il più vetusto saggio della p»H 
vetusta tra le favelle indo-europee. — Nelle dottrine teologiche ci»* 
si vennero sviluppando in mezzo alla adorazione di quel numero inÉ*" 
nito di enti divini, e che si collegarono quasi parti integranti al ne*" 
eleo antichissimo dei Veda, è mantenuta un'ombra di Monoteismo, guam - * 
stato però anzi frustrato dalle propensioni panteistiche. H. 7. Col&~ 
brooke, che fa il primo a dare all'Europa esatte notizie di tali sacrar» 
libri, col suo trattato On the Vedas (Asiat. Research. VID. vnf^'> 
trad. in ted. con aggiunte, dal D.r Poley, Lipsia 1847), vi riassuma** 
le proprie indagini su questo soggetto nelle parole: •'....The ancienr*- 1 
Etnèa religion, as fonnded on the Indian scriptures, recognises but os*»* 
God ; yet not sufficiently diseriminating the creature from the creator. <* 
(L'antica religione degli Indù, fondata com'è sulle scrittore indiane, riconosaP* 
un solo Dio; ma senta differenziare a sufficienza tra creato e creatore)^- 



1 



iLLumAziom. 79 

IL Marni (L 23; v> n. 9* ) non annovera che tre Veda : R e* [RgvedaJ; Ja- 
gas [Jagnrveda]; e Sa* man [Sima veda]*); alludendo aUa favola che Brahaun 
avesse estratto il primo dal fuoco, il secondo dall'aria, il terso dal sole. A 
questi però si aggiunse quarto l'Afarvan [Afemveda] o Àtarvana**). 
Golebrooke opina she quantunque dell' ultimo spesso non sia menatone vicinò 
agli altri tre, pare di tal silenzio non si debbia cercar la vera causa nella 
varia origine e vetustà di Ini; ma checché sia dell'antichità di alcuni squarci 
dell* Afarvaveda, la critica dimostra ***) non aver errato Wilkins e Jones 
■el reputarlo più moderno p.eg. dei R6; ed essere anzi l'Afarvaveda composto 
a similitudine di questo , in epoca ove la candidezza della primitiva cre- 
denza aveva subito molti superstiziosi alteramentL — Re significa «ino e 
passa anche al senso di strofa, verno ; è dalla identica radice, che vale lo- 
dare; Ja£ns ò da ja& sacrificare; di sftman è dubbia là etimologia ma 
eerto il senso di reciiauone, cantilena; Atarvan****) è il nome d'ino 
de* pia antichi sapienti dell'India. 

Il Jagurveda si divide in dne: il Ja$us bianco ed il noro\ il 
bianco è detto pure Vl£asanejaca, e Taittirlja il nero *****). Ciascun 
Veda ò poi alla sua volta diviso in tre sezioni principali; ne forma la prima 
il canone degli inni (man tra), delle invocazioni, in generale deile preghiere, 
ed è detta Sanniti******). Se l'elemento della composizione vie metrico, 
allora è chiamato r^ e la Sannita del*primo Veda (Rgveda) si compone ap- 
punto d'inni in versi; se è cantabile è detto slman, e Slman è perciò 
quel Veda in coi le re* del primo son rese adatte al canto mediante accenti, 
e ripetizioni, ed aggiunte di sillabe, e simiglienti spedienti; ja£us è la for- 
atola sacrifica in prosa, e nella Sannita del Veda di questo nome abondano tali 
foratole, non escludendone però le r & La seconda parte di ciascun Veda consiste 
di brfthmana, opere quasi interamente in prosa, nelle quali il culto*******), 

*) Le leggi eufoniche della lingua sanscrita richiedono le alterazioni che il 
nome particolare di ciascun libro soffre componendosi alla voce veda. 

**) v. la nota »S. 

***) v. Roth, Zar Litt. n. Gesch. d. Weda p. 13;ecfr. Weber, Le p. fO. 

****) dotato-di-fuoco (sacro), —sacerdote ; y.Benfey, Glossario al Slmav, 

*****) Su queste doppie denominazioni e sulla leggenda relativa v. la trad. 
ted. di Colebrooke, op. cit pp. 12 e 13; Weber p. 85. 

******) Mei Jagurveda, solo la Sannita del bianco si conforma alla pre- 
sente definizione [v.p.81.n.**)]; e pur di quella v. più avanti, HI. — 

•*******) Al sacrificio del Soma (nome di pianta, e del succo suo, oltre che della 



03 "ALA CANTO I. 

A ladra. 

indram id gàfino brhat i 

5« a!!^ A^ AA ^: M ra AMM ;« A « . *• !■** * cantori esaltano 

indram arceBir arra** , ^ . ^ k ^ 

ladnun ut mais reciutofcs 

indran vAtfr ancata «le <sà«*. 13.1^. i 1 *»- 1 .""» 11 ,wuUw >- 

▼os laudai. II2.1A1) 



indra id diario: saéfi r 

lidia hm (Mnis)falvts com _ ' _ . _ 

sammiéla A vaéojuéA •[*] 2 ' f " 1yi €0 ?"f r •* rcc f D0 ,. 

!Ln. (la, JL (iuTia^ L J Leprecidcarroasgiog.nl., 

indro vagrt hiranjaja: «2* c-«-ii.mA«.) 

ladra mlgarator diritti* predila» 



Seco ha diviste e futainil 



indro dlr£Aja éacSase » 

ladri ad loage coaspicieadaai _ - » . . _ « • . 

a «A.;** »/vK A ; A / -in,: - 3. ladra la vista a estenderci 

à stojan rotajaddm . F èflS oi n .iCie.o«,r^ 

vi goBir adrim airajat «3» ( — o*iÀ« Sw^ò *>'**** ""d*- 

radi» nube» dispaili. 

indra vàgesu no ava i 

ladra ia certamiaibat aos protrga . - - „ _ . . 

*rt* * • e; 4 - Tjr.-„m: se. 

milita aecaalilMtt- aae p __ , . \ «... 

agra ugràBir tìtiBi: #4» <— iu.^o »«-*»« •««"««a*' 

terrificai terrine» aaxilùa 

[*] Questa strofa esercitò gl'ingegni di profondi filologi quali Ito se» e 
Bòhtlingk (Chrest* 396.), senta ch'essi riuscissero a stabilirne con 
eerteua la interpretazione. Siocome s a m mie la ha il senso di dotato, 
seguito dall' istrumentale (v. Benfey nel suo glossario al Sàmaveda ek 
quello alla Crestom.), mi parve possibile la traduzione barbaramente 
offerta dalla interlineare latina, ammesso il r afona (corra) sottinteso, 
come Rosen ha già immaginato. — 

l*J Si dovrebbe tradurre: E dote i mille lottano, se predane fosse ve- 
ramente sinonimo di safigràma battaglia come BdhtMngk (Chr. 
S97) notò, citando il sinonimista Jlsca. Non tutti i codici però con- 
cordano ad accogliere questo sinonimo; v. Ted. di Roth p. 16. n. 6-7; 
e qui più avanti n. 41. Raen fu il primo a cercare in praòTana 
un senso analogo alla radice di ^ororof; Benfey nella tradunione 
(S!ul p. 247.) Io segui, dopo avorio condannato nel Glossario, s. v. 
tfana, sahasrapraffana. 



liLtjmiàziom. 13 

odran vajam mahàcTane ♦ 
* j— ~ ?!*<* ^HaJUjH * 5 « Chiamiamo in aspre mischie 

ili £? ^^ Lni a ton «"« « ta fccai 

agri Wl^uvatriIIIm«5«(»-. u* 6 * a ■ imieot mm ' 
a no viiaon amuB éarom « 

ic Mhà alniM-Ustl illm Mita »«..•»». •• • 

alrfidàvann anavrifi ♦ 6 * Phmo ' Da,0,fe unAwl 

airaaavann apavrm ♦ Doh Ut Mbe fondici __ 

smaBjam apratUcnta: «6t <-~- ha. a *> c,u c#B,r0 •«•"■*«•«. 

■olà, ÙMpmUlU. 

nBge toB£e ja uttare » ["*] 

r* . T . ?"" ""T?* 7. Gl'ami eh» il Dio del folcoM 

toma iadrasja tagnna: . "" JT t^SSSP 



k (»ut) lodrae ftlguralori 

a vinto asja sttètutim «7# 

ma ìbtcbìo ci Mone» laudan. 



Fa ogni fayor più fervidi 
Lande non sito bastevole. 



r§i jtìte *va vaàsaga:i[ 4 ] 

Mira trfet tuxf laanu a ^ t tt ♦< * 

S a V 6trenaoei» , »cco«la agli uomini - 

itao «prttUrtlti «8« |-~ H.8. IA 3., Ghi « li resi ' le? Ei d0B,ÌM ' 

Mràas insiiperaJtilN 



I Onesta ré, che non si riproduce negPinni de) Sftmaveda (parimenti che 

la nona), presenta delle difficoltà. R osen traduce: Unicuiqne deo qnae 
alia (re ci te n tur) carmina, (ea sont) Lidrae teligeri. Ha preso tu figa 
qua! nomea agenti* dalla rad. tung (v. Westergaard) dare, largiti; in 
modo che, serbando la sna accezione di uttare, letteralmente se ne 
avrebbe: a datore a datore (—ti ogni datore) quelli (che son) ulteriori 
[carmi, d'Inora fulminatore (sono);/ non trovo di lui congrua lode. — 
Benfey (GÌ. al Sftmaveda), da tufig nel senso di emUlere, tradur- 
rebbe: Gitto sopra gitto (Wurf anf Wurf); e quindi sembra volere: Ad 
ogni gittata (d'inni) son sempre maggiori le lodi alzate ad Indro, ma 
non ne trovo lode condegna. — Gli scolj presso Stevenson giustifi- 
cano la interpretazione di A o s e n, dicendo: tufi gè tung ti, tasmins- 
• tasmin $a la dà tari d e va n lare: a qualsisia largitore altro deva» 
1/ asja forse sturberebbe la seducente versione che segue: Quelle lodi 
che son superiori a qualsiasi largitore;- per Indra tonante non le trovo 
sufficienti. — La versione che prescelsi si appoggia ai commentatori presso 
Aosen, che fanno t n 8 g x=donum\ e P uttare vi rifulge nel comparativo. 

II ladra è qui detto Vrsan, epiteto che nella strofa Sesta, seguendo gli 

9 



$4 *ALA CAUTO I. 

ja ecaé carìfaQtnaàm t 

,ri h» # aMrial ? a> . 9. Che ut' nortali egli amico 

TaSÙoaftm iragjati « Impera, e » le dovìzie; 

■ babd È ano dei cinque ogni ordine. 



indra: paBéa cSitlnaàm #9* fl 

IWra iràm Irta. 



indrafi vo viévatas pari * 

ladrm roto i^upe drem io. Dell'altre genti ondunque 

hav&mahe ganeBia: t ladra cori invochiamovi 

~*» (e) garikas Che intero a noi sia dedito. 

aamàcam asta covala: #10# («*«. n j,«^i.) 



a;. Dei Ni it (fa. Niiada non è a confondersi col IfiUda delTultimo schiari- 
mento alla nota precedente. Questi è nome, adoperato nel plorale, ad indicare 
una contrada sita, secondo Wilson, ad oriente, nella divisione meridionale del- 
l' India (A country in the sonth-east division of India). Non mi ò dato aggiungere 
ulteriori dilucidazioni sa Niiada; ma noterò che fra i re d'AjodTjà (la me- 
scoli e Bopp (61. s. v.), ho reso J>er plueiae-daìùri ma in questi 
Stanza, dove Indra è comparato al toro, mi accade di osservare cheli 
rad. vri pluere, irrigare, dà il nome per la pioggia e per il toro 
(vrsti, vr&a; il toro quasi irrigane semine^ seminatore anzi Benfef 
(gloss. al Sàm.) vendicando anche al nostro vrian il senso di toro, 
spiega tal voce qua! epiteto degli Dei per : fecondatore {besaamender\ 
[*] Cinque ordini. u Le cinque caste „ intende lo. scoliaste presso Rosen. le 
quattro caste indiane che si menzionano comunemente (v. p. es. fiali 
XII. 44.) sono : quella dei Brihmana, i sacerdoti ; dei Càatrija, i guerrieri (i 
re vi appartengono); dei Vaiéja, ai quali la pecuaria, l'agricoltura, il commer- 
cio; dei Sftara, infima classe che serve alle altre ; uscite la prima dalla bocce, 
la seconda dal braccio,Ia terza dalla coscia, la quarta dal piede di Brahmani- 
Manu I. 3 1 e 88-9 1 .); le tre prime possono studiare i Veda, la quarti 
no. Lo scoliaste suppone che la quinta sia qui la casta dei N i s à d a. 11 Nisida 
nasce dall' unione di uu Brihmana con una Sùdrà (Manu X. 8.); e soa 
occupazione è la pesca (ib. 48.). 

Ma Lassen che nell'Antologia sanscrita (1838) pag. 141. non aveva 
fatto che ripetere Rosen, nell'Archeologia indiana (1847; I. 794-797) 
imprese a dimostrare che nel r g v e d a non ci occorra autentica menzioae 
delle caste, e quindi esser necessario d' interpretare dizioni simili a 
quella che ci occupa come alludenti a divisioni, ignote all' India poste- 
riore. (Cfr. Benfey, Gloss. al Sto. s.v. ci iti [kshittl). — Il termina 
adoperalo per casta nel sanscrito classico (varo a), vale anche colora 
eiocchè non può non far pensare a distinzioni per razze. 



1 ILLtTSTKAZlOlTf. 85 

derna Ande, Oude), dinastia solare *), v'è un re Naia figlio di Niia<fa; 
qui air incontro Naia, figlio di Vìrasena, è re de' Niiada, e sno eontempo- 
ranco re d'Ajodji troveremo Htuparna [Canto Vm. 25.]**). 

Con maggior precisione passiamo al paese dei V i d a r o a (o Bidarfia, nome 
geografico al plurale esso pure; quindi io traduco:! Nttada, iVidarfa) dello 
sloca 5., che si riscontra nel Berar, provincia dell'India moderna, sita nel 
Deèan (v. n. •&.)• Abbenchò quella non ai estenda fino a Bidar (Beyder), 
che ora ò capitale di provincia d' ugual nome limitrofa al Berar (al Sud), 
tuttavia anche Bidar è da recarsi air antico Bidarfia***). Vedremo dappoi 
(XXI. 25; XXIV. 30;) come Cucina capitale dei Vidarba distesse un 100 
io gena (forse un 400 miglia geografiche, v. n. M«) da Ajodjt. 

t). Amata a fruire il dado (aciaprija talosTomans). B o pp atesso nella 
sua prima versione letterale ' latina aveva tentato scansare quest' espressione, 
perchè gli pungeva in mezzo alle belle qualità di Naia. Schlegel (Ind. 
Bibl. 1. 107.) non la trovava disdicevole nell'esordio per la importanza che 
i dadi hanno nella nostra istoria. Meier colla dannosa smania d'imbellettare 
che ho accennato nella prefazione, omise quest'attributo. 

Il giuoco de' dadi, come giuoco di sorte, ò severamente condannato dal 
codice sacro (IX. 220-224; 227-228); ma, sembra, con egual frutto che 
il duello dalle nostre leggi. Nel Rgveda stesso troviamo un inno in cui un 
giocatore si lamenta della propensione invincibile al dado, che lo porta a 
rana. Nell'Epopea si giuocano al dado i regni; e a chi avesse spogliato 
d'ogni cosa il suo competitore, legge d'onore ingiungeva di riporsi alla sorte 
del giuoco quando il vinto potesse offrirsi alla riscossa {Naia XXVI. 7.). L'ag- 
gettivo a ci a p ri j a nel ritratto di Naia, ò perciò ben collocato a trasportar 
senz'altro il lettore ai tempi eroici del gioco del dado in India. 

Mi piace ravvicinare a questa notizia sul furor et jus alea degl' Indiani 
la seguente da Tacito intorno ai Germani: 

B Dessi eobrii (stupitene) tra le cose serie (anno al dado; e temerari 
9 così, che vincere o perdere, messo fondo a ogni svere, per supremo ed 

*) v. della lunare nella prefazione. 

**) Naia come re dei Niiada (Naia Nailida) è nominato nel &tapafp-braV 

mana (Jagus bianco), v. Weber, I. e. p. 128. 
***) fiià lo notò JLaB$en nelTlnd. Alt. I. 177.- 



M HALÀ CANTO I. 

n ultimo tratto giuocano la libertà e la persona, n vìnto incontra la scnia- 
„ vita che si procacciò, e ae pur più giovane, ae por più torta, soffre d'ea* 
„ aere legato e venduto. In quest'osci sono malvagiamente ostinati; oasi li 
„ chiamalo fede. Mandano in commercio schiavi cosiffatti, per liberarsi dal 
* rossore di tal vittoria*).,, , 

Naia non ha che l'amore per il dado, coli" impeto dell'età eroica; su 
|a mente speculativa degl'Indiani ne aveva già ridotto fl giuoco a srìeaia, 
di cai v. il Canto VL 

f* Manu. — I. La mitologia indiana distingue più Manu. Nel D'armaiistn 
(libro-de'-doveri, delle giustizia, v. a. MO» codice divino (L 61-63.), il legislt- 
tore Manu è fatto figlio di Brahman e stipite d'altri sei Manu (v. però ib.33-36.); 
a ognuno di questi sette è riattribuita la creazione nel proprio periodo (man* 
vantare). Or corre quello del settimo Manu, detto Menu Vaivaavata, quasi 
figlio del »ole. È quel Manu che, superstite dal diluvio, ebbe ordine da Brah- 
man di riprodurre il creato, come abbiamo veduto alla nota »• in. annot li 
più antica dinastia dei re dell'India (v. n. *♦) è detta del Sole, appunto 
perchè a suo stipite vanta il Manu Vaivaavata; al quale la dinastia lunare teae) 
pare d'attaccarsi, con farsi ceppo d'Uà (le terra), figlia di lui. 

U. Etimologicamente Manu vale il pensante, fa man pensare. È ado- 
perato nei Veda come aggettivo in senso congruo alla derivazione da man**), 
e quasi nome collettivo per l'umanità, per l'uomp xar'ejojft*'***). man 
vi è l'ordinatore del culto degli Dei,****) il bardo divino *****)• Poscia 

*) De Germ. 24. Aleam (quod mirere) sobrii inter seria exercent, tantalo- 
crendi perdendive temeritete, ut, cum omnia defecerunt, extremo ae 
novissimo iactu de ubartele et de corpore contendant Victus voluotariaai 
servitutem ediL Quamvis juvenior, qusmvis robustior, adligure se •« 
venire patitur. Ea est in re prava pervicacie: ipsi fidem vocant Servoi 
conditionis hujus per commercia tradunt, ut ae quoque pudore victoriia 
exsolvsnt. 

# *) rgv. I, 89, 7; ap. Benfey, Sani. Gloss. s. v. man*. 

***) menor vrcTe: patir diva: dicesi ad Indra (Sftmav. II. 5.1.19.3.) 
u Prosperetore dell'uomo, padre del cielo. „ 

****) ni tv&m agne manur de<fe gjotir gantja éaévate. (fgi* 
I. 36. 19. Sftm. I. 1. 1. 5. 10.) * Te, oAgni, mani dispose splen- 
dore alla moltitudine delle genti „ 

«****) pità jat ceéjapasjl 'gni: éradtfl mIU mano: cavi: (Stai. 
1 1. 2. 4. 10.) « Padre di Casjipa è Afri, la Fede madre, menu eaa*ot*.# 



individuandosi vieppiù, ci apparisce quale un Adam, dot qual patriarci 
allato ad Aju *), altr* uomo primordiale presso gV Indiani (v. n. *».); 
e minala, manuSja, da Manu, Mantide, Ijavas Ajuidi, vengo» perdo 
a dir tkWM, uomini. Nelle epopee, manuija o più distintamente an- 

con manuga (nato da Manu) è l'uomo, perchè dopo il diluvio il genero 
umano è ripristinato da Manu, il primo re. Senza diffondermi a investigare 
presso varie nazioni le differenti forme in cui il Mann vi ai presenta, noterò 
solo che alle sponde del Danubio e del Reno oggi ancora il tedesco marni, 
mensch (cfr. menava, mannija) simboleggia tradizioni analoghe n quello 
venerate sul Gange **). 

IH. Nel nostro passo il poeta allude, s'intende, « uno dei afanu della 
mitologia, e precisamente al Yaivasvata, cui si deve la creazione nel periodo che 
ancora dura. Cosi in Rim&Jana I. vt. 4- (S.)> direDaéarafa è detto: tt Simile 
a Manu stipite-dei-re, e serbatore d'ogni creatura, e ibid. 19. *Era go- 
vernata questa dttà, come una volta la terra da Mann signor-degU-uomiai 
(uomini^mtnava). „ 

•• Jflma, formidabile, d 4 nome proprio noto, perchè nella prefazione cosi 
vedemmo appellarsi uno de' cinque Pàncjava. 

•• itddo di prole acc. La filogpnia è vivamente sentita anche nelT India 
antica***}. Le epopee narrano di frequente le divote imprese di sovrani 
dell'India allo scopo di ottener prole, e particolarmente maschile, che con- 
tinovi la dinastia, (v. p. es. Ràm. L vm 1; xxxix % e aegg.; xuu 210* 

IO» Il nome di Damane e quefli dei Agli ch'egli procacciò t) a Stima, cjoès 
Qamajantt, Dama x pània (TaUrp * omonimo del Bràhmana), hanno tutti in 
comune la radice dam, dp marci i tre primi in senso attivo (superante* 
soggiogante), il quarto in senso passivo (mansueto). 

«) gftm. IL 2- 8. 18* 8. 

**) Del Dio Mannus parla Tacito de Germania 8: CeUbnmi eattnmibus 
antiqui» Tuiseonem danai, terra editum, et fUium Mannum, origmem 
geniti conditoresque. a II Dio Tuiscoae, nato dalla terra, e il flgHo Man- 
no essi celebrano in antichi carmi, quasi l'origine a gli autori dalla nazione.,, 

***) v. Schlegel* Ind. Ubi L 8}. 

t) Sull'arto indiana di dar prole v. Rtral. XV. L 



88 HALA CANTO I. 

tt. Conscio dei doveri, <farma-vid; il vocabolo d'arma riunisce i si- 
gnificati di dovere, giustizia, legge e rito (sacrificio); è un termine eoa 
impronta tutta bràhmapica; vi traspare la casta sacerdotale che domina la 
coscienze e siede a tribunale e impera dall'altare. 

M. soma cfj ami dat-bét-meno. 

18. in fra te genti, IoceSu; Bopp "in mundis„; loca significa munéet 
ma al plurale pur homines. Cfr. il monde de' francesi e vedi C. II, él. 21. 

14U éaól, moglie d' ladra [y. n. ••]*); pure nei Veda Indra ha moglie, e 
la si chiama Indrànt. 

16* vidjut saudiminf; il lessigrafo indiano Amara di questi due voca- 
boli per sinonimi col valore di fulmine; siccome però il secondo Io si deriva di 
voce significante nube, pare poter dedurne il senso di folgore che tra nubi 
guitta, dalle 'nubi scoppia. Reco in appoggio di tale interpretazione il Basi 
vidjud ivi ' fi re 8 u nitcs fulgur veluH innubibus di C.XIII,él. 53. (27). 

IO* Jacia. Genj leggiadri e dati ai piaceri, che sono al servizio di Olivera, 
Dio delle ricchezze [v. n. S8.]**) e ne custodiscono i giardini e le dovi- 
ne. Di questi, come pure dei RficSasa (v. n. »©•)> ewi anche il aesso 
feminino "***). Il Re dei JacSa, MapiBadra (=Cuvera=VaiéravaQa) è invo- 
cato dai mercadanti ****). 

19* Signor-degU-uomini ; naralftrdùla, che propriamente vale <r-«0j*tju- 
Ugre, tigre-fra-gli-uomini. Sirdòla o vjt&ra tigre come riatta toro 
assumono in fine di composto il significato di ottimo, principe. Visgu, seconda 

*) È detta pure Pulomagi (v. Amara e.) ossia Paul orni nata da Pulonum, 
(y.&*c.ed.Ché*y, 161.19; Bóhtlingk, 100. 23) celebre anacoreta 
(Ckéty, éac. II. 266). Pnlomft è nome d'un demone femina, v. 
Argunasamftg. X. 7. (13.). Bopp nel Gloss. per isvista ha Pula* 
moti, m. demone (un Asurà). 

**) Come nella n. 8« IIL vedemmo i Gandsrva a quello d* ladra. 

*•*) v. p. es. Naia XII, 120, ed. Bopp; 89, ed. BÓktL; Xffl, 27, Bopp. 

•**•) v. ib. XH, Bo. 130; Bà. «8; Xffl, Bo< 22. 23, 



ILLUSTRAZIONI* 8g 

persona della suprema trìade, il conservatore, è. in una delle sue incarnazioni 
(avatlra) il Nrsinha lion-degU-uomini, e la leggenda ce lo dipinge col 
eorpo d'uomo e la testa da lione*). Anche si uh a Itone però, checché sia di ' 
quella leggenda, in fine di composto viene a dir prence, ottimo, come itre 
vocaboli prima addotti**). Per gli Europei lione soltanto suona bene in 
simili disioni; tigre stnona come epiteto crudele, toro come triviale. Ha l'In- 
diano che ode muggire nelle selve del Bengala la tigre più feroce, il re- 
delia-foresta ***), ne sente quella venerazione che nasce dal timore ; e fin 
dai più remoti tempi ebbe in alta stima pare il toro, giacché, scorgemmo 
(nota «• III, [ 4 ]) nel Veda compararsi Indra a quello, ed ambo nominarsi 
eoo simigliente, se non identico vocabolo. Mann VIIL 16. simboleggia 

Del toro la giustizia (cfr. n. SO. in fine). 

10* Pari ad Amore in belletta, quantunque egli eorpo vestisse. U Dio 
dell'amore è qui nominato Candarpa; ma per ben comprendere l'osser- 
vazione quantunque Nola corpo vestisse convien ricorrere ad altro nome del 
Cupido indiano, cioè A n aliga, che vale incorporeo. Amore é V incorporeo, 
come assai amenamente nn terzo epiteto (Manasiga) lo dice nato-neW-a- 
muto. È detto ancora Cèrna, amore****); C ama deva, dio deW amore. 
Sua compagna é la Voluttà (rati); da ciò il nome di Rati pati per l'Amore 
indiano. Porta uno stendardo in cui si dipinge il pesce immane ma cara, 
ond'é appellato macaradvaga (aVrf-vessìtfò-deJ-macara); e, nei lamenti 
contro il Dio baldanzoso, odi l' amante maravigliarsi come ferir possa cosi 
spietatamente: quel-dalle-freccie-di-fiori (C usarne Su). 

Qui non tocco dei varj confronti che la mitologia clàssica anche per 
questa divinità indiana ci potrebbe offerire, ma soltanto, a proposito del mastro 
marino e delle freccio floree, non tralascerò di notare che il Cupido greco- 
italico era tra gli altri modi dipinto tenendo un delfino ed un fiore*****). 

*) v. Langloisi presso Chéty, Sacunt. II. 254-55. 

**) p.e.Munisinha l'-eremita-leone, detto di Vài mici, autore del R a in à j a n a. 

••*) v. Naia Xn. 31. 35. Bo.\ 22. 25. Bó. 

****) Il valaco chamor (amore) conservò la gutturale iuìziale, perduta dal 
latino. Bopp. 

*****) v. Porcellini s. v. Cupido §. 6. in fine: cujns quidem potentiae signifi- 
candae gratia, quidam eum pinxere florem et delphinum manu tencntem, 
quo ostenderent terra illum marìque lalissime domioari. 



§0 HALA CANTO I. 

L'inglese Jones è anfore d* nn inno a Cèrna dorè tentò riunire gli si* 
tributi dell'Eros indiano; se ne legge traduzione francese nella étcuntaB di 
GMsy, D. 211-12. 

!•• Naiiada è detto Naia da Niàada, sua terra 4 ). 

M« Con inimitabile brevità l'orig. adritacamo'BAt non etri amor fuu\ 

•!• Pentirai dèOa reggia^ anta: pur a=r gineceo. 

••• Cigno. Al ha usa deiroriginale sono etimologicamente consanguinei avuer, 
gans ted., ftp eco.— Con Schlegel e Meierho fatto corrispondere al baùli 
il poetico cigno che è parimenti dei palmipedi; tanto più che il cigno bron- 
zino (ano» melanotos, detto pure oca bron%md) è anzi proprio delle Indie. 
Brahma» e la moglie di lui, Sarastatt, montano il hansa che anche 
per la sua importanza mitologica ci riconduce al cigno d'altri popoli indo-eu- 
ropei ## ). Brahman che si trasforma in ha fisa, sta allato di Giove in figuri 
di cigno. 

SS. Gli Asvin sono gemelli ***) di perfetta bellezza, figli del Sole, medici 
degli Dei****) . Etimologicamente Asvin tale dototo-di-catalU, e nel Vedi 
troviamo questo vocabolo adoperato ancora per aggettivo in tal senso f). 
Secondo il Veda gli Asvin accompagnano l'aurora, assimigliata essa stessa i 
fulgida giumenta fi). Il sole, nella mitologia indiana, traversa il cielo in 
splendido cocchio, tirato da sette corsieri; ciocché non può non ricordare fl 
carro ed i cavalli del Sole, nella mitologia classica. E Castore e Polluce, 
gemelli anch'essi ed astri, montano bianchi destrieri. 

S4. Gandarva; v.n. «•HI. La éàcsust, facoltà visiva in grado eccelso, 
è loro distintivo ftf), analogo alle qualità del Deva cui servono. 

*) v. nota *• 

**) v. Lassen Ind. Alt I. 785-786. 

***) Aévinau è forma duale d'aévin. 

****) Li sappiamo genitori di due Pinzava; pref., p. 57. 

i) v. Benfey, GIoss. al Slmar. 

ft) Sàmaveda II. 8. 3. 6. 2. +++) v. Lassen, Lei 666. 



ÌLLUÓTRAZlONt. 91 

Viévftvasu (nominalo qual Gandarva pure nel r» teda) è nell'epopea 
il 'principe di questi a agaei genj della musica, dei ballo, e del canto *). 

M« Urlila. Significa serpe, e con unico vocabolo esprime fl biblico ì^ 

J*V^S (A oi le* 'ài gahom, che ta sul petto), da utfa pecttis e ga fai* 

Nell'India antica, ed in cèrte proVinciò particolarmente, conviveva al Brah- 

manismo il colto de 4 serpenti, è già avemmo occasione**) di accennare uh 

sagrificio angnino. Yi sono i Dei-serpenti (i Nigà, Sarpa, 

Mahoraga, da m a h I grande e tt r a g a) ma tenuti fra le divinità inferiori ***)*, 

nel tartaro gli angui hanno una città detta B* o g a v a 1 1 [dotata-di-serpenti] *•••) 

éeia (ovvero Anania senza-fine) Re de" serpenti, dalle mille teste, abita 

sotto alle sette regioni infere (Patii a v. n. M.) e porta la tèrra su d'una 

delle sue teste **•••). I Re de 1 serpenti assumono pure forme umane; 

nel nostro episodio (C.XIV. 4.) un re de* serpenti fa P a Sgali (v. n. 40«); 

ha piedi (ib. 7.); poscia si riduce ad estrema picciolezza [ib. 9.]f). 

NelTACarvaveda (v. n. A. II.) molte preci sono rivolte ai serpenti; e 

nell'epopea vige l'idea che la collera se ne plachi con preghiere ff). 
t 

M* Racias o Rtciasa è il nome di certi demoni, che furono compat- 
tati ai Vampiri e alle Arpie; di statura gigantesca, infesti agli uomini ed ai 
Devafff). Gli eroi però li superano, e nella prefazione (pp. 5 9,61) leggemmo 

# ) Che ganzar va, al singolare, denoti ne' Veda qualche apparizione lu- 
minosa nel Cielo (il Sole, ecc.), è manifesto dalle citazioni di Benfey 
nel suo Glossario al S&ìnaveda; e maggiormente ancora dalla dotta Me- 
moria di A.Kuhn, Gandharven und Kentauren (Zeiischrifl fuer tergi. 
Sprachforsch. I, 513-42), dove si citano altresì due passi del rgve- 
d a che alludono alla schiera de' Gandfcrva ; ai quali i brflhmana (v. 
p. 79.) attribuiscono una particolare propensione al sesso feminino. 
iT «A » dichiara inoltre in queir erudito lavoro le attinenze simboliche e 
mitologiche deiGancTarva colle Apsaras (ninfe, najadi, ncreidi), e tratta 
diffusamente della relazione etimologica e mitologica tra i Gandarva o 
i Centauri. — V'ha il feminino Ganzarvi (v. n. IO.)- 

*+) V.p. 64. La Sarpavidji (sciensa-de'-serpenti) si riferisce a tal culto. 

+**) v.però Schlegel, Ind.Bibl.L87;cfr. Jo«m.a*. 1839. Mano, p. 226, 

****) v. qui pia avanti C. V. 7. 

*****) v. éacunt ed. Ché%m 92. 5; Bó. 60. penult. 

t) t. delle mani di Anania, Journ. a*, 1839; Marzo, p. 229. 

tt) v. Svajaftvara, ibid. p. 235. ttt) v. Ràmàj. I. XLV. 46, 

6* 



<p HALA CAUTO I. 

come alcuni ne soccombessero ai colpi di B'tma. Sitibondi di magna, antropofago 
turbano {devoti uffici dei mortali; fuggono il sole, e se assumono forme a loro noa 
proprie, nella notte devono riprendere l'aspetto di Ràdasi; il sole gli affievohsee 
e gli sperpera *), ma oliando egli più non domina, risorgono potentissiau. 
Il cigno qui (si 28. a.) esalta particolarmente la fona di Naia, mccoae 
comparandolo agli AJvin ne aveva magnificato più che altro la beltà. Cori 
B'tma, il Pàndava, quando vanta la sua fona dice : a Non invero i Ricsati, 
„ o timida dai-begli-occhi, a sopportar valgono la mia fona, non gli nomili, 
„ non i Gandarva, non i Jacàa **).„ Ed altrove leggiamo : tt B'tma è ugnale 
„ in 'fona al re dei Niga „ (serpenti; v. la n. precedente***). 



Damajantt tu taé Srulvà vaéo hansasja Barala f 

tata: praBrti na s vasta nalam prati * 8 baBùvo sa ili 

tataé éintAparft dine vivarnavadanft créa * 
baBùva damajantt tu ni.dv&saparamA ladà i»2» 

ùrdVadrSUr djànaparft baBùvo 'nmattadaréanA t 
p&Q^uvarQà cgapenA '(a hrécajàviàtaéetanft «3« 

na éajjAsanaBógeSn ratio vindati carhiéit * 

na nactan na diva éete ha he Hi rodati puna: «4» 

tàm asvastón tadAcàràn saèjas tà gagHur ingitai: i 
tato vidarfiapataje damajantjA: saèlgana: «5* 

njavedajat tàm asvastAn damajantln nareévare f » ° 

taé crutvà nrpalir Blmo damajanttsaétgagàt «6« 

óintajAmAsa tal cArjaft sumahat svAù sutàm prati t 
cimarEan dubita me dja nA 'tisvasfe 'va laccate «7# 

*) v. Hidimbabada IV. 46., e l'annotazione di Bopp; e cfr. Cki*% &*• 
IL 209. Nei Veda pure i Racias sono mali spiriti, e contro a loro 
s'invoca il Dio del fuoco, Agni; un epiteto del quale è viveste 
ebe venne poscia a dir sole (v. n. ». I.). 

**) na hi me rlciasl Bfru so<Jun éactft: parleramami na m*~ 
nuijl na ganzarvi na jacSàs" étruloóanes Hidimbab. II. 36* 

***) v. Svajanvara, J. As. I. e p. 244. 



ILLUSTRAZIONI. g3 

, Mio signore* L'originalo ha vistai pati, che si potrebbe tradurre 
: signor degli uomini (snarendra). Vie, nei Veda, al plurale 
uomini, al aingoiare famiglia, (casa); così nei libri di Zaratnstra (Zo- 
ttro) vl£ easa 9 villaggio*); onde in Zend (lingua di questi libri) 
paiti hci-domwu$\ nei Veda vispati hominum-dominus. Vie risulta 
idi la prisca denominazione per l'uomo in generale dalla stabile dimora; 
poi derivandone Vaie j a si partieolareggiò con questo nome la tersa 
a. (v. n. #. m. [•]) Osservisi come dai Veda fu trasportata nella 
ria epica la espressione vislm pati, di cui limitandoci all'epica non 
erremmo sufficiente dilucidazione; e per ultimo non ai dimentichi che il 
inico stupendamente conserva nel wiès%-paU-($) il viépati del veda, 
ipaiti de' libri scadi, col significato di: gran signore, signor del paese. 



Canto secondo* 



• DamajantI udito il discorso del cigno, o Barata, * più 
da quell'ora di sé stessa non fu, ma fu di Naia 88 . 

f. Quindi pensierosa 89 , mesta, scolorita in volto e ma- 
cilenta t divenne Damajantt, in gemito continovo fl » 

I. allora. Guardava air alto meditativa ed aveva 

l'aspetto di demente ; t di pallor si tingeva improvviso, 

1. dal desire aveva la ragione invasa. Unqua non 

rinviene piacere o giaccia o sieda o mangi, t nò la 
notte nò il giorno assonna, ma u ahimè 1 ahimè 1 „ 

i. piange cosi e ripiange. Ài gesti si avvidero le 
amiche come con tale sembianza dessa in sé non fos- 
se, i Allora lo stuolo delle fide di Damajantt al re dei 

I. VidarBa, signor degli uomini * ° , manifestò che 

Damajantt più in so non era. i E il re degli uomini, 
udito ciò dalla schiera delle amiche di Damajantt, 

• si fece a meditare a bisogna di sì grave momento per 
la propria figlia: s u E perchè mai ora la figlia min 
non appare fermamente in sè? 9 

Sscr. ve* a orsa; e cfr. vie** lat; é=e, come aéve-eqpa-(s); 

éad=OMHo)> frairfc=soaii-(s) oca. 



94 

sa samtcgja mahtpàla: 

apasjad àtmanà, cArjan 

sa sannimantrajAmftsa 
anuBtìjatàm ajan vira:*) 



NALA 



ératvA ta partiva: sarve 
aBigagmus tato filman 



viéitramàljABaraQair 

tpg&m Blmo mahàbàhu: 
jatArham acarot pflgAu 

etasminn èva càie tu 
atamAnau mahàtmànàv 



svAn satAm prAptajaavanAm « 
damajantjA: svajanvaram *8* 

mahlpàlàa viéàm pati: t 
svajauvara iti praBo *9a 

damajantjà; svajaftvaram i 
rAgAao BtmaéAsanAt #10* 

pùrajanto vasundaràm ♦ 
balair dféjai: svalancftai; «11* 

pArfivAnAm mahAtmanAm • 
te -vasans taira pfigitA: «12i 



nàrada: parvataé éai Va 
devarAgasja Bavanaft 



surApAm Hi satta mau » 
indralocam ito gatan #13* 

mahAprAgBan mahAvratau s 
viviéAte supùgitau »14* 



Wv aréajitvA magavA tata: cuéalam avjajam t 
p9praó$A 'nàujajpfi óA 'pi tajo: sarvagataA viBu: «15» 

tolrada orila 
àvajo; coéalan deva parvatragatam févara • 
loco éa ma&avaa c|tsno PfpA: cabalino viBo #16* 



nAradasja vaéa: ératvA 
dàrmagBA: pjTivtpàlàB 

éastreoa nicfanaB cAle 
ajan loco ~c£ajas teàAA 



papraéSa balavrtrahA i 
tjactagtvitajodìiia: «17# 

je gaéSantj aparABmnóA: s 
jafai Va marna cAmatfuc* • #18* 



cva nu te cSatrijA: óArA na hi paéjAmi tAa aham « 
àgaéSato mahIpAIAu dajitàn atifln marna #19# 



*) pongo anuBùjatlm coli 9 edizione di Calcutta e con Bdhttingk per 
ranvljatdm di Bopp; perchè il primo quadra meglio al senso e 
perchè non mancano analoghe infrazioni del solito metro del primo 
piede (mettendo anuBùjatlm riesce pentasillabo). 



curro n. 95 

. Considerando egli il reggitor della terra che ma figlia 
avesse raggiunta la giovinezza, t scórse come a lai conve- 
nisse offrire a Damajantì la scelta d'uno sposo* 1 . 

• Egli il dominatore invitò i sovrani della terra, * pren- 
ce, con dir: * Si tenti orsù, ecco la scelta d'ano 

. sposo, o eroi. „ Avendo inteso i monarchi tatti 
che Damajantì aveva a scorre lo sposo, 1 a Blma ac- 

. corsero quindi i re come egli aveva ingiunto. Dei 
carri, dei cavalli e degli elefanti col rimbombo, la 
terra empievano, t cogli eserciti stupendi, ben parati, 

• che di serti svariati si fregiavano. IMma dal lungo 
braccio a % a codesti sovrani magnanimi s rese quali si 
conveniano onori, ed essi ivi albergavano ossequiati. 

E i due ottimi fra i sapienti divini 84 in quel 
tempo 1 da qui si recavano, vagatori 33 magnanimi, al 

• cielo d'Indra. N&radae Parvata *« son dessi, grandi 
in iscienza e in divozione, s che splendidamente osse- 

, quiati entrarono nel palagio del re dei Deva. Ono- 
rati che gli ebbe^ della prosperità illesa Indra 35 1 
il signor gli interrogò, e della salute loro ovunque 
-diffusa. 

E Nàrada : a Deva, Signore, godiam di prò- 
yy sparita ovunque diffusa, s e nel mondo, Indra 
yy possente, tutti son prosperi i regi. „ 

Udì Fuccisor di Baia e Vrtra*) il parlare di Nà- 
rada, e chiese ancora: \ "Quei consci del dovere, 
* custodi della terra, che dimentichi della vita pu- 

• yy gnano, che, giunta Torà, vanno a morir di freccia 
yy senza dar le terga ; s per loro questo mondo eterno 

. yy è come per me la vacca onnUargiente. » • I 

yy CSatrija, gli eroi, ove son dessi? io non li veggio 1 

» quei reggitori della terra, che ne vengono cari ospiti 

yy miei * 7 . 9 

r. n. s.n. 



g6 IttLà 

evam actas ta éacreqta Banda: pratjaBAIata i 
érva me magavan Jena na dj-éjante mahfcgita: §20» 

vidarBaràgfio dubita damajant! Hi vttrotA i 
rùpej^a samaticràntà prfivjàn sarvajoftta: «21» 

tasjA: svajanvara: éacra BavitA naóirAd iva f 
latra gaófianti ràgàno rAgapotrAé éa sarvaéa: §22» 

tAn ratoaBAtAA locasja prArtajanto mahtcgita: i 
cABcfenti ama viéeèejja balavrtraniéfldana «23» 

etasmin cacamene ta IocapAlAé éa sAgnicA: i 
Agagmnr devarAgasja samlpam amarottamA: «24» 

talas te éuémvu: sarve nAradasja vaéo mahat v 
érutvai Va cA 'bravali bri|A gaóSAmo vajam apj ola i25i 

tata: sarve maharaja sagapA: sahayàhanà: • 
vidarBàa aBigagmus te jata: sarve mablcàita: #26§ 

nalo -pi rAgA caunteja érutvA rAgBAn samAgamam i 
aBjagaéCad adlnàtmà damajanllm anuvrata: »27§ 

afa devA: pali nalan dadpiar BAtale sfitam i 

sàcgàd iva sfitam mùrtjà manmatan rùpasampadA #28» 

tan dj-StvA locapAlAs te BrAgamAnaft jalA ravim i 
tastar vigatasaScalpA VismitA rfipasampadA «29» 

tato nlaricèe vityaBja vimAnAni divaueasa: i 
abruvan naiSatfaù rAgann avatirja naBastalAt «30* 

Bo Bo naidada rAgendra naia satjavrato BavAn i 
asmAcan cara sAhAjjan dùlo Bava narottama «31* 



§ iti nalopAòjAne dvititja: sarga: *2* 



CAUTO B. 97 

). Così da Indra richiesto, Nftrada rispose: i "Odimi, o 
„ Indra, perchè gl'imperanti della terra non si scor- 
ia yy gano. Ewi figlia del re dei VidarBa nel nome 
yy di Damajantì celebrata s che di bellezza va innanzi 

\. n a quante ha donne la terra. Indra I tra breve 
^ avverrà d'un marito la scelta per parte di codesta, * 
yy perciò ivi ne andarono i Re e i figli dei Regi tatti; 

t. yy bramosi i dominatori della terra, a quella gemma 
^ del mondo i anelano sopra lutto, o uccisor di Baia 
n e Vrtra.» 

L. Mentre questi narrava, ecco altri Custodi del mondo a » 
(ed Agni con loro ••), i i supremi fra gli immortali 

>• giungere al Re dei Deva vicini Tutti quindi si 
udirono l'insigne racconto di Nftrada, i ed ascoltato che 
T ebbero, lieti gridarono "E noi pure ci anderemo. 9 

>. Cinti del loro séguito, o gran re, tutti nei carri allora » 
si avviarono dessi verso i VidarBa, ov' era ogni re 
della terra. 

T. Re Naia pure, o Caunteja, saputo del congresso 

dei regi • sen veniva non triste nelT animo , che a 

ì. Damajantì già era divoto. I Deva per via scórsero 
Naia stante alla superficie della terra, * del tutto come 
se Amore fatto corporeo ivi si stesse, per la perfetta 

). bellezza. Vistolo i custodi del mondo fulgido come 
il sole, i ristettero privi di consiglio meravigliando per 

). così perfetta beltà. Quegli abitatori del cielo rat- 

tenendo allora i carri nello spazio, * discesi, o re, dalle 

1. aeree regioni, cosi al NaiSada favellarono: a 
yy Natéada, o re dei re, Naia tu sei dedito al vero ; t 
yy fa di venire in nostra aita, sii messaggiere a noi, 
yy o T eccellente degli uomini. n 



ttAU CAUTO IL 



NOTE AL SECONDO CANTO» 



•0. D fecondo terso del primo tioca di questo canto cosi suona letteral- 
mente tradotto: ex Uh tempore non sui eompos {in-se-stans) Kalam erga 
fini ea. Bopp traducendo: abbine x in posterum non apud se, Nahm 

versus eroi ea delineò V interpretazione seducente che adottai. Temo però 
che il poeta abbia volato dir soltanto: da allora in poi non padroneggiala 
più sé stessa rispetto a Naia, cioè: non poteva celar più Tamor suo *). 

M« pensierosa; òintftpart, aggettivo composto ài due voci, la primi 
indicante pensiero V altra eccelso, principale, colla desinenza femimìe ; il quale 
fecondo un uso invalso nella lingua viene a dire: immersa in pensieri cioè: 
avente-ityensiero^er-la-precipva-cosa**') Analogamente abbiamo nel 

medesimo éloca ni:évftsa-param& (gemito-prima) ami tutto data ai ge- 
mili; e nel seguente, dTjftna-parft (meditamento-precipua) assorta in me- 
ditare. 

SO. Bdhtlingk nella sua Crestomazia abbrevia fl testo d* uno éloct 
omettendo fl primo arda ilo e a (mezzo-sloca) della quinta e il secondo deOt 
settima strofa della lezione che Bopp adottò, senza notare alcuna divergenti 
nei codici, e ch'io riprodussi Bóhllingk espungendo quei versi, pare a ne 
abbia privato il canto d'un passo che rivela Io squisito -sentire del poeti. 
Le amiche (il. 6.) narrano al re che la figlia sia fuori di senno ; ma egli 
nel suo lamento (il 7.) si limita a dire: perché mai la non é più forte à 
senno? n Tentiamo illuderci quando grave malore colpisce l'oggetto dalli 
nostra tenerezza, o ci sembra attenuare la sventura dipingendola con miti 
espressioni. 

# ) Cfr. in questo medesimo canto (IL 7.) ctrjaft sumahat svia 
aut&m prati bisogna ben grave rispetto a sua figlia-, così éncunt. 
6d.CÀe f sy,33.x5-i6;(ed.JrdÀf/ifi9flr,17. i3-i4.)cin nu cala jaff 
vajam asj&m evam ijam apj asmln prati sj Et; sarebbe ella 
mai rispetto a noi quali siamo noi rispetto a lei? Anche 

Bopp nel glossario dà a prati il senso di quod atHnet ad, citando 
Nola 19. 3a.; ma dev'essere incorso errore nella citazione, non leggen- 
dosi prati in quello éloca* 

**) v. Bopp, Gr. cr. $. 666; kl, Gr. $. 598. 



tLLusnuziom. g) 

Gli aloca camminano è tero più spediti nel testo ricostruito da Bòhtliugk, 
ma una reale difficoltà che in questi versi s'incontra non ò eliminata con 
quell'accorciamento. Bopp traduce: (Bopp él. 5, b. e él. 6, a.; Bòhtlinglf 
éL 5, a. b.) deinde Vidarbhorum-domino (videro apataje) Damayankae 
amicarum-turba, decloravi! eam non sw-compolem Damayantiam oh ho- 
mmum-dominum (n a ree vare). Ma se le compagne avessero esposta aire 
la cagione per coi Damajanti delirava (e ci vorrebbe ben della violenza a non 
veder ciò in simile interpretazione), come spiegare la domanda ch'egli si fa 
dappoi: quamobrem fitia meahodie non talde-sui-compos nidetur? Bòhllingk 
rifiutò bensì quest'ultimo verso, però rimane sempre strano il pensiero del 
re di offrir alla figlia (v. la nota seguente) la scelta d'uno sposo, nel mo- 
mento che scaopriva averlo il cuore di lei già eletto. E d' altronde nel corso 
del poema nulla attesta che B'ima fosse conscio dell'amore, che già a que- 
st'ora legava la figlia a Naia. 

Ei mi sembra indispensabile o di supporre una strana negligenza di stile, 
per la quale il poeta dopo aver cominciato la frase con un dativo (pataje) 
retto da njavedajat, stretto dal metro l'avesse compita con un nome 
parallelo al primo (n aree vare) ma in altro caso, cioò al locativo, che 
però può parimenti esser retto da nivedaj*); o di ascrivere ad errore 
di amanuense la lineetta sul re fa finale di nareévare (errore suggerito 
appunto dalla vicinanza di njavedajat e dalla lontananza di pataje), per 
modo che rettamente se ne avrebbe un vocativo riferentesi al regale udito- 
re. — Nel primo supposto si otterrebbe il senso: Al Sire de" Videro a 
degli uomini signore manifestò che ecc.\ nel secondo: Al re de" Vidarfia 
manifestò:, o. tu degli uomini signore, che ecc. Per artificiale ambiguità 

la mia traduzione è conformata ad ambo queste ipotesi. 

SI. Scelta tf uno sposo. Lo svajanvara, da svajam ipse e var,à 

*) Bopp nel glossario (p. 320. b.) non segna il locativo fra i casi retti 
da nivedaj-, ma nel nostro episodio stesso, nel primo canto (él.31.) 
ne abbiamo esempio, al quale aggiungo : Ràm. (6.) 1. xxxix. 1 . — Anche 
il semplice vedaj ha il locativo in significato analogo (v. p. es. M a n u 
XI. 31; il glossario di Bopp per errore XII. -31.); e. credo, pur composto 
a sam. Bopp omise nel gloss. questa composizione di vid,e Western 
gaard che l'ha (san vedaj) non leattribuì il significalo di riferire, nar- 
rare, che dall'esempio di N a la XVIII. 1 5. (14.) mi sembra esserle proprio* 




ioo mila cauto n. 

electio; quasi Ubera-sctUa. Era costume dell' India antica the la figlia 

di Re scegliesse lo «peso tra i sovrani pomposamente adunati. Anche Brlh- 
mapa assistevano alla solennità, ma V eletto doveva essere mio Ciatrija; e 
quando Dranpadl (v. pref., pag. 59.) toccò in sorto ad Arcana, eh' era ve- 
stito da Brahmani, i sovrani offesi gridarono : tt I Brfthmana non hanno titola 
„ alcuno a tale ceremonia ; lo svajaftvara è per f Cfiatrjja, come dice fl noto 
„ testo della scrittura. „ Il brano del Mahàltòrata che tratta appunto della 
scelta di Draupadt (y. pref., n. alle pag. 65-66, N.° 13.) porge la descrizione 
d'uno splendidissimo svajaftvara; ivi è il padre che promette la figlia a chi 
offerisse una data prova di forza e di destrezza; pur la volontà della figlia 
pesa nella bilancia. Talvolta si vide uno Csatrija far pendere oon violenza a 
suo prò lo svajaftvara *), e d'altronde (cfr. la nota antecedente) non è da 
credersi che manchino nell'India antica esempi di nozze regali, non prece- 
dute dallo svajaftvara**). 

M« dal Itmgo braceio. La lunghezza dette braccia è riguardata dagl'Indiani quale 
distintivo degti eroi. A. G. Schlegel opportunamente ricorda longimanus del Re 
persiano, aggettivo ohe avrà tetto sapporre la deformità di cui parlano i classici 

88. vogatori, atamanau (du.); dalla radice a \ ambulare, togati, circum- 
errare. Bopp ha: sapienHum-opHmi vadentes magnanimi. Se questo 

participio non fosse altrove adoperato nel senso proprio di errante, vagante 
(v. p. es. Naia X,4;), sarei vivamente tentato a tradarlo per esploratore, 
senso suggerito dall' ufficio dei due sapienti che qui si nominano (v.Ian.seg.) 
e congruo a un derivato da at; come in ebraico dalla radice ^1 si ha 
il nome <>£) piede (quello che va), e il verbo ^H esplorare, onde ?*D9 esploratore." 
Dalla radice af havvi derivati per indicare il pio vagare mendicando. 

8M. Sapienti divini, Ndrada e Panata. GF Indiani distinguono tre specie di 
santi-sapienti (rSi): deverai, brahmarii e rlgarài; sapienti divini, 
brahmanici, e regali. Appartengono ai primi Ndrada e Parvata qui menzio- 
nati, i cui nomi nessuno, ch'io sappia, sottopose ancora ad esame etimologico. 

*) MahiB.; Ambopàcj. I. IL 

**) v.RÉmàj.(S.)I. xxxiv. 47; lxx. 44; lxxi. 20-22. Mahàb., nozze d'ABimanju, ecc. 



ILLUSTRAZIONI. 101 

Nàrada da nira e da (acqua e dante) viene a dir nube (efr. galada 
ecc. ugualmente aquam-dans, quindi nube)\ e parvata che nel sanscrito 
classico significa monte, ha nel vedico anco il valor di nube*). Stabilita que- 
sta identità etimologica, se passiamo a considerare la missione di esploratori, 
di messaggierì fra il cielo e la terra, che a Nàrada eaParvata è affidata; se 
ricordiamo come non paja estranea all'Indiano l'idea che la nube sia messaggiera, 
idea che ispirò a C&lidàsa il poemetto di simil titolo già celebre in Europa**); se 
pensiamo io fine che Nàrada e Parvata vanno al cielo d'Indra al coi servizio stanno 
le nubi — stenteremo a non supporre che Nàrada e Parvata fossero originariamente 
Nubi osteggiate appartenenti al corteggio d'Indra, ch'è il fBqidyy^éta Zwg degP 
Indiani*— Iride, Parco-baleno, vero n Ir a da (jaquain-dans) feminile, perchè 

a Concipit Iris aquas, alimentaque nubibus adfert***) „ 
Iride, decm coeU, è parimenti il messaggiere degli Dei. 

Parvata ò nel Veda invocato unito ad Indra *+**); Nàrada, eh" io sappia, 
non è nominato negP inni vedici. In un bràhmana del Rgveda f), Parvata e 
Nàrada ci- appajono propaganti la cognizione dei riti brahmanici; il codice di 
Manu (I. 35.) pone Nàrada fra i dieci pragàpati siguori-éeUe-crealure, 
esseri divini formati nel principio della creazione. Nel Mahàfiàrata e nelle 
poesie posteriori egli scorre tuffi mondi, è il Devarèi che tutto sa, che ri- 
ferisce in cielo gli avvenimenti della terra, e ai mortali quelli del cielo fi). 
Lo vedemmo nella prefazione (v. nota alla p. 65, N.°5.) ammonire i P4n- 

*) Le alte vette dell' Himàlaja si pèrdono nelle nubi e la lingua confonde 
il monte e la nube. Già Bóhtlingk nella Crestomazia p. 397, notò 
che nel sanscrito classico gràvan significa e monte e nube, e che 
varj dei sinonimi per nube che si leggono Nai&. I. io, vennero dap- 
poi a dir monte. Sul valore di quelle sinonimie v. la nota 41*;- di 
parvata nubes però conosciamo V uso con certezza; leggiamo p. es. 
Rgv.1. 19. 7. ja ìncajanti parvatàn * tira: samudram arca- 
va m, qui propellimi nubes trans mare undosum. Cfr. Bopp, Gloss. s. v. 
tiras; Lassen, Anth.sscr. p. 134; Bóhtlingk, ChjresL 440-41. 

**) Me&adùta la nube messaggiera, edito e tradotto da Wilson, Calcutta 
1813; nel 1841 il testo fu ripubblicato a Bona da Gildemeister : Ka- 
lid. Meghad. et Qringaratilaka. Max Muller ne mandò alla luoe nel 
1847, a Kdnigsberg, una versione poetica tedesca, 

***) Ovid. Ifetam. I. 271. •***) v. Samav. I. 4, 1, 5, 7; al Gloss. di 
Benfey manca però la voce Panata qual nome proprio. 

f) v. n. 4. II; Aitareja-bràhmana VII. 34. Rota, zar LitU und Gesch. d« 
Weda, p. 41; e Weber, 1. e. p. 69. 

ff) v. éacunt. ed. Chéiy, I. 144,5; ed. Botiti 95,5. 



ioq 5 al a. cacto n. 

dava alia concordia, e nello svajanvara di Draupadt *) lo troviamo fra i 
celesti spettatori di quella solennità, accompagnato anche allora da Parata. 
Egli ò il primo fra i sapienti-divini, e nel poema filosofico, la Ifagavadgfti, 
quando il sommo nnme esponendo il panteismo qualifica sé stesso, quasi id 
esempio, V eccellente in ogni specie d* esseri, giunto ai savj canta : e fra i 
dirmi sapienti son Ndrada**). Questi porta la vini, il liuto, propria in- 
venzione ; e da lui s' ispira il poeta Vàlmtci ***). 

85. Indra (v. n. 8» in fine) qui e nello Sloca seguente è detto ma&avin; 
Bopp ha nel glossario ì a ma$a, quod etiam sacrificium significare videtur, 
quindi induce sacrificato, seguendo Lassen, Ànth. p. 148. — Nel Naifc. ILic. 
(ed. Roth, p. 13.) maga ò dato per sinonimo di «Tana ****); dotato-dir 
dovizie pare perciò traduzione preferibile. 

3G. Per quelli questo mondo eterno è come per me la vacca onnilargirnte.- 
Vacca onnilargiente traduce il sanscrito Cdmaduhf) nome d'una vaca 
prodigiosa che appaga qualunque desiderio di chi la possiede. Il testo pre- 

*) Journ. as. 1839. Mano, M5. •*) B'agavadg. X. 26. 

•••) v. Ràmàj. (S.), C. I. e C. III. t. 

****) i| senso di ricchezza gli si conferma negl'inni vedici. 

f) Da càma desiderio e duh; se prendiamo duh~mulgens come Bopp 
vuole, il composto non potrebbe non essere un bahuvrìhi, cioè: 
vacca che ha chi ne munge ogni cosa bramata, e parimenti il sino- 
nimo càmadohint [Ràmàj. (S.), I. un. 25;]. Ma quest'accezione non 
mi sembra soddisfare; e son molto proclive a tradurre omnia optala 
sicut tao reddens, effundens; perche credo il senso di lac reddens, 
effundens, trop. praebens, possibile al d u h finale oltre a quello di mal- 
gens. Bopp si limita a dichiarare la radice duh, della seconda classe 
e col significato di mulgere\ porta però tacitamente V esempio dal 
Hahàft. I. 6657. eàmacTuc càmàn duhjate sadà Cdmaduh optala 
effundit semper, dove duh colle vesti dell'Àtmanep, IV. ci. (-pass.) vale 
effundit, praebet. Westergaard pone quest'esempio nella rubrìca 
pass, re/7., al quale dà il senso di lac e/fundere ecc.; ma nei suoi 
esempj di questo pass. refi, evvi (ciocché è di massima importanza per 
poi) (fucàva (Jagurveda 8. 42. 6?.), ed altri donde appare che nel 
semplice Àtmanepadam (non estraneo neppure al senso di mulgeré) la nostra 
radice vien ad assumere il senso di effondere. (V. pure Benfey, Qt. 

§§. 873, 875.); quindi mi par lecito far ành-praebens. (Cfr. jng 

finale, con senso non congruo al Parasmaipadam della radice j u g). Per 
chiudere con un'analogia, lattante in italiano è chi dà e chi prende U latte. 



ILUOTftAZIOttT. IOS 

tenta tra' ambiguità ohe non dispari nella tradazione. Si pad intendere 
dal testo che Indra dica: questo mondo è dei Sovrani come la vacca 
onnilargienie è mia , oppure : tacca onnilargiente è questo mondo al 
per me e sì per i sovrani; Ha preferisco la seconda interpretazione, perchè 
mi sembra più naturale e perchè mai, credo, si trova attribuito ad Indra 
il possesso della Càmaduh. Cdmaduh non riesce qualificativo strano del 
mondo d' Indra, giacché analogamente altrove ai rinviene il godimento della terra 
figurato qual possesso d' una vacca, e in generale la terra assimigliata a 
vacca. Leggiamop.es. in B'artrh ari, Nttiéat. 38. (ràgan duducjasi jadi 
esiti d'annoi enam ecc.) a re se mungere vuoila vacca della 
terra, sostenta qual vitello il genere umano ; „ e nel B'agavata-purà- 
na: la terra (qual vacca che si mugne) die al mondo tutti i suoi 
tesori (J. as. Ottobre 1832. p. 371). 

Bohlen nel suo Commentario al passo qui citato da B'artrhari (p. 192.) 
dice: Terram sub vaccae specie sibi repraesentare Indos tum ex vocabulis 
gau: et Bù: quae vaccam simul terramque significante tum ex mytho 
ilio de Prtivt dea, notum est, quem in India (I. p. 252) illustravimus \ 
eie etiam celeberrima illa vacca Càmadenu et Càmacfuc (Nalue 
2, 18. ubi prima expUcatio [qui sopra la seconda] quam Boppius m 
Notte ad novam ed. proposuit hac nostra sententia confirmatur) revera 
tellus est\ etc. 

Non è qui il luogo di trattare del mito della terra in forma di vacca 
(qui si parla pere del mondo d'Indra) cui Bohlen accenna e che la lingua 
ritrarrebbe nel vocabolo go (nominat. gaus), non pere in Bù che vale 
terra ma non vacca *). Però mi parrebbe uno de' soliti abusi che dei miti 
si fanno il voler supporre che qui ed in casi simili, parlando della Càma- 
duh s'intenda propriamente la terra ; mi parrebbe assurdo non riconoscervi 
una reale comparazione colla vacca favolosa che appartenne al Bràhmana 
VaéiSfa**), e che nella dottrina panteistica (v. la nota 3#« alfine) è no- 

*) Bohlen certo fu indotto in errore dalla comparazione che v'ha nella 
Biblioteca indiana, II. 293, di Bù con BOTS e BÓS nei varj casi; 
ma a pag. 292 Schlegel stesso avvertiva che Bù ha esclusivamente 
il senso di terra. Piuttosto si potrebbero addurre mahì, ila, gagatt 
che valgono terra e che \ sinonimisti indiani pongono fra gli equivalenti 
di goirvacca. 

**) v. RàmJjana, episodio di Viivàmitra. La Càmaduh è da VasiSfa chiamata: 



iq4 bala canto u. 

minata come la eccellente della specie sua: "tra le vacche son la Càmaduh.,, 

(«fenùnim asmi c&ma<fue; B'ag.g. X. 28.) 

La yacca è veneranda per l' Indiano ; v. Mann XL 78. 79. Tra i sinonimi 
di go vacca (Nai&.II. h.) «i pone afcnjà che s'interpreta la-non~dar-leder$iy 
la-non-da-uccidersi. Le più antiche reminiscenze dei popoli indo-europei ce 
li raffigurano nella loro culla dediti alla pecuaria ; e ciò ben contribuisce a darci 
ragione dell'alta stima a cui salirono gli utilissimi ira gli animali domestici, il toro 
(v. n. 17.) e la vacca. La parola per indicar .figlia è in sanscrito duhitr 
(=&vy<xTrjQ~ dauhtar gotico ecc.) che vale mungente, e g o t r a sscr. famig&a 
è etimologicamente servans boves. Yatsa vtiulus, venne a dire carus, dilectus, 
amicus.—E dalla vacca trae l'Indiano l'alimento del suo sagrificio, il buio. 

S9. cari ospiti miei. Amici d' Indra, il Dio delle battaglie (v. n. 8. IL) 
sono i Céatrya ; Indra attende nel suo cielo . gli eroici sovrani, come in Mano 
sta scritto, VII, 89. 

80. Custodi del mondo f (Lo capila). Indra, Agni (t. n. *©*)> J«w 
(v. n. #*.)» e Vampa (v. n. 41.) son qui detti Lo capa la. Lassen sop- 
pone che in origine i custodi del mondo fossero quattro, i nominati in Haaa 
m. 87., cioè: Indra all'Est, Jama al Sud, Vampa all' Ovest, e Soma (Dio 
Lunus) al Nord. Loiseleur Deslongchamps nella sua traduzione ha Cuvera (r. 
n. le.) per custode del Nord. (V. Ind. Alt. I. 736 n. 3; cfr. 772). 

Manu però ne conta otto [V. 96; e VII. 4;;;*)]*, cioè: Indra, Agni, 
Jama, Sùija (Sole), Vampa, Vàju (vento), Caverà, Soma; e -un re, secondo 
Manu, è composto di particelle di tutte queste otto divinità**). 

Sabota; egli trae da lei eserciti interi per opporre a re Visvàmitra; 
da lei che l'ama "come sorella „ (IV. 9), che lo rinfranca a combattere, 
perchè la potenza cSatrijaca cede alla brihmapioa. (ihid. 14. 15.) 

*) Così son da correggersi le citazioni nell'Ind. Alt. L 771. n. 4. 

**) Locapàla è detto di sovrano mortale nella Sac. ed. Chéty, 55. p. 
(pricr.); e 92. 1; ed è da osservarsi che nella recensione edita da 
Bah ti. non si riproduce queir espressione ; del primo passo non v'ha 
il corrispondente nella recensione bòhtlingkiana, e nel secondo (60. 19.) 
in luogo di cuto vfi visramo locapàlànàm donde (come mai) 
avranno riposo i custodi del mondo ? evvi : avisràmo j a ù loca- 
tantràtficdra: non lascia quiete V ufficio di sostentare il mondo 
(il genere umano). 



ILLUSTRIOONI. I03 

Ed Agni con laro. Agni in sanscrito vai fuoco (igri-s). Qua! Dio del 
fuoco Agni occupa nel Veda posto importantissimo, gareggia quasi con ladra, 
ed anzi come Weber osservò*) a nessuna divinità il Rgveda dedica più inni 
che ad Agni **) Egli é il custode del focolare e dèi gregge [v. pire p. 92* 
a.*)]; lui s'invoca perchè gli altri Deva seco adduca al sugrifieio,- e, 
del pari che alle sante cerimonie, egli nelle epopee (unito ad Indra 
talvolta) li guida innami a divinità superiori. Da questa sua qualità di con- 
duttore dei Deva ha luce la frase ed Agni con loro qui adoperata, quantun- 
que Agni stesso sia dei Locapàla (v. la n. precedente) e gli altri in questo 
passo non sieno nominati. 

È proprio il Dio sacrificatore, e nel Veda è perciò detto hotr 
(sacrificator); quasiché egli, accogliendo nelle sue fiamme le offerte dei mortali, 
le inalasse a presentarla agli Dei ***)• 



*) Ak. Vorl. p. 39-40. 

**) Tre forme d'Agni si adorano nei tre fuochi sacri: il gtrhapatja 
(perpetuo fuoco sacro domestico) volto all'occidente; il daeSipIgnì 
a mezzodì ed il pftrvàgni ad oriente, (v. Stevenson ap.Bòhtl. 
Or. 432; cfr. Benfey (Hoss. Sta. : fihavanlja, gftrhapatja, 
dacàipègni; e in Manu, II. 231: gàrhapatja, dacsipdgni, 
fihavanlja; ma ib. III. 100, si parla di cinque fuochi sacri; v. pure 
bu M.) 

*•*) Assai chiaramente si stampa questa idea negli epiteti d' Agpi havjavàh, 
havjavàhana eeector sacrifica. È detto pure hutàsa che mangia 
il sagrificio (Naia, C. IV. sL 9.); ma pur questo nome resta comune e 
al fuoco e al Dia del fooco (r. XXI. 11.), del pari che havjavftV 
liana (v. XXflL 13. [1*]). 



106 MALA 

III. 

FeBja: pratigBàja naia: carigja iti Barata » 
alai 'tón paripapraéSa qrtàBgalir upasfita: «1» 

ce vai Bavanta: caé éà 'sau jasjà 'han dùla Ipsita: t 
cin éa tad vo majà càrjafi cafajadVan jatàiafam «2» 

evam urte naigacTena magav&n aBjaBàgata i 

amar&n vai nibodft 'smfin damajantjarfam àgal&n »3i 

ahara indro jam agnià éa tarai Va 'jam opàra pali: ♦ 
éarirànlacaro nfràn jamo "jam api partiva «4* 

tvan vai samfigat&n asmfiu damajantjai nivedaja t 
locapàlà mahendrftdjà: samàjànti didrcgava: h5« 

prftptam iéSanli devfts tvàù éacro -gnir varono jama: s 
teàftm anjalaman devam patitve varajasva ha 060 

evam ucta: sa éacrena naia: prftHgalir abravtt • 
ec&rtasamupetam man na preéajitum arhafa 070 

cafan tu gàlasaHcalpa: slrijam utsahate pumàn 1 
paràrEam idràan vactun tat cSamantu maheévarà: 08* 

deva ùóu: 
cariba iti sanérulja pùrvam asmftsu naiSacTa 1 
na caricasi casmàt tvan vraga naisadfc màciram 090 

evam ucta: sa devais tair naiàacfa: punar abravit f 
suracsitàni veém&ni praveàjufi cafam utsahe 0IO0 

pravecèjasl Hi lan éacra: puaar evft 'BjaB&gata t 
gagàma sa tate 'tj uclvà damajantjft niveéanam •!!• 



CANTO Ut 107 

Canto terzo. 

1. Naia* a coloro, B'firata, promise: 

„ Fafollo a , e V una palma ali* altra giunta 4 % 
Accostandosi a lor sì li richiese: 

2. n voi chi sete ? Ed a chi messaggiere 

„ He si brama? E da me qual dee compirsi 
„ Per voi bisogna? Per dir ver parlate! n 

3. Rispose a tali accenti del NaiSacTa 

Indra così: n Immortali ornai ci sappi, 
„ Qui per eagion di Damajanti. scesi. 

4. „ Son Indra, ed Agni ò questo, e quei dell 9 acque 

„ Moderatore 4 * , e Jama 4 a è 1 altro, prence, , 
9 Che le salme degli uomini distrugge. 

5. v Esser noi giunti a Damajanti annunzia : 

„" I custodi del mondo d' ammirarti 

„" Vengono ansiosi, e il sommo Indra n' è duce 4 *« 

6. „"I Deva che desian di possederti 

9 " Indra ed Agni qui son, Varuga e Jama, 
„" Un di loro a marito eleggi, un Deva! "* 

7. Così Indra a Naia, e questi a giunte palme 4 ° 

Ricominciò: „ Inviar deh non vogliate 
a Me che qui trasse una medesma brama. 

8. „ Uom di senno fornito, per altrui 

9 Tai cose dir come potria alla donna? 
„ Condonar mei vogliate o Numi eccelsi! * 

9. Ma i Deva: „ In pria „f arollo" così desti 

„ A noi tua fede, ed or che noi farai? 
v Senza indugi Naigatfa, va NaigacTa! # 

10. Dai Celesti così fu a Naia ingiunto, 

Ma desso oppone ancor: ^ Com' entrar posse? 
„ Rigorosa custodia hanno i palagi. * 

11. „ Entrerai I* nuovamente a dirgli prese 

Indra, e colui „ sia pur così u soggiunse 
E alla magion n' andò di Damajanti. 



IqS ITALA 

dadaréa (atra vaidarBft * * * sà&gàj$samàvrtàm s 
dedlpjamànàù vapuSà àrijà éa varavaroinlm «12# 

attva sucumàrà5giti tànumàcTjÉil ^ufòéanàtti r 
ftcgipanttm iva prafiàù*) ; Saetta:' sfénà tè^asft #13« 

tasja dr§lvai Va vavrcìè càrtìfcs tàH éftrbhàsihlm « 
satjafl éiclrgama^as tu ffftrtjàmàsa ftréSajam *14* 

talas tà naiga&m drSjvà kamBrfttttà: paramàfigairt: » 
àsaneBja: samutpetas te^sà tasja 'dhriiti: *Ì5* 

praèaéaàsué éa siiprftft nalan Hi vismajànvità: • 
na éai 'nam aBjaBfiganta mfcnoBis tv àBjaptìgajàn«i6# 

aho rApam aho càntir aho tfàirjam ìnàhàttnénar i 
co jàii devo "fava jacgo . ganctarvo vfl Baviéjati #17» 

na tfts taft éacrtuvanti 'smà tjàharhiih api cinéana » 
tegasft (Tarsitas tasja laggàvatjo varàfiganà: «i 8« 

alai 'naft smajamftnata tu sróitapflrvà THBàSiflt * 
damajantì nalan vtram aBjafiàsata ViSmità 4 * «1 9# 

cas tvan sarvflnavadjàHga marna hróSajavarJana i 
prfipto M sj amaravad vira gfifitum iéSàmi te *naga 4 5 #20« 

cafam OgamanaB 6e 'ha cafaH éà 'si na facilita: » 
suracàitaù hi me veéma ràgà éai 'vo 'graà&sana: «21» 

evam uctas tu vaidarBjà nalas tara pratjavfiéa ha i 
nalam man vidcfi caljàQi devadùtain ihà 'gatam *22« 

devfis tvàm pr&ptam iéGanti éacro gnir varano janja: * 
teààm anjataman devam patin varaja éoBant »23* 
*) Pare qui sia violato il metro ; v. BòhtL Cbr. 277*78. 



canto ra. 109 

12. Di fida schiera cinta ecco la B'aiml 

Dall' eletto lignaggio, in le fattezze 
Folgoreggiante di beltade ei scorge. 

13. Snello il seno e ogni membro assai soave, 

Dolce ò il guardo di lei che vince quasi 
Col suo splendore, della luna il raggiò. 

14. Crebbe l'amore in lui mirando il volto 

Dal bel riso, ma amor compresse quegli 
Che verità Dell' opre sue desia. 

15. Dai seggi lor turbate le fanciulle 

Dalle membra leggiadre alzarsi ratto 

Del Re air aspetto, dal baglior percosse. 
1 6. Con gran diletto tesson laudi a Naia 

E onori col pensier, ma far parola 

Non ppnnq a lui da maraviglia invase. 
17- *0 mirate qual forma! qual beltade! 

yy qual fermo valor nel generoso! 

„ Un Deva fia, un GancTarva, un Jacsa questi?/ 
i 8. Ma pur non ponno profferirgli accento 

Le vezzose donzèlle, che il pudoro 

Arrossa, e ammalia f irradiato aspetto. * * 
* S. A Naia eroe che sorridente slava, 

Schiudendo al riso pria che al dir le labbra 

Damajantl in stupor cosi favella 43 : 
«M). „ Tu eroe chi sei, 'n beltà perfetto e in opre, 

„ Che al mio ardore alimento aggiungi, e arrivi 

„ Come fossi immortai? Sapere io bramo 
2l „ Come ne vieni e come mai non visto? 4 *. 
% » Ha gelosa custodia il tetto mio, 

„ E seyer quand' impone è il genitore. „ 

22. Naia ciò udìo dalla VaidarBt 43 e a lei 

Rispose: „ Seppi, io mi san Nata, fonala, 
„ Dèi Deva messaggere qui venuto. 

23. n Indra ed Agni e Varuna e lama, i Deva, 

9 Hanno jlesir di possederti, 9 bella, 
9 Un di loro a marito eleggi, un Deval 



HO IULA 

teS&m èva praBàvena pravigfo ham alacrità: » 
pravióantan na man caééid apaéjan nft *pj avàrajat «24# 

etadartam aham Badre predila: surasattamai:'* 

ela6 Srutvft éuBe budcfim pracuruàva jate 'éSasi •25» 

• iti nalopàijàne trWtja: sarga: «3» 



NOTE AL TERZO CANTO. 



«O. Tuna palma all'altra giunta „; crt&Bgali, /bOo-r-aftgali. — Li 
voce a fi gali cosi è dichiarata da Wilson (ap. Bopp, a. v.): tt La cavità cha 
ai forma unendo le mani ed avvallando le palme come per ricevere acqua o 
eimili.„ - Lasaen nella Crestomazia (p. 153.) a Libatio quae fit manibua cavia,..*., 
in universum supplicatio quae fit junctis manibns concavatis. „ H portar alla fronte 
le mani così congiunte, è atto di rispètto; far V afigali (esser prfifigali) 
dicesi, senz'altro, per indicar questo contrassegno di riverenza e di vene- 
razione; v. p. es. Snndopas. I. 19. a; qui più avanti sL 7;V. 17; ecc. 

41« a delle acque moderatore „ (ap&m patis). Questi è Veruna (v.n. S8.) 
che nelle epopee è il Dio del mare e delle acque in generale *). Nel Veda 
però egli non ò soltanto il moderatore delle acque, ma è cantato altresì qual 
regolatore degli astri, onniscio Dio della rettitudine ; egli vi è (come anco fl 
suo nome da vr tegere oe V indica) la personificazione dello spazio, della vòlta 

*) Lassen, Ind. Alt. I. 772. osserva che Vampa presiede all'Ovest (v. n. 
S8.) perchè ilgrande Oceano "si presentava all'India ad Occidente. „ 
Lassen pensava probabilmente alla prima sede degli Ani in India, 
giacché la posizione » geografica dell'India è ben lungi dal porgere a 
simile spiegazione quella evidenza che ha il motivo per cui gli Ebrei 
dissero j a m mare l'Occidente. Sto piuttosto con R o t h (Zlschr. cL deutsck. 
rn.Ges.VI, 74.), che vede nel posto di Varuna, al tramonto, una rimini* 
scensa della relazione (manifesta nel Veda) di tale Diviniti colla Notte. 



CANTO III. Ili 

24. „ Per la potenza loro sovrumana 

v Inyisibil restai quand'entro io fui 

„ Né alcun mi scórse o a me s'oppose entrando. 

25. 9 Ecco, o augusta, perchè dei sommi Deva 

v Son qui il messo; o leggiadra ora l'udisti, 
„ E prender puoi dal tuo desir consiglio. „ 



distesa sopra il creato, e in Specialità della umida vòlta della notte; quantunque 
egli sia Dio di luce, di frequente invocato con Mitra, divinità solare. A 
lui che dà modo e virtù al creato, e vuol riflessa nell' uomo la severità delle 
leggi imposte alla Natura, porgono (nel Veda) i mortali la confessione de* 
loro trascorsi, pregandone da lui l'assoluzione, da lui che temono qual Dio 
che punisce, colle malattie e colla morte, chi abbia infrante le leggi eterne 
della giustizia*). 

*) Un inno che altamente -glorifica Vampa è il vigesimoquinto (Kos.) del 
LI. CI. della Rgveda sannita, inserto pure a p. 103-4 della traduzione 
tedesca già citata dell' tt On the Vedas* di Colebrooke. — v. Roth, 
Zeitschr. d. deutsch. mgl. Ges. VI, 77; Lassen, L 758, che notarono 
come egli regga a confronto mitologico ed etimologico coir Ovgavós 
dei Greci. — Pensando al Dio Urano-Nettuno taluno si compiacerà 
dell'osservazione che nel Naie"- (I. 3.) fra i sinonimi di antaricia 
z=aer sianvi samudra, che nel sanscrito classico e nel vedico vai 
mare\ sagara (sàgara nel sanscrito ci. significa Oceano); e tpas 
acque. Però mi accade qui di notare che di quelle antiche sinonimie 
indiane sia da valersi solo con gran cautela; particolarmente quando 
oon si tratti di cercarne dilucidazione di antichi testi, ma si voglia 
fondare qualche giudizio su quelle, indipendentemente dai testi a rischia- 
rare i quali son destinate. Sembra (per tacer dei veri errori che pos- 
sono essere incorsi in quei vocabolari quali oggi li abbiamo) che fra 
i pretesi sinonimi siensi raccolti vocaboli che non hanno mai potuto 
avere propriamente l'identico significato, ma che per tropo, per epiteto, 
in un tal passo saranno venuti a identificarsi in qualche modo alla vera 
espressione per un dato 'oggetto; e d'altronde la etimologia di varj 
vocaboli ci dimostra che nella prisca lingua il loro valore può esser 



HI FILA CASTO UT. 

49. J a ma, che dalli radice jam suojsi infecjpetajf 47 atyNa^pra, m° appara 
nell'epopea qual Dio della nestàia, della «orto e ^ell' averlo, presedente al 
menadi (v. d. 890, perchè gli Ani iacivilitori del) 4 In$a, che scendevano 
dal Nord, immaginavamo il tartaro collocato aj Sud.. ÀHa fine., d'un cicjo cpauiogo-, 
meo, e a l p a , Janja aqrge tremeado ad estirpare il gepere «mano *). Rei Veda ai- 
rincontro in esso traluce l'apiteosi dell' Uomo pròno \ egli è ^ Signore dei Mani, 
glorificato ed immortalato in Cielo, egli il Padre e Re, il raccoglitore degli nomini, 
cui anelano congiungersi i suoi figli devoti, che presso a lui attendono beati- 
tudine ed immortalità. Questo mito prezioso arrozzì, come suole, nelle altera- 
zioni che sub! più tardi, finché a Jama, fatto Dio della morte, si attribuirono 
tutti i terrori d'una vindice Deità infernale, (v. pure n. SI. e C. IV. 10.) 

4*. - il. 5. "{irfra. n't duce „ i indr|djla, da, Indra e idja prima, 
col segnacaso plorale ; fndra-primi 9 cioè aventi-Iuaya-per^prùnp, epa moda 
non identico ma anajogo alle composizioni dichiarate nella nota S0« — 

stato più esteso di quello che divenne dappoi. Se a mo* d'esempio un 
inno avesse detto che la terra è la nutriente o per la nutriente si 
fpsse sottintesa la terra, lo scrupoloso accozzato™ di vocaboli avrebbe 
registrato come in questo sito la nutriente (pòsa) equivalga * 
terra-, e così se la si fosse indicata con un vocabolo significante la 
vasta (prfivl, che dappoi si limitò a terra) oppure il creato (nu, 
più lardi terra soltanto), possiamo ben immaginarci che altrove la eolia 
o il creato fosse diretto aJUa vòlt*, dei cieli, e cosi spiegarci come fra 
i sinonimi di terra del pari che fra quelli del cielo (aria) aienai com- 
presi prfivl e ha. 
*) v. Saupticaparv. Vili, J. As. 1841. Genn. p. 77. — Bopp vedendo io 
Indra rappresentata Varia, in Agni il fuoco, in Veruna V acqua, è ten- 
tato ad indurre che il quarto Locapàla figuri la terra. (U.ed. p. 201: 
" Yamua justitiae et mortis deus, quia ciuu Indro, (aere) Agno (igne) 
et Varano (aqua) tamquam mundi custos et mundi creator celebrato 
(v. C. IV. 10.), hoc munere terra m significare videtur. „) Bopp ap- 
poggia tale supposizione coir identificarlo a Jima tendo (G'emiid) 
primo Re della terra, figlio del sole, come V indiano Jama, eh 4 è perciò 
fratello del Manu Yaivasvate. (v. n. ». I.) — La radice jam che si- 
gnifica refrenare, ed anche porgere (particolarmente nei Veda) offre 
ottima etimologia perii Dio della giustizia e della morte; e non si ri- 
fiuterebbe a una derivazione per terra, cioè quella che dà, che produce. 
(Cfr. vasutfi [divitias-ferens] terra-, ehr. ^£3 la astro, da ^3** ad- 
ditimi, obtuUt, cioò frutti ; aggiungi ferax da fero, come edax da edo.) 
Ma la poesihiltà etimologica temo non basti ad avvalorar quella ipotesi. 
Cfr. Ztschr. d. deukeh. m. Gas. IV, 425-26 e 432^33* 



1LL0STR AZIONI. Il5 

ti. 12. Vai dar M qui e altrove è detta Damajantt, per la medesima ragio- 
ne che fa chiamar Naia: il Naisafrà, v. a. 19. si. 19. V originale 

per la terza Tolta in questa stanza ripete la radice ami (rìdere, subridere) 
per dir sto/rito; fiacche sani cotta preposizione vi vale obstupescere. Il riso 
è un folce stupóre. 

4«; È pittare ài rara beffezafc L' eroe raggiante al cospetto di caste don- 
léàe* rèse mute dati 7 ammirazione è dal pudore, che gli fessoti làudi coi 
pensiero, mentre nei volti vezzosi si dipinge Testasi soave in cui sono rapite. 

eh. "Sapere ié bramo .....; * -, gh4 tu mi éc ami Ite; Bopp traduce: a&- 
scere cupio te, e poi comincia nuova frase : Quomodo aditusque Atic, ecc. 
ma letteralmente si ha: noscere hupio Idi (=a'M); « so pnre maestrevoli 
indagini ttimostraroho simile costruzione còngrua alla origine dell' Infinito 
sanscrito, tuttavia nel linguaggio epico riuscirebbe molto strano tal uso del 
genitivo-dativ'ó retto dall' influito (vedi Naia, li. ed. pag. 200; Bdhtlmgk, ssch 
Chr. p. 279; Indralocàg. p. 8*0.), e non avrebbe finora che il debole appoggfo 
d'un solo altro, forse mal sicuro, esempio. Unendo nella mia traduzione le 
due strofe, indicai come mi sembri possibile d' interpretare il passo in modo 
che tolga la difficoltà di quel genitivo-dativo ; propongo cioè di riferire 
il t e al sostantivo agamanam per averne letteralmente: Aggressus es immor- 
taUs-instar, Aero*, Jioscere cupio tua (expers peccatorumì) / quotnoào 
(evenit) appropinquatio quòque. 

E, credo, la tenue fusione dei due sloca sarà qui da reputarsi difficoltà 
ben piti lieve di quella d'ammettere il te retto da £8 à turi. 



n4 «ALA 

IV. 

Nà namascrtja deveBja: prahasja nalam abravtt s 
prapajasva jatàéradcton 4 • ràgan cifi caravà^i te «1» 

ahaft éai 'va hi jaé éà 'njan marna *sti vasu ciBóana » 
tat sarvan lava viérabdfalL cura pra^ajam iévara 46 «2i 

hansànàn vaéanan jat tu tan mfin dahati partiva » 
tvatcrte hi majft vira ràgàna: sannipfttilA; «3» 

jadi tvam Bagamànàm màm pratjàéjàsjasi mànada t 
visam agnifl galan raggum ftstàsje tava càragàt #4» 

evam uctas tu vaidarBjà nalas tàm pratjuvàéa ha ♦ 
tiàfatsu locapàleéu cafam m&nuSam iécasi «5* 

jegàm 4 7 ahan locacrlàm tévarfinàm mah&tmanàm » 
na pfidaragasà tuljo manas te tesu vartatàm «6« 

viprijan hj àéaran martjo devàn&m mrtjum arSati i 
tràhi mflm anavadjàngi varajasva aurottamàn »7« 

viragànsi éa vàsànsi divjàé éilrà: sragas tata « 

Bùàapàni éa raucjàni devàn pr&pja tu BuHcàva vai «8* 

ja imam prtivtn cftsnfin saficsipja grasate pana: t 
hulftéam téan devànàn cà tan na varajet patim *9ft 

jasja dapcJaBajàt sarve Bùtagràmà: samàgatà: ♦ 

(Tarmarli evà 'nurudjanti cà tan na Varajet patim tlOt 

cFarmàtmànam mahàtmànan dailjadftnavamardanam i 
mahendran sarvadevànàft cà tan na varajet patto tilt 



CASTO It. tlS 

Canto quarto, 

1. I Deva adora, e poi sorride e a Naia 

Si Tolge : ,, re la fede ò data ornai, 

„ Parla <T amor 4 6 , che far per te degg> io ? 

2. 9 Che la persona e quante altre divizie 

j, signore mie sono il tutto è tuo; 
„ Fa tregua all'esitar, parla d'amore 46 . 

3. „ E degli augelli le parole ? desse 

„ Ardono o prence in me, e se i Regi o eroe 
yy Da me si aduna», tu cagion ne sei. 

4. v D' onori o largitor ! se me respigni 

9 Che t'adoro, incontrare (e fia tua colpa} 

„ Yommi il fuoco o il velen, Tonda o una font.* 

5. Cosi la figlia de 9 Vidarfia, e Naia 

Allora a lei : „ Come un mortai desìi 
a Dei custodi del mondo a paragone? 

6. „ Appo lor 4 7 che magnanimi hanno impero 

„ Nel mondo che crear, non son io 'n pregio 
„ Né qual polve de* pie. — Lor volgi il cuore t 

7. „ A morte corre l' uom che opri sgradendo 

v Ai Deva; o donna dalle vaghe membra 
„ Me salva e i sommi Deva prediligi. 

8. „ Va in mezzo a lor, ti bea di vesti che unqua 

„ Polve non tango, e di sublimi fregi 
„ E di celesti e multiformi serti. 

9. „ È dei Deva il Signor, Agni * che tutta 

» Per riitghiottirla può contrar la terra 4 *— 
„ E qual donna a suo sposo noi scema? 

10. „ Quegli, il cui scettro paventando, al dritto 
„ Si prostra intero il radunato gregge 
^ Dei vivi — e quale a sposo noi scerria ? 4 # 

U. „ Ineira che i Daitja e i Dfinava 90 sconfigge, 
„ Il magnanimo, il giusto, il prence eccelso 
„ D'ogni Deva — qual donna noi scerria? 

* * hutléa* r. ti. *#< 



tl6 *iLA 

crijatàm aviéaScena manasft jadi manjase t 
varapan 51 locapàlflnftA suhrdvAcjam idaft énju «12» 

natèadenai 'vam uctà sa damajantt Taéo -bravtt i 
aamAplutàBjàn netràBjàù éocagenà '(a varila «130 

deveBjo -han namascrtja sarveBja: prfivlpate « 

me tvàm èva Bartàraft satjam etad bravimi te #14* 

tàm uvàéa tato ràgà vepamànAfi qrtà&galim « 

dautjenà 'gatja caljàQi caCan svàrfam iho 'teahe** «15» 

cafaù hj aham pratférntja devalànàn vlàegata: » 
pararle jatnam àraBja caCan svàrtam iho 'tsahe »16# 

eSa d'armo jadi svario marna 'pi Bavità tata: < 
evan svàrfen caricami tata Badre vidijatAm «170 

tato vASpàculàù vàéan damajantt éuéismità 6 * f 
pratjàharantt éanacair nalan ràgànam abravlt »18f 

npàjo -jam majà drSJo nirapàjo nareévara i 
Jena doào na Bavità tava ràgan cafatiéana #19# 

Iva» éai Va hi naraéreèfa devàé ée 'ndraparogamà:** • 
AjAntu sahilft: sarve marna jatra svajanvara: «20» 

tato han locapàlànàn sannidau tvàn naredvara * 
varajiSje naravjà£ra nai Van doào BaviSjati *2l* 

evara uclas tu vaidarBjà nato ràgà viéàm paté i 
Agagàma punas tatra jatra deva; samàgatà: «22* 

tam apaéjans tata 'jàntaà locapàlà maheévarà: s 

drSfvà éai 'nan tato -precari vrttàatan sarvam èva tam «23i 



CANtO IV. 117 

12. a Ascolta amico labbro e, se t'aggrada, 

9 Con mente non perplessa fa che avvenga 
„ Tra i custodi del mondo la tua scelta. „ 

13* Del Naisàda a tai detti prende a dire 
Damajantì, inondate ambe le luci 
Di stille che son figlie d'amarezza: 

14. 9 tu in terra possente! ai Deva tutti 

v Adorante m' inchino, ma te scelgo 
„ In mio consorte, e verità ti dico. n 

15. E Naia a lei che a palme giunte trema, 

Risponde: „0 augusta se in messaggio io giungo 
y, Per TutU mio forse venir mi lece? 5tt 

16. n Se data ho la mia fede e data ai Deva, 

Se a prò d' altrui ho l'opra impresa, or come 
„ Come ritrarla all'util mio mi lece? 

17. n Tale ò il dover. Ma se un dì s'appresenta 

„ La propria causa a me, farò non meno 
„ In mio favore. — A ciò si hadi fausta. 

18. Damajantì, la vago-sorridente 53 , 

Lentamente a Re Naia profferendo 

Vien questi accenti allor, dal pianto tronchi: 

1 9. yy Infallibile, prence, ò da me scorta 

v Via di salvezza, e tale, che a te colpa 
„ Veruna ne avverrà, re delle genti, 

20. „ Tutti uniti, il miglior tu dei mortali 

„ E i Deva alla cui testa ladra ne incede 
„ Giugnete al luogo ove la scelta è mia. 

21. „Dei custodi del mondo alla presenza 

„ Te eleggerò degli uomini signore, 
„ Nò colpa allor sarà prence gagliardo. n 

22. mio Signor, queste parole disse 

La VaidarBl a Re Naia, che fu pronto 
A riedere ove accolti erano i Deva. 

23. Vider Naia venir gli onnipossenti 

Del mondo reggitori, e scorto appena 
D'ogni cosa avvenuta interrogarlo: 



Ut »ALA 

caééid drSt* tvajà rft£an damajantt iuéismitft « 

cim abravlé éa na; aarrftn Yada Bùmipate "iiaja *24i 

mb irtóa 
BavadBir aham ftdi§(o damajantjft niveéanam i 
pravità; sumahàcacèan da?4iBi: atatirair vjiam »25» 

praviéantaB éa man latra na caééid dr^avàn nara: i 
fte tftm pàrfivasutàm Bavatóm èva tegasà «26» 

saéjaé éfi f sjft majft dr§tfts tftBié éà 'pj upalacgita: t 
vismitàà éft 'Bayan saryft drétvà man vibudeévarft: «27i 

varpjamftneSa éa majft Bavatsu rnéirànanA i 
m&m èva gatasaUcalpft vrfllte aft suroitaraà: «28* 

abravté éai Va mftm bftlft fijàntu sahitft: snrft: t 
tyajà saia naratjftgra marna jatra svajanvara: «29» 

teSAm ahaft sannicfau tvftft varajfój&mi naigada i 
eyan tava mah&bftho doSo na Bavite Hi ha #30* 

elàvad èva vibmfft jaf&vrttam udàhftam i 

majft *éege pramfiQan tu Bavantas tridaéefrarft: 6 « i31i 

« iti nalopftéjftne éaturta: aarga: *4# 



' CAUTO IT. %\g 

24. n Damajanti dal riso ameno hai vista 

„ re? E a noi tutti quai parole invia? 
n Parla sovrano d'ogni taccia puro. „ 

25. E Naia: „Àlla magion da voi sospinto 

„ Di Damajanti, l'uscio maestoso 

„ Varcai, cui cigno la canuta guardia. 

26. n Ch'ivi nessuno me scorgesse entrando 

„ Della figliuola del monarca in fuore, 
„ Della vostra possanza fn l'effetto. 

27. 9 Le sue fide mirai né a lor celato 

9 Più rimasi, e al mio aspetto, numi eccelsi, 
9 Si stetter tutte da stupore invase. 

28. 3 Leggiadra in volto, voi dei Deva i sommi, 

„ Ha di mente sprovvista, quando io v'ebbi 
9 A lei dipinti ha prediletto me 

29. 9 La donzella con dirmi: „0 Re gagliardo, 

„" Vengan i Deva uniti e tu con loro 

„" Al loco ove al mio cor data ò la scelta. 

30. a" Veruna colpa eroe dal lungo braccio 

»" T'aggraverà, giacché alla lor presenza 
„" Te mi scerrò, Naiàatfa.% E qui finlo. 
81. n E ciò narrato fu da me siccome 

n Avvenne, Deva, e nulla tacqui; or pende 
Dal vostro cenno ognun, prenci del Cielo. • 4 » 



140 BALA CANTO IT. 



NOTE AL QUARTO CANTO. 



46. «La fede è data ornai 

Parla d'amor. „ Dovetti un po' parafrasare. Bopp ha: Uxorem èst 

sicut- fiducia ; Heier: $ey mir gut dock, Nàia. Verbalmente è: fave siati- 
fide*. Nello éloca seguente rendo vUrabdafi curu pranajam per: a Fi 
tregua air esitar parla d' amore. w Bopp : sperata* fac nuptias, ma egli atesso 
nel glossario (1847) citando questo passo (p. 355. b.) notò che visrab- 
(fam è qui adoperato avvejrbialmepte; quindi si ha; confldenter fac amorem. 

43f. u Appo lor.... „ L'originale: jefiim quorum, perciò Bopp: quorum 

ego. non pedum-pulveri simili*. Meier : Deren Fufsstaub ick nicht gleicke. 

Hi parve molto strano il supporre che il poeta indiano comparasse 
qualche cosa alla polve de' piedi dei Deva, quando un attributo di questi tro- 
viamo essere ragohtua pulveris expers (v. p. es. Canto Y. si. 25.); e qui 
proprio (allo si. 8.) parlando d'oggetti celesti non ò dimenticata la qualità 
privo-di-polvere. Attribuendo perciò qui pure al genitivo il valore di dativo 
eh' egli spesso assume in sanscrito, n' ebbi : ai quali (per i quali) neppur sono 
uguale a polvere di piedi. Ad appoggio di questa mia interpretazione, oltre 
il riflesso sopradetto, sembrami potere addurre il seguente esempio parimenti 
con un genitivo e con tulja, dal DraupadìpramàCa VI. 12: caééin na 
pipai: aunréansacrdBi: pramàtitì draupadi ràgaputr! * a- 
éintjarùpà* suviédlanetri éartratuljft curupufigavinàm; e 
che? non fu forse rapita Draupadi, la regal figlia, da empj sceleratissimi, 
dessa d'inimmaginabile beltà, daW occhio ben ampio, dessa uguale-ai- 
corpo ai principi dei Curu? cioò: tu pregio come il proprio corpo 
per (appo) i principi ecc. 

48. La combustione finale del nostro mondo è idea che più fiate s'incon- 
tra nei libri indiani. Nella B'agavadgttà (XI. 11.25.) ove si descrive come 
il sommo nume mandando fiamme inghiotta gli eroi de' mortali, si comparano 
le sue bocche al càia naia*), cui Schlegel interpreta: conflagrano rerum 

*) Da càia tempus, mors, deus mortis, atas, e anala ignis, deus ignis 



/ 

ILLUSTRAZIONI. 121 

postrema. — Secondo certa leggenda, nna creatura ignea, prodotta dal grande 
anacoreta Urva, già minacciò di divorare la terra, che Brahman nn giorno 
darà in aaa balla. Frattanto quest' Aurva (discendente d'Urva), o Bada vi- 
li al a, sta trasformato in vulcano sottomarino. 

40. Questi ò Jama; v. nota 49* 

*•• / Daitja e i Danaio. — L Falangi di demoni, il cui nome generico 
Ab ara- merita attento esame. Bopp nel glossario non ne dà etimologia; 
«ara (nota •• IV.) equivale etimologicamente ed è pure sinonimo di deva; 
perciò di leggieri si è indotti a sipporre che a sur a sia composto di 
aura risplendente (quindi dio) coir a privativo*). I Veda però c'insegna* 
rono che a aura nella remota antichità si disse delle divinità propizie**); 
quindi l'etimologia da a privativo e sur a non tiene, e si deve ammettere che 
a s or a, in origine epiteto degli Dei, abbia poscia subito un peggioramento 
nel significato. Non siamo al caso di valerci di appoggi storici ad accertare 
in qual epoca il senso di asura sia cosi scaduto, a simigliarne dei dae- 
mones de' pagani, che passarono nella latinità cristiana a significare gli angeli 
cattivi: ma in Asia stessa, senza discostarci da questo campo, incontriamo 
stupende analogie che quella induzione convalidano, e gettan lume sulla ori- 
gine di simili vicende mitologiche. Gli effetti d' una scissura religiosa tra gli 
Indi e gli Irani qui ci si rendono manifesti; asura che all'India venne 
a indicare demonio, nemico dei Deva, in zend (v. n. SI.) con regolare 
trasformazione***) ci si presenta nel santissimo nome ahura-mazda 
(Ormuzd), ed anche equivale isolato a questo; mentre deva che per l'In- 
diano conservò sempre il buon significato di Deità, discese nel corrispon- 
dente d a e v a zend f) a valere mai genio. Ed I n d r a, il re de' Deva nei 

*) Questa etimologia è data da Chéty, Sac. II. 251; e Lassen stesso, 
Ind. Alt. I. 523 (in noia), vi allude. — La leggenda indiana (Ràmàj. 
I. xlv. 38.) che si compiace come al solito di etimologizzare, ci dichia- 
ra poco persuasivamente i nomi di Sura e Asura con dirci che i 
demoni rifiutarono e i Sura accettarono in isposa, Suri figlia di Ve- 
runa, dio delle acque, (v. n. -il.) 

**) Asura può essere composto di a su f ra(=da) vivificante, che-dà- 
Y -essere, oppure di as col suff. ura resistente, il vivo xctt «Jo^ifr. 

***) Bopp, Vgl. Gr. §• 53, e la nota *) della seguente pag. 

t) Cfr. pers. moderno d e: v demone; d e: v à n e h amens, furiosus, indemoniato. 



13* HAtA CAUTO IT, 

Ebri indiani, è un demone in quelli dì Zoroastro.— # ) La storia di molle criri 
religiose è spenta; la tenace riminiscenza della lingua, qui eome albore, d 
resta spesso unica fiaccola nella bnja antichità. 

IL Ritornando ai Daitja e ai Dftnava da cui siamo partiti, la an- 
tologia delle epopee li fa figli di Caéjapa, padre pure dei Deva (v. n. 8. HL); 
quindi banno ceppo comune Deva ed Asura che di sopra ei avvenne di scoprir 
prossimi un dì, se non identici, nel significato. Daitja e Dinava adoperami 
anche per gli Asura in genere figli di Diti (v. p. esempio Ramftj. I. XLV. 35. 38.). 
Appajono però, p. es. nel nostro passo, pure come nomi particolari di due specie 
di demoni ; i Daitja son chiamati dalla madre Diti, mentre i Denota si fanne 
figli di Danu altra moglie di Caéjapa *+). 

In perpetua guerra coi Deva, vinti da Indra come i Titani èst Giove, 
offrono questi demoni tale analogia coi giganti della ferola greca, che Chésy 
e Schlegel non esitarono a tradurre Daitja per titano. Prahltda è fl 
principale dei Daitja, come nella enumerazione della B*agavadg., citata alle 
note •*• e SS», si canta : u fra i Daitja son Prahltda. „ 

U* Accolsi nel testo varanam per varunam, emendazione proposta di 
Schlegel e Rosen, lodata da Bopp e Bdfattingk. 

*) Lassen che nell'Arch. I. 524. nota questa divergenza in quanto *det* 
e ad altri nomi, non la fa valere in Asura, quantunque a p. 523 (nota) 
si pronunci per l'identificazione asura-akura, contro la quale Burnouf 
obiettava che l'analogia (anhu mondo -a su spirito, dalla rad. as essere, 
efr. Bu terrà) volesse afihura. Evvi ^erò oltre che anhu anche a ho 
(ahu ?) parallelo ad a su, v. Brockhaus, Gloss. al Vendidads. p. 340. 
a, e 346. b. - Weber (Ztschr. d. deuUch. m. Ges. Vili, 390), avvertita 
r abiezione in cui, dopo la scissura, gV Irani tennero alcune divinità 
(simboli naturali) sublimi in prima, soggiunge che presso agi' Indiani al- 
l' incontro non v' ha traccia che il medesimo fosse avvenuto rispetto alle 
divinità preferite dagl' Irani (simboli etici), tranne che, forse, nel vo- 
cabolo asura. — Hi è sembrato però che l'etimologia accenni anche 
altre fiate a simile rivolgimento delle idee religiose in India. Il nome del 
demone A n a r é a n i p. es. vale che mai ferisce', e (con FiL Luz satto) 
suppongo analoga vicenda ai R a e S a s [alleati degli Asura (v. n. SS*)] 
che nel, loro nome valgono tuttavia custodi, protettori. Benfey al- 
l'incontro, nel suo Glossario al Slmav., al neutro racSas che significa 
il complesso dei demoni, osserva: tt propriamente è certo: Guardia, 
poscia con passaggio vedico: oggetto dal quale si dee guardarsi. 

**) Una delle 13 figlie di Dacia, mogli di Caéjapa. Benfey (Gì. Chr 144, 
b), credo per errore, la fa figlia di Caéjapa; 



ILUKTR AZIONI, 1*3 

M» B*fp traduca: Nuntii-munere pastquam aggreuus (sum) «starò / 4*10- 
modo p r o pri am oausam hie urgeam. Schlegel propone par qui una emendazione, 
carlini per e a Cam, e isteasemente per lo sloca che segue. Bopp nelle 
■•te dichiara eie converrà accettarla, contro l'autorità dei codici, ae altrove 
bob fi rinvenga (nò si rinvenne) di dover dare a ut» ah il senso di trac- 
tare, urgere aliquam rem, senso che, secondo lui, conservando e a Cam è 
d' uopo qui attribuirgli. Ha siami lecito di osservare che ammettendo un' ellissi 
che mi sembra delle più naturali, si otterrebbe soddisfacente interpretazione 
senza dipartirsi dai codici e senza alterare il significato incontestabile di 
n t s a h e cioè possum. V ellissi del verbo all' infinito in una proposizione 
semplice che incomincia col medesimo verbo al gerundio mi pare per ogni 
lingua assai facile, e me ne permetto l'ipotesi anche in sanscrito benché io 
non abbia presenti altri esempj d'ellissi affatto consimile *). S* immagini quindi 
nello s vi r Cam degli éloca 15. e 16. 1' arCa con ufficio di preposizione, 
come spesso altrove**), e ne avremo: 

si 15. tt In messaggio essendo venuto, e come per me medesimo qui 

posso ?„ (ventre); 
- 16. "Per altri avendo impreso l'opera, e come per me medesimo 

qui posso ?„ (imprenderla). 
Simile interpretazione ai manifesta nella versione metrica. 

53. ól. 18. — "Che ha puro il riso „ suéismitl; pare attributo qui ozioso ;cfc 
XII, 1 00, 1 28 (74,96). — él. 20. indrapurogamàs, composto possessivo. 
Alla lettera parrebbe andanti-innanii(p u r a s)-a-Indra ; ma è htdra-precedenté 
col segnacaso plurale, per dire: quelli che hanno Indra che li precedei 

&4. Bòhtlingk (Cresi, p. 281.) osserva: tt Bopp legge majàéeie e con* 
„ giunge a é e s e (cui traduce piane) a udàhrtam, ciocché certamente 
„ non è giusto. Questo è il senso della strofa intera: Fin qui, o Dei, ho 
„ riferto conforme alla verità, quanto al resto poi t), vogliate Voi decidere. n 
— Non so vedere la necessità di questa correzione; sul taglio dell' udàhr- 
tam aéefie majà leggeremo nel canto Vili. él. 21. njavedajad aie* 

*) Analoga frase ellittica con e a Cam v. Naia XVII. 20(19). 
**) Vedi in questo medesimo sito presso parare e, e aggiungi I' ut san e 
parar Cam di III. 8. f) ....hrtam t màjà, éeàe». 

$• 



1*4 *ALA CANTO IV. 

lena*) riferì interamente; e il praminantu ftavantas (letteralmente 
arbitrium autem vos) per quanto ellittico si trovi non ha bisogno (né uà 
Bdhtlingk lo ignora) del éefie per formar frase completa; giacché nel nostro 
episodio stesso [XVIII, 13(12).] abbiamo l'analogo pramtnam D a v a 1 1 , fo 
cosa sta nel ino arbitrio; così éacunt ed. Chézy 95. 6. deva: prami- 
pam, *i pende dal cenno del re. 

*) afe§e=aéeSena, cfir. éire— óirena, eco. 



V. 



Afa cftle éuBe pràpie tifau pupje càa?e tafft • 
in Btmo ràgà svajanvare «le 



taé Srulvft prfivtpftlà: sarve hré8ajap!ditft: t 

tvarità: samupàgagmur damajanUm aBtpsava: *2« 

canacastamBaruéiran lorapena » * viràgitam « 

viviéus te nrpà rafigam mahàsinhà iva 'éalam «Sa 



taira 'saneSu vividfcSv 
suraBisragcTarà: sarve 

taira sma pina dféjante 
àcàravanla: suélacsgà: 



àslnft: prfivicSita: \ 
pramràtamaiiicujuialà: »4* 

bàhava: pari£opamà: s 
pa&éaélrgà ivo Vaga: «5a 



sacegftnt&ni éàrùni san&s&càiBnivàjpi óa i 
muèàni rftgfiàn àoBanle nacgalràQi jatft divi »6# 

tàù ràgasamitim pugjàn nàgair Bogavatfm iva » 
sampùrgàm purusavjà£rair vjà&rair giriguhàm iva 5 * «7t 

damajantl tato rafigdm praviveéa éuBànanfi 1 
mudanti praBajft ràgB&B éaclùàéi éa manàùsl òa »Bt 



ILLUSTHAZIOOT. Il5 

Prenci dei cielo traduce fl vocabolo tridaieivarfts, composto di 
tridaéafiivara; la seconda parte significa signore, e la prima che pro- 
priamente varrebbe tredici *), venne a dire Dei (inferiori alla trìade); donde 
traspare una enumerazione vnlgatissima fra gl'Indi, di tredici divinità oltre 
la triade. ••) 

*) Più regolare del trajodalan che si ha per tredici. 
**) Lassen nel glosa. all'AntoL: A divisione qoadam ter denaria intor deos 
minorimi gentium. 



Canto quinto. 



1. uiunto il tempo propizio, e della luna 

Il giorno fausto e Fora 5 *, B ; !ma il Rege 
I Reggitori della terra invila 

2. All'elezione, s E a quest'annunzio tutti 
Della terra i sovrani, Damajantì 
Anelando s'affollano veloci . 

8. Dall'amore spronati, s Entrano i prenci 
Da un arco ornato la splendente cerchia 
Bella d'auree colonne, e lioni al monte 

4. Rassembrano gagliardi 56 ; s ivi in distinti 
Troni sedendo spandono i Re tutti 

Dai serti olezzo, e terse pendon gemme 

5. Agli orecchi; s vi scorgi pingui braccia 
A davi simiglianti e pur leggiadre 

E snelle assai parer quasi colubri 

6. Dai cinque capi. 5 7 » Quali gli astri in cielo 
Splendono i volti dei monarchi, belli 

Di chiome e nari e luci e ciglia vaghe. \ 

7. Al consesso dei Re [puro siccome 
Quello è de' Draghi nella lor cittade. 
Folto di prenci come V è di Tigri 

8. L'antro del monte 58 ] f giugne Damajantt 
Dal volto ameno nella cerchia, e fura 

Col suo splendor gli occhi e la mente ai Regi, t 



I?6 NAL4 

tasjft gàtreSu patita tesàn drsfir mahàlmanàm « 
taira tatrà Vasactà *B0n na iaéftla éa paéjatàm «9« 

tata: sanctrtjamànesu ràgnàn nftmasn Barata i 
dadaréa Baimi purusàa paBéa tuljàcrttn iha §10* 

tàn samtcSja tata: sarvàn nirviée&crtln sfitta » 
sandehàd afa vaidarBl nà 'Bjagànta nalan nrpam «11# 



jan jan hi dadrde teSàn tan tam mene nalan nrpam * 
§12* 



si éintajantt budcTjà 'fa tarcajàmàsa Bàvint * 

cafaù hi deràii gànljàn cabrò vidjftn nalan nrpam «13i 

evafi saBéintajantì sa vaidarBl firàadatòità s 
(fruttai devalingàni tarcajàmàsa Barata *14« 

devftnftn jànl lifigàni stavireBja: eruttai me i 

ttal 'ha tiéfatàm Bùmàv ecasjà 'pi na lacéaje §15» 

sft viniééitja bahucTà vié&rja óa puna: puna: 

éara^am prati devànàm pràptacàlam 5 ° amanjata «16« 

vàéft éa manasft óai Va namascàram prajugja sa i 
deveBja: pràflgalir Bùtvà vepamtae 'dam abravtt «17i 

hansànftn vaéanaA ératvft jatà me naiSacto Trta: i 
patitve tena satjena devfis tam pradiéantu me #18« 



cauto y. *aj 

9. Lo sguardo dei magnanimi alle membra 
Piomba di lei, ed ivi, ivi s'affigge, 
Nò ciglio quinci batte più chiunque 
La miri. » 

10. Mentre celebrati i nomi 
Bei prenci sono, o Barata, s'accorge 
La B'aimt come fosservi ben cinque 

11. Uomini uguai d 9 aspetto ; » e a tutti questi 
Vedendo in nulla differir le forme 

Dal dubbio più il re de 9 mortali Naia 

12. La VaidarBl non scerne, s cbò qualunque 
Ne guardi, il prence de 9 mortali Naia 
Essa il crede, s 

13. E la illustre pensierosa 
Volgea così tra sé : „ Or come i Deva 

„ Conoscer, come discuoprir Re Naia? n % 

14. (Meditando cosi, caduta in duolo 
Intenso la VaidarBl, pose mente 

A quegl'indizj, o Barata, che ai Deva 

15. Esser proprj avea udito) s „E que' segnali 
„ Che ai vecchi udii narrar dei Deva proprj, 
„ Ned in un di costor che in terra stanno 

„ Li scorgo. „ t 

16. Lunga pezza riflettendo 
Si stette a ponderare senza posa, 

E alfin stimò che per i Deva fosse 
L'istante adatto ad impetrarne aita 50 , s 

17. E col labbro e col cuore a loro offrendo 
Àdorazion, cosi, giunte le palme, 
Tremando orò: ♦ 

18. ^ Come all'udir gli accenti 
n Degli augelli, il Natèada io mi prescelsi 
9 À consorte ■ — com'è ciò yero i Deva 
n Più noi celino a mei i 



1*8 KALA 

vaéasà manasà éai 'va jatà nà 'tiéaràmj aham s 
tena satjena vibntfàs tam evà pradiéantn me #19* 

jatà devai: sa me Bartà vihito niSacTàcRpa: i 

tena satjena me devàs tam èva pradiéantn me *20# 

jafe 'dan vratam. àrabtfan nalasjà Vacane majà i 
tena satjena me devàs tam èva pradiéantu me #2 li 

svaH éai Va rapali curvanlu locapàlà maheévarà: i 
jatà Tiam aBigànljàm pmgjaàlocan* 1 naràdlpam »22# 

niéamja damajantj&s tal carupam paridevitam i 
niécajam paraman tafjam anuràgaS éa naisacfe *23i 

manovisudcfim baddia óa Bactin ràgafl éa naigade 61 f 
jato 'ctaff éacrire deva: sàmarfjaù liBgadàrage «24* 

sa 'padjad vibntfàn sarvàn asvedàn stabdaloéanàn i 
hràitasragragohtnàn sfitàn aspirata: csitim «25* 

Sàjàdvittjo 61 mlànasrag raga:svedasamanvita: • 
Burnito natèacfaé éai Va nimegepa éa sùéita: «26f 

sa samlcgja tu tàn devàn puQJaélocaS éa Barata • 
naigacfan varajàmàsa Baimi darmela pacava *27# 

vilaggamànà vastrànte gagràhà 'jataloéanà i 

scandadeée "sr£at tasja sragam 6 * paramaéoBanàm #28* 



CANTO V. IO9 

Com'io non oso 
2 II dover né col labbro nò col cuore 
n Travalicar — come ciò è vero i Deva 
9 Più noi celino a mei 1 

Come già i Deva 
„ Statuirò che il rege dei Ntéacfa 
n Mio sposo sia — come ciò è vero i Deva 
9 Più noi celino a mei 1 

1 Come il mio voto 

yy A palesare io impresi affin che pago 
n Naia fosse — com'è ciò vero i Deva 
9 A me il mostrino, a me! 1 

La propria forma 
„ Ripiglino i possenti che in custodia 
„ Hanno il mondo, perchè io ravvisar possa 
„ Naia Re dei mortali. v 1 

Della B'aimt 
Scorgendo il pianto lamentoso, l'alto 
Proposto e veritier, l'amor per Naia, » 
E in Naia pur un caldo affetto, un culto, 
Ed un pensar d'animo puro figlio, 
Satisfare alla inchiesta piacque ai Deva, 
Che ripreser le insegne 60 , t Tutti starsi 
Di polve privi e di sudore i Deva 
Ved' ella, e i cigli immoti ed irti i serti, 
E non premono il suol, s Ha al suolo pesa 
Il NaisaJa e nell'ombra si ripete 61 , 
Sudor lo tange e polve, e il ciglio baite 
Ed il serto è appassito, 1 

Allorché Naia 
Ebbe distinto, Barata, ed i Deva, 
Scelse la B^aimt, Pacava, il NaiSacTa 
Giusta il rito, s II pudor tingeva il volto 
Della bella dall'occhio steso 69 , quando 
Al lembo della veste il prese, e un serto 
Splendidissimo pòrse a incoronargli 61 



i5o 



KALA 



yarajàmàsa 6ai Vai 'nam patitve vara vannini 6 * i 

tato ha he 'ti sahasà mucta: jabdo naràdipai: *29f 

devair mahar&fiis tatra sfitto sàJv iti Barata i 

vismitair trita: óabda: praéaùsadBir nalan nrpam «30» 

damajantln tu cauravja vtrasenasuto nfpa: i 

àévàsajad varàrohàm prahrsfenà 'ntaràtmanà «3 Ih 

jat tvam Bacasi caljàpi pumfinsan -devasannicTau t 

tasmàn man vidJi Bartàram evan te vaéane ratam f»32# 

jftvaé 6a me (farièjanti pràflà dehe éuéismite i 

tàvat tvaji Bavisjàmi satjara etad bravimi te «33* 

(damajantln tata vàgBir aBinandja crtàfigali: i) 

tau parasparata: prltau drstvà tv agnipurogamUn » 

tàn èva àarapan devàfi gagmatur manasà tadà #34* 



vrte tn naiSacfe Baimjà 
prahràtamanasa: sarve 



locapàlà mahaugasa: i 
nalàjà 9 a}aii varia dada: «35* 



pratjac&daréanaà jag&e 
naiSadftja dadau óacra: 



gatill éà 'nuttamàA éuBàm s 
prljamfijgia: éaélpati: *36t» 



agnir àtmaBavam pràdàd jatra valicati naiSacTa: t 
locàn àtmapraBàné éai Va dadau tasmai hulàéana: »3^ 



jamas tv annarasam pràdàd d'arme éa par&màn siiti m* * 
apàm patir apàm Bàvaù jatra vàfiSaU naiéada: «38* 



caoto t. i3t 

La regione dell'omero. » Lo elesse 
Cosi in consorte quella eletta 63 , e tosto 

* Ahimè I Ahimè ! 9 tal de' mortali i prenci 
Un grido diér, ♦ mentre plaudenti i Deva 

* Bene f „ intuonavan * Bene ! ^ o Judtèfira, 
Maravigliati in un coi sommi Savj • 4 
Celebrando Re Naia, s Giubilante 
Nell'alma il Sir di Vira sena figlio, 

La B'aimì dal bel seno a consolare, 

Pannava, si diede : s a Sappi, fausta, 

„ Giacché presenti i Deva un uom tu onori, 

n Che tuo consorte io son, tanto a me grato 

„ Fu il tuo dire 65 , « E finché nel corpo mio 

„ Di vita T aura spirerà o donzella 

„ Dal vago riso, io sarò teco ognora, 

„ E verità ti parlo. „ t A giunte palme 

Mandò tai delti a rallegrar la B ; aimì; 

Ed ambo lieti per scambievol opra, 

Scòrti i Deva cui Agni è precursore, 

ColFanimo cercar rifugio quindi 

Appo loro, t Corruschi i reggitori 

Del mondo e tatti in cor festanti diéro, 

Quando la B'aimì ebbe il NaigacTa eletto, 

Otto grazie a quel Re. s Di Saél il conjuge 

kdra giojoso concedè al NaisacTa t 

D 1 andar per fauste e insuperate vie, « 

E sguardo tal che nulla al sagrificio 

Non visto gli restasse, s Agni, dell'ostie 

Il vorator, la propria essenza pòrse 

Ove Naia il bramasse, e mondi splendidi 

Gli promise. ♦ Offerta il Sapor de 9 cibi ' 

Jama, ed al Giusto una costanza rara. 

Ovunque Naia il disiasse, d'acqua 

L'esistenza impartì il Signor de' flutti, 6 * 1 



i3a NALA 

sragaé éo 'ttamagancTàdjA: 6 * sarve éa mifunan dadu: » 

varia evam pradàjft 'sja devfis te tridlvaS 68 gaUb*39f 

pàrfiv&é éi 'nuBùja *sja vivdhafi vismajànvità: i . 
damajantjfté éa mudila: pratigagraur jatilgatam* 8 #4Òi 

galega pàrfivendregu Blma: prtio mahimanft: s 
vivàhafi cftrajàmàsa damajantjà nalasja óa «41« 

uSja tatra jalàcftman natéadb dvipadàù* 9 rara: t 
Dimena samaqugfi&to gagfima nagaran svacam *42# 

avftpja n&rtratnan tu ptmjaéloco 70 -pi partiva: % 
reme saha tajà rftgan éaéje 'va balavrtrahft «43» 

attva mudito ràgft Bràgamàno -néumfin iva i 
araflgajat pragà viro darmela paripàlajan «44» 

!ge éà 'pj aévamecTena jajàtir iva nàhuSa: i 

anjaié éa bahuBir dìmàn cratuBié éà 'ptadacgipri: «45» 

punaé éa ramanljeSu vanegft 'pavaneSu éa i 
damajantjà saha nalo vigahàrft 'maropama: «46» 

ganajàmàsa éa nalo damajantjftm mahAmanfi: i 
indrasenan sataS éft 'pi indrasenàfi éa canjac&m 74 #47 

evan sa jagam&naé éa viharané éa nar&dipa: % 
macia vasnsampùrqiAn vasudM vasudftdipa; 75 #48» 



• iti nalopàòj&ne pa&éama: sarga: *5# 



cìnto t. j53 

19. E i serti ai quali d'ogni pregio ò primo 67 
Grato olezzo. Riuniti il dono a Ini 
Fér di due figli, e, tai favor largiti, 
Al trino cielo 68 risalirò i Deva. \ 

0. I Regi di stnpor compresi in scorgere 
Stretto il nodo di Lui con Damajantf, 
Quali sen venner se ne andar gaudenti 68 , t 

1. E lontani che fur, solenni lieto 
Di Re Naia le nozze e Damnjantl 

2. Fé il magnanimo Blma, i al quale appresso 
Quanto gradigli il NaisacTa si stette, 

De' mortali il miglior 60 . Commiato prese 
Da Bima poi e sua città rivide. » 

13. Il re glorioso aveva alfin la gemma 
Delle donne ottenuta, e ne cogliea 
Diletto, o Sire, qual da Saél 70 suole 

14. Di Baia e Vrìtra l'occisore. t E, in gaudio 
Indicibile, al Sol splendeva uguale 

V eroe solerte in far del Dritto scudo v 

Alle genti che Prence ei correggea. s 

5. Compi sapiente il sagrificio equino 71 
Pari a Jajàti, il figlio di KahuSa"; 

E, carche dei presenti adatti 78 , ancora 

6. Più ostie e più. i Tra gli orti nuovamente 
Poscia godendo e tra boschetti ameni 
Simile agi' immortai di Damajantì 

7. Naia l' amor, s fé d' un figlinolo madre 
La B'aimt sua quel generoso Sire, 

Cui seguiva una figlia, ambo appellati 

8. Dal nome d'Indrasena 74 ; s e tra gli amplessi, 
Degli uomini il Signore, e i sagri offici, 
Reggea cosi, sovrano della terra, 

Codesta terra di divizie piena 78 . 



4 34 MAL* QàfiTQ V. 

NOTE AL QUIfltO CÀNT0. 

55.'; a e della luna 

„ il giorno fausto e V ota. » ' 

««Tifi vale propriamente ^iomo lunare. La voce 
mia significa in sanscrito del pati mese dhe;;luna*); dal che ai pad già 
inferire che par presso gì? Indiani antichi la prima divisione del tempo, come 
la pia facile, fosse a mesi lunari. Risalgono però a rimote epoca i tentatiti 
per giungere all'anno solérete tale vorrebb'essere l'anno ve dico stesso**). 
Alle osservazioni astronomiche andarono anche in India congiunte le aber- 
razioni astrologiche. I giorni ed i momenti fausti trovansi menzionati nelle 
epopee indiane, a simiglianza di quanto incontriamo presso altri popoli del- 
l'Antichità***). La nascita di Rfara (Rlméj. L xa. 1. e segg.) è posta alaono 
giorno, il quale fors' era tenuto fausto per le nascite, quando altrove (VeU- 
Japané.n.) leggiamo esser egli funesto per le morsicature: 

*) Bopp, Gloss. 263, b; v.'per le lingue affini ih., e Poti, Etym. Forsch. 
I. 194. — ■ Gfr. in ebraico: TOJ jareah /«no, TO jerah mese. 

**) r. Weber, Ak. Vorl. p. 220-21. Il G'jotisa, operetta astronomica che ora 
fa parte del canone vedico, dà la divisione del tili in 30 muhùrti 
ore (di 48 minuti dei nostri), e suddivide il muhùrta (secondo L as- 
serì, I. Alt. I, 823) in due nàdied, ognuna da 30 cala, mentre 
Manu (1.64.) dice senz'altro il muhùrta di 30 cala. Forse qual- 
che oscurezza di stile fece, appari^ questa diversità; giacché nel Vispa* 
pur&na (v. Journ. as« 1832. Apr. p. 367) v'ha il muhùrta diviso 
bensì in due nàsica, ma di 15 cala per una. — Colebrooke 
{Asiatick Researchei, V. Londra, p. 105) presenta alterato il passo di 
Manu in discorso, introducendo lo e sana che avrebbe 30 cala, • 
facendo il muhùrta. di 12 csaaa (~360 cala). Wilson ugual- 
mente definisce csana— thirly Cala.s or four n\inntes. 

***) v. per i Greci, E s i o d o, *Eoya xaì tjfiéQai, III. — All'occasione dello 
Svajanvara di Draupadt, i principi, giunti sotto la costellazione . di 
Delfino (sisumftrasira: pràpja), si raccolgono nel locale prepa- 
rato al nord-est, dove nel sedicesimo giorno comparisce la fanciulla.— 
Lassen (1. e. 743) tien forse l'astrologia indiana per troppo moderai 
(cfr. We ber, L e. 30. 232), e limita per avventura di soverchio le traccia 
che nelle epopee «e ne rinvengono. Nel Naia (Bo. X11I. 24) abbiamo: 
grahà na viparitds tu pianeta non adversi forte?- È notevole però 
che la digressione astrologica di RàmDj. I. xix., citata da Lassen quasi 
nnico esempio nel suo genere, manchi alla recensione bengalica (v. 
Schlegel, annot.); e che lo squarcio del Naia ove quest'ultimo passo 
fi rinviene, sia estraneo a buon numero di codici, 



ILLUSTRAZIONI, s 35 

Della tana il dì quinto, il nono, il sesto 
L'ottavo, e dopo il decimo anco il quarto, 
Maledetti son dessi, a chi fu morso 
Morte-recanti 

à»6» "Lioni al monto 

* Rassembrano gagliardi a (v. la n. 19.) Cosi in Sacunt. (ed. Chézy 31. 16 ; 
ed Bòhtl. 23. 10.) si compara il re ad un elefante che incede al monto 
(girióara iva n&ga:), — 

Bopp traduce: per portam...... intrarunt, e lo seguii, valendomi però 

del senso di arcus porta ornamenti* instructus ch'egli medesimo dà a to- 
rà n a nel glossario. Ma certo taluno preferirà di unire torà pena a vi- 
ragitam per averne: entrarono nella cerchia fregiata d'arco stupendo. 

&?• "pingui braccia • 

A davi simiglienti e può leggiadre 

£ snelle assai n A. G. Schlegel nella sua Biblioteca .indiana (1.110.) 

parlando di questo passo osserva : " L' ultimo attributo: potrebbe tuttavia sem- 
brare in contraddizione col primo; ma si badi alla coordinazione e si rin- 
verrà che il poeta ha veramente dipinto la più eletta forma d'un bel braccio 
Tirile; l'omero enfiato da muscoli carnosi è simile a clave; l'antibraccio finisce 
in sottile, e le dita snelle ed agili son comparate a drago da cinque teste. „ 
Di serpi policipiti ne' monumenti indiani, v. ib. 88. (Cfr. la n. *&•) 

&S« (él. 7.) Bóhllingk espunse questo sloca inceppante, che nella fedele 
traduzione di Bopp è : " hunc regum-conventum purum, serpentibus B'oga- 
vatiam velati, » impletum virorum-principibus, tigribus montis-speluncam valuti, 
§ (8 Damayantia tum scenam iutfavit.) „ 

La seconda parte suona letteralmente: repletum hominum- tigribus (v. 
la n. 1*.) **cut tigribus montis-speluncam... È difficile non immaginare che 
la espressione metaforica hominum-tigribus abbia suggerito al poeta tal pa- 
ragone; e, se non erro, anche nella prima parte dello sloca si asconde un' 
analoga allusione della cosa recata per comparazione, al snono di quella cui 
si compara. Rà gas a mi ti cioè che vuol dire regum contènto*, con una 
piccola modificazione ortografica [r a gas ami ti*)], forse appena sensibile 

*) ra£a=ragas, v.Bòpp, Gloss.284,b; pàdaragopama (=pàda fraga 



l36 *ALA CAUTO V. 

alla pronuncia indiana, significherebbe congretso-neUa-pohere, qua) farebbe 
in via naturale quello dei draghi. L'indole di questo paragone è però 

ovvia ai poeti indiani, (v. RAmàj. I. v. *>. nella nota •*•) 

&f». (si. 16. b. prftptactlam) Bopp ha: refugii ad Deos aggressum- 
tempus putaiit. Il grande indianista non intese certo di offrire con ciò la 
traduzione letterale, perchè prati non trovo in alcun lnogocheai costruisca 
col genitivo ; bensì coir accusativo *), cui si suol posporlo. Quindi abbiano, 
panni, piuttosto: ad tutelam, diis idoneum-tempus pulavit; dessa cioè, co- 
noscitrice de* lochi e de" tempi (Vili. 12), stimò quello il momento ore 
potessero i Deva esser mossi dalle preci della dolente, quantunque essi medesiad 
causassero l'angustia sua.— Se fosse lecito supporre priptactlam un neutro, 
ai rinverrebbe qui la identica frase pàlica che spesso occorre nella Cam- 
macald: jadi san&assa pa Macella n(=sscr. jadi safifrasja prip- 
tacàlam) se alT assemblea è-momento-idoneo. Certa poi mi sembra la 
forma neutra ridotta ad avverbio, còme suole, nel passo che incontriamo 
più avanti (VIII.42): uvàóa deéacàlagffà pràptacilam; cui tradurrei 
perciò: a Ed essa, conoscitrice de' lochi e de" tempi, parlò opportunamente- 
in-quanto-al~tempo [in istante idoneo]. „ **). — Cfr. il dlr&acàlam 
avverbio, di Canto XX. 31. Bo. 

HO. Ecco la traduzione letterale che Bopp dà del secondo verso dello éloca 
XXIII, e del primo del susseguente: consilium altum, veritatem^ amorem- 
que in Naisad'um, i mentis-puritatem^ inteìlectumque, cuìtum shuUumque 
in Naisad'um. Così presentato, il passo pecca di tautologia*, ed acid ag- 
giungendo che non tutti i codici offrono il secondo di questi versi, sì 
avranno, credo, le ragioni che indussero Bòhtlingk ad espungerli ambo, e 
a rannodare la prima metà dello éloca vigesimotereo (nel nostro testo) alla 

fupama) Hitopadesa, ed. Bonn, I. slr. 146. Non conosco però altro 
esempio di raga per ragas, e forse nel loco citato v'ha sineresi 
anomala per elidere dal composto Fiato normale raga upama (da 
ragas). Ma se pur ragas solo esiste, l'ipotesi della nostra omofonia 
non n' è sturbata ; perchè potrebbesi averne ragassamiti. 

*) E, in senso differente (per— in luogo <tt), coli' ablativo. Y. Benfey, 
Gr. p. 345. 

**) Bopp: fata est loci-temporis-gnara ad aggressum-tempore (conveniente). 



HXUSTfi AZIONI, l5? 

seconda del vigesimoquarto. — I dotti giudicheranno se fai troppo ardito 
nel troncar d'un colpo ogni tautologia col riguardare il secondo naiSacTo 
non qual locativo di propensione (come lo ò il primo), ma qual locativo 
nello stretto senso*); e nel tener manovisudcTi per composto bahn- 
v r 1 h i, relativo a b u d <fi, per averne : un pensare che ridà-ia-pure**a-del- 
r animo. Ho reputato aggettivo il tafjam**). 

*) Vedine uso analogo, VI. 10. 

**) Non so ristarmi (se pur possa sembrare opera superflua) dal richiamare 
r attenzione del lettore alle bellezze veramente poetiche che, nelle poche 
pagine finora scorse, già ci offerì il nostro episodio. Il quale a buon 
dritto fu per Goethe oggetto di grande ammirazione, e riscosse da Aug. 
GugL Schlegel le lusinghiere parole che seguono: tf Quest'episodio 
„ non è un frammento, ma forma un tutto, almeno dal lato dell'arte. 
„ L' istoria è recata come ad esempio, ma lo ò in modo così circostanziato 
„ e in foggia da destare sì vivo interesse, che il mezzo diventa scopo 
„ e 1* occasione dee perdersi di vista. In altra opportunità mi riserbo 
„ di esaminare la sostanza e lo spirito del poema, e di mettere in 
„ chiaro i costumi eh' egli ci rivela, la posizione geografica della scena, 
„ e qualche altro punto ancora. Qui volli dir pertanto che, a mio 
* sentire, il nostro poema è difficilmente secondo ad alcun altro nò 
„ in naOoq né in rj&og, né per quella violenza delle passioni che ti 
„ rapisce, uè per que' sublimi e delicati sentimenti che ti commuovono. È tale 
„ proprio che riesce attraente al vecchio ed al giovane, al nobile ed 
„ al plebeo, a chi approfondì l'arte come a chi non bada che al proprio 

„ sentir naturale La fedeltà e 1' attaccamento eroico di DamajanCt 

„ sono in India altrettanto celebri che quelli di Penelope tra noi; e 
„ ben meritano d' esserlo non meno in Europa, emporio delle produzioni 
„ d'ogni paese e d' ogni età. „ (Indische BibUolhcck, I. 98-99.) 
Le due creature dall'anima e dalle forme perfette, s'amano senz'es- 
sersi vedute, solo dell'udir F una dell'altra i pregi; alati messaggieri 
le fanno certe dell'amore vicendevole, senza che il pudore permetta nò 
all' una parte nò all'altra una dichiarazione amorosa ; Naia, fido alla sua 
parola, sazia per la prima volta lo sguardo nella sovrumana beltà del- 
l'amata e può non dirle: io t'amo, ed anzi, ispirato dal Dovere, sa 
tentar ogni via per indurla a favorire altrui, dall' adescamento della 
vanità feminile alla minaccia della collera celeste, cui, profittando del- 
l'affetto ch'essa gli porta, finge di temere anco per sé. Pur, una tropp' 
ardua prova ò imposta alla fede di Naia, allorché l'amante sciolta in 
lagrime sospetta l'amor suo rimunerato con indifferenza da lui, ed egli 
cede, non già fino a svelarle il proprio affetto, ma a dirle solo: ri- 
cordati, ora non son mio. Damajantl rassicurata circa alle intenzioni di 
Mala, e al punto di chiamarlo suo, ripiomba in grave affanno dinanzi 
alla identità che ella scorge nell'aspetto di cinque astanti; ma, giunto il 
momento, la vaga fanciulla con virgineo candore implora salvezza dai 



l58 9KLK CAUTO V, 

SI. él 22, punjasloca. Qui, allo iloca 27, ed altrove, rinveniamo Naia 
cosi nominato. Io credo poter tradarre quesf epiteto per uom-daUa-pura- 
gloiria; punja valendo puro, e sloca, nei Veda, laude, gloria*). (Cfr. 
n. **.) — si. 26. 8à jàd riti j o umbra geminata* ; ricorda quel di Dante 
(Purg. III. 95. 96) 

Che questi è corpo uman che voi vedete, 
Per che il lume del sole in terra è fesso. — 
* E il ciglio batte „ nimeseua óa sùóita: nictaHone affectus**). 

Deva stessi che le cagionavano lant'angustia, pregandoli unicamente po' 
la Verità, perchè è vero eh' eli' ama Naia, perchè è vero ch'essi stessi 
un dì gliel concedettero. 

Faccio punto a quest' enfasi nel chiedere una grazia per la verità, 
e, ad onore dell' etica indiana, cito dal MahàBàrata stesso altro passo 
concernente la sublime idea del Vero, pronunciato da altra donna in 
circostanza analoga. Dopo aver mostrato un nulla ogni bene, ogni pra- 
tica e dottrina religiosa ri mp etto alla Verità che essa desidera dal labbro 
del regal consorte, Yien conchiudendo : 

nà 'sti satjasamo d'armo na satjàd vidjate param s 
na hi tlvratarafi ciHóid anrtid iha vidjate «102« 
ràgan satjam param brahma satjan 6a samaja: para: i 

(MB ( . éacuntalopèo. VIL) 
* dover non v'ha che alla Verità sia pari, sublime più della verità 
nulla rinviensi; t nulla di più violento quaggiù esiste che la menzogna; t 
o re, la Verità è il Sommo Nume istesso, il Vero è il supremamente 
Sacro. „ 

S a t j a m, vero, verità vien dal participio pres. della radice a s essere. Cosi 
P k e n in ebraico probus, e qual avverbio rette, è da )fò k ut n erectos 
stetit, affine all'arabo kàna futi. H vero, il giusto, riguardato come 
r esistente per eccellenza ; come ciò che propriamente sta e sussiste. 

*) Di punjasloca non mi accadde di leggere che una sola interpretazio- 
ne; quella di Meier, 1. e. p. 207. Egli suppone tt sloca, congiungi- 
mento, p. es. di due versi, quindi distico ; „ e il nome intero significar» 
il collegato a purità, a virtù (cioè dotato di....). Avremmo un sensc? 
ipotetico di é I o e a, fondato su d' un valore della radice s* 1 e il quale* 
è tutf altro che accertato. — Colla mia etimologia ottengo un vocaboli 
analogo a mabàjasas magna-gloria-praditus ; sloca è nel Veda»* 
. laude, gloria, e credo, con Benfey, da sru udire con l per r (cornea 
Bel latino glo-ria, dalla medesima radice, con g—é , v. p. 93, n.; dr~~ 
éravas sscr. id.; ebr. Wf Sema' fama, da Wf Samoa* udirey 
da laude divenne inno, da inno finalmente strofa. 

**) nimeia nictatio, renne ad essere anche la minima divisione del temavi 
(Manu 1,64). Cu. ù germanico Avgenblick; j.Gesènio aH'ebr.^ - 



ILLUSTRAZIONI. IOQ 

J. ài 28. 0. daW-occhio-tteso ; àjataloéanà tongi-ocula; nell 1 estetica 
iana, la lunghezza ò gran pregio dell' occhio femminino. — ibid. 6. arg 
lo qui in significato non comune (imponere), fa bisticcio con srag serto \ 
la traduzione, il verbo da corona accanto a serto, presenta un'affinità di 
iso per l'affinità di suono che l'originale ci offre. 

l. Qui parimenti v'ha bisticcio: varajàmàsa varavarnint; la tradu- 
ne potè serbarlo. 

• 

I. E i sommi Satj; maliardi alplur., da ma ha* grande, e rsi savio, 
te (cfr. n. 84.). La presenza di questi non ci era nota. In istoria incidentale, 
•rata ad esempio (upàcjàna, v. pag. 64), il poeta non si dilungò a enu- 
rare gli ospiti del re che offriva lo svajanvara; ma cantando quello di 
aupad! (v. n. 81.)) avvenimento che tocca i cinque Pannava stessi, si 
fase a descrivere come e Brdhmana in frotte, e Dei e Semidei d'ogni 
ecie, del pari che i rsi più cospicui, giungessero spettatori della festa *). 

&• Nulla aveagli detto nell'atto della elezione. Naia si riferisce o alla pre- 
iera, o alle parole che dessa aveva rivolto ai cigni, e a lui stesso, allor- 
è ebbe a vederla qual messaggiere dei Deva, costretto da tal ufficio a non 
inifestarle V animo suo. 

B* I. Dovetti un po' parafrasare lo sloca che descrive i doni d* Indra. 
Moralmente suona: Visibilium-tisum in sacrificio, gressumque excellenUs- , 
num, faustum, I Naisadb dedit Sacrus (-Indra) Imtus Sacice conjux (Bopp). 
hlegel (Ind. Bibl. I. 1 1 2.) vuole che in sacrificio (j a g n e) si riferisca al 
condo dono, e propone perciò: Aciem oculorum, et in litando successum 
imium, faustum. Ma tengo con Bopp, perchè nel Canto vigesimoterzo, come 
est' illustre scrittore riflette **), Naia, dando saggi delle facoltà impar- 
egli, va per via insuperata, prodigiosa, e non già all'atto d'un sacrificio; e 
rchè nulla ha di strano il dare a pio re, particolarmente per il sacrificio, 

i I Bràhmana non mancano alle grandi solennità, donde partono splendida- 
mente regalati (v. Svajanvara al principio). Nel nostro episodio 
(XXI, 23. B o.) troveremo annoverato il congresso dei B r à h m a n a Ira 
gli indizj di prossimo svajanvara. 

^Confermando l'osservazione di Kosegarten-, Indralocag. note, p. 8 7. 
9 # 



]40 NALA CANTO V. 

la facoltà dell'onniveggenza. Esso doveva sentir la vocazione di offrire V ostia 
equina (v. si. 45. di questo canto)) atto solenne che richiedeva giganteschi 
preparativi*), e intorno al quale trascrivo il seguente passo dal Rimàjsna, 
I. xi. 15.16: tt codesto sagrificio ogni re della terra Io può fare, se lut- 
„ tuosa mancanza non gli avvenga in questa suprema offerta. Vanno spiandovi 
„ un difetto i Racsasa **) sturbatoli dei sagrifici ; e per un impedimento io 
„ simile sacrificio, tosto ne perisce r autore. „ È congruo che IndraDio 
dell'aria, il Dio dai mill'occhi (s tf h a s r a d r s), dai cento sagrifici (s a t a e r a t u), 
impartisca al suo protetto la facoltà d' incedere per vie impossibili ad altri, e 
l'acutezza dello sguardo che ne faccia prosperare le pie offerte. 

II. Nello éloca che tratta dei presenti di Agni, il locin àtma- 
prafiàn (mundos proprium- splendor em-hab ente s) fu soggetto di sva- 
riate interpretazioni. Siccome in seguilo Mala non è offeso dal fuoco e lo 
produce a suo piacimento, Bopp ***) fu persino indotto a supporre che, ri- 
sultandone due favori di Agni, fosse da cercarsi nel locàn àtmapraBin 
un dominio sul fuoco, quasi il dono di non poter esserne leso. Ma sembri 
che nella prima grazia, in quella cioè di concedere la propria essenza dove 
la voglia Naia, il Dio comprenda tanto il sorgere del fuoco dove non 
è, quanto il cessar di bruciare ove sia; e ritengo che la migliore interpreta- 
zione sia quella f) di riferire tal grazia al premio che, secondo Manu VI. 39, 
attende anche la virtù del piissimo Bràhmana. Per lui, dice il sacro codice, 
sonvi mondi dotati di splendore f f). 

m. Al Canto XV. si. 3. vedremo Naia vantar la sua abilità nell'appre- 
atare cibi, e al Canto XXIII. si. 22 (20), Damajantì dedurre dal sapore della 
carne, che questa non può non essere preparata da Naia. Ciò reputo effetto 
del primo favore che Jama gli largisce , ma non so ben darmi ragione del 
perchè tal dono gli venga dal Dio della giustizia, della morte e delTaverno-hri)- 
Forse il poeta si sarà compiaciuto del lieto contrasto derivante dal far che 9 

*) t. la d. «1. 

•*) t. n. •e. L'originale ha: Brahmarftcàasls. Schlegel: Giga**" 

tes qui rebus divini* inhiant. 
♦**) Ibid. p. 86. 
t) Bopp, Naia, II. ed. p. 212. 
fi) tasja tegomajft loci Cavanti, 
fff ) La eosa mi pare pianissima. Per cibarsi di carne è d' nopo toglier di vi** 

l'animale; njftp tabbah macellajo(ebT.) 9 vale anche cuoco, e vale eziandio 



ILLUSTRAZIONI. l4l 

Dio della morte conceda la squisitezza dell'alimento. Impartirgli solennemente 
le delizie del cibo, equivaleva a dirgli che la falce della morte era lungi dal colpirlo. 
IV. Nel Canto XXIII Naia dà prove d'ambo i doni di Vampa. Augusto 
Guglielmo Schlegel ha già osservato , che la freschezza e V olezzo dei fiorì 
erano di giusta spettanza del Dio delle acque. 

tf? àdjàs (v. le n. 43. e *£•)• Schlegel vorrebbe che si riferisse 

anco al sostantivo s r a g a s , in modo da ottenerne corollasque suaveolentes 
et coetera ejusmodi (Ind. Bibl. L 114); ma, con Bopp, trovo evidente che 
à d j a non eserciti la sua facoltà continuativa che relativamente all'aggettivo 
di cui forma parte*). 

OS. él 39.6. Trino cielo, traduce, non so quanto felicemente, tri diva; 
composto di tri tre e diva deh, quasi il tri-cielo. È il cielo d'Indra, e 
in generale cielo. — Mi por che in origine questo vocabolo abbia dovuto 
indicare V immensità dello spazio, divisa talvolta dalla immaginazione indiana 
nelle appartenenze del cielo prossimo alla terra, in regione d'Indra, e in 
regione di Brahman; tre sezioni dello spazio, che son distinte col nome di mondi 
(v. Ràmàjana Lxlviì, 5, 9). Quindi si dilucida come sia sinonimo del 
nostro t r i d i v a il vocabolo trivis(apa, che etimologicamente vai trimondo. 
Questa idea del trimondo , in varie modificazioni , ò familiarissima ai libri 
indiani. — si. 40. b. pratigag-mur jafàgatam , sen ritornarono 
com'erano venuti, è modo di dire; v. p. es. Ràm. I. xi, 19. 

HO. tt de' mortali „ dvipadàm; l'uomo riguardato come bipede. Questa voce 
da per sé sola basta a dar un'idea dell'affinità che lega le nostre lingue al 

carnefice. Ecco il punto di contatto fra la giustizia, la morte e la ga- 
stronomia. Prof. S. D. Lunotto. 
) L'adi o àdja cioè non può venir a dire (questo per) primo, con quei 
che segue—eccetera, altro che qual membro finale d'un composto pos- 
sessivo, non già come aggettivo staccato dal sostantivo o a lui legato 
in altra attinenza. Sin ha di (sinha + àdi) che Schlegel ivi reca ad 
esempio (p. 11 3) traducendolo: •/ Uone ei rimanenti animali del bosco, 
non vorrà dir il Uone e gl% altri animali (il Uone ecc.) altro che ri- 
ferito p. es. a bosco, qual composto possessivo, cioè: bosco che ha 
il Uone per primo animale (gU altri si tadono). 



I{» CANTO ▼. 

sanscrito, e della utilità che Io stadio di questo arreca alla scienza di quelle. 
Dvi-pad-àm è pari a bi-ped-vm, £*-;ro'<J-aw; identiche radici, identico gu- 
sto di composizione, identica grammatica. K tosto scorgeremo che b e d 
non si scambiano tra latino e greco, come in assenta del sanscrito si po- 
trebbe a primo tratto supporre; giacché è manifesto che da un dvi primitivo 
la l&bbiale © rafforzandosi a ò, cagionò al latino la perdita della iniziale*); 
mentre nel greco, t> andò attenuandosi, come spesso vi suole, finché disparve. 
Nello zend (v. n. £?•) riscontriamo precisamente i fenomeni del latino; al- 
lato di dva=dtio vi troviamo bis, bi-=6»s, bi- latini. 

90. Pupjasloca, v. n. GÌ. — Di éaéì v. la nota 14* **) 

91* A s v a m e (fa. Tra i principali sacrifici è V equino, il quale guadagna naiml 
dominio del cielo d'Indra (v. n. 8. III.), lo svarga, a chi il compia centanno 
volte. I capitoli XI XII XIII del primo libro del Ràmàjana trattano dell — - 
AsvamecTa***) operato da re Dasarafa, nello scopo d'aver figli. Il s 
VasiSfa diresse allora V impresa; raccolse* e custodi e operaj e mimi e bal- 
lerini e astrologi per apparecchiare la grande solennità, alla quale conveniva 
la presenza di molte migliaja di Bràhmana. Ordinò si erigessero fastosi al- 
loggiamenti per i sovrani alleati e per i sacerdoti; ampie abitazioni pe 
collocarvi il séguito di quelli, e i cittadini, e quei del contado, e le migliaj- 
di stranieri di ogni ceto, che faceva convocare; ovunque si distribuisse^ 
cibi a profusione, ad ogni casta si rendessero i debiti onori, a nessuno a^S 
elargisse con disprezzo, perché : tt cosa data con disprezzo, arrecherebbe colpa» 
al donatore ****)•„ Giunto il tempo, si venner celebrando le molte cerimonia 
brlhmaniche fra il canto degli inni sacri, e : u In quei giorni alcun non si scorgeva» 
„ o lasso o famelico ; niuno non satollo, fra i quadrupedi neppure, o qualunque al— - 
„ tro animale ; né era a vedersi non sazia la donna di tutore priva, o non sazio 
„ fanciullo, o vegliardo, o tapino mendico. „ u e negl'intervalli delle cerimonia 



*) Pesto reoa l'antico dtis per fós, v. Forcelle** s. v. bis e dui*. 

**) Nell'annotazione a quello schiarimento é da intendersi ciò che dissi *XJ 
Bopp, solo in quanto egli cita nel Glossario sotto Puloman m. l'e- 
sempio d'Argunas. X. 7. 

***) Da asva canotto e metfa sacrificio; gli equivale perciò hajamedT i 
che leggesi p. es. Ràm. I. xi, 8. xu, 1. 

•***) XH. 31. 



ILLUSTRAZIONI. l43 

9 i Brihmana sermoneggiavano diffusamente trattando delle Ragioni delle cose, 
„ essi i facondi, costanti, disiosi di superar V un V altro. „ *) 

S' inalzano infine le superbe colonne di legno dorato ; vi si avvincono 
molti altri animali d'ogni specie, sacri air uno o all'altro nume, ed il corsiere 
(che sciolto da ogni freno vagava da un anno per selve e per campi, senza 
che tal libertà andasse' disgiunta da attenta custodia) ivi si presenta ben 
parato, qual vittima precipua. È ucciso da Causaljà moglie del re, che, disiosa di 
prole maschile, va a coricarsi per una notte presso al cadavere del destriero **). 

79* Jajdti il figlio di Nahu&a. L'originale Nàhusa Nahuàeo, patronimico. 
Nahusa, Gglio di Àju ***), è messo fra i più antichi re della dinastia lunare, 
e, come da Àju e da Manu, parimente da lui nei Veda si nomina il genere 
amano f); re in prima giusto, saggio e pio, che raggiunse una potenza so- 
vrumana fi ), ma che poi precipitò da tanta altezza per aver vilipeso i Bràh- 
mana* i quali perciò lo pongono fra i re perduti fff). 

Jajàti suo tiglio, monaroa piissimo, celeberrimo per i suoi sacrifici che 
il Rgveda stesso canta, è padre di Jtaru (da cui discendono i Pattraea); e 
di Ini ci occorrerà di parlare nelle noie alla Sacuntala. 

93. a E, cerche dei presenti adatti, ancora 

Più ostie e più. n Traduco presente il d a e s i n a sanscrito, che vale qui il 
premio che si dà ai sacerdoti desistenti ai sacrifìci. La B'agavadgità c'inse- 
gna (XVII. 13): u sagrificio della tenebra è detto quello che va privo del 
» rito, quello in cui il cibo non è profuso, che manchi degl' inni sacri , o 
» dei presenti (ai sacerdoti, [a d a e s i n a]), o di fede. „ (v. pure la n. JO.) 

*) XIII. 11. 12. 21. ^Schlegel (Ind. Bini. I. 84.), e Lassen citando 
Grimm, Deutsche Myth. p. 43 (Ind. Alt. I. 793.), ricordano i sacriiici 
equini degli antichi popoli germanici (e Finiti e Slavi). — Sì nel Veda che 
nelle epopee vige il sacrificio d' animali. u Pur già vi si rinviene quella 
tenera compassione, per l'animale che assume il peccato dell' uomo, la 
qual più tardi, unita alla dottrina della metempsicosi, indusse il Buddhi- 
smo (v. p. 45, n.) ad abolire il sacrificio d'animali. Sembra che, appena 
per influsso della dottrina budtfaica, il divieto di scannare e mangiare 
animali siasi introdotto nel sistema brdhmapico in quella estensione ch'ebbe 
dappoi.» Rota, Jdska's Nirukta, XXXIII. — *»*) n. ». IL 

i)nahnsas, nahuààs ; v.£efifey,Gloss.S6m.— Naifr.II.3.(ed.Roth,p.ll.) 

++) Fu sostituito ad Indra; v. il principio della nota preced., e n. 3. III. 

*Hi) Nel codice stesso di Mann (Y1I, 41): tt Vena si perdette per immodestia, 
del pari che Nahuia.... „ 



l44 MALA C V. ILLUSTRAZIONI. 

94* Figlio e figlia hanno il medesimo nome, distinto il genere soltanto 
dall' a finale, breve nel maschile, e lungo nel femminino. Indrasena da 
Indra, e sena esercito, vale: che ha f esercito finóra*). 

96. " Reggea così, sovrano della terra, 

Codesta terra di divizie piena. „ L' uso ed il tempo possono far dimen- 
ticare o devon far trascurare alle lingue V etimologia dei vocaboli co- 
strutti, per modo che questi non servan più che a destare la riminiscenza 
dell'oggetto cui vennero a nominare, senza riguardo alla via tenuta dal pensiero 
nel formarli ed applicarli; e, perduta di vista la genesi d' un vocabolo, 
lo rendono talvolta propaggine, i cui virgulti rinegano affatto la prima 
origine. La terra è detta dagl' Indiani v a s u - òTà propriamente dàvitias 
ferens; ma qui per dir la terra di dovizie piena ci volle un attributo» 
ove si ripete vasu, per modo che etimologicamente si ha quasi tauto- 
logia : la piena di dovizie dovizie - recante ; né sarebbe impossibile che sài 
fosse riusciti col tempo a dire la povera ricchezza-dante. Così, per citar— 
altro esempio d'obblìo, tra i moltissimi analoghi, n r p a t i signor degli uomini^* 
quindi re, vien adoperato nell'epiteto re del bosco che si dà alla tigre (ara n — 
janrpati, Naia XIL 35 [25]). Lo slavo oggidì canta: Vrana gavranaaaaai 
due neri corvi, mentre nel nome di corvo v'ha il senso di nero f). 
V i ò*a v a, pari a vidua latino, ecc., significa etimologicamente senza marito fi), atsaaaa 
il latino, perduta, come il germanico, la riminiscenza della composizione, e Vn 
isolato del vocabolo corrispondente al dava sanscrito, dice anche 
(vedovo). 

*) Indrasena ò pure il nome dell'auriga di JudiSfira, v. Draupadi * 

pr. VI, 10, 17; Vili, 15. — Ma V Indrasena che leggesi nella trad — 
di Bopp, Indra lo e. III. 8, è errore per Citrasena. 

i) v. Tommaseo, Canti slavi; dei Canti popol. IV, 306. 

fi) Più completo rimase tra il popolo d'alcune contrade italiane il vedove^** 
che oggi è della nostra 'lingua. 
« 

(La conlmoaxionc in uno dei prosimi fascicoli.^ 

Emtaw 

Pag. 7 (nota), del P bis per dall'; 29 (n.42), Ébn Sina: per Éba Si: a fa, ; 
7 2 (si. 18) hansànperhansàK; 78 (Un. 5), arcobaleno per arcobaleno^; 
96 (si 25) et per éà\ 



( 



Varietà. 

Byraa. 

È tradizione notoria che i Fenici approdati al luogo dove sorse dappoi Carta- 
ine, non ottenessero dagli indigeni senonchè l'area cui la pelle d'un bove coprisse, 
che, in tal modo convenuti, occupassero tuttavia un tratto ragguardevole di ter- 
;no, mercè l'astuzia della loro eroina, la quale avendo fatto scindere a minutissime 
arti la pelle di un bove, ne circuì uno spazio ingente. Mercatique solum, facti de 
ornine B y r s a m , canta Virgilio (En. I, 367); e l'Antichità non scorgendo al- 
ma stranezza nel dichiarare col Greco un nome fenicio (v. p. 27), vide in Byrsa 
(ÌVQffa greco, cuojo. Ma Scaligero, non pago di codesta etimologia, e notando 
le la cittadella di Cartagine ebbe particolarmente quel nome, trascurò il nostro 
\cti de nomine e pensò che la voce fenicia fosse B y s r a (=ebr. JT}?? b o é r a A) 
wlezza. Senza bisogno però di metatesi alcuna, io vi leggo un termine fenicio che 
i sé comprende, direi quasi, e rischiara la tradizione intera. Le radici ebraiche 
■j^ ftfi^ ( c f r . y 1 ^ D 1 "^) (p a r o s , con varie s finali) racchiudono i significati di 
endere, spezzare, e dispergere. Se tiriamo da quelle radici ebraiche sorelle e 
nasi equivalenti, il nome regolare nfeTJB, '^$7$, pirsaft, perda A, otteniamo un 
istantivo che ammette i significati di stendimento, spezzamento e dispergimento. 
ontraendo il patto con simile vocabolo, il condottiero fenicio ne stabiliva la elu- 
one che fu applaudita dagli elusi ; e la città per cui si acquistava il terreno con 
n* astuzia etimologica, doveva sentirsi intimar lo sterminio con un sopruso fi* 
logico, quel famoso di civilas ed urbs *). 

Il I*. Basilio da Gemona. 
Appiè della pag. 34 mossi qualche dubbio circa la patria del celebre sino- 
go P. Basilius a Gì emona (de Glemona), dato per friulano dalPredari. 
uesf ultimo, in un indulgente suo articolo intorno alla mia Introduzione (Bollet- 
no di scienze ecc. Torino, 1 854 giugno 6), sostenne esser tale il P. Basilio, senza 
ero offrir prove ulteriori, ma solo riuscendo a confessare d'aver indotto la patria 
al nome, per analogia di Leonardo da Vinci ecc. Simile argomento , a malgrado 
si da, continuando a non parermi bastevole, mi permisi nuove pubbliche obiezio- 
i al Predari ; e la verità uscì in piena luce per la tenacità del mio dubbio, che ! 
l'ulani furono invitali a disperdere. Il giornale udinese V Annotatore friulano non 
rdò a pubblicare Pun dopo l'altro tre articoli, donde emerse che il grand'orienta- 

) Per i pochissimi cui facesse maraviglia la sicurezza colla qual si cerca neir e- 
braico la ragione di voci fenicie, trascrivo le parole recentemente profferite 
dal chiarissimo interprete della iscrizione fenicia di Marsiglia: u l/hébreu et le 
phénicien ne difTéraient que fort peu Tun de Fallire ; les deux langues étaient 
tellement semblables, que nous pouvons les considcrer au fond comme une 
seule et méme langue. „ (Munk, V inscription phénicienne de Blarseille, 
verso la fine). Due apparenti difficoltà filologiche mi si potrebbero opporre; 
la iniziale mutata in B, e la he formativa finale, in luogo della t a u che in casi 
analoghi offrono i monumenti fenici. Ma, anche senza tener conto delle alte- 
razioni a cui seduceva il (Uova greco, ricordo ?rp b a r z e 1 ebr. — • Tfr 
p a r z e 1 nel caldeo ; e V incompatibilità greco-latina di quel t finale. — 



l46 YÀRTETA'. 

lista cui spelta la gloria d'aver appianata la via allo studio scientifico del Cinese in 
Europa*); nel cui epiteto a Glemona, Brockkaus fu cosi lungi dal sospet- 
tar la patria **) ; cui Basilio Asquini suo compatriota osava omettere dalFelenco 
degli illustri ecclesiastici friulani vissuti tra il 1665 e il 1735 ***), e cui Se ho ti 
mandò a nascere in Portogallo****): non è altrimenti che un italiano, un friulano, 
Fra Basilio Broli o, nato a Gemona nel 25 marzo 1648, ed istradato a studj 
severi in quell'angolo appunto del bel paese, dove si stampano queste mie pagine. 

Compiuti in patria i primi studj, passò in Gorizia alla retorica ed alla filosofia; 
e a di là ritornato alla patria, avendo l'età di circa 1 7 anni, palesò un totale cam- 
biamento di carattere, divenendo da spensierato e vivace, riflessivo e tranquillo. „ 
Vestì l'abito di S. Francesco a Bassano, in un convento di minori osservanti rilbr- 
mati, nel 1666. Lettore di Teologia a Padova nel 1678, volle, benché gr a ertissimo, 
partir in Missione per la Cina nel 1680; giunse nel Siam, correndo il 1682,ed ivi 
si diede allo studio del cinese. Arrivò in Cina (a Kuan-ceu ì^Canton f) nel 1684, 
quando ferveva la questione sui Riti, nella quale egli tenne cogli ortodossi. In veste 
di dottor cinese, peregrinava nel celeste impero (1687 eseguenti); e fu a Pe-kin 
nel 1700, anno in cui Clemente XI lo nominò Vicario apostolico pella provincia di 
Sen-si. Morì alla Cina nel 16 luglio 1704. La ultima lettera mandata alla patria, 
fu del 13 agosto 1703 da Si-fian, capitale della provincia di Sen-si. 

Queste notizie son tratte dagli articoli menzionati (Annoi, fritti. 1854;nn.70, 
72, 75-76-79), che tutti e tre provengono concordi dalle Memorie del P. BasiUo 
da Gemona dell' Ab. Gian Pietro della Sina, Udine 1 7 75; composte su documenti 
pòrti dalla famiglia stessa del prelato. 

Lavori d'ori entallatl Italiani. 

Mentre il Prof. Gorresio è intento a Parigi alla stampa del nono volarne 
del suo RdmSjar;a, opera che onora sì altamente lui ed il governo sardo, sotto 
agli auspici del quale vien splendidamente effettuata : il Prof. Luzzatto si deter- 
mina alfine a pubblicare a fascicoli la sua Grammatica della lingua ebraica, di 
tanti anni desiderata dai dotti (1,11, Padova 1853-4); ed altri due italiani fanno bril- 
lare i loro nomi negli annali delle estere Società orientali. 11 D.r B. R. Sangui- 
netti pubblica e traduce (unito a C. Defrémery) V È b n B a l uì t a A, opera accolti 
per prima nella Collection d' ouvrages orientaux, impresa dalla Società asiatici 
di Parigi ; e la Società orientala germanica stamperà a proprie spese, sotto la di- 
rezione del Prof. Wiistenfeld, a GòUingen, la Bibliotheca arabico-sicula di Mi- 
chele Amari (v. p. 30).— I dati statistici in anguste proporzioni vietano ordi- 
nariamente di inferirne sicuri giudizj ; ma io stimo questo cenno un indizio sincero 
dell'attitudine degl' Italiani a simili studj, e della squallida condizione in cui nella 
patria loro questi si trovano. 

*)y.Abel Rémusat,J.a3.l. (1822)p.282. **) a *i* G 1 e m o n a^s Dietim 
naire chinois^. Ztschr. d. d. m. Ges. VI, 534. ***) Centottnnta, e più uomi- 
ni illustri del Friuli, ecc. Venezia, 1735. **#*) Ersch e Gruber, I. xvi, 368. 

t) Quangch e n ha V Annotatore (nn. 70, 75), e avranno forse le Memorie citile 
più avanti; ma la n finale par certo errore per ti, giacché ottenendo Quangcke* 
si ha propriamente il nome cinese delle città di Cantou secondo l'ortografi* 
del P. Basilio, che scriveva p. es. Che-kiang per Ce-kiafi (Tene 
kiang secondo l'ortografia francese). 



Critica. 

U Cattedra alessandrina di s. Jlarco Evangelista e Martire consertata in Vene*;* 

éntro ìt tesòro marciano delle reliquie, riconosciuta è dimostrata dal P. 

Giampietro Secchi della Compagnia di Gesù perla scoperta in essa 

. di un'epigrafe aramaica e pe* suoi ornati istorici e simbolici . Vessila* 

tip. Naratovich, 1853.(390 pag. in quarto, con una tavola litogrr») . . . 



hyiei tesqrQ della Bpsilfca marxiana in Venezia, si mostra 
la Cattedra d'Alessandria, sedile di viva pietra che , stando 
alle cronache, fu da Eraclio imperatore mandato in dono^al 
Patriarca, di Grado, siccome la Cattedra vescovile sn cui se* 
dette in Alessandria su Marco Evangelista, fondatore e martire 
primo della Chjesa alessandrina* Grado, la nuova AquU^ja^ 
accoglieva così il prezioso monumento dell'apostolato alessan- 
drino di Marco, che era tradizione avesse predicato il .Vangelo 
anche ne^la vecchia Aquileja. E da Grado, varj secoli dappoi, 
veniva ; trasferito, tal monumento a Venezia; nella quale il 
particolar culto a s. Marco, comune ad Aquileja ed a Grado* 
ricorda .per tal modo la umiltà delle origini, come rammenta 
lo splendore della potenza, cui servi quasi d'emblema," 

Ad illustrare questa cattedra, dettava l'eruditissimo P. Sec- 
chi l'opera acclamata il cui titolo abbiamo preposto. È diviso il 
libro in cinque parti, alle quali vanno innanzi un' epistola dedi- 
catoria a s. Pietro ed un breve proemio ; chiudendo il lavoro ìa 
Sinapsi e conclusione dell'opera, ed alcune Aggiunte. Istorica 
è la prima sezione ; filologica la seconda ; archeologica la terza; 
ermeneutica o interpretativa degli ornati simbolici là quatte, 
e dogmatica la quinta. L' esame nostro si restringerà alla parte 
filologica, e poco pure attenderà alle digressioni in essa dis- 
seminate dal dotto autore , per dedicarsi di propòsito a ciò 
che riguarda l'ormai troppo celebre epigrafe, incavata nel 



IO 



l£8 INTORNO ALL' OPERA 

davanzale della cattedra, sulla lista sgombra d'ornati che im- 
mediatamente corre sotto l' orlo del sedile. Essa consta d'una 
sola riga, come si scorge dal fac-simile che abbiamo dinanzi. 

Il P. Secchi denota la scrittura dell 9 epigrafe col nome 
generico di aramaica (16^ 39-40'), e la definisce ebraica 
<T Egitto similissima alla palmirena (4, 348); vicina molto 
alla ebraica ordiharia (assiriaca) , ma serbante alcuni '. caratte- 
ri fenici , quali particolarmente si veggppo nei papiri ara- 
■laici <T Egitto (4fr, 345); da questo «ducendo la rimota 
antichità, e la gravissima importanza paleografica della nostra 
iscrizione. 

Le parole di questa sono da lui attribuite al dialetto 
«rameico <T Egitto (65>, ovvero al dialetto febraiòcy alessan- 
drino (345). Che: gM Ebrei d'Egitto avessero tori dialetto 
particolare, è a lui manifesto dall'essere» gli egizj Giudei anno- 
verati negli Atti degli Apostoli fra queHi che nel miracolo del 
giorno di Pentecoste avevano intesa, nella lingua straniera o nel 
dialetto loro proprio, la predizione fritta in toft dialetto 
palesttnense (29). La epigrafe è detta talvolta ebraica (12, 
16* 29, 34, 149, 343), tal altra aramaica (titolo, 4, 33, 
66, 299, 337, 352). Questa indecisione più che da altro 
ini sembra derivar* dall' indole delle paróle che il dotto au- 
tore legge nella iscrizione ; delle quali, come più tardi vedremo, 
quasi esclusivamente ripete il significato e la forma dalFebrai- 
co biblico, pur reputando aramaico il testo nostro 2 . 

La M eloquentissima" epigrafe (16) è letta dal P. Secchi: 

n»ib d^2 /ot» «or bn w vtò aw» 

ossia (66); Mosciab Marcai hu- Ei-Zani 
Marecai* Holam Le Romi 

*) I numeri arabici fra parentesi, senza ulteriori indicazioni, si riferiscono ali* 

pagine dell'opera del Secchi. 
*y ^Tranne- qualche idiotismo aramaico essa (l'epigrafe) nell'uso delle parola 
- . aetta robustezza concisa e sublimità deUe frasi, e nello stretto legame dell» 
costruzione si avvicina più che altre alla profondità sentenziosa della lift* 
gua classica'* 53. jNon è tuttavia meno pura la loro lingua, e l'inscri- 
zione della* cattedra marciami, tranne qualche idiotismo del dialetto art" 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. *4g 

soeondp proftfMia e piffiteggialura ma^soretioa; e: 
: Mosceb Marce* AuvEkan-e 
Marecei- Holem Le Rome 
secando 'pronunzia arajnaàca degli Ebrei di Egitto, argomentata 
dalle madri della lezione, e dalle cadenze finali dei versi rit- 
mici. Tradotta in latino, jf epigrafe verrebbe (82): (Ego) 
Cathedra Marci eadem ipsa. Divina norma mea Marci mei 
(est). In aeternumjuxta Romam. (Sonalo la cattedra di Mar- 
co {nella dessa. La mia norma divina queir è di Marca: In 
eterna secondo Roma.) 

Le cattedre apostoliche (e quantunque s. Marco non aia 
fra gli apostoli, la sua cattedra va tra queste) erano il com- 
pendio della chiesa insegnante, scrive l'autore a p. 25; e 
tanto era dire la cattedra di Marco o dì Jacopo, quanto il 
deposito della fede raccomandata ai loro successori * . Le 
parole fatte dire alla cattedra di Marco nella nostra epigrafe, 
apparirebbero perciò quasi una manifestazione della dottrina 
confidata dall'Evangelista alla chiesa d'Alessandria. Per dimo- 
strarle genuine, il Secchi aggiunge argomenti storici ai pa- 
leografici dai quali già la vedemmo inferire antica d'assai questa 
iscrizione ; e si as&imé di provare come dopo aver gli Ebrei 
prevaluto durante il primo secolo nella chiesa d* Alessandria 
e quindi nella sua letteratura, fosser di già nel secondo ec- 
lissati da Greci e Copti ; in guisa che la lingua della epi- 
grafe, per essere ebraica, farebbe rimontare l' epoca di questa 
mi primo secolo, e porterebbe quasi alla certezza che dessa 
appartenga a s. Anniano, oriundo ebreo, discepolo e succes- 
sore immediato dell'Evangelista Marco (29, 83-34,149). 
Verun dubbio rimanendo all'autore né sali' esattezza di 

unico d'Egitto, ha tal forza e densità di concetti che qna»i pareggia l'ef- 
ficacia dell'antica lingua classica degli Ebrei" 70. (Cfir, qui pag. 155, 
nota 2.) 
a J a. 6. Crisostomo dicea nel panegirico dei dodici apostoli: Ilhùog irtw- 
&w jurihjzwu tijv 'Poifi^Vy . . . » .,2/pcor didàexei 'Osar Baopdoove, .... 
Mccqxov %ov &Q9fo* 'jéXetjdtdQSut 17 xagà Nukov àana£eicu. Pietro 
quinci ammaestra, Roma >.<•»•• Simone ai burbariinsegna Dio;*... Ales- 
sandria presso il lièto riverisce il Irate 4i Marco. {Beccài, 344) « 



1S0 iirroBwo all'opera 

tali induzioni né sul modo suo d' interpretar là epigrafe 1 , 
trova a buon dritto di poter decantarne la straordinaria im- 
portanza. Stima egli in fatti <T aver raccolto, quasi dalla bocca 
dell'Evangelista, la consecrazione di quel principio cbe fa 
Róma superiore al resto della Cristianità. Alle Sanzioni della 
sovranità romana che nel nuovo testamento si mostrano, suf- 
ficienti' ai cattolici ma parate sempre impugnabilissime agli 
awersarj di Roma, una tale ritien di aggiungerne mercè la 
sua diciferazione, da farne ammutolire ogni incredulo. Egli 
pone perciò trionfante la sua lettura dell 9 ultima frase Qvrò cta 
semper juxta Romani) in fronte al Capo II della parte dog- 
matica, nel quale confuta la enciclica di scomunica pubblicata 
dal patriarca di Costantinopoli, Anthimos, in séguito agli ec- 
citamenti di riunione diretti dal Pontefice Pio IX ai seguaci 
della Chiesa orientale. Anzi il vanto vittorioso di questo grande 
risultamento, si trasfonde, per cosi dire, in tutto quanto ii 
libro*. 

') V. pagg. 53, 66 (^lettura inespugnabile e tetragona ad ogni obbiezione"), 
82, 352, 385. * 

•)., Nella dedica; Questo raggio di luce soprateìeste ci rischiara la storia 
ecclesiastica e profanai e: rimbombi nelle loro cosciente (de 9 scismatici) 
la regola di Marco. — Per comprendere in un distico poetico la pre- 
diletta? massima di Marco evangelista, e la gran regola della Chiesa ales- 
sandrina (47). - Veggo bene che questa fòlgore terribile <Fun evangelista, 
a deW evangelista discepolo ed interprete di Pietro scompiglierà la test» 
degli eretici e degli scismatici che da tanto tempo combattono contro 
Roma. Essi guastarono i codici, o lessero a tot talento i testi evangelici 
degli apostoli Giovanni e Matteo chiarissimamente insegnanti la potestà- 
di Pietro; e al postutto negarono che i Pontefici Romani potessero ir- 
rogarsela. Or parlano i sassi (71). — dovrà confessare che questo 

documento della tradizione apostolica, custodito illeso e limpido in un 
codice di marmo, corona la dimostratone altronde sicura della succes- 
sione a Pietro e a tutte le prerogative di Pietro ne 9 Romani Pontefici^ 
e che ne ingiojella del più lucido celeste diamante il loro triregno (82). — 
Perchè tutti così la poteano leggere, ed essa ricordare ai discepoli detta**- 
scuola cristiana la regola importantissima delTunità della Chiesa, e dillisnr 
gerarchia cattolica lasciata da Marco per norma atta chiesa alessandri—— 
na....Fu dunque scolpila d memoria de 9 posteri guai regola evange- — " 
tica di Marco evangelista (148-49). — Nella cattedra marciana.... èpre-—' 
scritta come canone divino r unione con Róma (235). — In un* operai 
come questa illustrativa della cattedra alessandrina di Marco era im — 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. l5l 

Un solo momento sembra V autore dimenticare questa 
suprema risultanza del suo lavoro, ed è nel punto (5) dove 
altra ne annunzia, di specie diversa bensì, ma di rilievo non 
minore: la scoperta vogliam dire del ritmo ebraico nella epi- 
grafe 44 con utilità d'applicazione ad innumerevoli iscrizioni di 
lingue semitiche, e perciò scoperta anch' èssa forse maggiore 
che la scoperta dell' epigrafe alessandrina 1 ". Soltanto gli 
resta dubbioso se questa sia da dividersi in un esametro ebraico 
catalettico ed un pentametro ebraico, equivalente ad un pen- 
temimere greco, oppure in due tetrametri pari. Ottiene colla 
prima divisione, meglio adatta al senso: 

Mosceb markai hu : el-zani marekai: 

Holem le rome. 

Cathedra Marci haec : norma Marci a Deo mea est: 

Semper ad instar Romae: 

possibile evitare la questione del primato d'autorità fra i cristiani in- 
stanilo da Cristo. Il 4 luogo e la perpetuità di tal gerarchia vi sono m- 
dicati con tanta evidenza di parole nelT epigrafe aramaica, che dopo 
diciannove secoli ormai di storia ecclesiastica^ basta conoscere r antichità 
delT epigrafe da noi già dimostrata per dimostrarvi una vera profezia* 
Al auro sasso adunque del patriarca f oziano risponderà il marmo orien- 
tale della Cattedra Alessandrina (299). — Ai veri figli della Chiesa 
pronti a morire, anziché negare un sol dogma della fede cattolica, bastò 
sempre la regola di Marco evangelista, ancorché non la sapessero con 
la formolo precisa di Marco, e non Pavessero mai letta su la sua cat- 
tedra evangelica. Era tradizione apostolica e dottrina de* Santi, che la 
Chiesa principale di Pietro trionfatrice della perfidia giudaica e della 
idolatria e di tutte le apostasie successive degli eretici con tanta gloria 
di Cristo e della onnipotenza di Dio, dovea servire di bussola nelle 
tempeste del mondo per, uscire a salvamento. Or ne veggiamo la for- 
inola efficacissima ; e quantunque non sia pei cattolici fuorché conferma 
della loro stabilità, tuttavia reco di questo marmo orientale che dice 
TttTÒ ù*bv ne tla lingua di Marco, 'Ai'dimg xcctà 'Polfirpr In aeternum 
juxta Romani, porta seco ripetuto V echeggio di tanti secoli, e di 
tanti maestri della Chiesa alessandrina successivamente seduti su quella 
cattedra, che renderà muta ogni lingua bestemmiatnce. E noi, finché 
durerà questo marmo, senza timore di codice interpolato o corrotto, 
potremo sempre ripetere agli eterodossi : ( -^S -^ In aeternum juxta 
Roman AUIS12 FÌAT A PttMHN (342). — Vedi innoltre pp, 216, 
218, 219, 220, 240, 334, 339, 350. 
> Or. p. 345. 



i5a intorno all'opera 

e colla seconda il distico, che piti sopra riportammo in dop- 
pia pronuncia 1 ; in latino m^Q: ((a lui recato <;osì: 
Cathedra Marci haec; mga Marci a Deo est ( 
Norma : seraper ad instar Romae, 

Il ritmo è nuovo criterio d'antichità per l'autor nostro; 
giacché se a 9 tempi di s, Girolamo, nota egli a pag. 345, 
era tanto ignorata la poesia metrica degli Ebrei, che per 
farsi credere veridico egli fu costretto a citare Fautorilà di 
Giuseppe Flavio e di Filone, è assolutamente impossibile ri- 
bassar l'epigrafe metrica della cattedra marciana ad un 9 epoca, 
in cui la chiesa alessandrina non solo ignorava la metrica 
poesia degli Ebrei, ma la stessa lingua ebraica 8 . 

La paleografia sorretta dalla linguistica si sarebbe adunque 
felicemente adoperata intorno a questi pochi segni,. per trarne 
non solo preziose notizie che in particolare la concernono, 
ma per disvelarvi altresì una iscrizione della più alta impor- 
tanza filologica in riguardo al suo ritmo, e della più alla im- 
portanza teologica in quanto al suo contenuto. E Fautore non 
esita a conchiudere (352): JPer quanti possono intendere 
44 T epigrafe aramaica V evidenza del fatto giugno a quel grado 
(( maggiore a cui può giugnere nella scienza archeologica. L'in- 
u scrizione non presenta dubbio veruno nelf ebraica paleografia 
u d'Egitto pel valore delle sue lettere, e il nome proprio di 
<t Marco due volte ripetuto, e il Pasuk separativo delle parole 
(4 e delle sentenze irrepugnabilmente ne determinano il signi- 
„ ficato. Dopo il Pasuk è inevitabile un concetto che faccia 
u senso da sé, né potendosi escludere la manifestissima Iettare 
u delle voci nero B»b* 'Atòfog xa*à 'Poifir^ In aeternum jtoto 
u Romam, io doveva trarne l'importantissima conseguenza che 
u ne risulta per la santa Sede Romana dell' apostolo Pietro." 

*) 144-45. La pronuncia non massoretica subisce tacitamente delle modifica- 
zioni, allorché vien ripetuta per dimostrarne il metro. Cfr. 66 e 145. 

*) M Non è dunque meraviglia che in un monumento primitivo della Chic»* 
M Alessandrina, qual è la Cattedra di a. Marco, ai legga una poetica iscri- 
vi zione ebraica di que' versi medesimi che abbiamo ritrovati ne 9 salai e 
„ la perizia de' quali nei Terapeuti alessandrini ò cosi solennemente lo- 
u data da Filone (144)." 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. l55 

Su tal conyinzione egli fonda ipotesi ulteriori, quando sup- 
pone che ' il canone di s." Marco , semper ad instar Romae, 
fosse a memoria del concilio niceno , o yenisse Ietto nella 
epigrafe stessa da s. Girolamo ; quando immagina che la co- 
perta eburnea, di cut era adornata un di la cattedra, fosse 
ideata dopo Iti apostasia di Dioscoro per nascondere la cat- 
tolica regola parlante dal marmo (171, 220, 16); o quando 
infine egli ' quasi si attenta a rimproverare s. Massimo, perchè 
non ha fatto uso a prò di Roma del motto contenuto nella 
nòstra iscrizione (337). 

E. Quanto più rilevanti erano le induzioni, e tanto mag- 
giore correva al P. Secchi il dovere di accertarsi della solidità 
deile premesse; di accertarsi che fosse coscienziosa quella 
sicurezza 1 con la quale parlava e del fac-simile da lui esibito 
(4,385), e della lettura materiale della epigrafe 1 , e della 
conseguente interpretazione. Quanto fosse fondata e giusta tanta 
fiducia del nostro autore nella propria diciferazione, si pale- 
serà dal minute esame che ora di questa imprendiamo; al 
quale premetteremo due obiezioni generali circa l'indole d'una 
scrittura assiriaco-fenicio-egiziaca, da lui ravvisata nei ca- 
ratteri che ci stanno dinanzi, e circa il dialetto degli Ebrei 
d'Egitto eh 9 egli vede indicato nel noto passo degli Atti de- 
gli Apostoli, e adoperato nella epigrafe. Nessun nega che la 
scrittura ebraica assiriaca derivi dalla fenicia, di cui è una 
simmetrica semplificazione. Che gli alteramenti per i quali 1 an- 
tica scrittura fu ridotta alla forma assiriaca non siano Popera 
di un momento solo, ma siensi andati a poco a poco suc- 
cedendo, sarà pure ammesse di leggieri ed a priori^ a mal 
grado dell'uso contemporaneo d'ambo le scritture (assiriaca e 
fenicia ; assiriaca e samaritana, affinissima alla fenicia) nella 
medesima regione, tra la medesima gente; il quale ha una 

*) Secondo hii, questa lettura materiale dell' epigrafe ne òffiriva limpida limpido 
il senso a chi non eresse „<Tuopo di ponti per leggerla, e della cognizione (sic) 
dei dialetti della lingua aramaica per interpretarla (53)." Cfr. qtri la no- 
ta la pag. 150. 



^4 INTORNO ALL'QKRA 

spiegazione isterica. Che l'aramaica paleografia d'Egitto giovi, 
come scrisse il celebre Gesenio, a dilucidare la storia della 
scrittura assiriaca mostrando caratteri di figura intermedia fra 
questa eia fenicia, è fatto evidente, cui l' autor nostro però 
male a proposito allega (40), risultandone contrariata. ansi 
che no la propria ipotesi che la regolarità della scrittura as- 
siriaca (e d'altre aramaiche) sia pura imitazione di quella della 
cuneiforme (38, 39), conosciuta dagli Ebrei nell'esilio 1 . Uà 
ripugna alle ragioni paleografiche una scrittura, come secon- 
do il nostro autore quella della epigrafe sarebbe, irr cui ad 
une maggioranza di caratteri prettamente assidaci, lontani dalla 
forma fenicia. [2,3, \i,necc], ne vadano commisti alcuni pretta- 
mente fenici, di quelli che notabilmente son discosti dalla for- 
ma assiriaca [bxiu, :xv] s . Analoga riflessione è da farsi in- 
torno alla lingua supposta nel nostro monumento. Caldaizzava 
bensì T ebraico parlalo e scritto dopo il ritorno dalla cattività 
babilonese, come ebraizza alquanto il caldaico di Daniele o delle 
iscrizioni aramaiche d'Egitto; ma queste offrono infine un 
linguaggio manifestamente caldaico, e la linguistica rifiuta ub 
gergo . di voci ebraiche con pronuncia alterala, con in mezzo 
un pronome estraneo a ogni dialetto semitico, quale sarebbe 
T idioma offerto dalla interpretazione del Secchi e da lui re- 
putato dialetto aramaico od ebraico d'Egitto. D'altronde se 
pure è irrefragabile che qualche monumento aramaico siasi 
rinvenuto nell'Egitto, contermino alla Palestina, è però notoria 
verità isterica che gli Ebrei d' Alessandria, ben prima dell'Era 
volgare, vennero trascurando l'idioma nazionale per adottare 

') u Altri più ragionevolmente sostennero che questa (la scrittura assórtaci 
o quadrata) fn adottata, e si può dire per pura calligrafia, jiei tempo 
della loro cattività babilonese (38)". 

*) L' autore vuole (41) che nelF epigrafe della cattedra sia la scrittura che 
diesasi ebraica nell'epoca di Gesù Cristo ; la qual cosa non si sa ben cove 
comprendere, giacché in quell'epoca si usavano distinte ed inconfuse, quitf 
scritture ebraiche, e la quadrata (assiriaca), e la fenicia, come il nostro 
autore istesso vien notando. — Lettere ebraiche son dette da s. Luca quello 
che l'autore ritiene fossero fenicie (42-43); e ^nell'epoca di 6. C. era 
senza dubbio comune agli Ebrèi la scrittura quadrata, e questa polca dirli 
anch'essa scrittura ebraica" 44. 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. l55 

I grdfcd; in ihòdo^ che né furono appellali Ellenisti 1 . E tali 
^aiiò ptoftabihnente quegli Ebrei d'Egitto, cui alludono gli 
fcttrìfegfi Apostoli, II, 8*1 1>-^ ' ' " 

' V caratteri dèlia nòstra iscrizione, tra i quali anche l'oc- 
chio' inesperto ricbtaostee tòsto varie lettere ebraiche assiria- 
Aer, presentano qliesto di singolare, che dalla sinistra corrono 
illa dèstra, a ! somiglianza delle scritture europee. L* autore, 
Jopo aver ragionato sul òòrso primitivo dei caratteri da de* 
?tra' à sinistra, e del cangiamento di direzione nei geroglifici 
li cui 1 si compose l'alfabeto semi ti ct>°, soggiunge: «Restava 

') Quindi ellenistico il greco da loro, parlato, eoa sintomi d' ebraismo. Noi 

tieoe l'obiezione del Secchi (69) che, «e l'ellenismo consiste» soluto ne- 

.glj ebraismi del supposto dialetto greco degli ellenisti, piuttosto ebraismo 

'elle ellenismo si sarebbe dovuto dire; V ellenistico non si riferisce alfe 

.;,tftoot*u>tii della lingua greca parlata da codesti ebrei, ima, del pari che 

.. il loro nome, f Ellenisti, ha relazione co IT aver quegli ebrei adottato il 
fereco, coir esser essi greci**anH. — È poi assolutamente arbitrario il 
dire (246, 345) cne S. Girolamo faccia ^testimonianza che la Chiesa prl- 
- miàvà d'Alessandria usasse perdio meno là lìngua giudaica" per aver egli 
scritto: Alexandriae prima ecclesia adhuc judaiums. Judai%o, come il 
nostro giudawtare, vuol dire .piuttosto: imitare i riti giudaici. 

') Non saprei come giustificare l'asserzione dell'autore (contraddicente d'al- 
trónde ài proprio supposto d'un idioma peculiare agli Ebrei d' Egitto) che 
k epigrafe presenti ; l'idioma: detto ebraico all'epoca di Gesù Cristo (41). 
Come jgià notammo (p, 148), egli Tuoi ripetere il significato e la forma 
delle paròle dell' epigrafe, quasi esclusivamente dall' ebraico biblico. Ora 
è notorio (v. Win et, Grommatile des bibHschen nnd targumischen Chml~ 
daismWi lied. pp, 1-3, 9), e il Secchi, stesso, pur menzionando la u te- 
nacita degli Ebrei risagliente sempre alla lingua antica" ci ammette , che 
àramaicn fosse ai tempi di 6. C. la favella palestinese {della ebraica, 54), 
quaV si mostra in varj saggi qua e là sparsi nel N. T. (57, 59, 60, 67) 

*) In qeesta : occasione (37) egli osserva : M E chi vuol sapere donde ai deb- 
M ba inepminciare la 4ettura d'una colonna di caratteri, geroglifici osservi 
44 a qual sua mano sono volte le faccio degli animali, e lo saprà con 
t4 certezza. Esse vanno quasi sempre alla destra di chi le guarda, e 
rt perciò pure .di chi le disegnò. Fin tanto adunque che la scrittura aJr 
^.fahetica dei Semiti ritenne il valore e 1' indole di geroglifica, dovee 
'J correre da destra a sinistra." Questa conclusione non mi pare né esatta 
né evidente a sufficienza. — Aggiunge pure: „Tutto era fausto a destra 
M e Terso l'oriente, simboleggiato dagli Egizi e dagli Ebrei con la destra; 
„ tutto infausto a sinistra e verso occidente indicato dalla sinistra me- 
M desinu?.'' Gli ebrei dicono destra al mezzogiorno e non all'oriente, e 
sinistra at^ settentrione *e non air occidente. V. hi iflustrai. M. al Naia. 



i56 urronso all' obera 

u solo a cambiare il corso della rigale si ondeggiò da pri- 
•- ma con la scrittura fiov^o^iòv fatta a rivolterà di tori 
u aranti tra i Greci e gì' Itali v ma poi divenne universale 
„ tra loro il corpo da sinistra a destra, Imitato tra i Semi- 
^ ti dagli Etiopi e dai a Gartagjn^i ; e in Egitto dai Copti 
M nelT aggiunta di sei caratteri geroglifici;, ai caratteri del- 
4i l'alfabeto ellenico, e, in Alessandria dai primi Cristiani nella 
u stessa scrittura ebraica d'Egitto purgata dalle superstizioni 
u giudaiche contrarie al Cristianesimo (37-38)." Presso i Copti 
non si può parlare d'imitazione, giacché, adottato dagli Egizia- 
ni col Cristianesimo l'alfabeto greco, giocoforza era di met- 
tere alla medesima direzione i caratteri aggiunti a questo. Le 
scritture propriamente semitiche poi, tenacemente conservano 
il corsp da destra a manca, anche venendo applicate a idiomi 
d'altro ceppo in cui predomini la opposta direzione della scrittura, 
cotale scorgiamo per. esempio nello Zend e net moderno per- 
siano. L' etiopica spia sembra . , far eccezione ; ma da Wall, e 
per un tempo pure dal Gesenio, le fu negata l' indole se- 
mitica, con reputarla modellata sulla greca , e introdotta in 
Abissinia col Cristianesimo. Senoncbè un fondo di semitica, an- 
tichità è innegabile all'alfabeto etiopico: 1' ordinamento suo 
però tutto quanto diverso da quello degli alfabeti semitici ed 
europei; la notazione numerica mediante caratteri che hanno 
bensì un tipo etiopico ma che sono per la massima parte estra- 
nei all'alfabeto etiopico, o se gli son proprj noh rappresentano 
il numero che dovrebbero seguendo l'analogia degli altri al- 
fabeti semitici, ed altro infine non sono, che un'alterazione 
delle lettere greche esprimenti l'identico valore numerico 1 : 
accennano, pur prescindendo dalla direzione da manca a de- 
stra e da altre peculiarità, a tralignamenti comparativamente 
moderni nella scrittura etiopica, a mutamenti apportativi da 
ingerenza straniera, per i quali non mi par lecito dichiararla 

.*> )l quale npp è. in fotte rispondente a quejlo dell'analoga Jeiteta nei veri 
_ ., alfabeti semitici.,— Jl segno per 4 è in apparenta k ,?, ma i in fatto 
l'alteratone di 4» quello per 100 pare la ? etiopica,, ma è- il greco/'' 
100 (v. AlphmUhm telkiopicum, etc. Reme, 1789), — 



LA CjrTEDHJ DI S. MARCO. \$ì 

pura semitica,' che abbia semplicemente adottalo un corso óp-^ 
postó ài primitivo. Resta 'tyiélh de! Cartaginesi. Il P. Sèc- 
chi ha in nota (3T): ' u Se ne veggano gli esempi Tecati 1 dat 
u Kopp (Bzlder una Schriften III, 193) e Bai Gèse- 
u nio nétfopera Scrìpturae lirigùàeque phoeniciae monumenta^ 
u pag. 59, e singolarmehte le leggende dello monete càrta- 
u ginesì di Palermo e di Heraclea Minoa détte dal Gesenió 
a phoeniciae scriptòrae graecissantis tpecitnen (pag. 230)*. 
A sentire il Secchi, Kopp e Gesenio avrebbero al par dì lui 
riconosciuto che i Cartaginesi (Fenici) usassero una scrittura 
procedente da manca a destra, e gli esempj Se ne avrebbero 
a josa. Ma ecco quanto dice il Gesenio a pag: 59: u Neppur 
M noterei che là scrittura fenicia va da destra a sinistra, se 
u non fosse da menzionare queir unica 'eccezione avvertite 
tl già da Kopp (Bilder une Schriflen II, 193); Un esempla- 
^ rè cioè delle monete eracleensi, ha T epigrafe, che negli 
u ordinarj va * modo solito dia destra a stenta, ceto lettere'cor-* 
u renti e vòlte da sinistra a dritta, a mo* Ji' quelle linee dèlie 
u iscrizioni bustrofedoniche che presentano l*uso occidentale' 
u Nessuno mette in dubbio che in ciò sia 'da vedersi lina 
u qualche imitazione dei costume greco; ed altri esempj'di 
u s i n g o 1 e 1 e 1 1 er e f non già del total* 'della epigrafe, che 
serba il corso da destra % a' manca, ' v. pag. 290) inverse -af 
M modo greco, mostreremo' al Libro III, discorrendo della mo x 
4t nete panormitana leti. T" 1 E trattando a pag. 293 fnori 
230) di codesta moneta eracleense, il grandò'Gesenio èì rw 
ferisce al passo che or 9 ora traducemmo per t io che riguarda 

') A dextra ad sinistrala procedere scripturam Phoeaiciam, id nipote rem in, 
vulgus notam ne memorassero qnidem, nisi uriius cniusdam exceptionis a 
Koppiojam animadrcrsae (Bilder und Schriften *H, t93) mentio tniiciendn 
essai. .In uno vid elicci esemplo nnmonim Heracleensinm eadem ffln- epi» 
grapha, qnae in vulgaribus exemplis solito modo a dextra ad siniatram 
progreditor, ita expressa reperitur, ut litterae more Èraecorum a sinistra 
ad dextram currant, singnlaeque inversae sint, ut solent apnd Graecos 
esse in iis titulornm fiov&TQoeprjdòv scriptorum versibns, (jni occidentali 
more scripti sunt. Qnandam graeci moris imitationem ea in re qaaerendam 
esse, turili dubitami» r et Alfa etiam singularum lilterarum gfaeco more in- 
versaram exempla exstare infra docebimns Qib. Ili, ad numum Pànorta. I). 



l58 INTORNO ALl/oWvRA . . v , 

qu?s(ft esempio di scrittura fenicio grecizzante: degnissimo 
d'osservazione ed unico nd suo genere]. Forse, meglio che 
a tendeii^a di grecizzare, queste rare» anomalie (che tutte rio- 
veogonsi }a monete) sono da ascriversi alla imperizia di chi 
incise il punzone per il conio. \N4 Systema firahmanipum? 
T v }£xxi (Cfr. ib. p. 248), vediamo una 'moneta indiana colla 
leggenda pAlica riuscita rovescia (da dritta a manca); e nessuno 
penserà ad attribuire simile stranezza ad altro., che al T impre- 
videnza dell' incisore. 

H lettorq, maravigliato della inopportunità e dello svisa- 
mento di simili citazioni del nostro autore, eliminerà quindi 
pur la cartaginese dalla serie delle scritture da esso citale; 
e ninna restandone di veramente semitica che abbia adottato 
la direzione da ipanca a destra, rimarrà alla iscrizion nostra 
(in. sino ad. ora l'unico monumento cristiano egiziaco dique- 
s^ tatta) tutta quanta la sua singolarità; della quale sarà da 
rintracciar P origine o nella velleità di grecizzare, o nella 
ina vyertenza del lapicida, cjbe, avrebbe in un qualche modo 
impresso nella pietra a guisa di suggello il regolar /nodello 
manus^ritto, seuz* accorgersi che ne risultava una scrittara 
rovescia. ^ , : t . 

Passiamo ora -all', analisi, dei singoli caratteri. I primi 
tf n m?Sg^Meon letti (v> w (iy> £00* ,{11)1 ,0> dall'autor 
nostro (46); e non mi sembra lecito dubitare del valore ch'egli 
assegna ai ^pdesimi, tranne che intorno al secondo carattere 
[v]; il quale, avuto riguardo alla instabilità che la nostra epi- 
grafe presenta jielia forma di una medesima lettera, può bensì 
tenersi per equivalente del num. XI, che è per fermo una i , quan- 
tunque non fcoco differisca da questo nel disegno: ma am- 
mette anco un'altra ipotesi per la particolare sua attinenza 
al carattere iniziale, come più tardi saremo a vedere. Il Secchi 
scorge nelle cinque prime lettere la parola Mos.ceb sedile 

*}. Valdo memoratole autem etip suo genere unicum est ezenplom Ùtt. F(«x 
.. Eckhelii libro laud. lab. 2 no. 14),. cuius JiUefre partim graeco «oro t 
sinistra ad dextram commi, partisi inversa© suo t, more litteramm Gr*" 
canna. 



LA CJTrtWBJitXi JUM4RC0. ify* 

(ebi*~a?to itt <*s *&) . t4 cul Jod vm&W, taedr,e,di lezione, equiram. 
u lente > al I^lfiqli ^eiia: punteggiatura Amawreticni epromra4 
4t ciata alfroente per *T<bi*ve Jf^ 

u Moécjav". Potata aggiunge a/ suàaidiéire JaVaaa^ettaraOijjUi 
u dialetto àntmaico. de' Siri V oBfcajabiata,, coÉMu'allriayà ossero 
M vammti la sibilante •;* nflUa i dottate n ,. usili, jttonanriii iti. 
44 questo .verbp) eg«tottwj»a; jai:ip*eHar del dialetto- rarrnmàico*. 

nella, terifr per&eUa del pas^iO^A"^ verbo 'isibiabo^i non può. 
influire sulla vocale del, noupe spi» morirà it J .;/anai!sè v'ia*-: 
fluisse, oome l'autore Y.qote* g^i <wn veni va now far la ^ parr- 
ai palali (A) della punteggiatura^ tirtassoreiica '(6 3 r 71 ), il» 
quale d'altronde è diajnetrplntòale opposto alla Vocale, più eoa-, 
naturale a J^d^ cioè t ; jiè~<?ertp in verim idioma* semilieo! 
mai si. rinVien'à frapposte -unsVi-Joté*' alle radicali^ neir unicoi 
scopo di rappee^en tare Jl paJA h. a . Questo Vocabolo adunque^ 
colle consonanti alla ebraica e con: prò mi «eia er&raawjzante, è 
trovato, ^proprio nfellà sbà> pronunzia al dialetto ebraico (non* 
pik nramaiaj) <T Egitto;", ibid*., . ... ::, : . .?, 

Le tre lettere che seguono ".sono incontrastabilmente ^ 
(yOi n (Vn)y^ Cra)> qoall. 16 ba riconosciute 1': autore. '*— , 
Reputa egli una Joid il nono segno^ su di-che avr^i da fare 
riflessione analoga, a .quella, che mi suggerì il secondo oaw 
rattere. Ottiene Marcai, qual presunto nome; dell'E vangelista: 
presso gli Ebrei, e ne tenta (73) un 9 etimologia semitica s 

') Anche il trinco difetti dice 2£^ r ^W,TO,nn uJeòV«Mi a tkò y m% u- 
iohò > senza t * nella tau, •!>-.> <• • •■> 

s ) A pag. 345 si legge: %% ...... e le vocali .madri delfo lesione;* id' ose* gii 

raro al tempo di Geronimo, ed escluse «fistto. ne' secoli posterióri a lui, 
sono allettante prove della remota. antichità dell'epigrafe...»"- La acienza 
delle lingue semitiche mostra all'opposto che più i) monumenti sono anti- 
chi e più scarseggiano le matres fationi*; qj^ didqjMBfc.&oVMM delle 
monete fenicie, a dare un ejenjpio^, sarebbe o*OTS *kdotni:m nell ? or- 
tografia dei bassi tempi. Io ..stesso non doveva trascurare questa oonside- 
. «one nelle nota XI della Intnoduz. dò ohe ivi dissi bob me ne 'par 
tuttavia realmente }Qflnnata 4l 

*) Qui «appropria quanto- il, Qesenia espose agli articoli «jjjj'e riltrtó ^ 8U0 
Manuale. Volle però fare un'aggiunta diluoidatricef e^ aHe parole del Gè- 



I$0 lN*O»N0 AU/CtfKR* «A 

supponendovi :*ib:mar dotnfnw coli' aggiùnta di due sillabe, 
derivative; la prtma ak,ek, «fc; i4 iiBlti»tissJmB nei noira adriaci 
e caldaici" cui si' appiccica }a destoénea ai ; come «fa un ipo- 
tètico* Tifc marod isarebbesi avuto y™ méroda/f e poi "ms 
M o rd e fra *i A integamante -Mar*, Marek, Marekai , pari a 
Dominicm. Dagli esempi èàe^ l'autore reca dèli' ^usitatissimo 
suffisso" va espùnto^ come orribile strafotehme, 1? d «'* con ~ 
tereriè, confrikt**^* dà A" e* npn : TpJ de* ho questo senso, 
ma ben il ungi dal T aver s affissi vaipanco d'une radicale, es- 
sendo della 'radiceli, tpy&ék poi* (T autóre sgarrò da an 
articolo all'altro del dizionario) è un pronome caldaico {questo), 
col suffisso pleonastico di 2^/ persona, del pari che ife* lìiek 
[questi pi.)* che ugualmente tarila pfova per l'assùnto dei- 
Fautore. Di ^w Nifrofc 3 'tpn* Àrjo»* è dubbia la etimo- 
logia, cercata anzi da paredehi 'Orientali sii nelle lingua san- 
scritiche. Mero da A è nome di* radice saiiscriticv e il può 
suffisso (conveniente a npme sanscritico; cfr. sscr. mptaca 
cadavere*, m a d r a e a originario de! Madra ^ ecc.) non fa 
perciò prova in etimologia semitica. Rèsta solo TRJ9* ganza* 
gazophilacium, un &r«| hyóps*** nei paralipomeni, a •debolissimo 
puntello della decomposizione di Mar-ek-ai, nome ignoto agli 
Ebrei e privo d'analoghi, {filologi faranno difficilmente buon 
viso alla etimologia del Secchi^ ma', ove non- vogliano am- 
mettere che Marco avesse dqe nomi diversi affatto, Y uno 

senio tt a stirpe M orci, MorC, sostituì ideila voce Morde Mori delle 
lingue sanscrita e mendica"; ma commise con ciò due scorrettezze. Le voci 
sscr, della stirpe cui il Gesenió accenna sono mrtju, mr*t morte, alle 
quali nello zend corrispondono con suffissi consimili : me r èf jo, m é r è t a. - 
In altri due passi tenta l'autore di -giovarsi d'analogie sanseritiche, ma 
non felicemente. A pag.62 scrive: ^VAleph era vocale comune a tutte 
le sillabe, che" non ne aveano, come Va breve della lingua sanscrita, per- 
mutabile anch'esso con e." Ciò non e esatto. • Ve breve Bianca tlP al- 
fabeto sanscrito, e una vera permutazione d' a coir e dittongo (=:ai) è 
inaudita. Bensì, stando ai granmatiei inglési (come notò il Bopp al $ 11 
della sua gramm., senza dar certo pesca ( simile avvertimento), il carat- 
tere a sarebbe letto a nel principio v» breve >rà meszos * breve in fine 
delle parole; ciocché non costituisce già un perm uta bilità;' -*- A p. 74 
parla del u visai]ga delta lingua smonti»' dell* zencHea^ ^ malo zend 
non cdnosce vùarga (v. Stu4j y p; >&!>< ' 



LA CATTRDRA DI Si Mi ARCO. l6l 

ebraico : l'olirò , gentilesco, /supporrai) ito .. piuttosto che V Evan- 
gelista subbia alteralo il suo primitivo nome (fórse w» M o r- 
di&ai, elidendola sillabai media) per adottare romaneggiando 
quello di Marco ; come s. Paolo ne assunse uno di latino, per 
quello di. JS o tìv 1 . ond'era ebraicamente appellato l . 

Abbiamo analizzala nei primi nove segni la parte più 
splendida della interpretazione offerta da quest'opera. La lin- 
guistica e la paleografia faranno a gara a rovesciare tutto 
quanto ne rimane. I numeri X ed XI vi son dichiarati, credo 
rettamente, k e i , nelle quali lettere il Padre, trova il prò* 
nome dimostrativo quest esso. Non vi ha forse parola; osserva 
egli a pag. 6& v in cui lo scambio della n coli' te u sta stato 
u più rimarchevole, quanto nel pronome ebraico, dimostrativo 
u Kin maschile ed trn feminile, forse da' Caldei pronunciato 
M mn ed km per rnn e .Tn, perchè l'articolo fu raddoppiato. I 
u Siri, ommessa la terza lettera, scrissero in hu questesso, 
u ed hi questetsa; e gli Aramei d'Egitto non solo adotta- 
u roQO l'apocope finale dei Siri, ma permutarono anche Fn 
M iniziale con Pk, e scrissero w Au il pronome siriaco vi 
M accorciato dall' mn caldaico ed ebraico. Questa singolare 
u scrittura e pronunzia w Au per Hu del pronome ebraico 
u dimostrativo, * per quanto io sappia finora, unicamente prò- 
u pria degli Aramei di Egitto, è un evidente argomento della 
u provenienza alessandrina perla cattedra marciana e del dia- 
k4 Ietto aramaico d'Egitto per 1' epigrafe. I papiri aramaici 
44 egiziani del Duca di $|acas presentano scritto anch' essi 
\* questo «pronome ut Au per Fin Hu siriaco -sostituito al- 
4* 1' wn Hu degli Ebrei J ù nòti v* ha dubbio veruno della sua 
tt chiarissima lettura nella 'cattedra d'Alessandria." Ed in nota 
s c?rive : u Veggasi l'opera del Gesenius Scriptum Linguaeque 

-> Se il Giovanni cognominato Jffarco degli Atti degli Apostoli (XII, 12. 25. 
XV, 37) fosse il nostro Evangelia^ la prima ipotesi soltanto varrebbe; 
ma la cosa è dubbia, v. il, nostro autore a pag. 161. — Un' altra sua 
. congettura (p. 73), men plausibile ancora del Marecai=J)omiuicus y fa di 
'STO un matronimico da Mariam, madre del Giovanni cognominato Marco. 
11 nome genealogico ebraico da £??P M i r j am sarebbe ^TJP «ini:, come 
da C^W 'Amrarn s'ha *V?f$ -mi: y né jnaram. è possibile ^«^ da q«^. 



l6*2 INTORNO ALL'OPERA 

u phoeniciae monumenta N.LXXIV,: 6, Tàvola 82, linea se- 
u conda, parola terza; e le osservazioni del dotto orlenta- 
u lista a pag. 243 dell'opera, ed anche nel Lib. 1, § 16, 

È cosi costante nella famiglia semitica l'aspirazione ini- 
ziale nei pronome di cui è discorso, che se pare i papiri 
blacassiani presentassero w ùi pervi h\u, ci troveremmo tes- 
tati: a reputarne erronea la lezione. Ha una deplorabile leg- 
gerezza soltanto ha prodotto simili asserti, che, esposti in tuono 
autorevole e con corredo dì (abbagliante erudizione, possano 
facilmente trarre in errore gli studiósi. Nel frammento bla- 
tassiano che l'autore cita (e che trovasi al numero LXX1V A, 
non £ ), ìl nostro pronome, è veramente la terza parola della 
seconda linea, ma è scritto chiaro chiarissimo vr hai (come 
Lanci $ Gesenio han letto), e non w Ùf, V ha bensì un'* 
iniziale in quella riga, ma appartiene alla parola susseguente! 1 

Che se pure fosse il pronome wn Àuf la terza voce 
della nostra fraise, non cesserebbe d' esserne incompatibile la 
interpretazione del Secchi. Egli immagina che Y epigrafe non 
sia stata né composta, né incisa ìli an a sol volta»; e, come 
dappoi vedremo, fonda questa ipotesi su ragioni paleogra- 
fiche. La proposizione urbano yma formava secondo lui f anti- 
chissima epigrafe^ e ^lasciava libera là continuazione del discorso 
o in prima o in terza persona (74-75)"; poteva cioè 



') Stupirà il lettore nel rilevare quali siano le osservazioni del fceseaio, • 
cai si appoggia il P. Secchi per comprovare la esfclensa per esso io- 
portantissima (65, 345, 349) del pronome egiziaco-aramaice ^ fti. A 
pag. 243 il Gesenio scrive: ^ prò ^ posteriore aeri Parapkrtttii 
proprium esse observat Sckadjlus (opere uranico pag. 34), a Syris f- 
ttium. — uV l P er avi Schaaf osserva esser proprio ai Parafrasti dec- 
reta posteriore, modo preso dai Siri." — Il $ 16 del libro I, tratta delle varis 
figure della lettera ^ , e tocca pare quella della ^ aramaico-egisiaca. A p. 6i 
infine, si parla appunto della ^ che v^ha nei monumenti egitiaci (ben di- 
stinta dalla g che nei medesimi s'incontra) e che è nel nostro pronome.-" 
Chi ha occhi cerca invano in rotti questi pass! una prova, un eenoo, * 
vestigio di un ^ ftt equivalente ad^n W. 

2 ) 44 Dair undecimo carattere", diete PÀ. a 'pag': ; 46, parergli la seconda 
succeduta alla prima; ma è da intèndersi: dopo PitùdéCimo. 



LA CJTTMDMM DÌ t. ÉtMCO. l63 

dire: Quest'essa è la cattedra di' M* re o< (Cathedra 
Marci' eadem haec ipsa), o: Io so n la cattedra di. M« r* 
co quella dessa( [Ego] cathedra • Màrci eadem ipsa [82]; 
Cathedra Marci eadem ipsa [sum] 70). Per venire a tale strana 
conclusione reca in prima l'autore esempj oone*YrH| fini: 
ìuì\ che traduce ego idem ipse, e che tanto varrebbe ren-» 
dere per egomet* egomet ipse, V mn kat qui non essendo che 
un rafforzativo dell'altro pronome; perciò: *mx|< ani: Ani 
io stesso (cioè io desso) ; mi.n$g atta A huì tu* stesso (cioè 
tu desso), analogamente ai modi italiani con essonoi, essoeoi, es- 
soloro. Ma il significato di: questo (haec ipsa, qpestà è la 
cattedra) non può esser mai compreso nell' H*n, sendo P essen- 
ziale suo valore egh\ quello. Il Secchi ha un bel: tradurre 
tir Me ipse, quesfuomo F kvtti «ftjij hai: è h ah™ di Giobbe L 1, 
e die hoc ipso, in questo stesso giorno V miti 01*3 Aajjotm 
lata? di Genesi XV. 18, XXVI. 32; nessun perdo, tra- 
lascerà di attenersi alla retta interpretazione queW uomo j quel 
di, che nella vulgata stessa rifalge 1 .-• k*ì ti» ;3*ì& vaiTebbe adiro*- 
que ebraicamente : seggio di Marco quello, e non altro*. Adduce 
m secondo luogo l'autore frasi come wnr^^ki: nwbii hvù 
quia propheta (èst) ipse, col verbo sostantivo sottinteso; ma non 
si sa vedere qual corroborazione ne possa venire alPinterpreta*- 
mento : lo s o n la cattedra quella desso, giacché V analoga 
elissi farebbe dire alla nostra frase: seggio di Marco è quello, 
e nulla più. Il Secchi non si accorge che, interpretando a 
quel modo, egli non suppone la elisione, consueta in ebraico 
e facile in ogni lingua, della persona del verbo esmsre che 
è indicata dal pronome o dal nome reggente, ma bensì quella 

*) Nel loco citato di Giobbe, li Volgata ha: tir tifo; nei due dalla Genesi: 
t» ilio die, in ipso die. - Non so poi come V autore possa ripetuta- 
mente (66, 144-45) dar Hu per pronuncia massoretìca (ed egiziaca) del 
suo ìn.— 

*) L'autore stesso riconobbe per un momento il giusto Talora del nostro 
pronome, quando scrisse (47): „si può credere che la primissima epi- 
grafe della cattedra giungesse soltanto a quel pronome, e dicesse Cat- 
tedra di Marco quella stessa" Ma non presentandogli la retta spiegazione 
un senso congnio, gli convenne abbandonarla: dappoi per la 
ii 



l64 INTORNO ALL'OPERA 

della prima persona del verbo in una frase cui r*n hus pone 
interza, giacché è impossibile che mn hm rinforzi 1* io che 
non v' è. Il wn *nj} *p da lui citato, avrebbe mai da poter si- 
gnificare anco: quia egomet propheta sum ip$e?\ 

Colla duodecima lettera comincia dunque, stando al P. 
Secchi, il lavoro del secondo scalpellino ; questo carattere 
equivalendo al decimo, quantunque ne diversifichi per la for- 
ma. La prima delie due tf (n.° x) che si presenta quasi un X, 
è, a detta del nostro autore, ^sempre un Aleph nella scrii- 
44 tura palmirena, e singolarmente neiraramaica d'Egitto. S'in- 
u contra più volte sotto questa forma nei papiri Blacassiani 
tt e nel Torinese, nel borgiano di Propagauda e nei vaticani 
M a Roma ; nelle lapidi del museo egizio Gregoriano e àella 
u pietra di Carpentras; anzi nello stesso pronome [ut], che 
tt abbiamo in questo luogo, proprio del dialetto aramaico dell* 
„ Egitto/' Nella scrittura palmirena (y. Gesenio, o. c. T. 5) 
l'N non ha mai questa forma, ma vi si accosta negli esempj 
dove son poco sentiti i movimenti dei due rami laterali, che 
in altri sono conformati non molto diversamente da quelli delle 
k assiriache; e consimile osservazione suggeriscono le tf 
raccolte dai monumenti arameo-egiziaci, nella tavola quarta 
dell'opera medesima, Il Secchi suppone avere il secondo scal- 
pellino principiato con un' k , arcaica bensì, ma più vicina 
alla quadrata (assiriaca) che noi fosse la precedente; ad al- 
tri però ambo i segni posson non altro apparire che due * 
assiriache svisate da rozza mano. 

H, decimoterzo carattere è per il nostro autore una La- 
med, pari a quella della scrittura arcaica dei Fenici. Ma la 
parte inferiore di questa lettera sporge negli alfabeti fenici 
dal lato opposto; essa vi si presenta cioè tal quale ci si 
offre nel nostro carattere, cui sappiamo, come tutti gli altri, ro- 
vescio. L' identica riflessione è da ripetersi circa la lettera 
decimaquarta, creduta t dal Secchi; la quale somiglierebb9 
ad una delle t palmirene, se supponessimo nella direziona 
normale i caratteri nostri Da Palmira torniamo in Fenici^ 
per aver nel decimoquinto segno una pretta a fenicia; e ^' 



LA CATTEDRA DI 3. MARCO. l65 

decimosesto è finalmente una Jotd assiriaca. I numeri XII-XVI 
4ànno «dunque air autore *• b • t • 3 • * , eh* egli legge wVk 
El-zani (unendo le due voci con maqqap), frase che u bre- 
vissima od efficacissima significa : divina norma mea" (77). 

Le obiezioni paleografiche impallidiscono al cospetto delle 
linguistiche suscitate da questa lettura. b$ è 1 , ragiona il P. 
Secchi, it p sia Deus 1 , o sia robur è in forma costrutta per 
M adiettivo, uso frequentissimo di lingua ebraica (70)"; e 
ÌI z a n è u da p formavi/, formam dedit, secondo il Gesenio 
u forma, typus, regula, norma (76)"; quindi, aggiunto il pro- 
nome possessivo di prima persona singolare air ultimo nome, 
l'autore si crea wto (El-zani), che ha da significare: la 
mia divina regola (alla lettera: dio-della-mia-regola), 
oppur: la robustissima mia norma (forza-della-mia- 
regola). 

È vero che talvolta l'aggettivo è surrogato in ebraico 
da un nome premesso in istato costrutto, come per es. in 
rfl* ntfip nh?w vèéArof qotmaf àraza:u tt e troncherò gli 
alti suoi cedri", letteralmente: troncherò V altezza dei suoi 
cedri. Ma, com' è naturale, a simili dizioni si confanno i no* 
mi astratti e non altri, siccome quelli che dinotano la qua- 
lità tesser tale ; e vengon perciò a dire col susseguente ge- 
nitivo di appartenenza, la proprietà a di (= appartenente a) 
b, il che ognun vede altro non essere che una circonlocu- 

*) M È il nome di Dio ?8 scritto 'ÌJ spesso ne' codici (75)" e u Ne* codici 
u il nome ^ tanto robur, o fortissimus, quanto Deus ora è scritto pie- 
M namente y^ ed ora contratto t^ (387, cfr. 346 n.)." — Ma nella stessa 
pag. 75: ^Perchè non distinguere (relativamente a ^ ed ^) ciò che 
col Jod distingue la scrittura medesima ?" — ?X col senso di Dio non 
ha mai la Jotd, checché ne dica il P. Secchi. Egli si avventa poi (75-76) 
contro il Gesenio perchè tradusse ^$ é 1 per /brlis, heros, in alcuni passi 
altrimenti da lui intesi, ed osa rivolgere a quell'illustre orientalista le se- 
guenti parole: «Spieghi se può per ero* V pisolato e con l'articolo 
pari airó &bòq de' Greci nei salmi XVIII 31, 33, 48, e LXVUI 21, e 
in Giobbe VIII, 3, o la (rase D ^ ^ Deus Deorum di Daniele n, 36."- 
Ma che penserà il lettore cui sia noto che questa serie d' esempj ap- 
parisce appunto nel Manuale del Gesenio sotto la rubrica: ^ él Deus? 
Mei trascriverne i numeri, il Secchi ha fatto un II romano dall' 1 1 ara- 
bico della citazione da Daniele. 



i66 jrroRtio all'opera 

rione dell'adottivo; ed anche per noi: Dio gli diede urna- 
nità di cuore (ossia la qualità d' essere umano appartenente 
al cuore), equivale a: Dio gli diede cuore umano. Ha sic- 
come italianamente con nome concreto sarebbe impossibile 
locuzione siffatta (p. e. questo animale ha uomo di pensiero, 
.per . pensiero umano), in ebraico del pari teb n$# é 3 e fi i bb 01 
(letteralmente donna-dd-cuore-suo) non potrà mai voler dire: 
il suo cuor muliebre , uè per conseguenza 1' ";p« èl-zani: 
(THo-deUaHBUa-regoUi) mia regola divina 1 . Starebbe simile 
costruzione con % è\ forza ; ma tale significato, che è dub- 
Jjiqso, si pUò giudicare in ogni modo estinto già nel linguag- 
gio biblico, dove non si mostra che nella frase re ^? [?tt] * 
jei (frn) le èl jadi: è (non è) in fona la mia mano, e 
indarno se ne (Cercherebbe traccia nell'ebraismo seriore. Va- 
rie poi delle traduzioni di fl z a n attribuite al Gesenio, sodo, 
dtwto* parti della fantasia dell'autore; giacché nel Manuale 
, di quel profondo ebraicista (ed. Hofbuanh, Lipsia 1847) il 
inosjro votolo è dichiarato unicamente specie**; né altra 

*) .Con analoga enormità, il nome Elissa (Didone) è dall'Autore interpretato 

ebraicamente forti* mulier, da ^ heros, deus, e *•$£ heroina. — Jhi 

b*X heros, deus, e da «fl^ (sic) heroina, virago, forti* mulier (346)," 

*) E nei Thesaurus: fc forma, inde specie*, Art, Gattuog" e non altro. Suppone 

.tonai ilGesenio che)! aontierivi dal verbo ipotetico VJ aanan cui vor- 
rebbe equivalente alla radice a a nn a degli Arabi : formavi*, formam de- 
dit, donde in arabo: sunne fon forma, specie*, sanano» rapito, 
modus. Ma con ciò non intese già di dire che tali significati siano propij 
dello san ebraico, il quale, come ilGesenio ben vedeva, altro senso boi 

. ha «he specie*. L'ebraicista tedesco non fece che immaginare un valore fonda- 
mentale di quel vocabolo, cioè forma, per attaccarlo air ipotetico a anta. 
Questa appartenenza è, per giunta, incertissima; ]I san (com'è accennato ad 
Manuale stesso del Gesenio, ed. cit.) facendo nel plurale &ìj z è n i: m e boi 
B^l z a nn i: m come dovrebbe se derivasse regolarmente da radice geminiti, 

<a .simiglianza di '3 dal mùero, da ^T\ dalai, che ha nel plurale ^ 
da Ili: ni- — «^7 dei Paralipomeni (scrive a me il chiarissimo Prof. 5. P- 
I<u * %a 1 1 o), e lij di Daniele, non hanno i caratteri di un. nome di radice gemi- 

. nata 9 ina sì dei «£ ^ .11 pt =pv °°1 valore di formami, e 11= sunna, sanuoi* 
non sono che ipotesi del Gesenio, né havvi il più leggiero vestigio di 
J! forma. — Hjf fì\ ,fltip in cald. vale specie, quindi nei ParaUposieii 
D^fl ffltfpj aromaU e spemerie. — Crederei la vera radice essere W for- 
nicò. Credo cioè l'idea fondamentale essere la deviamone, quindi la for- 



Jtt 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. 167 

senso ha in ebraico od in caldaico 1 . Il Secchi osa asserire, 
essere una tanto mostruosa accozzatura «tolta ,dj peso dal 
salme 144 (143), 13." in cui Iqggesi irty 99 D T?9 &&$ une? 
mèzavoinui mèle!:m me/?i:qi:.m mizzan él zan 4 i 
nostri serbatoj zeppi, esibenti da specie a specie, da una ad 
altra specie (cioè in guisa che le varie derrate vi si con- 
fondano 2 ).' Egli non vuole che hx vi sia preposizione, e per- 
ciò punta arbitrariamente ^ , scorgendovi Jì nome b* Dio ado- 
perato per esprimere il meglio ielle cose" 3 ; e, traducendo di 
conseguenza.: traboccano fior di semente, ofior di genere [)rbx] 
da qualunque semente, da qualunque genere [ì^], conchiude: 
u Volendo adunque indicare ne' prodotti quel prototipo divino, 
o quel sommo meglio, a cui si bramano simili, io disse ]rb» 
u El-zan, usando ZAN nel senso di p Min, che si ha più volte 
u nella Genesi per le specie originali delle creature prodotte 
tt da .Dio creatore. Egli è per questo che la voce fl *an 
u significa r poi tipo, norma, canone de' generi e delle specie, 
u ed anche nella epigrafe della cattedra marciana ha l'uni- 
u versalissima idea di tipo divino in genere di cattedre epi- 



oicazione. Quindi tasìssoma, in sirìaco K5H* nella Misnà JW* *na de- 
viazione, no' alterazione del frumento. Quindi Hj] , *ì] , ^|? le varietà, 
le specie, ossia cose d' uno stesso genere, ma con qualche differenza, 
riguardate come alterazioni e varietà <T altri oggetti anteriormente cono- 
sciuti. — Noi diciamo maniera nel significato di specie. I Siri Pernio detto 
specie per maniera, costume. Quindi nel lessico siriaco di Castello si legge 
12 |'KJT i. q. Ch. V geuus, species; mos, modus; -e G. D. Michael» ne 
reca in prova *!W *FW mores (virtutes) ejus admirabiles. B NJW* è 
tradotto modali*, e Michaelis allega Y esempio HCffi KBO vana solatia. 
Cioè di più specie. Appunto come ^TVf , Wfcb , TOtfb <v. i miei Pro- 
legomeni, p. lèi)." 

*) Di ]1 zen , rispondente in sirìaco al nostro 1! zan, vedi la nota anteced. 
Altro è quotila (anche in questo nostro vocabolo si fondono species e 
Dtrftp), altro canone. 

*) ^Possano varj generi insiem confondervisi" (£. D. Lv*%atto, Formu- 
lario ielle orationi dcgV israeliti , Vienna 1981, I. pag. 90). 

•) L'autore fu probabilmente tratto in errore dagli esempj .ove ^ Dio, o 
simigliente vocabolo, è posposto in genitivo a un dato nome servendogli 
d'attributo d'eccellenza, di superiorità; p. e.: monti di Dio (salmo XXXVI, 
7) par monti altissimi. 



l68 IlfTORNO all'opera 

u scopali, riferito da Marco alla cattedra di Pietro." (70; 
cfr. 2130» — 

Nel carattere decimosettimo, il Secchi riconosce una He:m 
chiusa [q] o finale dell'attuai scrittura assiriaca. Nulla gli cale 
se qui sta al principio della parola ; trattando della » (vi) 
egli ha semplicemente notato che : (i nella decimasettima è scam- 
tt biata col Mem ebraico ordinario (sic) nuovamente iniziale 
M del nome proprio Marcai (46)"; e questa varietà delle 
Me:m è per lui uno degli indizj del cambiamento di scalpel- 
lino. i4 Comunque sia, soggiunge a pag. 77, non è certo 
u l'uso antico del Mem chiuso a solamente per Mem fi- 
u naie. I rabbini osservarono già da lungo tempo quante 
u volte il Mem chiuso era posto pel Mem aperto nella Bibbia, 
u e dove trovarono misteri aritmetici, o cabalistici, ve lo 
u vollero conservato inviolabile anche in mezzo alle parole. 
u Cosi restò sempre col Mem chiuso la voce rryp) nel ca- 
a pò IX, 6 d'Isaia relativa al regno del Messia, perchè la 
u cabala pretese d'avervi scoperto il numero determinato degli 
tt anni che ancor mancavano alla venuta di lui, ed or non 
u giova che a noi per confutarli. L' intelligenza pertanto e 
u la sintassi e la poesia ritmica dell'epigramma esigono che 
u si legga *orb* e poi congiuntamente wd Marecai per w 

*) Sanan, aggiunge il P. Secchi, ovvero Zanan, da cai si ha sa», 
significa acuii, acri sermone aliquem petiit ; sarebbe dunque una massimi 
ripetala e inculcata per regola da Marco (76) 1 — La stessa idea dtUam- 
gUor qualità, di tipo divino degli altri simili che lo abbiamo vedalo 
audacemente ascrivere alf> r ^ di Salmo 144 (143), vuol egli riscon- 
trare (76) nel WJRT? &ì\ z è n i: m méruqqahi:m (prendendo una -j per 
•j, ha trascritto meduqquahim) specie or ornate, di II Paralip. XVI. 14, 
dimenticando che l'idea di superiorità risiedeva nell'^ che qui non c'è. 
Più chiaro ancora vede infine il senso di tipo, regola, norma, canoM, 
nel Xy?\ *ì\ ^- kol sène: zémarà di Daniele III. 5 (ogni specie di 
concento istrumentalé), perchè musica senta regola non è più musiti 
Noi diremo all' opposto che in nessun caso meglio potrebbe apparire il 
senso di specie, come si può conoscere dalla versione della Vulgata: li 
hora, qua audieritis sonitum tubae, et fistulae, et citharae, sambucae, «* 
psaltery, et symphoniae, et universi generis musicorum (o musicae co** 
il Secchi annota [76]), cadentes adorate statuam auream, quam constò** 
Nabucodònosor rez. 



LA CATTEDRA DI S. MARCO. l6g 

44 Marcai chiudendo la seconda sentenza in questo nome prò- 
u prio; perchè il Pasuk di fermata vuole isolate le parole 
u della terza sentenza." — L' uso della Me:m chiusa nel 
principio o nel mezzo delle parole, è inaudito nella scrit- 
tura quadrata ; e non se ne rinviene indizio in alcun monu- 
mento aramaico di qualsiasi tempo. À udire il Secchi, i Rabbini 
offrirebbero filze d'esempj di a per »; ma essi non conoscono 
che queir unico di nrd?(Is. IX. 6), anomalia grafica rin- 
venuta in qualche antichissimo codice, religiosamente con- 
servata come tante altre * , e di nessun costrutto per la paleo- 
grafia. Il carattere ch'io segno decimotfavo, e in cui veggo 
una n assiriaca, dà al Secchi due lettere, una i cioè, con 
' sottoposta, o meglio frapposta. Air incontro manca nel 
suo fac-simile il mio segno decimonono. È rimesso quindi 
T accordo nei numeri, per un breve istante, al carattere ven- 
tesimo, il quale comprende nel mio fac-simile due lettere 
di quello del Secchi. Io reputo , il carattere da me esibito 
sotto al n.° XX, una d; e nessun dubbio lascia T'originale 
sulla continuità del contorno ch'io presento, acutissimo essendo 
T angolo per cui al di sotto vi. si unisce la verticale. Il Secchi 
staccando quest' ultima linea ottenne 3 e * ; e noi vogliamo 
incolpare della infedeltà commessa 1' artista che lo avrà aju- 
tato nei fac-simili, piuttosto che lui medesimo. Di questa guisa, 
con una » impossibile, con i e ' fatte dallo sbranamento d'una 
n , e con 2 e •» create erroneamente dove l'originale presenta 
un'unica lettera : l' autore si compone Marecai, il nome di 
Marco, con abito ben diverso da quello in cui occorse la 
prima volta. Delle ipotesi che la posizione sintattica e la 
variata ortografia di questo nome suggeriscono all'A. (77-78 *), 
l'ebraicista durerà fatica a decidere quale sia la più spropo- 
sitata. La prima suppone che a marcai, considerato qual nome 

*) Le * di y^g e rronn> p. e., in Geremia XIV. 14, furono scrupolosamente 

conservate coll'aspetto di ) . 
8 ) Prima, a p. 65, con pia senno stimava Marecai semplicemente licenza poetica; 

a pag. 58 si pronunciò con sicurezza per Marcaji dominici mei (v. 

la n. 2, pag. scg.), * • P*ff< 77-78 ci si presenta con duplice ipotesi. - 



170 nrroiuto all'opera 

appellativo (dominicus 1 ') applicabile a molli, sia aggiunto il 
suffisso di prima persona; il quale era d' uopo, secondo il 
Secchi, che u o raddoppiasse il Jod (Marcaji), o ne ritraesse 
u il suono allo scena del Rese animandone la mutolezza (Ma- 
u recai)" colla Joid per madre di lezione, altro Pafah 
come in Mot se: 6*. Quest* alternativa nel modo di applicare 
il pronome di prima persona, esiste solo nella fantasia del 
nostro autore. JSe poi (questa è la seconda ipotesi) Marcai 
u in questo secondo luogo non si vorrà preso per nome 
u appellativo significante apostolo del Signore, e perciò an- 
u montabile d' un suffisso in fine ; ma si vorrà nome proprio 
u individuale ripugnante all' aggiunta dei suffissi personali 
m nell'ultima sillaba, basterà l'accento Milél sa la penultima 
ci P er giustificare la pronuncia Marecaì necessaria al verso, 
H e il nome proprio sarà solo apposto e spiegabile per Sfarci 
4V mei nella frase secondo il genio delle lingue latina e greca; 
M e questa pare veramente V interpretazione più semplice e 
w preferibile a tulle per questa variazione poetica dei nome 
4C fftarecai" Ciò è precisamente come se uno dicesse che: 
somma mia regola Marco sta grammaticalmente in italiano 
per la somma mia regola (è) del mio MarcoX 

À tante mostruose congetture, non mai rifiutate come 
erronee dall'autore, è a dir vero sostituito da lui medesimo 
qualche cosa di men peggio, nulla però di ammissibile, al* 
lorchè nell'indice (382) si mostra propendente alla inter- 
pretazione Vfl^aj^B él zen e: marinai robur regniamo 
Marci, riguardando al costrutto singolare il primo nome, ed 

x ) Àftbiffnro veduto più sopra che V autore non felicemente sv è adoperato a* 
* rfolraeeiaro u* etimoìegia semitica al doma proprio di Aareo v por diao^-" 
strasl* equivalente a Domiotctts. Io questo squarcio poi lo prende a aV^" 
rittura come oro di coppella, qual nome comune vivo nella lingua, o^a» 
stare accanto all' VJ ^ 61 sani: tolto di peso da un salmo* 

*> A pi?., *8, «ea diversa enormità^ Paotore cantoni» T^fc aloidi: (smacco 
egli scrive eloi) Dio mio a ^^ ma rea j l dominici mei r notando contai 
ni questo esempio del pari eh» in quello non si raddoppii la- J 0» d ( w do«^ 
il noaee divine ^Tì^M r perduto nome netta stavo costrutto il Msm finale 
è- rimaste» %<-£,£. seas» Jod raddoppiato uè pei plorale (*fe), aè pel se**-* 



LA CATTtDKA PI J. MARCO. i.j| 

al costruito plurale il secondo 1 . Cessa così la difficoltà sin- 
tattica, ma restaa ferme le obiezioni che negano si po$$a 
interpretare b$ éL per robur e p zan per regida, e negano 
si possa leggere né ta nò w né w». Per ultimo, a p. 387*8, 
propone di tradurre *>H è 1 quale AA addiettivo ordinario" per /flr- 
tiuimus, wmmus. In primo luogo però, ta é 1 non ò aggettive^ 
ed in secondo, : sì l'esponente grammaticale del superlativo (ovvio 
neirebraico in modi come n^i^ ^ Tjjjgj atea ha\\osb \è~ 
Àajjaàar mibbépe: d(ipne:ftem, il migliore ed il piU retto 
tra i figli del signor nostro, II Reg. X. .3], e sì il susseguente 
gepiUvo (li frasi come la forti s s i m a d e 1 le regole : tutto 
riuscirebbe espresso mediante lo stato costrutto (neppur men-r 
lionato dal l'auto re in questa ipotesi) di btf él; che, risultando 
impercettibile, mal sarebbe atto a portare siffattamente il con- 
cetto della frase intera. 

Il nostro n.° XXI ò un' interpunzione, un segno diacri- 
tico, che ha da tendere (49) a fermare il lettore perchè badi 
al terzo concetto che seguita, considerandolo qnal motto se- 
parato di gravissima sentenza; e serve a rischiarare (f que- 
u stioni finora inestricabili, e accresce pregio alla scrittura 
M della cattedra Marciana." — Veramente , in epigrafe che 
aveva. a dire: Cattedra di Marco questa la forza delle regole di 

fisso di prima persona, regola seguita eziandio nella epigrafe mtrciana 
pel nome s^q per Marcaji dominici mei") Cantore non vede che, in 
primo luogo, il siriaoo Ttyf àio Ai: non provviene da C»1^ éloAi:m 
ma dal singolare airo-caldaico ^ , n?U [HTI^]; e che in ogni modo 
Qulla ha di affine eoi *3TO che in istato assoluto mostra la. desinenza ai* 
La forma ebraica B*w$ é I o h i: m darebbe *f ^ e* 1 o h a i per Dio mio, tati 
neppur con ciò si guadagna alcuna analogia per *yfò\ poiché in qv£h 
la Joid non è parte integrante del nome, ma appartiene alla desinenza, 
plurale &~ i:m che regolarmente sparisce per lasciar luogo al pro nomi* 
naie *T al, proprio unicamente del numero dei più; come in <l 37} di> 
òarai parole mie da D^yi dé6ari:m parole. 
*) Non è però vero che nel tane (per %ene) delle prime trascrizioni egli 
abbia mai supposto lo stato costrutto plurale (66, 144-45), coma asse- 
risce a pag. 387 (v. 881 e 382). L'è di tane rappresentava per lui il 
suffisso possessivo di prima persona; era cioè la voeale che precedeva, 
come in motceb e hotem^ alla Jo»d quiescente. Prova ne aia «he la eoa 
trascrizione massoretica ha %am 9 sempre. 



17* Intorno all'opera 

Marco sempre con Róma, un* interpunzione dove» sembrare 
pfù necessaria dopo 'questa che dopo il secondo Marco. Le 
questioni cui allude l'autore vertono intorno all'annunzio evan- 
gelico che i4 nè un Jod nò un apice' 1 della legge abbia a rimanere 
incompiuto. L'autore notando la somiglianza della nostra in- 
terpunzione colla lettera Joid nella epigrafe medesima, e Firn- 
portante valor logico di questo segnò diacritico: crede ve- 
dervi un esempio di quegli apici, ai quali il N. T. ripetutamente 
accenna (Matteo V, 18; Luca XVI, 17). 

La lettura crai nei nostri numeri XXII-XXV ha suf- 
ficiente apparenza di verità ; il vigesimoterzo però, tenuto dal 
Secchi per un landa fenicio pari al n.° XHI, incontrerebbe la 
medesima difficoltà paleografica che oppónemmo a quest'ultimo, 
da cui differisce oltracciò sensibilmente. È una rozza Lamerf 
della scrittura assiriaca, alterata pure dal' malo stalo della 
pietra. Il XXV che Y autore parifica a buon dritto al XVII 
(secondo lui tt iniziale in *?"rc), sarebbe una Me: m finale 
ài suo posto; ma noi gli rifiutiamo simile Valore appunto per- 
chè lo dovemmo negare al XVII. Questa voce (sempre «col 
Jod madre della lezione in luogo del Patach") u è chiaramente 
i4 &by holem usata avverbialmente per tempo avvenire inde- 
u finito e perpetuo, e scritta ora e'?? senza vau come nella 
u nostra epigrafe , ora col vau dopo ain per madre di le- 
i4 zione dbw holam, e spesso ancora antepostavi la particella 
u £ benché non necessaria per esprimere la frase in aeter- 
u num (78)." — L'ultimo modo, che parrebbe secondario stando 
al Secchi 1 , è l'originale ed il più frequente; non sipotreb- 

.') Quest'errore ai fa più evidente nella nota (78,3), dove, quasi fosse dif- 
ficile il credere al E?**? lè'otlam in aetemum, è detto : »tiy\xh Imbo- 
la m in aeternum pel solo c ^ holam si ha ne' salmi X, 1 6. XXI, 5. 
XLV, 7; e in Esaia XL, 8." — L'assunto superfluo di dare esempj nel 
caso nostro, servì a mettere in mostra un'inesattezza singolare; giacché, 
dei quattro passi citati, tre provano l'opposto, offrendo c ?^ e non 
Bffrf . U Secchi trovava "?\sb [ Q dieci tra gli undici esempj di lezione 
piena [q^] recati da lui nella nota 2.» della psg. medesima. — Inesatto 
è del pari V asserire che la forma senza ^ , cioè &« ^ , sia u principal- 
mente propria della lìngua aramaica"; giacché la ^ è puntata in aramaico 
di Y&ft qameà (ziqopò), e la j è impossibile. . 



tU C4TTBDK4 DI JfMJHCO. ifi 

be però rifiatare la ittferpretazione dell'autore* ^ se la lettura fosse 
retta e se la forma zrbv fosse in qualche modo giustificabile, Ma 
l'ebraica è cJ> v j> >o<lani; l'aramaica c>y * n 1 a m , Volano. 

Chiude l'epigrafe, secondo fautore, la composizione raiV 
léromaA ju&a fìomam. La sua Lamerf fenicia (xxvi}, identica 
al n.° XIII, incorre nella obiezione, medesima che fu da nei 
rivolta a quest'ultimo; il carattere susseguente (xxvn) è 
diverso anche nel fac-simile del Secchi dal n.° Vii, che d'ac- 
cordo con lui abbiamo riconosciuto per una reta; più an- 
cora risalta la differenza nell'originale, e siffatta ohe riesce 
caratteristica del vero valore di questo segno, come sco- 
priremo più tardi. Nei nostri numeri XXVIII e XXIX trovò H 
Secchi la Me;m di forcina finale che avrebbe ad essere la 
lettera media del nomo Roma [,vm]. L'autore seppe che il 
contorno di questa pretesa ft era interrotto, e scrisse a pag. 
81: M Le due curve del Meni convergenti per formare il qua-* 
u dralo, quantunque non Io chiudano perfettamente, sono V una 
u contraria all' altra, e 1' una d' esse non sarebbe lettera per 
M chi la volesse distinguere ed isolare dall'altra. Impercioc- 
u che sia che leggasi da sinistra a destra, sia che leggasi 
u da destra a sinistra, 1' una d' esse correrebbe sempre in 
M direzione opposta al corso delle altre lettere se fosse so- 
M litnria e separata; il che non è possibile in questa paleo- 
u grafia; e non presa per la metà del Mem quadrato, diven- 
u lerebbe illeggibile ghirigoro." — Ma da due curve che 
non chiudano perfettamente, ai due segni che rinvengonsi 
nell'originale e ch'io ritraggo, assai ci corre; e noi conti- 
nueremo a imputare il disegnatore d' inesattezza, piuttosto che 
il P. Secchi d'aver piegati i segni alla propria interpretazione. 

') Il mannaie del G e senio (edizione citata) non dà Paso avverbiale di &1& ; 
ma«v' ha nella grammatica eojta del Ródiger (Ed. XIV, p. 261). È 
vero che in alcuni esempj dove q^ ha V aspetto d' avverbio , potrebbe 
essere interpretato qual nome (Salmo X, 16: Il Signore, rege eterno e 
perpetuo [di eternità e perpetuità], trascurati gli accenti; XXI, 5: vita 
lunga lunghissima, come interpreta il Gesenio ; XLV, 7 : È il trono tuo 
sempiterno, perpetuo [sempiternità, perpetuità] ). àia in altri, non citali dal 
grande orientalista, T indole avverbiale è innegabile; p. es. LXXXIX, 2, 3, 



1 7 4 iKTdaitò all' opera 

"La irfthàa lettera è evidentemente uèà n, é 0i règge 
essa sòia della lettura w£ ? che, pur sussirtetido, male' offrn 
rebbe congiunta a tìto il denso voluto dal Sécchi: afa*/»? *«*« 
Tdfirjy, semper jùxta Romam, sempre secondo Roma 1 . D 
greco *oet& (coiracc.) si presta, deipari che la nostra preposizione 
secohdo, a più significati che giova qui discérnere. Secondo (da 
sequor, seguire) si riferiste alle volle ài seguire le particolarità 
dògli oggetti nel distinguerli; diciamo quindi : decidere i po- 
poli secondo le religioni, e in questo senso si scambia con 
per eà a (per religioni, a religioni). Altre volte si rapporta 
al seguire, per adesione ad un ente astratto : secondo la sen- 
tenza di Platone, secondo la legge, secondo verità; e toccando 
per tal modo le relazioni di appartenenza e quindi di loca- 
lità ideale, si scambia con per (a) ed m (per sentenza di 
Platone; a senno di taluno; in legge); altre infine dinota il 
seguire di un'autorità concreta ed individuale : secondo il pro- 
fèta, Secondo Platone, secondo Roma ; ed allora non gli equi* 
vale né per nò in nò a. Simiglian temente in greco : xatà qvht, 
per tribù, secondo le tribù; xatà tòy&og, secondo il costume; 
xatà&èò*, come Dio vuole, secondo Iddio. Ora, la particella 
ebraica '") le.... corrisponde a secondo e a *«*« nel primo 
significato, e v?V$ì leii6te:/fem vuol dir veramente (81) 
x*t* rag yvXàg vjm»?, secondo le vostre tribù. Nel secondo va- 
lóre vi risponde men di frequente; due esempj sono in Isaia, 
citati dal Secchi (81; son gli unici che reca Gesenio, rubr. 
A, 5 e 9 del suo articolo ••••£ messo a dura contribuzione 
dal nostro autore): XXXII. 1 , *nte* ? B|p# cnfy) fànfr? PT$ fa * e n 
lèéerfeq jimloft mele/? mlsaritm lemiSpaf jasorui. 
Ecco secondo la giustizia re impererà, e secondo il diritto 
prenci reggeranno; nella Vulgata: Ecce in justitia regnabit 
rex, et principes in judicio praeerunt. Similmente si coirebbe— 
% NÌ? lodanti: per me, secondo mia opinione. Ma nel terzo^ 
significato di secondo (exora), ••♦*> è inaudito ed impossibile^ 



*J Maglio valeva grammaticalmente, sema oatar» air aaaaalo dall' 
Iradmone; sempre di Soma, sempre per Soma. 



LA CATTBÙRJt Ut S. MARCO. 1j5 

^ li: non potrebbe certo voler dire: secondo me r né n& 
Wb> ii e à ah 1 e m oèeh seritpre a norma di tifose, sempre «0* 
tondo Mote*. 

m. Né ritmò poetico, nò il nome di Roma, nò la ri* 
petizione di quel dì Marco v' ha in quest' epigrafe, né sforzo 
alenila di erudizione orientale panni necessario ad in(erpre~ 
tarla. Scompigliale le ipotesi del Secchi, ora la critica ci 
disvelerà tutto' quasi tutto il secreto della nostra sempli- 
cissima iscrizione, maravigliando come per sì lungo tempo 
aia rimasta un mistero ai dòtti. I caratteri di cui l'autor 
nostro còstrusse la favolosa serie di parole rtcnb otfwan» «i bx* 
(....guest essa. H nerbo delie regole di Marco (è): Sempre 
confórme a /ionia), interrogati da noi risponderanno i 

evangelista in Alessandria 
e nulla più. Le rozze lettere della epigrafe appartengono tutte 
alla scrittura ebraica assiriaca [quadrata]. Dell' antichità del 
monumento sembrami però far fede la forma arcaica di al- 
cuni caratteri, che hanno una speciale somiglianza con i cor- 
rispondenti nell'alfabeto palmireno, ultimo anello dalla catena 
d'alfabeti che lega la scrittura quadrata alla fenicia 1 . Simili 

') La preposizione •••? il coi significato fondamentale ò 0, corrisponde a que- 
sta nostra particella pur t quand'essa si scambia con quale ; p. es.: lo eles- 
se a re (qual re)=?j.??? le me le Ir; basterebbe dire lo elesse re, e la 
particella logicamente ridonda, come ridonda •••? anche in alcuni casi 
dove non è italianamente traducibile ; p. es. : *W *•# v a j A i: 1 é n a h a è e 
decenne (a) serpente. Nulla giova air autore il citare due difficili esempj 
poetici di questo •••? identificaUto, cioè Osea IX. 13: Ephraim, ut vidi, 
Tyrus O^ lééotr) crai fondata in pulchritudine ; e Giobbe XV1H. 14: 
calce! saper eum, quasi rex (w lem eie*) interitus (traduzione della 
Tulgata, coi non si conformano altre versioni). Giacchò in primo luogo 
la parifieamone ripugna al suo concetto ; ed in secondo, a differenza di 
questi esempi mancherebbe nella epigrafe, traducendo come egli fa, un 
membro, per così esprìmermi, dell 1 equazione ; cosa cioò si voglia pari- 
ficare a Roma. — *if)f D ^ 'oWem le roma A, con simile accezione 
di •••? , verrebbe piuttosto a dire : // mondo è divenuto Roma 1 

*) Onesti caratteri sarebbero tt (I, VI), >(XIV), -,(XXVH). La (XVtf, XX, 
XXV) pure va qui menzionata per ciò che risguarda l'apertura lasciata 



I76 IHT0E90 ALL'OPERA 

diversità non vietano già di rendere evidente la lettura no* 
atra pure a cui non sia familiare, tra le scritture semitiche, 
che la ebraica odierna ; e, ravvisate ornai col Secchi (pag, 
161,164)neln.°X un'*, nell'XI una 1 e nel XII altr'a, 
riconosceremo senza steBto per 2 la lettera che vien dopo 
(xiii) e si ripète tal quale al n* XXVI. Il carattere XIV 
è evidentemente a , e nel XV nessuno può sconoscere una 
b , che è seguita da * (xvi). Nel Xyil rinveniamo una d 
del pari che nel XX, non d 9 identico disegno ma senza es- 
senziale diversità, e nel XXV. Il XVIII è una n , come già 
notammo, dopo il quale una *> (xix) s' innalza al disopra 
della riga, a differenza dell' altra (xvi) che dalla vicina D 
(xvti) è lasciata ben al di sotto della linea generale supe- 
riore. I , caratteri X-XX ci offrono quindi, con mirabile or- 
tografia, la voce cwtaam évàngeli:fte:f od evan- 
geli: f t i: f , iva^dun^. 

Prescindendo per ora dai n. 1 XXI e XXII, riscontriamo 
con tutta sicurezza dopo di loro, b (xxin, quantunque non 
identico al xv), ^(xxiv), d(xxv), e :(xxvi). Il XXVII 
è una n , che , per la squadratura nella parte superiore, 
è diligentemente distinta dalla vicina 1 (xxvni), identica 
al carattere VII ; le sta appresso una ' (xxix) seguita da 
n(xxx), lettera finale della iscrizione. I numeri XXIII-XXX 
danno adunque .ttucò le: fan d ri:A a; incontrastabile lettura, 



dal suo contorno. Le relative lettere palmirene atanno sotto al nostro 
fac-simile, tratte dalla tavola 5. a del Gese mio, Mon, Pkoen. - L'autore eoa-' 
chiude nella sinopsi (345) che Ja paleografìa, benché quadrata, ò l'arcaic» 
propria degli Ebrei d'Egitto con le figure deWAleph, dello Zotft, del Lamed^ 
del Nun e del Mem visibili nelle iscrizioni fenicie e singolarmente neaw 
papiri aramaici dell'Egitto." — Ma di questa singolare somiglianza nessun*** 

altro s'accorgerà osservando le Lilterae Aramaeomm in Afyypto del Gè 

senio. L'àlep non vi è più vicina alle nostre di quel ohe lo siano le* 
palmirene, le fenicie recenziori e le numidiche; la zajn e la me;in ir 
differiscono anzi notevolmente dal carattere corrispondente o dal SeuLns* 
creduto corrispondente nella nostra epigrafe ; eia lamed e la nnm no»' 11 
vi offrono alcuna somiglianza maggiore alle supposte ^ e 3 delia iscri- 
zione, di quanta ne presentino le pare lameà e num fenicie; uni * 
ittita, minore. 



U CJTTEDRJ UT S. MJRCO. 177 

la quale anticipatamente ci fa certi, òhe il segno che precede 
deve corrispondere . alta lettera da cui principia il nome della 
celebre città egiziana, teatro della precipua predicazione e 
del martirio dell' evangelista Marco. Di fatto, dei due segni 
èhe ci rimangono tra evangeli: fte:f e le:fandri:Aa, il 
primo non è lettera , ma semplice segno o d' interpunzione 
o di mera distinzione tra una parola e l'altra 1 ; l'altro (xxn) 
è una ? , lettera che presso gli Ebrei orientali, del pari che 
presso gli Arabi, è quasi impercettibile nella pronuncia, e quindi 
in volgare trascrizione può venire all' ufficio dell 1 n . Nella 
traduzione greca dei Settanta, vorj nomi biblici con 9 iniziale 
si riproducono come se incominciassero da K ; perciò ^a^'x- 
k^9? fc a m a I e q , come '4(lQ&p. == man & b r a m. Il nome di Àsca- 
lona è scritto dagli Ebrei con*, e dagli Arabi con ? iniziale; 
lettere che si permutano' etimologicamente nell'ebraico stes- 
so, e tra 1' ebraico ed altre semitiche 8 . Abbiamo per con- 
seguenza (xxii-xxx) mwto 'ale:fandri:Aa od fc ale:- 
fan d rej a A = ^.ffa^^, in dativo locale, supposto che nel- 
l'enfasi della n finale sia ritratto V i soscrillo; e, scòrto nel 
n.* IX il solito segno di abbreviazione 3 , otteniamo dal V] 
al XXX: 

rrnxAs i ffwtomn 'tm 

Moqx. iiafflilunìjg i *Àks%avò s Q*l(f, 

Marco evangelista s in Alessandria. 

Ammesso, come pare evidente, che l' autore della epigrafe, 
inetto a scernere la composizione fonica QK£) latente nello 
ì Oc = cs), lo abbia dovuto ridare con unico suono, mediante 

! ) Anche nelle iscrizioni fenicie, come osservali Secchi (51) citando il Munk, 
un segno somigliante alla nostra virgola indica talvolta la fine della pa- 
rola. Negli scritti etiopici, ogni parola è separata dall'altra mediante un 
doppio punto. 

•) tóth$ 'pilóni repenti, subito, è da WJpefa* momentum; Wf l c legno, 
in caldaico, é = Y? *eé id. in ebraico; dove ^ — y come in 'V$$ ara* 
terrà (cald.)~.Y3# Óres (ebr.), TP 'an bestiame minuto (cald.)tz %uu 
iòn (ebr.), ecc. 

*) Come tale si manifesta dair incominciar desso più in alto della parte su- 
periore delia ^ , terminando prima d' arrivare a livello della linea inferiore 
di questa. 



»T8 ZlfTORJfpAU' opera 

la sibilante, dell' alfabeto ebraico <?he gien male gli. sembrò 
rispondervi 1 : noi ci troviamo dinanzi tge parole in ajrito pret- 
tamente greco e nulamente orientale. Imperciocché con qotp 
e non con ka/? scrivono gli orientali il nome di Marco ; oè 
quello xji Evangelista è, ch'io sappi?, riprodotto informaceli 
puramente ellenica da alcuna lingua semitica. I Siri hanno 
évangeli;ftò (k^3»B senza * dopo i e con &, oltre la 
diversa desinenza) $ e V ànghl arabo ed il va n gel etio- 
pico per vangelo^ non lasciano arguire un inalterato trapiaa— 
tamento della vpce Enangelistes in Arabia ed in Etiopia 3 . 
Finalmente il nome Alessandria è trascritto affatto diversa^ 
mente da quel che sogliono Siri ed Ebrei; che vi hanno 
un* » infoiale, lo f rappresentato dalle due lettere 5 e d, ed 
jin'a finale [anxppb*]. 

Avemmo di sopra (pag. 1 54). occasione di rammentarci 
che, ben prima della ypiwtn di Cristo, gli Ebrei d'Alessan- 
dria ^dqU^ndo JI, greco , trascurarono anzi a poco a poco 
dimenticarono T ebraico idioma, e furon perciò designati col 
Home di Ellenisti. Questo riflesso., fiancheggialo dal colorito 
greco delle tre voci fin qui diciferpte e dell$ direzione gre- 
cizzante della scrittura, mi spinse a cercar greca interpreta- 
zione pur dei cinque primi segni, di cui abbiamo ancora a 
trattare ; nella ipotesi che l'epigrafe nostra appartenga ad un 
giudeo d'Alessandria convertito al Cristianesimo, ignaro della 
lingua dei suoi padri, ma serbante ancora la conoscenza dei 

caratteri con cut la si scriveva a . Dell' antichità della scrittura - 

1 

] ) Così lo x [£] di Philoxenes, nome <T un re greco della Sogdiaria, diventa H 

sh(—i) nella ortografia indiana della leggenda delle costai monete (Pilashina). la 

Q ) In antichi testi giudaici non so che si rinvenga questo nome; le moderne 1 

traduzioni ebraiche del N. T. ridanno vangelo ed evangelista con voce- * 

boli proprj dell'idioma ebraico. ti 

?) Fra gli Ebrei tedeschi, oggi ancora è frequentissimo il caso, tra le donr sj 
ne specialmente, che un individuo parlante la lingua tedesca e ignorante 

1* ebraica, non sappia scriver quella che coi caratteri di questa. — Esem- ^ 

/ pj d'iscrizioni con caratteri estranei alla lingua in cui sono composte, si ^ 
hanno in quelle epigrafi greche sorìtte con caratteri latini citate dal Fi- 

sconti, Museo Pio-Clementina VII, 39-40 (AGATHE TYCHE con buo- ^ 

na fortuna [àyaO^ «Jjpfl).— ^ 



h 



j 



là. CJTTMDK4 DI 5. MARCO. 1 79 

si palesavano quegli indizj che accennai a pag. 175; perciò 
da questo lato non vedevo ostacoli a simil supposizione, che 
farebbe l'epigrafe anteriore al 415, anno della cacciata degli 
Ebrei da Alessandria, per opera di s. Cirillo. E un simbolo 
di mistione di lettere e di credente, quaJe ne risultava il 
monumento nostro, sentivo non disdire nell' Alessandria dei 
primi secoli delFE. V.; do ve. si avverarono quelle tanto strane 
mescolanze, che hanno nel Gnosticismo la loro più eloquente 
espressione. 

Osservando adunque che tra la 2 (v), e la » di Marco, 
la pietra è logora, come il fiac-siririle indica , e per modo 
da lasciar supporre sparito dopo la a un segno di abbrevia- 
zione ; io non tardai a leggere nei caratteri III— V (che ab- 
biamo col Secchi riconosciuti per V m,. *> iv, a v) ZEB. 1 , cioè 
atpjuriuog venerando, degno di culto*. Dei due primi segni, che 
ci restano per ultimi, l'uno (i) essendo fc come abbiamo ve- 
duto a pag. 158, e l'altro avendo, ai per la sua particolare 
inclinazione verso la » e sì per la sua qualche brevità^ piuttosto 
l'aspetto di un segno d' abbreviatura, che d'una 1 quale lo 
Yuole il Secchi (cfr, n.°XI): io n'ebbi M, che intendo per 
Maorvg martire, e la epigrafe intera me. ne risultava: 

M. 2EB. MAPK. ETArrEAllTHZ - AAESANAPElAi 
. MARTYR ADORANDO (>st) MARCUS EVANGELISTA ALEXANDRIA » 

l ) Pochi istanti dopò eseguito il fac-simile immaginai questa lettura, quando 
la memoria mi faceva sicuro che lo stato della pietra permettesse di sup- 
porre da qui sparito un segno di abbreviazione; ma essendomi più tardi 
persuaso a risguardare per tale il segno che segue la 3 di ^ Mark, 
non potei più consultar l'originale per decidere se il marmo abbia siffat- 
tamente sofferto da render lecito il congetturar sparito dopo la 5 di y% 
ae:b un segno di. proporzioni simili a quello che tien dietro alla 3 di 
yfò Mark. Rivolsi però tale inchiesta ad amico intelligente di Venezia, 
e n'ebbi risposta affermativa. 

*) 2JEB. è abbreviatura comune per atftarrzós augusto, fatto sinonimo d7m- 
periale, ma in fondo equivalente a (Teftaffpiog. <— Innanzi al oadavere di 
a. Pietro alessandrino, martire, messo seduto in sulla cattedra vescovile 
d'Alessandria, il popolo esclamava :Hi nartQ rtpu, ndtsq (Tè fi a a fii « 
(Secchi, p. 28, in nota). 

*) n.° XXI potrebbe non essere interpunzione logica, ma servire a semplice 
12 



l80 IUTOERO ALL'OPERA 

È però singoiar cosa nella epigrafe nostra, che, Iettine 
con sicurezza cinque sesti (vi-xxx), possa ancora discutersi 
in qual lingua fosse scritta. Una seconda ipótèsiy che per 
chiusa comunico al lettore, toglie ogni stento cui forse si 
va incontro interpretando grecamente i primi cinque segni, 
con ammettere il atfto m 01 & a b sedile di del Secchi, e riguar- 
dar le tre parole seguenti come nomi proprj infilzati in una 
barbara iscrizione ebraica, senza che assumano veste orien- 
tale. Se ne avrebbe la seducente interpretazione; 

SEGGIO DI MARCO EVANGELISTA — ALESSANDRIA 

alla quale però oltre che l'abito europeo dei tre nomi Marco, 
Evangelista, Alessandria, dovrebbesi opporre la difficoltà che 
notammo apag.159 trattando del Tfttn secchiano, e l'isola- 
mento della voce Alessandria in siffatta costruzione ebraica. 
Chi scrisse l'epigrafe, affatto inesperto nelle letterature orien- 
tali, si sarebbe avventurato a rappresentare le tre parole 
Marco, Evangelista, Alessandria, come a lui meglio pareva, 
presumendo incontrare a un di presso la ortografia degli 
orientali ; e nelT unica voce ebraica da lui adoperata, avrebbe 
introdotto, con inconcepibile errore, una *> per mater lecito- 
nis di a, mentre in Drogarne évàngeliifleif vediamo essersi egli 
ragionevolmente servilo a tale uopo di * . - Questa idea di 
conservar col mio contesto la lettura secchiana dei primi 
cinque caratteri, non è mia, ma di altri cui esposi più con- 
giunture greche intorno ai medesimi, nel comunicare a loro 
la scoperta di évàngeli:fti:s e d' <ale:f andri: Aa. Tra 
questi ò un grand 9 orientalista, eh* ebbe a soggiungere : Jta- 
M cimerei a supporre l'iscrizione fatta da cristiani non nati 
M ebrei, nò di Alessandria, ma europei, <5ho non sapevano 
u come scrivessero gli orientali Alexandria, i quali doman- 
u darono solamente come si dica sedia in ebraico, ed ap- 
u presero che si dice moscia*" Giudicheranno i dotti, ba- 

eeparazione di una parola dall'altra (t. p. 177. nota 10; del quale diatiativo, 
alanti i segni di abbreviamone, in nessun altro aito della epigrafe veniva 
bisogno. 



U CATTEDRA Di i. MARCO. l8l 

dando alla istoria della cattedra, se tal conghiettura, che 
vorrebbe molto meno antica l'epigrafe nostra, sussister possa 
a mal grado delle stranezze che or' ora feci risaltare, degli 
arcaismi da me avvertiti nella scrittura, e della * iniziale di 
Alessandria. 

IV. Nelle digressioni filologiche, coi a p. 147 accennam- 
mo, discorre il Secchi della poesia ritmica e metrica delle 
antiche lingue orientali, e dell'ebraica particolarmente; dello 
stretto nesso che lega la musica e gli stromenti musicali de- 
gli Ebrei ai loro metri; delle voci caldaiche, le tante volte 
interpretate, che s' incontrano nel N. T.; e delle due iscri- 
zioni con caratteri latini, greci e fenici, scoperte a Lebdah 
(reggenza di Trìpoli d'Africa) nel 1846. L'autore asserisce 
(83) d'aver ^pronte le prove per la dimostrazione di que- 
M sta medesima poesia ritmica e metrica (quella cioè che 
v'ha nelle iscrizioni geroglifiche egiziane e nelle fenicie) sotto 
tt le iscrizioni cuneiformi degli Assiri, dei Medi e dei Persia- 
m ni e nel Zendavesta"; né temer egli «d'annunziarne la sco- 
M perta ai coltivatori di questi nobilissimi studi, affinchè la ten- 
u tino anch'essi, e vi riescano a lode loro." - Maraviglieranno 
i dotti nel sentir scoperte le norme poetiche dello iscrizioni 
assire, la cui lettura essi stiman tuttora cotanto problematica; 
ma stenteranno a reputare il saggio che abbiamo dinanzi bnon 
preludio per i venturi, scorgendo il modo procustico in cui 
vi son trattati dal nostro autore i biblici versetti. Neil' in- 
no d'Anna «tutto composto di settenari'! eguali agli anacreon- 
tici", le parole (e. n) ^: pr? rorra W*ìVT« é:n qadoig 
kajJLv..A ki: é:n biltefta ( 44 Ninn santo come il Signor, 
che nullo è oltra di te") son lette dal Secchi : 

Ala quadòs kajova. 

Ki aìn ballaòteca 
coll'aggiunta delle seguenti due note, che io tralascio di qua- 
lificare: M (l) La particella negativa p* secondo ipunteggia- 
u tori pronunciasi P*ràjin] e in pausa p$ [ à j i n] quando 
4t non è in principio, né in mezzo della sentenza, dove 



i8a ìNfÒMto All'opera *' 

u allora pronunciasi v«t[é;n]. Ciò prova (*ic) cbe in poesia 
u le due vocali potevano pronunciarsi sciolte, e contratte 
44 in prosa." - E:„(2) E'àvVftfbio ^[bilte*a] praeier te 
u Ietto dai punteggiatori in Innesto verso turba il metro e la 
tt sintassi, e, benché sia tollerabile, preferirei la lesione 
44 ^f9 * ànnUlui cov" La seconda frase varrebbe dunque se- 
condo lui : che non sonvi perdite, mine tue\ e nettò 1 stia versione 
{389) u più fedele che per noi si può", è tradotta: Ninno 
ha d'eterno il tanto. — Il secondo membro del settimo ed 
il primo dell'ottavo versetto 

magpirl &p ìnerotmem 
meqi:m me'apar dal 
(JEgli abbassa ed innalza ; dalla polve solleva il tapino") 

sono allungati ciascuno d'ma sillaba nella trascrizione del 
nostro autore: 

Masceppil aph meromem. 
Mequim meaphar addai 
colla osservazione: U II metro e la sintassi richieggono del 
M pari l'articolo innanzi al pome bi pauper ^n il povero" 
La sintassi richiede V$j A addai e tollera, nella frase pa- 
rallela susseguente, )\ s y$ éòjotn senz'articolo 8 ! 

Veniamo finalmente alle iscrizioni trilingui, una delle 
quali sarebbe quasi quadrilingue (346) (i per la scoperta della 
„ lingua libica..... che manifestamente combina coir arcaica 
44 lingua egiziana,.... scoperta di somma utilità per la storia" 
che tra breve egli svilupperà con altri argomenti. La parte 
latina di questa iscrizione dice: 

') Non mi avventuro a trascrivere questo vocabolo congetturato dal Secchi, 
nella cai puntazione v'hanno due gravi errori (il qames* della ^ e fl 
d a g e S della ^). La costrizione presentata dal testo genuino è limpidissima \ 
contraria air uso ebraico e incompatibile per significato, quella fabbricata 
dal SeochL 

*) JV^D-Tf IWJHW meftipol jari:m *6jotn (Secchi: Measpkotk iarim 
ebjon) „alza dallo sterquilinio il mendico." — 



U CATTBDUJ DI Sì MARCO. |81 

BOWCAMBCRASI CUODlVfl HEDJCYS * > 

e la greca similmente: 

BONKAPX1EKPAZI KJ&A102 IATPOS. 

Il Secchi Tede in Boncarmecrasi la ^nomenclatura iste- 
rica di Clodio medico propria della nativa sua lingua libica, 
nomenclatura tradotta in lingua fenicia entro T inscrizione pu- 
nica (346)." Decomponendo Boncarmecrasi, copticamente egli 
vi trova: figlio (bo l ) di(») Cajo (co), uomo (me) 
di Crasso (crasi). Ora , la lingua libica essendo ignota , 
simile frangimento ed interpretazione di una lunga serie di 
lettere avrebbe l'aspetto di uno scherzo, se qualche particolare 
convenienza non se ne palesasse nel relativo monumento; e 
il Secchi trascrivendo con tutta sicurezza (347): 

t BÀRLEKÀRODITACRÀSI 

i segni contrapposti nella parte punica al Boncarmecrasi della 
greca e della latina, vi legge di fatti analogamente: 
figlio (bar), di Cajo (leka), servo (rod)^ 
d i C r a s s (hacrasi).~ 
A sentir l'autore, qui tratterebbesi della più facile iscrizione 
fenicia; quando ali 1 opposto dessa è tale, che i segni di cui 
è discorso furon letti primamente dal Fresnel (J, As. 1846, 
ottobre, 349 e segg.): 

bu^al Qarat-mà-qarsi: 
[é più tardi (ib. 1847, marzo, 279): 

b 0* * a 1 - q a r t - h à min i q r a fi: ]; 
quindi dal Judas (ib. 1846, nov.-dic., 568): 

bodmelqart remqrati: 

*) Lt voce egiziana ovm figlio ohe per Fautore sarebbe manifestamente il 
ho libico, non si rinviene nel Lexicon copUcum del chiarissimo Peyron; 
ovm yi è gemer*, colT osservazione itwsitatoto. 



184 MTOftito Aix'onaà 

coll'osservazione (566) che il. fac-simile del Frksnel, il quale 
non ò una copia dall'originale ma un medip desunto da due 
copie, offrirebbe: 

b..d.. c ..L.q..r..t..d..m..q..r..t..j ; . 

dal Bargès infine (ih. 1847, marzo, 216): 

Bodmelqart Aaméqarsi: . — 

Nella lettura del Secchi, che rappresentata in lettere ebrai- 
che sarebbe: 

,TiprrnpTQ 

il carattere che segue la seconda i, tenuto dagli altri unani- 
memente per n , è reputato contro ogni autorità qual n r per 
il bisogno di ottenere nrorf, E allorché l'autore lo vede 
ripetuto due volte nell'altra iscrizione (ch'egli legge d'accordo 
col Bargès), dove ha il valore sicuro di n [ra ziro], per singo- 
lare coerenza d'errori osserva (349): U È notevole una pro- 
prietà singolare di dialetto punico in Lebdah che addolciva 
in daleth il thau finale."! 

Ma fosse pur retta la lezione del Secchi; come osa 
egli mai attribuirle il senso di figlio di Cajo servo di Crasso? 
Egli divide adunque vipn ti j>b "0 . Il nóme di Cajo Jn lingua 
semitica ridotto a cai o e a (348)", sarebbe rappresentato 
da una sola consonante fenicia, cosa inaudita e mpstruosa. 
Meglio valeva dire che p sta per abbreviatura di Cajol — 
Rod poi [n], ha da significare seno, dall'ebraico irT rutti, 
che 1' autore vorrebbe valesse subticior, senio. Ma questa 
radice, che è di senso controverso, lontanissima è certamente 
da quello di servire \ ed anzi da taluni le è attribuito il va- 
lore opposto, cioè signoreggiare, incontrastabilmente proprio 
delle radici a lei sorelle: Tp t rarfad e nri radaA 1 . Abbiamo 
per compimento ha era si. Dopo aver notato apag.347 che 
u la conservazione del caso genitivo nel nome crasi per crassi 

*) TO i. q. arab. ràda, ultro ciiroqus discurrere, Ubere vogavi , persegui, 
quoerere, petere (Gc$enio\ cfr. Benscw).— 



LA C ATTEDI* A Di S. MARCO. t85 

u necessariamente suppone una sintassi latina originale man- 
u tenuta dalle tre lingue, perchè propria e primitiva del nome 
u composto che non si volea mutato", a pag. 348 l'autore av- 
vertisce essere h a nel nostro vocabolo l'articolo ebraico, che fa 
u le veci del segnacaso pel genitivo crassi." Ma, tra altro, davanti 
a nomi proprj di persona questo segnacaso è grammaticalmente 
stranissimo, per non dire impossibile, nell'antichità semitica ; di- 
modoché hacrasi avrebbe la deformità di due note genitive, 
una latina ed una punica, assurda Funa più dell'altra. 

E qui abbian fine le mie critiche osservazioni ; le quali 
avranno pienamente raggiunto l'intento loro, se, ojUre ad il- 
lustrare la epigrafe della famosa cattedra, potranno contri- 
buire, nella modesta misura delle forze mie, a far pie .guar- 
dinghi taluni che assumono con soverchia leggerezza un tuonò 
autorevole in trar partito da studj scarsamente diffusi ; campo in 
cui l'amore del vero deve anzi renderci più scrupolosi che mai, 
perchè meno a portate del comune degli studiosi la confu- 
tazione degli errori, e quindi più agevole l'insinuarsi di questi. 
D'altronde, gli stranieri avrebbero a farsi per fermo un criterio 
Een triste della condizione dell'Orientalismo e della Linguistica 
in Italia, se nessun italiano interrompesse, per ciò che riguarda 
la parte filologica, il plauso di cui si onorò tra noi quest' 
opera del Secchi ; la quale, . per lo splendido apparato tipo- 
grafico e per l'altisonanza dello stile, ci si affaccia in ve- 
ste pomposa, quasi nazionale monumento di sapienza. 



MALA 



UT a lo p A e* J à il a m. 



(éoalimu dai- 
VI. 



irte fai naJdàcfe Bairojà locapàlà màhangasa: * 
jànto dadréur àjàntan dvàparaH calisi saha «1» 

afa 1>rav|t. calili Sacra: samprecgja balavrtrahà s 
dvftpàrega sahfijena caie brèhi eva jàsjasi «2« 

tato "bravtt cpli: éacran damajantjà: srajanvaram i 
gatvà hi varajtèje tàm mano hi maina tal gatam 77 «3# 

tam abrarvtt prahasje ? ndro - nivrtta: sa svajanvara: t 
Vflas tajà nalo ràgé > patir àsmatsamlpata: *4» 

evam nctas tu éacreija '> ■ cali: crodasàmanvita; s 

devfln àmantrja tàn sty-vàn •: uvàée 'daù vaéaa tadà «5« 

devànàm mànugam madje jat sa patim avindata i 
latra tasjà fiaven njàjjan vipulan daijtJaJàraijam «6tf 

evam ucte tu calinà pratjùéus te divaucasa: § 
asmàBi: samanngBàte damajantjà nalo vtfa: «7* 

ci óa sanraguQopetan nà 'érajeta nalan nrpam t 
jo veda Jarmftn aèilàn jatàvaé éaritavrata: «8» 

jo "dite éaluro vedàn sarvàn àéjànapafléamàn s 
nitjan trplft grho jasja deva jagfiegu d'armata: #9* 



CANTO VI. 187 

MALA. 



b r* 144.) 

Canto sesto. 



1. Lon Cali scórser Dvàpara 76 venirne 

Gli ampio-splendehti reggitor del mondo, 
Quando, re Naia dalla B'aiml eletto, 

2. Férsi in via. * E V òccisor di Boia e Vrìtra 
Cali in veder : a Mi narra, ove ten vai, 

Gli chiese, Cali, e Dvàpara con teco ?„ 1 — - 

3. "Della Bramii alla gara, quei rispose; 

fio in quella posto il core, e mi presumo 
Non appena, ivi giungo dirla mia 77 . „ s 

4. Con labbro mosso al riso Indra ripiglia: 
"È compiuta la scelta, e a noi davanti, 
Re Naia a sposo ha ornai la bella eletto.,, 1 

5. A tali accenti del Celeste, avvampa 
Cali d'ira, e, inchinati i Deva tutti, 

6. Prorompe e grida: s "Se un mortai consorte 
Osò scerre colei di mezzo ai Deva, 
Condegna porti la terribil pena. „ s — 

7. u Consenso s' ebbe (allo infuriar di Cali 
Ripresero del Ciel gli abitatori) 
Damajantt da noi Naia eligendo. 1 

8. £ qual mai donna non saria proclive 
A Naia il re di tutti pregi adorno, 
Conscio d 1 ogni dovere, e in retti modi 

9. A oprare intento? 1 a lui che interi legge 

I quattro Veda e i carmi onde s' ha il quinto 7 * ; 
Che i Deva con offerte ognor fa pasti 



l88 *ALA 

ahiiisànirato jaé éa satjavfidt drdtavrata: t 

jasmin dScèjan drtir dftnan tapa: éauéan dama: éama: *10» 

dVuv&Qi puru$avjà£re locapàlasame nrpe t 

evanrùpan nalan jo vai càmajeé capitan 80 cale «11» 

atmànan sa éapen m&dTo hanjàd àlmànam fttmanà i 
evafigunan nalan jo vai càmajeé capitali cale #12« 

créSre sa narace magged agàcfe vipole brade * 
evam actvà calia deva dvàparaS éa divan jaju: #13* 

tato gatega deverà calir dvàparam abravtt « 
sanhartun no *tsahe copan naie vatsjàmi dvàpara «14» 

Branéajiéjàmi tan ràgjàn na Baimjà saha ransjate i 
tvam apj ac£àn samàviéja sàhfljjan cartum arhasi «15* 

« iti nalopàòjàne saàfa: sarga: «6* 



NOTE AL SESTO CANTO. 



96* Dvdpora e Cali. I. La mitocronologia degY Indiani dislingue nel periodo 
(mahijuga) che ancora dura (come suppone anche per i periodi antecedenti) 
quattro età (juga): Crtajuga o Satjajuga, età della perfezione, della 
verità; Tr età juga, Tetà dei tre fuochi sacrificali, detta perciò pure agnljt 
(da agni, r. n. 890? Dvlparajuga, Tetàdel dubbio*), e Calijuga, 

*) Ben fey (Gloss. alla Cresi.) dichiara dvlpara: „Tatpuruia [com- 
posto della classe quarta presso Bopp, e seconda presso Bènfey]* 
formato di dvl, duale radico del numerale due, e di para; quindi: 
che tien dietro a due", cioè la terza delle quattro età. — Egli 



CAUTO VI. l3i) 

10. In sua magione giusta il rito 79 , t e fermo 
È nei voti e veridico, e diletto 

Ha in U clemenza, onde perenni trovi 

Costanzia, probità, liberal core, 

Pietà, candor, tempranza e placidezza t 

11. Nel sommo tra i mortali che è sovrano 
Dei custodi del mondo emulatore? 

Se Naia, eh* è tal uomo, alcun bramasse 

12. Di maladir 80 , 1 sé stesso maladica 

Lo stolto, Cali, e di sua man si fera. 
Se Naia, eh' è tant' uomo, alcun bramasse 

13. Di maladir, s quegli sprofondi, Cali, 
Nel doloroso baratro, nell'ima 

Vasta palude 81 .,, — Al Ciel salirò i Deva 
Quando a Dvàpara e a Cali ebber ciò detto, t 

14. Lontani quelli: "L'ira in fren tenere, 
Cali gridava al fido suo, non posso; 

Vo' dentro a Naia m'albergare, Dvàpara, ♦ 

15. E dal regno sbalzarlo, né delizie 
Dalla B'aimf corrà. Tu pure interno 
Farti ne* dadi e offrirmi aita dèi. „ 



quella del dissidio, della discordia, che è l'attuale *). V austerità, la giusli- 

quindi non ammette che il dubbio, caratteristico di questa età, sia es- 
presso nel Tocabolo d vip ara, come vuol M et er (Nal ecc. p. 201), e 
qualche altro. Se un simile valore fosse inerente al nome dvlpara, 
oserei riguardarlo un bahnvrthi [composto della classe seconda pres- 
so Bopp, e terza presso Benfey], formato da dvà due e para 
nel senso di avente per precipuo, per distintivo, valore ovvio in tale 
collocazione. Parrà a prima vista, forse più che noi sia, ardita questa 
interpretazione, la quale troverebbe nel vocabolo indiano per dubbio il 
senso di : stato in cui il due è condizione essenziale ; ma la si rinverrà 
meno strana quando si pensi al modo in cui, altre lingue pure, espri- 
mono Fides dello star tra due\ dvó£a>, doia£co p. e. dei Greci, da 
dico due\ e neU'anglo-sassone : tvegen due; tveogan, tvigan, 
dubitare (cfr. neo-alto-ted. zwei, zwei-fel). — 
*) Il Calijuga sarebbe incominciato nel venerdì 18 febbrajo 3108, avanti 



igO MALA CAUTO TI. 

zia e la verità regnano nella prima; scemano le virtù nelle età successive e 
la longevità con quelle, giacché la durata della vita umana che nella prima 
è di quattrocent' anni, perde un secolo in ciascuna delle susseguenti. Portano, 
come si vede, il nome delle due ultime età, i due demoni che ora il poeta 
introduce. 

II. Ha l'opera di questi, che nel séguito è descritta, ci porta a notare 
altre coincidenze ancora. Nel sesto canto (si. 14. 15.) li veggiamo disporsi 
pi danni di Naia, Cali preparandosi a entrare in lui, e Dvfipara ne' dadi. Nel 
canto seguente (si. 4.), Cali invade il nostro eroe, e va poscia, con promesse 
di vittoria, ad invitar PuScara perchè giuochi col fratello Naia. PuScara (ih. 
et. 6.) sen viene presso a questo; e Cali, fatto di sé il miglior dei dadi*), si 
accosta a Puàcara, che insiste appo il fratello, perchè sia tentata la sorte 
con quel dado decisivo **). 

l'era volgare. \. Las sen, Ind. AltA, 500 ; G ar e in de Tassy,Journ. 
As. 1852, I. 552; Troyer, ib. 1843, II. 247. — Bentley (On 
the Sùrjft si d (Tanta, As. Res. VI. xm) ne pone il principio nello 
stesso giorno dell'anno 1612» del periodo giuliano, il che torna al me- 
desimo, calcolandosi il primo anno dell'era volgare come prima unità anco 
nelf annoverar per indietro. L'anno 4714 del periodo giuliano è dato 
cioè per il 1.° di Cristo, il quale essendo compreso nei 3102 cho 
vedemmo contati a modo solito ovanti Vera volgare, ne avviene che 
questo numero va detratto dal 4714 (e non dal 4713 che parrebbe dover 
risultare veramente il primo avanti Cristo), con che si è condotti al 
1612 del periodo giuliano. 

*} 11 tes(o: vrèo bùtv&gavàm, letteralmente: taurus factus boum. Il 
commentatore indiano citato da Bopp (II. ed. p. 213) avverte che il 
poeta usa metaforicamente vrSa per indicare il miglior dei dadi, e 
go per dado semplicemente. Vràa tora^ il nome dell'animale venerato 
(v. q. IV ; e SO in fine), per il migliore dei dadi, è un bel contrapposto 
ài cross, nome d'animale vilipeso, che i latini davano al pessimo tratto 
dei dadi. 

**) dlvjave ' tj abravld orata vrèene 'ti muhur muhu: VII. 7, 
^Giochiamo col dado migliore, così disse jl fratello più e pia fiate."— 
Cab', fatto di sé uno dei dadi, non cessa però di aver stanza in Naia. 
Schlegel (col plauso di Bopp) propone di mettere nel testo (VII, 
si. 6. 6.) d v à p a r a s 6 a per calie $ a i v a , a portare il racconto in 
armonia coli' invito che, in fine del Canto VI, Cali fa a Dv&para. Ha io, 
con ilo I A (Zetischr. d. deulsch. morg. Gesellsch. IL 124), non istinto 
giusta una tale emendazione. Si deve immaginar che Ovipara fosse internato 
negli altri dadi; ed in vero osservo che, Vili. 15, di pia dadi si parla 
che a Puscara volgevansi favorevoli. Non panni però si possa convenire 



ILLUSTRAZIONI. 191 

Jto/À*) osservò aver cali oltre al valore di dissidio quello di noce 
delTalbero viftìtaca; e che tal- noce essendosi adoperata negli antichi tem- 
pi per dado $ ne Tiene a Cali il significato di dado* ciocché getta molto lame 
sull'apparizione di cui discorriamo. Un dado chiamato Cali rinviene egli real- 
mente presso il commentatore MahtcTara, che, parlando di cinque dadi, chiama 
gli altri quattro: Crta [denominazione che pur nel rgveda s'incontra], e di- 
chiara Cali il più possente, 11 lettore non dimenticò che Crta pure, come 
di sopra dicemmo, è il nome d'un" età. 

11 poeta indiano adunque che personificava nel suo demone Cali la tri* 
ste Età, solo al nominarlo risvegliava nell'uditore, per la identità del nome, 
l'idea dell'ottimo dado, che doveva servire alle macchinazioni del demone. 
Roth, che maestrevolmente ha fatto ciò risaltare, immagina che ripugnando 
al poeta il far l' Età dell' oro stromento d' una mal' opera, egli abbia nell'altro 
demone personificato un'altra Età (Ovipara), piuttosto che Crta, quantunque 
Crta fosse pure nome di dado al par di Cali. Ma scoperte posteriori **) mo- 
strando quali dadi e erta e tretà e dvdpara, palesarono come i 
nomi di tutte quattro le età si riscontrino nella terminologia dell' aleatorio 
indiano. 

HI. Non so indicare con sicurezza l'antichità di questi vocaboli ***), ed 
il processo per cui sien giunti al doppio- significato di Età e di dado; sol- 
tanto osservo che, da quanto Ro ih espose, Cali sarebbe venuto a dir dado 
per proprio valore, e una semplice coincidenza Io avrebbe fatto omonimo 
d'un' età; ciocché non è immaginabile per tutti quattro i nomi. Bensì, una 

con quest'ultimo orientalista quando (ibid.) sostiene che non fosse nel 
pensiero del poeta di far Naia posseduto da Culi; né trovo ammissi*- 
bile la interpretazione eh' egli dà di si. 4. (C. VII): k% egli (Cali) si av- 
vicina a Naia ed a Puscara." Roth nota che il poeta non può supporre 
la esistenza di Cali e in Naia e uel dado; ma, siccome la spiegazione 
che Roth dà di VII, 4. è impossibile, troviamo anch'ivi Cali in Naia e 
tuttavia recantesi presso a Puscara; e per nulla mi sembra lecito im- 
maginare interpolata la ripetuta conferma di simili doppie presenze. 

*) Zeilschr. d. deutsch. morg. GeselUch. li. 123. 

**) Weber, dal trentesimo libro della Vàgasaneji -Sannita; vedine Àk. 
Vorlesung. 109.8. 

***) Weber (ibid. 67, 221) ripetutamente accenna che le quattro fasi lu- 
nari aiano la lontana origine della divisione per quattro età; ina -vuol 
lo sviluppo (Auabildung) di questa idea, non anteriore allo scorcio del- 
l'età vedica. 



191 NALA CANTO TI. 

coincidenza sola, può aver dato occasione a render comoni a' dadi ed alle età 
i nomi residui. 

»»• si. 3. b. Qui la versione è libera; alla lettera par si abbia: «aggres- 
sns euim eligam eam, animus enim meus eam aggressus (est)/ 1 — Bopp 
pure così traduce ; ma V eligam stuona. Scegliere premette più oggetti fra 
i quali si abbia a cernere, e ciò manca nel caso nostro. Badando alle gesta di 
Cali descritte nel séguito, ed al senso che var assume con due accusativi 
[petere aliquam in matrimonio ab aliquo *)], mi passò per la mente un' altra 
interpretazione, che, stante la scarsa congruenza della antecedente, non so 
tacere, quantunque abbia le sue stranezze. Mi parrebbe cioè che il demone 
così millantasse : La mia volontà la ho già fatta entrare in codesta donna\ 
vado adunque e chieggio dalla mia stessa volontà la mano di lei (aggressus 
enim petam eam, a mente scilicet mea, quae Damajanllm ingressa est). A 
taluno sembrerà forse, che il hi ripetuto impedisca di riguardare il aecondo 
membro dell' artfaéloca in dipendenza grammaticale dal verbo del primo. 
Ma io trovo la mia accezione dei due hi , somigliante abbastanza a quella 
p. e. dej doppio uso della particola medesima in : 

braviti jadi sa hj eva& cale hj asmin prabotfita: t 
SYabdhubalam diritja hanisje "haft vsnecarln • 

(Mabàfi. Àdiparv. ap. Lassen, Anth. sscr. p. 47) 
^Giacché adunque egli parla così, in questo stesso punto eccitato (dal suo 
dire), fidando nella forza del proprio braccio io mi farò ad uccidere le 
fiere." 

*B. 4% Ei carmi onde si ha. il quinto"; veda àcjdnapafióamà:, i Veda che 
s'inquintano di àcjdna. Già Colebrooke, nella 'sua dissertazione sui 
Veda, ha notato come i varj poemi mitologici, sotto il nome d'I ti hi sa**) e 
Pur èpa, sienp riguardati quasi un supplimento alle sacre scritture, e for- 
mino di conseguenza un quinto Veda***). P u r d p a significa antico. Le opere 
che sotto questo titolo oggi si mostrano****), hanno un'impronta piik mo- 

*) Compara fraai latine simili al: Petit hoc ASetida munui di Ovidio, Mei VU, 296. 

**) Quasi sinonimo di àcjdna; v. qui indietro, p. 64. 

***) V. il passo della candogjopaniàad citato nel principio di quella 

dissertazione. 
****) Se ne annoverano dieciotto. Il lesto d'un solo Parimi fa, ch'io sappia, 



ìwm&mpm. 193 

jenaa 0eilc ; epigee,, ed; ajpertenftOBO, ad un' epaca ove le credenze Religiose 
delttlndift, sperano, scisse a due gran setto principali, quella. degli «doratori 
£ Vi* tu li Y^Umu*)] e quella dei segnaci .di giva (i Óaiva). A 
favoreggiare, K una,, o. r aflra di, queste sette , tendono i wj Paràna •, e le 
auto-storie che vllassareggiano, |ianno principal radice nel Mahàfitrata. 

99. Mann (VII, 78-79) ordina che il re : „ si prenda mi teologo* consultore 
(pur oh ita) ed nn saceodoto di casa (r fcT ig) v e ^questi i. jriU- domestici gli 
compiano; dea parinone qnelll dei tre* liiochi sacri**). B nwltìplici /sacrifici 
offra fl re, coi presenti adatti***), e, come H dovere esige, i Brahmana 
soddisfaccia ed arricchisca", 

Osservisi come la poesia brlhmanica metto in bocca del Dio tanti elogi 
d'uno Csatrija ****).* La casta brlhmanica, che in realtà voleva perseli do- 
minio, sapeva (come altre teocrazie) palliare opportunamente le vòglie ambi- 
aiose, con prodigare adulazioni a Cesare, per render questo pia volonteroso 
a sostenerla. 'E mentre (ibid. 37) si ordinava allo CSatrija di reggersi secondo 
il precetto f) dei Brahmana che lo circondavano, si cantava per compenso : 
(ib. 4, 5, 6, 8) che da particelle degli otto Locdpaia ff) « composto un re, 

pubblicato in sino ad ora in Europa , e non interamente : Le B?i g a-' 
vate Parane, ou histoùfc poéàque de* Crina, <pubké et trvdvil 
par E. Bvrnpvf, Paris 1840-1847. Wilson inandò alla luce (Lon- 
dra 1840) la traduzione completa del Viànupur&na. Nel 1851 s'in- 
coumotò a Calcutta la stampa della Collezione dei Parafa : (Purtn a-' 
sa Egra ha), per opera del Prof, Ba>nerjea ì brahaunai oonvertifto,. 
incaricatone dalla Società asiatica di colà. . 

*) Il nome di questa capo-setta indiana mi dà occasione di notare come 
T imperiti* de! lessicografi' mbstraésamente disformi, ai giorni nostri 
ancora» i vocaboli asiatioi, Dirfonarj italiani aeeolscra U *©ce. Vaie h*c* 
navini M tribù religiosa dedita al servigio di Vispa" (v. il Vooab. 
* - del Traamter s.v.; colla scrupolosa divisione éti-S-chenut^oi^ni). -'Questo 
modo è tolto sema critica albana dal yalchènava degli orientalisti 
francesi, i quali così rappresentano rettamente, secondo la pronunzia della 
loro propria lingua, il valicava indiano. Il nome di é a 61 àinncon- 
tro (▼. pp. 88 e 142),' è nei nostri lessici: Sechi. Qui si riprodu- 
ce la ortografia degli Inglesi (pei quali eh è parlai nòstro e innanzi a l 
e ed t), senza badare all'effètto differente che ne viene al lettore itaKano. 

**) V. il commenti Culltoa; ap. Bdhti. CAr. *•*) v. la n. »«. 

****) la *r<ai *' il eostante amico dalli C I a tr i j a ; v. n. • 7. 

t) Si san a ha V orig. ; qualche traduzione ha lenito la frase eoi renderlo per 
contiguo. Vedi- wtoltre Mane I, 98-105. tt) r. n. «8. 



»04 ' nkLk Ckireo VL 

quindi superare egli te isplendore ogni mortale, abbagliale eeeenié raspóllo, 
aeppur fanciullo dorerai vilipendere con dirgli: è tot Mortila, perone 
grande divinità ohe ci ala innanzi in forma «nana, la un semplice anacoreta 
può aliar la voce autorevolmente contro a codeeto Ivamo in terra; e quando, 
nel dramma decantali, Re Duimanta ata per colpire la gauella apparte- 
nente al* eremitaggio di Canva, un addetto alla famiglia apiritnale di questo 

gli grida ardito: 

Tal sfidìì ortasaorfanam pratisafihara s^aeam • 
ArttatriMja va: éastran na prahartum allagasi il li 

Lo atrai riponi già incoccato I L'arco 
È dato a voi per tutelar l'oppresso, 
Non per attender V innocente al varco. 

eo* éap maledire aignifica anco giurare. Le idee ài : giurare t maledire ù 
ramificano da quella d' un'ee preaaioae sacra, costrìngente. Bestemmiare, impre- 
care, son rampolli intermedi; jurer francese vai giurare e bestemmiare ; e 
bestemmiare è per noi anco maledire, significati riuniti pure nel finche* dei 
tedeschi. Confrontisi altresì (come l'illustre aig. /. S. Reggio mite oaser- 
vare) V -fan ebraico, giurare, maledire*). 

81» 4t Nel doloroso baratro, nell'ima — Vasta palude" 

L Naraca o pitfila ai nomina l'inforno degl'Indiani, che sella mi- 
tologia epica sappiamo essere d'esclusivo dominio diJama vìndice**). H sa- 
cro codice, minacciando i peccatori, non ai limita alle pene che hanno rela- 
zione colla metampaicosi, dottrina che ci consta familiare all' India fin da 
remoti tempi***); ma le degradanti trasmigrazioni puniscono ^i dannati, dopo 
e|ie per lunghissimo tempo m essi hanno aubìto terribili castighi nel tartaro 
[Manu XII, 16-17, 54-80 f). Fiamme, dilaniasioni, ogni sorte di tormento 

# ) Giurare e maledire non derivano dall' idea d' un' espreseione aacra, co- 
stringente. Ma ogni giuramento importa, con se necessariamente una ma- 
ledizione. Dio mi punisca, ae non dico il vero (il bibl. DT? ^ K ^ ^^^ ^ 
La maledizione suol non esprimersi apertamente, me implicitamente vie 
sempre imprecazione in 'qualunque giuramento,' vi è sempre invocazione 
della Divinità rimuneratrioe e punitrice. Prof. & /). Lu%%atto. 

**) v. la nota «m. •* Allato a Jama ohe presiede sJ mezzodì, ponti Nairfta, 
reggente al sud-ovest. Questo genio deve alare* in relazione coll'aver- 
no; il auo nome vico da nirrli, di caiv.p. 195-&7* V.pure Bopp, 
Ghss. a. v. nairrta. ***) V. Weber, Ah. York p. 70. 

fj t NelcQ£cemedesiszo(IV,87-90),eott 



ILLUSTRAZIONI. ig$ 

è prodigata all' Inferno dalla immaginazione degP Indù, similmente a quella dì 
altri popoli. Indro minaccia i martorj del tartaro a Cali, ch'è in pre- 

da all'ira. Questa è in grande abbonimento all'etica indiana, la quale idolatra 
la calma. La B'agavadgitfi grida agli empj (XVI, 16-22): che nell'in- 
ferno, negli uteri demoniaci, precipiteranno (palanti narace, isurtsu 
joniftu); che triplice dell'inferno è la porta disterminairice, libidine (e ama), 
ira e avidità; perciò ai fugga quella triade. 

II. Ne' Vede, in cui abbiamo riconosciuto (p. 112) diverso il concetto 
di Janna, h punitrice divinità tartarea è piuttosto la dea Nirrt impropria- 
mente P infortunio, l'esilio, che si venne personificando *) come dagli esem- 
pi seguenti si scorge: 

vetta bi nirrtlnftn vagrahasta parivrgam i 

[Rgv. VI, 2, 19, 3, = Sàmav. I, 5, 1, 1, 6] 
M Oh fulminatore [Indra], tu conosci il freno degl' infortunj *•) "; 

tam fiharftnri nirrter apasWd 

. [Aforvav. Sanh. Ili, 11,2 J 
M Lo riprendo dal grembo dell'esilio ***) " ; 

*) Nell'epica par dimenticata questa personificazione; e n i r f ti vale sem- 
plicemente infortunio, vedi Bopp, a. v. — È interessante per la cri- 
tica delP esegesi indica, l'osservare come Jisca nel suo Ni ruota (II, 7) 
vaneggi in dare a nirrti, quando vale infortunio, etimologia diversa* 
da quella che avrebbe con altro significata (terra); e come egli tenda a 
coonestare la sinonimia di Rumi (terra) e nirrti, voluta dalNai&an- 
tucacftucja. Ne riesce corroborata la riflessione che inserii a p. Ili, 
n. — Nella traduzione del testo relativo, Roth rende nirrti per 

* # ) Qualche commentatore vuol qui intesi per ti infortuni n i mali spirti, I 
racsas (v. n. »••)*, interpretazione cui si conformò Benfey, tra- 
ducendo Stindengeister 

*»*) HothyZ. Gesch. u. Litt.d. Weda, p.48: u dall' orh della mina", e 
la etimologia, non meno che la dichiarazione di u pasta che Jfisca ci 
offre (upastfina), giustifica tale valore. Ma preferii vedervi disione 
analoga? al'*? W mibbefen è è òsi biblico (Jone, 2, 3: de ventre 
mferni), giacché upasfa è anche sinonimo di joni (utero; cfr.Ben- 
fey, Glots. al 8imav. e alla Cresi), e per conseguenza ò tradotto 
dal R oth stesso per grembo nella frase a pam upaste (rgv. VI, 1,8, 
4; Niructa 1»« e 1 1 1) „ net grembo delle acque ? \ come (nel Gloss.) 
dal Benfey le due volte che occorre il modo : medesimo nel Sàmaveda: 
0,1,2,2,9) diva* éid antld upamàm udinao* <*nat difficile 
forma vedica; cfr. Naifr. II, 18; Benfey, Sdmav. s. r. nas; Gr, 
>3 



ig6 WALA CANTO Ti. 

ma durvidatrft nirrtir na féala*) tad devànfim avo adjft 

yrvtmahe h 

[Rgv. VII, 8, 9,2; Benfey, GL Sam; a. v. nirrtij 
, t Che la mala dispensatrice Nirrti non imperi tu noi; tale aita dagli Dei ora 

imploriamo " ; e 

asunvantam aja£amànam i3a stenasje Hjdm anvihi tascarasjat 
anjam asmad iSa sa ta itjft namo devi Nirrte tn8jam astu * 
nama: sa te Nirrte tigmatego 'jasmajan vicrtà **) bandam etam « 
Jamena tvam Jamjft sanvid&no 'ttame nftce adlrohajai 'nani* 

[Jagurv. Vtgaeaneji-Sanh. XII, 62-63] 

§. 857 ; A o f a , Ind. al Niructa, s. r. a s [sarebbe allora di ci. VII, 3. a sing. 
imperfetto = preterito aumentale monoschematico]) apam u p a s f e m a- 
hi io va yard" a; u dall'estremo del Cielo in alto penetrò; il toro (detto 
del Dio cfr. ». 1*0 crebbe nel grembo delle acque"; e: (I, 5, 1, 
5, 5) Indù: pavii(a éàrur madajà "pam upaste cavir 
flagftja; u scorse (scorre) puriGcando il bello Indù (=Soma, t. pp. 
79-80, n.) ad inebbriare; nel volume delle acque quel savio scorse 
a beare." Di più, parati probabile, che il confronto della espressione 
biblica di sopra addotta, quadri pienamente anche neh" altra sua parte 
(inferni)-, giacché il vocabolo nirrti mi sembra esser passato dal sen- 
so di esizio a quello di abisso, e da questo al Talora di Deità infer- 
nale. A me piacerebbe tradurre il nostro esempio: dal grembo delTa- 
bisso, e del pari nel rgveda (Muli. X, 18, 10): eia tva pi tu 
nirrter upastftt, essa (la Madre-Terra) lì guardi, ti difenda, dal' 
la voragine, dal ventre deW abisso. M. Mailer però, forse ligio ai 
commentatori, traduce (come Roth nel passo dell' ACarvaveda) : Essa 
H raUenga dalT orlo della mina (Sie halle dich vom Rande dea Ven- 
dertene). Ma in questo loco il verbo stesso (p ft t u , guardi, difenda) non 
bene si confà, panni, a simile interpretazione (cfr. rgv. in, 1, 8, 1). 

# ) È imperfetto senza aumento, con senso imperativo, per conseguenza del 
mi da cui sintatticamente dipende; v. Bopp, kl. Gr. § 288; Ben- 
fe*i $ 808, 4. Merita attenzione questa influenza della particella ne- 
gativa sull'uso della voce verbale; fatti analoghi aono: r infinito che 
dopo la negativa sostituisce in italiano la seconda persona, unica di- 
scernibile, deir imperativo ; la incompatibilità di non latino coir impera- 
tivo, che pur con ne è insolito; il futuro (imperfetto) sostituito co- 
stantemente in ebraico ah" imperativo dopo le particole negative. Il 
comando risiede nella particella proibitiva, e cessa di apparire nella 
forma verbale. 

**) Kuhn ha viéritl (vierila, ZeiUckr. f. a. sprackf.ll, 312) ma dev'es- 
sere errore per vi érta che aoatituii. Va dipende dal vezzo vedico di 
allungare la vocale uscente; p. e., in casi consimili al nostro, pibì, 
prcSI (v. Bóhtlingk, Cresi, p. 367). 



> ILLUSTRAZIONI. 197 

«Tendi a coki ohe non fa libagione, che non sagrile*; aiegui fai via del la- 
tito, del masnadiero; 1 ad altri ohe a noi tendi, aia tale il Ine cammino, e 
adorazione 1 te o diva Nirrti; • oh bea*) aia adorazione a te dall'acuto 
vigore, solvi questo ferreo vincolo, e tu, d'accordo (ssmfvidttna) con 
Jama e Jaml, fa che s* innalzi codest' uomo al cielo sapremo. " 

III. Ai servigi di .Jama che accoglie e giudica t defunti, stanno nel 
Veda due cani vigili, quadroculi (svlnau raciittrau éaturacSsu). Uno 
de* loro epiteti (Milli, rgv. X, 14, 10) essendo éabala, che ò sinonimo 
di carbura (screziato), fa pensare a qualche relazione anco fonologica col 
Cerbero della mitologia classica, custode della porta di Diti **). Un loco del 
Rgveda (Muli X, 14, 12) fa girare spaventevoli i due ntesaaggieri di Jama 
tra i mortali; e il nome Sàrameja, loro comune (X, 14, 10***), sta in 
strettissima parentela di suoni col greco 'EQUéla's (Nermoias), Mercurio, che 
nel mito ellenico ha l'ufficio di condurre le anime alle infere regioni****). 

E P lfc ima vasta palude" del passo che illustriamo, non può non ricor- 
dare' la pafade atigia. Se il Cootto e l'Acheronte e la palude acheraia nelT 
Epiro (prescindendo dagli altri Aeheronti e dalle altre Acherusie), collo- 
cati siccom' erano alla estrema regione occidentale della terra nota agli an- 
tichi Elleni , che procedevano dalF oriente, formavano per questi Y ultimo 
confine del mondo de' vfvi, è fdron perciò dalla immaginazion greca situati 
nel tartaro : del pari la Vaitaraul (fiume dell* Orissa, che gli Ani scendenti 
dal Nord tennero un tèmpo per il confine del sacro paese, santificandone 
con ogni venerazione la ripa settentrionale) divenne nella indiana mitologia la 

*) Su che nell'epica non trovasi che in composti, nei Veda è usato spesso 
anche separatamente come avverbio; p. e.: su bruvitfi te M che 
bellamente io di te canti". Kuhn traduce il nostro passo: Hohe ehr- 
furchi sei dir ; e renjle tigmategas per mit scharfem strahL 

**) Della denominazione éjftma-sabala per questo pajo di cani, la quale 
limiterebbe ad uri solo di essi F epiteto éabala, e di conseguenti 
ipotesi di Weber e di Kuhn, v. ¥ articolo di quest' ultimo, citato 
nella nota dopo la seg. 

***) Da Sa rama, la cagna degù Dei, ne* Veda; v. B e nf e y, Gloss. alla Cresi. t 

****) Kuhn, tìàupVi Zeitschrift fùr deutsche Akh.\l,\2$. L'articolo del' 
medesimo indianista Namen der milchstrasse und des hóUenhunds, nella 
Zeiischr. f.vgl.sptacnf.U, 311 e seg., mi ha istradato a queste risero ' 
che sul!* sverno degli Indi. 



198 RALA-'CAWTO VI. 

riviera posta tra questo e l'altro mondo, nelle onde bollenti della quale sprofondano 
i peccatori precipitando nella sottostante regione di Jam* ; ove lo stagno dr 
oni parla il nostro poeta è probabilmente un lago formato dalle aoqne di 



vii. 

livari sa samajaii crtvà dvàparepa cali: saha ♦ 

àgagàma talas latra jatra ràgà sa naiéada: al« 

sa nitjam «antaraprepsur riiàacTeSv avasaé éiram t 
afa 'sja dvàdaóe varée da da rèa cai ir antaram *2* 

ortvé mfitram upaspràja sanjjftm an vasta* 2 naiéatfa; ♦ 
acuiva pàdajo; óau^an tatrai 'ifeS calir ftvióai «3* 

sa samfiviéja éa nalaA samtpam. puscarasja éa i . 
gatvà puàcaram àhe "dam ehi dtvja Balena vai «4« 

qcsadjùte nalali gelai Bavào Li sahito majà 89 1 . 
qisadft'n pralipadjasva , gitvfi ràgjan calao nrpam «5« 

evam uctas tu calinà puparo nalara aBjaj&t 1 

cftlié éai ? va YfSo BùtvA gavàm puàcaram afijagàt t»6* 



àsfldja tu nalafi Tirana puScara: paravtfahd i 

divjàve ,Hj qbravid Bràlfl vrSege Hi mubur muhu: n7# 



na cacSame tato ràgà samàhvànam mahàmanà: ♦ 
vpidarBjà: precSaraàjiàjA: panapàlam amanjata *8h 



hiranja9ja suvartoasja jànajagjasjà vàsaaftm ♦ 
flvisja: calinà djille gijate som naia* tadft «9* 



ILLUSTEAZIOKl. igg 

quel fiume* come l'Acheronte estuiate impaluda a crear lo Stige. I baoni 
all' incontro, folicetiente attraversano il fiume tremendo, per raggkngere la 
beala dimora delle anime virtuose. 



Canio settimo. 



1. Con Dvàpara alliànsa poi che ha stretta 

In quella guisa, Cali volge il piede . 
Ver la regione che da Naia è retta. 

2. Infra i NisncTa a luogo egli risiede, 

Spiando Fora alle sue mire presta, 
E tal Tanno duodecimo la vede. 

3. Naia l'urina spande é la calpesta, ' 

E ponsi a orare, i piedi avendo ommeséo 
D'appurar* % — Gali allora a lui s' innesta. . 

4. E poi che Naia ha invaso, sen va presso 

Di Pu£car.a?' s e gli fa cotal disegno: 

u Va con Naia a giuocàr! lo son quel desso 

5. „ Che a vincer Naia al dado in tuo sostegno 

„ Verrà. Fia a te la terra sottoposto : 
v Dei Niéada, vincendo a Naia il. tegflo,* 

6. Puécara a Naia corre a tal proposta. — 

Cali il miglior dei dadi; di eè lattò, :"<- ♦ < 
A Ptócàra in tal fórma allor 8'*GC0St*<?.*v 

7. Dei nemici il terrea Puscara, tratto 

Appo «il germano i eroe^ più fiate ardito , 
L'eccita: a Orsù giuochiamo al miglior tratto!* • 

8. Stima ai dadi il re acconcio e il tempo e il sito 

Naozi alla B'aiml, né può andar respinto 
Dal magnanimo Sir cotale invito. 

9. L'oro e il carro e le vesti onde va cinto 

Gioca e ogni aver; ma in lui ha Cali stanza, 
Quindi alla prova riman Naia vinto. 



ZOO WALA 

fcm acgamadasammattaiì suhrdfln na tu éatàm* » 
niv6rape "fiavaé cacto dtvjamftnam arindamata «10» 

tata: pauraganA: sarve mantriBi: saha Barata \ 
rfigànan drastum àgaccan nivArajitum Attirarli «Uh 

tata: sùta upàgamja damajantjai njavedajat ♦ 
eia pauragano devi drAri tisfati cftrjavàa «12« 

nivedjatAn naisacfòja sarvft: pracrtaja: sfitA: f 
amrsjamànà vjasanaù ràgHo (Tarroàrfadaréina: «13» 

tata: sA vASpacalajA , vAéA duiéena cariltA '■•* 
uvAéa natéacTam Baimi , éocopahataéetanà ni 4» , 

ràgan pauragano dvAri tran didrcèur avasfita:* ». 

mantriBi: sahita: sarvai . . rfigaBactipucascrta: 84 f 

tan dragtum arhasl 9 tj èva puna: punar afiAgata :*15» 

tAn tata ruéiràpAfigift > vilapanlto tatàvidam * , 
Avista: «dina r*£à «A 'BjaBtóata cifiéàna. «16* 

tatas te mantriftàt aarva te éai 'va pnrav Asina: j 
nA 'jam asti 'ti dir.éàrttà vridiià gagnmr Altjàn «17» 

tadÀ tad aBavad djùtam J poàcarasja nalasja éa< i . 
jucfiéfira bahùt* mAsAn pujijaélócas tv agijata «16» 

" •• .i< ••'." { /ìot. ; .. I . 
» iti nalopAijàae saptama: aarga: .»7» . 

♦ V ::■? •.*::. .: ': . r, } i : • ' :::'.:.-> .: 
I . •> e-;- ••.-./ • : : ti id':[ 

Mi'/.,' •.' • n . , ... , .. , '../; 

-:.ì;::::u ..'..* •! *. J ::r n ;.; no..; :::^ , n r/>s:: fc 

•i« «/ t •«•/; I',- ?»*» t: •# • ••lif f : ..: -,' ,i.M» 



cacto vn. ftOf 

10. Nò dal gioco a distorlo ha ornai possanza 

Amico alcun; de' dadi fa il furore 
Demente lai che in valor tutti avanza. 

11. Venne della città ogni abitatore, 

Coi Savj*), il re a vedere ed a far saggio 
Di strappar lui da tanto insano ardore. 

12. L'auriga 04 a Damajantt andò in messaggio: 

" Delia città ogni abitator, regina, 

„ È all' uscio e zela pel comun vantaggio. 

13. yy Sappia il NaiàacTa che sta a lui vicina 

yy La turba dei soggetti, insofferente 

„ Che il re che al Giusto guarda abbia mina. n 

14. Dal duolo tratta e con parole spente 

Dal pianto, a Naia parla cosi istruita 

La B'aiml cui '1 dolor scossa ha la mente: 

15. "Sta, re, alla porta co 9 tuoi Savj tutta 

„ La città, e di vederti desir ave, 

9 La mira deh! dal culto al re qui addutta. n 

16. Più fiate il ripetè, s ma benché grave 

Cotanto alzi il lamento, alla sua bella 
Dall'angolo dell'occhio si soave 
Nulla risponde il re che a Cali è celia. — 

17. Tra i Savj tutti e i cittadini accolti 

"Più quel desso ei non ò „ corre novella; 
E afflitti andaro e da vergogna cólti 

18. Ai tetti lor. — Cosi il gioco fervea 
Di PnScara e di Naia mesi molti, 

Jufréfira, e Naia succombea. 



n ': 



*) T. »; **» 



*02 NAI.A CWO V1T. 



KOTE AL. SETTIMO CANTO, 



SS. si. 3. a. sancfjàra anvàsU, perfecil sa ndj am. Sandjà è T ora- 
zione, od altro atto di cullo, che si fa al levare ed al tramontare del sole. Às con 
ano vien qui ad avere il senso di exequi, perficere jguale lo ha composto ad 
upa. A torto, mi sembra, Boehtlingk preferì la lezione so (à)ste sdì a. 

si. 3. b. Rigorose sono pure presso gì' Indiani le leggi di purifica- 
zione, delle quali tratta il libro V. del codice di Manu *). Meier**) noia, 
che il nostro passo dimostra come Naia si rendesse in parte colpevole dei 
mali cui lo vedremo incontrare. A chi si occupò di demonologia, anche 
senza .toccar l'India, non sarà nuova l'idea che la contaminazione del cor- 
po dia adito all' invasione di uno spirito nemico ***)• L' indiano trasporta 
anche in cielo analoghi avvenimenti; Iodra (Rlmàj. L xlyi. 18, 19) profitta 
d'una posa: impara di Diti (v. n. SO. IL) per entrarle neir utero e fendere 
il feto che doveva riuscire funesto per lui. 

si. 5. a. Verbalm. talorvm-ludo fialam viclurvs dommus enim adjulus a me. 

*) Esempj di scrupolosa osservanza ha il nostro episodio : XXIII, 23. XXIV, 48. 
**) Nal and Damajanti, p. 201-2. 

***) V. per ciò che riguarda questa credenza nelParsismo, il Jovrn.As. 1840, 
loglio, 16-24. - Cfr. Ztilschr. der deuisch. morg. GesellschafL, IX, 



Vili* 

Damajanti tato dr§tvà puQJaélocan naràcTipam t 
nnmattavad anunmattà dovane gataéetasam «1* 

BajaéocasamàviStà ràgan Btmasutà tata: * 
óintaj&màsa tat càrjan sumahat p&rfivam prati #2* 

sa éaBcamfinà tatpfipaH éictràant! éa tatprijam » 
nalaB éa brtasarvasvam upalaBje Mam abravtt #3* 



TLLUSTRAZ10OT. 103 

••• Pus cara, nome del fratello di Naia (v. n. 1.), vale fiordi loto \ Bop p 
aggiunge lago, piscina. E Benfeu ha: cielo, acqua, punta detta proboscide. 
Pascala vale eccellente, perfetto. P ufi cara è nome proprio d'un piccolo 
lago, verso il quale muovono tuttodì divote pellegrinazioni, nella vicinanza 
di Àgm!r(v. Lassen, Alterth. I. 113; Rlmàj. S. 1. lxi). In quella re* 
gione trovasi pur la città modernamente chiamata Puicur (Po cor). 

«*• s V importanza che dall' òso guerresco del carro veniva negli antichi tempi 
all'arte degli aunghi, e la intimità di questi cogli eroi, co" sovrani, che ne deriva- 
va, si fanno più che mai manifeste nell'epopea indiana. V. pref. pag. 62; CI. 1 ; 
Vili; eXV. 2-3. il ìò.b.Bò htltngk identifica questo purascrta al 
para o para ma in fine dei composti possessivi (v. n. •»•); ma ciò non 
mi sembra quadrare. C r con p u r a s vai fare innanzi, quindi porre inmanzi 
(e seguire-, dicendosi indianamente fare innanzi untale, cioè porlo innanzi, 
quindi seguirlo). Purascrta vale perciò in dizioni simili alla nostra: posto 
innanzi, spinto, come Schlegel lo intende in Ràmaj. I. ì, 35. 

472. Il contaminato diviene accessibile agl'influssi perniciosi del malo spirilo, 
se anco non ne è invaso. V. pure Hammer- Pur g stali, Geistes- 
lehre der MosUmen , Denksckrift. der Wien. Ak. d. Wiss., 1853, p. 
224. — La verbale traduzione dello sloca secondo del nostro cantp, sa- 
rebbe: w Sempre ansioso di cogliere il momento (m cui Nola fosse in 
peccato), stette ne' Nisatfa a lungo; e nel duodecimi' anno Cali scorso 
di lui un (tal) momento."* 



Canto ottavo. 

li accorta B'aimì, al giuoco allor Naia il Signor degli nomini, 

qua] chi di mente spoglio va, di senno privo in scorgere, 1. 

di B'ima la figlinola, o Slr, da lutto invasa e pavida, 

esser ben grave rifletto frangente questo al principe; 2. 

la ria passi** ne paventò, e, di gradirgli cupida, 
tolto vedendogli ogni aver, con questi accenti volgesi 3. 

i3* 



204 *ALà 

vrhatsenflm atijaéftn Un Jàtrlm pariéfiricftm s 

hitfin sarvàrfacuéalàm anuraclàn snBàSit&m *4* 

vj-hatsene vra£à 'màtjàn 8 * ànfljja nalaéàsan&t ♦ 

AéacSva jad cfrtan dravjam avaéiètaH éa jad vasu *5# 

tatas te manfrina: sarve vigfiàja nalaéàsanam s 

api no BàgacTejan sjàd 87 itj uctvà nalam àvragan »6* 

tàs tu sarvà; pracrtajo dvittjan samupastitA: i 

njavedajad Blmasutà na sa tat pratjanandata h7* 

Tàcjam apratinandantara Bartàram aBivIcéja sfi t 

damajantl panar veéma vri<Jità praviveéa ha *8# 

niéamja satataH éà 'cSàn pupjaélocaparànmuéàn j 

nalafl éa hj-tasarvasvan cTfttrlm punar uvàéa ha «9» 

vrhatsene punar gaéSa vàrgnejan nalaéftsanàt i 
'Sùtam ftnaja calj&pi mahat cfirjam upasfitam «10* 

vrhatsenà tu tao crulvà damajantjà: praBftèitam s 

sùtam ànàjajàmàsa puruéair àptac&riBi: «11* 

vàrspejan tu tato Baimi ààntvajaH 88 élacèjiajà gira i 

uvàéa deéacfilagBà prftptacftlam 8 8 aniudilft al 2* 

g&nìSe tvan jatfi ràgà samjagvrtta: sadft tvaji s 
tasja tvan vféamastasja sàbàjjan cartum arhasi «13» 

jatà jatà hi nrpati: puscarepai Va gijate s 

tata tata 'sja vai djùte Bùjò rftgo "Bivardfote #14* 

"* • , • ■ • • < 

jatà éa puàcarasjà 'cgà: palanti vaàavartina: » 

tata viparjajaé éft 'pi nalasjà 'cèeàu dféjate #1&# •• •"» 



CANTO Vili. 0©5 

alla fedel che la nutrì 8 *, a Vrihatsenft celebre, 

che è buona e d'ogni cosa sa, . faconda e in zelo fervida: 4. 

* Va, o donna, e d'ordine del re, fatti qui i Savj 86 accogliere, 

„ di' lor quanto perduto è già e quei tesori restino. „ 5. 

Quando a que' Savj tutti fu di Naia il cenno cognito, 

tt la nostra sorte orsù tentiam ! 87 „ pensfro, e a Naia vennero ; 6. 

e una seconda fiata ancor tutti i saggetti giunsero, 

la B'aimì stessa gliel nunzio, ma quei non volle attenderci; 7. 

posto in non cale il suo parlar dal proprio sposo in scorgere, 

la B'aimì piena di rossor nella magion ritirasi; 8. 

ma a lei giungendo, avversi al re che i dadi ognora volgonai, 

e eh' orbo ei d' ogni ben restò, alla nutrice replica : 9, 

" va Vrlhatseni e arreca qui, di Naia ancor per ordine, 

„ Yarsneja auriga, o mia fede), bisogna grave occorrerò! „ iO. 

e Vrihatsenà allorché udì' sì Damajantl inchiedere, 

ivi condur F auriga fé' da gente fida all'opera; 11. 

blandendolo 88 , ed in flebil suon, la B'aimt aenza biasimo, 

che luoghi e tempi scerner sa,. in punto acconcio parlagli: 12. 

" ben sai tu come sempre il re e in tutto a te affidavasi, 

„ a lui, che in grave angustia sta, t'accingi a offrire ausilio; 13. 

s per quanto da Puècara ognor sia vinto il re degli uomini, 

„ e d'altrettanto in lui vieppiù cresce al giuocar la smania; 14. 

„ se di Puicara a volontà cadendo i dadi foggiansi, 

„ sempre l' opposto puoi veder di Naia i dadi porgere ; 1 5. 



ao6 NAi.\ 

suhrtsvaganavacjani jafàvan Da érfloti éa t 

marna 'pi éa tata v&cjan uà 'Binandati mohita: «16» 

ntìnam manje na doso -sii naisadiisja mahàlmana: » , 
jatra me vaéanan rftgà nà 'Binandati mohita: «17» 

éaranan tvàm prapannà 9 smi sdraie curu ma d vaca: t 

na hi me óu<Tjate Bava: cad&éid vinaéed api 89 «18* 

nalasja dajit&n aàvàn jogajitvà manogavfin » 
idam àropja mifunan cinujinan jàlum arhasi «19« 

marna gnàtféu nicSipja . dàracau sjandanan tata t 

aévàns ée 'man jatàcàman vaso va 'njatra gaéca va «20» 

damajantj&s tu tad vàcjan vàràjiejo nalasftrafi: t 
njavedajad aéeSena nalàmàtjeàu mucjaóa: 01 «21» 

tai: sametja viniécitja so "nngBàto mahìpate s 
jajau mifunam àropja vidarBàns tena vfihinà «22« 

hajàns tatra vinicSipja sùto ratavaraR éa tam s 
indrasenàK éa Un canjàm indrasenaR éa b&Iacam «23» 

àmantrja Btman ràgànam àrtta: éoéan nalan nrpam s 
afamànas tato -jodjàfl gagàma nagartn tadfi «24« 

ftuparnan sa ràgànam upatasfe sudutcita: i 
Brtifi éo 'pajajau tasja saracena mahìpate: «25« 

« iti nalopàòjfine "Slama: sarga: *8* 



CAUTO TIH. • Q07 

„ d' amici e di congiunti al dir niega l'ascolto* debito, \ 

„ e, fatto insano quasi, pia non bada v al mio discorrere; 16. 



„ pur credo io colpa ella non è del Naiàada magnanimo, 

„ se, a stolto ugual, non bada più quel rege al mio discorrere; 17.% 

n rifugio auriga io cerco in te, poni il mio detto in opera, 

„ non più avrò V animo seren, che puote anco soccombere 89 ; 18. 

„ giugni i cavalli cari al re, come il pensiero rapidi, 

9 ascendere i due figli fa, ed a Cundina 90 recati; 19. 

„ presso i congiunti miei così deposto il carro, i parvoli, 

„ ed i corsier, resta colà, altrove vanne a libito. „ 20. 

Questo discorso per inter lui che al re guida il cocchio 

ai più cospicui riferì tra quei che il re consigliano; 21. 

e, ponderato insiera con lor, n' ebbe l'assenso, principe, 

col carro dai Vidarfta andò, fatti i duo figli ascendervi; 22. 

ed i destrier depose qui l'auriga, e il carro splendido, 

la giovane Indrasenà pur, con Indrasena il pargolo; 23. 

re B'tma mesto ei salutò, per Naia dando in gemiti, 

e, quinci errando, alla città d' Ajodjà M alfin rendettesi; 24* 

a Rltuparna quivi re ai presentò afflittissimo, 

e per servir d'auriga entrò m al soldo d' eato principe. 25. 



208 W ALà" CAUTO > Vili. 

NOTE ALL'OTTAVO CANTO. J 

.•&. „ Alla fedel che la nutrì — a VrìhatienÉ celebre ". La nutrice, la donna 
che fa le veci di madre, non è sempre tenuta nell'Antichità come vii mer- 
cenaria, che si accomiati quando ha compiuta l'opera sua. Si profittava del- 
l'affetto vicendevole che fra allattata e allattante doveva particolarmente sor- 
gere, per far della nutrice una fida compagna, che non più si dividesse dalla 
fanciulla, neppur quando questa , fatta adulta , divenisse madre. E un tal uso 
doveva necessariamente suggerire, nella scelta delle nudrici, quelle diligenze 
che oggi quasi indarno i moralisti ci raccomandano. 

Vedremo, nel Canto XIII (si. 49), la madre del re di Cedi avere an- 
cora allato la fida nutrice; e parimenti nella Bibbia (Gen. XXIV, 59) tro- 
viamo Rebecca andare a marito colla nudrice, ed il sacro narratore registrare 
(ib. XXXV, 8) la morte di questa, e nominarla, e raccontarci che quercia 
di pianto fu detto dalla famiglia V albero sotto al quale riposarono le ceneri 
di lei # ). 

Vrhatseni, terzo nome proprio in cui incontriamo sena esercito, 
vale magnum-exercitum {habens). 

SO. Bopp scrive "màtjin, segnando coi due apostrofi VA iniziale tras- 
fuso nel vragà antecedente; ma sembrami che questo vocabolo debba esser 
scritto colfa semplice iniziale. È l'amàtja che Bopp stesso ha nel glos- 
sario, colla traduzione di Wilson „a minister, a counsellor", senza citarne 
esempj. Al nostro aggiungo: Manu, VII. 60; e Sivitrjupdcj. VII. 3, 
dove Bopp scrive similmente "mdtjena. Nell'esempio da Marni, Va breve, 
preceduto da consonante, è al nudo, come altrove nel codice medesimo. 

Damajantt fa chiamare i Savj, i consiglieri del re, dicendoli amàtjàs; 
e nello éloca susseguente leggiamo che all' invito si recarono i m a n t r i n a 8 
tutti. Anco nel settimo canto, si. 11. 15. 17, incontriamo quest'ultima de- 
nominazione. Il codice di Manu, VII. 54. 60, impone al re che sette od 
otto ministri (saéivls) s'elegga; ed oltre a questi, varj consiglieri, ami- 

*) Tutti salino d'Enriclea nutrice d' Ulisse (Odiss. II, XIX, ecc.). Ed Euriclea 
appunto (dalla-estesa-glorta) vale l'aggettivo atijaéà" qui conferito a 
Vrhatseni. 



luranrrawf: 209 

Ijts. Il RÉmijanaj I. vw 1. % vette' alla 4esU del consiglio di re DasaraftT 
i due sacerdoti* intimi (rtviga a 'man trina*, v. n. *0*>, e nomina poscia 
gli altri otto ministri, *dmfìtj & s. Net. Capitolo LUI del libro medesimo, él. 6, 
son menzionati distintamente i m d n tri n a s e gli a m à t j fi s di re Visvàmitra. 

69. M La- nostra sorte orsù tentiamo La espressione dell' originale non 

è per noi* ben decisa; verbalmente se ne ha, come Bopp scrive: etiam.no- 
strum faium sit. B&htiingk (Cferest. p. 284) raccoglie le varie interpretazioni 
seguenti: Kosegarten, ist denn solches unser Gescick? (è questa la nostra 
sorte?); Hilmun 3 Cur own fate is note m perii (il proprio nostro fato ò 
or» in pariglie); Bopp, nella versione tedesca : Es ist unser Gesckick dieses, 
(questa & là nostra sorte). Egli stesso propone: Soli? et wohl unser Schick- 
sal semi, (sarebbe, mai nostro destino?) cioè, ci avrebbe mai il destino ser- 
bati a distrarre Naia dal giuoco? Saremo capaci ecc. ? 

88. ih 12.6. bhmdendó(lo) traduce étntvajan, voce in cui abbiamo un 
esempio del participio; presente ai nominativo maschile, reso quasi indeclinabile, 
cioè non in armonia col sostantivo al quale si riferisce. Altro ne vedremo nel 
Canto XIX. B opp qui ricorda i gerundj francesi. - él. 12.6. V. la n. à»0« 

I 1 t; • I 

80. él. 18. La seconda parte di questo sloca presenta qualche difficoltà, 
oltre alla stranezza del vinaéet per vinaéjet. Il Commentatore presso 
Bopp riferisce vinaéet a Naia. Me ter ha: ti Nie wtird* ich wieder heiter, 
Gieng Naia mir zu Grunde " (Mai più sarei serena, se Naia mi perisse).— 
A me parve d'unir e a d fi 6 i d con n a , ottenendone il valore di non mai, che 
da altri esempj è confermato; e di attribuire al potenziale irregolare vinaéet 
(il regolare vinasjet si opporrebbe al metro) quel senso ài possibilità che 
anco altrove rifulge in questo modo. Quindi può perire*, come p. e. il la- 
nata di éac. Ch. 51.5; BOhtl. 36. a*, può raggiungere. — Bopp: non 
enim meus purificatur . animus, aliquando perire possit etiam. 

M. C un din a era città capitale nella regione dei Vidarfta; v. n. 5. 

•1* mucjaéa: si riferisce ad a mi tj eia. Simili awerbj in éas possono 
adoperarsi aggettivamente, quasi che il é a 1 rispondesse al segnacaso del so- 
stantivo, v. Bopp, kl. Gr. 2. ed. p. 341. (ed. lat §. 652.) 



1 IO IULA: C«CTO Vili. 

0». Ajocfjà, la invincibile* — Il Raeiijflne (I. v) hi una -deecriaiono di 
AjocQà, illustre residenza dei re della dinastia solare *) ; e> anco per iatro- 
durci io una città dell'India antica, mi piace qui riportarla: 

„ Cosala è il nome di vasta regione , lieta e ferace , sita alla sponda 
della Snrajù, copiosa di pecore, di grani e di dovizie. Qui v' ha città di 
nome Ajodjà, per tutto Torbe famigerata, coi Manu stessa, lo stipite.de* 
mortali, anticamente fondò. Per ben dodici jogana**) si estende in lun- 
ghezza, e par tre in larghezza, questa città ampia e prosperosa, che risalendo 
per la varietà delle configurazioni***). A opportuni intervalli le porte vi son 
disposte, e le spaziose strade ben distribuite; vi brilla la via regale, la cui 
polve è d'acqua cospersa; è collocata in suolo eguale, e fra le paso ha to* 
terstizj acconciamente tagliati****); di porte è ricca e. di portici,, ripiena 

di palagi e di templi. Ha. +), e vie. ben scompartite; di forti e di 

fossa profonda è munita, e di mollarmi provveduta." 

„ Come Indra regge la propria citta, un re di nome Dasarafa, magnanimo 
augumentatore dello impero, reggeva questa che è dotata di boschetti d'Altra ft) 
e di giardini splendidi; cinta di rigogliosi SUafff), amena, piota (quasi eoi 
disegni che s' intrecciano nella tavola del giuoco tf+i) ; adorna ne' pubblica 
giardini di limpidi laghi; superba di altari dedicati agli Dei e di saeri carri; 
abondante di continue festività e solenni convegni, folta di popolo lieto e 

*) v. la n. S* 

**) Variano le indicazioni sul confronto del jogana colle nostre miglia, v. 
Bopp, Gloss. p. 283,6. Lassen, lnd. Alt. 1. 144, n. Ma le più moderate 
lo equiparano a quattro miglia geografiche. 

***) nànisansfSnaéoftitd. Schlegel : varìis aediftciis splende». 

****) Schlegel ha av ié8in n a* n taragr ha* , e traduce : domibus cojró- 
nuis nullo spatio separati*. Deve avere inteso letteralmente : avente case 
dal non reciso intervallo, senza che ne sia reciso intervallo ; la collo- 
cazione delle parole vietando d'intendere: avente -case non divise da 
intervallo. Quel modo d'interpretare mi parve, forse a torto, stentato ; e,* 
presentando a e su più di qualche somiglianza nella scrittura devani- 
garica, mi son permessa la emendazione: soviet inndntaragrht, 
convalidata da voci parallele in questa medesima descrizione; él. 8.10: 
suvioacté a taradvàrà, suvifiactinta rijanà. 

f) drQ?advlrapratollcà';£cÀ/e£e/: portis ad platearum exitum firmata. 

+f) Mangifera. 

ttt) Shorea robusta; Schl. 

itft) aSjipadapadtlecjais; Schlegel vi vede lo scacchiere; a&ttpa- 
da òxr<w6do*. 



j ILLUSTRAZIONI. 1 1 I 

satollo; simigliente a miniera (fi r o h a , fodina, Se hi) di gemme e alla fede 
della beatitudine, copiosa di cibi e di bevande elette, nutrientesi di grani di riso, 
olezzante d'incensi e ghirlande e sacri unti amenamente odorosi, zeppa di carra, di 
cavalli e d'elefanti, piena di svario ti veicoli, illustrata dagli ambasciadori di molli 
monarchi e dai merca danti che la frequentano. Sugli alti palagi si dispiegano i 
▼assilli, nella città gremita di centinoja di baliste*) e di copia d'ogni mac- 
china e d'ogni arma ; ciascun' arte ivi risiede ; è folta di aunghi e trafficanti **), 
opulenta, senza pari in isplendore; fornita in ogni dove di turbe di mimi e 
saitatrici ***), e romorosa dall'amabile strepito delle lire, delle tibie e de' 
timpani. Risuona dal canto degl'ioni, rimbomba dallo stridore degli archi; la 
tutelano eroi emuli de' custodi del mondo ****J, spcrti in tutte discipline 
guerresche, e insieme a loro migliaja di militi, come i serpenti guardano la 
citta-de -Colubri f)." 

W E bene la fregiano gli ottimi fra i Brahmano, cultori dei sacro- 
santi fuochi, virtuosi, maestri di color che sanno i Veda, generosissimi, de- 
diti alla misericordia, alla divozione, alla verità, simiglia n ti ai sommi sapienti, 
penitenti, donni di sé medesimi". 

Quest'ultimo periodo, scritto in altro metro, pare un'interpolazione sa- 
cerdotale, suggerita dalla trascurarne verso i brlhmana, di cui peccava, in 
questo Canto, la descrizione della bellicosa città. 



*) satagnì rentenos-occidens. 

**) siitamàgadasanvldi (=:s ambiai, v. ly.Benfey, Rtm.ed. Gorr. 
Àranjacac. LIV, 16). Sùta è il nato da uno Csatrija e da una Brlhma- 
na ; il Mlgacfa , da un Vaisja con donna càatrija o bràhmana (Manu 
X, 11); i Sùta (ib. 47) debbono addestrar cavalli e guidar carri, i MS- 
gada viaggiare per commercio. 

***) vad'ùnàtacasafi&ais, così Schl. : saUatricum et ludionwn gr egibus. 
Nàtacasan&ds, da ni|aca, dramma, aetio scettica, e s a fi & a cater- 
va, turba, viene a dire: turbe da commedie, d'istrioni; ma non m'è 
ben chiaro come sia reso per saUatricum il vatfù antecedente, che, 
stando ai glossarj, è: [emina (juvenii, MnÌB),nurus, fratria, e non altro. 

♦*•*) cfr. Naia VI, 11. 

+) cfr. Naia V, 7. 

i4 



NALi 



Tatas tu jàte vflrsgeje 
pugcarega brlan ràgjan 

hrtarflgjan nalan ràgan 
djùtam pravartatàm Bùja: 

éiètà te damajantj ecft 
damajantjft: paga: sàcTu 

puScareQai 'vam uclasja 
vjadlrjate Va hrdajan 

tata: puScaram àlocja 
utsrgja sarvag&trcfijo 

ecavàsà hj asanvlta: 
niééacràma tato rfig 



damajantj ecavastrà 9 Ia 
sa tajà yàhjata: sArJan 

puScaras tu mahdr&ga 
naie ja: samjag àlìétel 

puScarasja tu vàcjena 
paura na tasja satcàraH 

sa tata nagarfiBjàse 
triràtram usito ràgft 

pftjjamàna: cSudB tatra 
praticata tato rfigft 



punjaélocasja dfvjata: s 

jaé cà 'njad vasu ciBéana «1* 

prahasan puScaro "bravlt • 
pratipdQO "sti cas tava 93 «2* 

sarvam anjag gitam majà i 
vartatfin jadi manjase «3« 

punjaélocasja manjunft • 
na éai 'nan ciBéid abravtt «4* 



naia: paramamanjumàn s 
Bùsaiiàni mabàjasà; «5» 

suhrécocavivarJana: \ 
Ijactvà suvipulàù érijam «6« 

gaécantam pr$fato "nvajàt s 
tri rà tran naisaJo **vasat o7* 

£osajftmasa vai pure • 
sa gaéced vadjatàm marna 9 * «8» 

tasja vidveSapena éa s 
crlavanto judìsfira «9» 

satcàràrho na seteria: 91 s 
galamàtrega vartajan «IO» 



li carsajan s 
damajantt tam anvagàt «11* 



cauto ix. ai3 

Canto nono. 

I oi ohe VàrSneja ito sen fu, a Naia al dado assiduo 

Puicara il regno ecco rapir con ogni altra dovizia; 1. 

e a Naia orbo del regno, o re, Puscara in tuon schernevole : 

* continovi la gara ancor, che t'hai più da scommettere 93 ? 2. 

„ sol Damajantt a te restò chò io vinto ho ogni residuo, 

„ della tua Damajantt, orsù, purché ti piaccia giochisi! „ 3. 

a Naia cui 1 german cosi scherniva, da) corruoeio 

quasi si lacerava il cor, ma pur rimase mutolo; 4. 

ed affisato sul fratel lo sguardo pien di collera, 

e disvestito il corpo inter de* fregi, il gloriosissimo, 5. 

a' suoi grave cagion di duol, re tale mal dall'unica 

veste coperto escia, in lasciar tanta fortuna splendida; •. 

partì e a Ini dietro dessa andò che uvea pur desse un'unica 

veste; tre notti Naia sto con lei fuor dalla cerchia. 7. 

Quindi Puicara, o magno sir, fé' che in città promulghisi: 

«por me la morte incontrerà, ehi a Naia dia ricovero! , 8. 

i cittadini a lui non diér, o Judisfira, ospizio M , 

chò di Puscara ognun temè P impero ed un tant'odio. 9. 

Inospitato alla città dappresso va un tant* ospite! — 

tre notti il rege ivi passò, dell* onda sol nutrendosi, IO. 

da fame stretto, là si die' radici e frutta a svellere; 

poscia più innaaii il re ne andò, la B 4 aimt ognor segni vaio; 11. 



21 4 NAI.A 

csudajà ptdjamSnas tu nalo bahutito -baili s 
apaéjaó cacunàn cànééid dirapjasadrsaéCadàn #12» 

sa cintajàmàsa tadà nisacfàcfipatir bali s 

asti Bacàjo marna Mjà 'Jan vasa ée 'dam Bavisjali «il 3»» 

tatas tao paricfànena vàsasà sa samàvroot ♦ 

tasja tad vastram àdàja sarve gagraur vihàjasà #14* 

utpatanta: éagà vàcjam etad àhns tato nalara 1 

drstvà digvàsasam Bùmau sfitan dlnam acfomuéam «15» 

vajam ac§à: sudurbudcTe tava vaso gihtrsava: « 

àgata na hi na: priti: sayàsasi gate tvaji «16* 

tàn samlcSja gatàn acSàn àtmànafi 6a vivàsasam « 
puQJaélocas tadà ràgan damajantim afa 'bravlt #17» 

jesàm pracopàd aiévarjàt praéjuto #, ham anindite * 

pràuajàtràn na vinde éa da:éita: csudojà 'nvita: «18» 

jegàH erte na sateàram acnrvan maji naisatfà: • 7 1 
ta ime éacunà ° 4 Bfttvà vaso -pj apaharanti me «1 9# 

vaisamjam paramam pràpto du:éito gataóetana: ♦ 

Barlà te **ban nibofe Man vaéanan hitam àtmana: «20» 

ete gaécanti babava: pantano dacsigàpafam • * « 
avantlm jx£a vantali éa samaticramja parvatam «21» 

esa vincTjo mahàéaila: pajosflì éa samodragà 1 

àéramàé éa mabarglpàm bahumùlapalànvita: #22» 

esa pania vidarBàQfim asau gaéSati coéalàn * 

ata: parafi éa deéo 'Jan dac&Qe dacSi«àpa(a: #23» 



CANTO IX. Ql5 

sentendo dopo molti di Naia di fame il pungolo, 

alcuni augelli ecco apparir, con Tali all'oro simili; 12. 

del fiopol dei NiSada allor pensò lo strenuo prìncipe: 

tt nane il mio cibo in questo di, aia tal la mia dovizia. „ 13. 

Col panno che alla carne sta cuoprilli, con la tunica, 

ma quei la veste gli rapir, tutti ascendendo all'aere; 14. 

queste parole alzando il voi gli augelli a Naia mandano, 

vedendol nudo al auolo star, china la faccia, il misero : 1 5. 

* o tu il gran atolto f i dadi siam,^ della tua veste cupidi 

„ qui giunti, nullo era il piacer con veste andar vedendoti. „ 16. 

£ i dadi al voi poi che mirò, e ignudo sé medesimo, 

Naia alla B'aimì, o re,* cosi a favellare diedesi; 17. 

tt o degnai quei pel cui livor caddi dal mio dominio, 

, • senta vitto rinvenir, dolente vo e famelico; 18. 

„ dei quali in causa non diér più a me i Niiada ospizio, — 

, quei dessi, fatti augelli 94 , ancor la veste m'involarono; 19. 

„ io 'n somma avversità mi sto, triste, e la mente mancami, 

„ ti son marito, e ascolto dà ai delti a te proficui: 20. 

„ quinci del Sudde più sentier nella regione menano 

3i colui che Avanti oltrepassò e il monte Klcàa valichi; 21. 

„ giù ò la Pajoint che va al mar, qui il Vindja estolle il vertice, 

„ di fruita e radiche ivi son folti de\ Santi gli eremi 9 *; 23. 

„ verso i VidarBa è l'un sentier, l'altro conduce ai Còàala, 

* Terra-del-mezsogiotno è il suol più in giù che sta n meriggio 9 *. » 3*\ 



?i6 nala 

elad vàcjan nalo ràgà damajantfn samàhita: * 

uvàéà 'sacrd arilo hi Baimlm uddiéja Barata • 7 #24* 

fata: sa vfispacalajà vàéà du:éena carpita s 

uvàéa daraajantl tan naisadan carunan vaéa: *25# 

udvepate me hfdajan sldantj afigàni sarvaéa: • 7 * 

tava partiva saìicalpaB éintajantjà: pana: puna: «26# 

hrtaràgjan brtadravjan vivastran c$uttr£ànvitam « 

cafam utsrgja gaécejam ahan Ivan nirgane vane «27* 

éràntasja te csudMtasja éintajfinasja tat suèam * 

vane &ore mahàràga nààajisjàraj ahan clamam «28* 

na éa Bàrjàsaman cincid vidjate Bisagftm matam 97 * 
ausadan sarvadu:éesu satjam etad bravimi te #29# 

naia uvàóa 
evam-etad jafft 'tta tvan damajanti sumacFjame « 

nà 'sti Bàrjàsamam mitran • 7 narasjà 'rttasja Be£agam «30* 

na éà 'han tjactucàmas tvàfi cimarfam Blru éancase t 

tjagejam aham àtmànan na éai 'van tYàm aniudite «31* 

damajaotj uvàéa 

jadi man tvam mahàràga na vihàlum ihe f é8asi i 

tat cimarfan vidarBànàm parità: samupadiójate »32f 

avaimi éà 'han nrpate na tu man tjactum arhasi ♦ 
éetasà tv apacrstena man tjagetà mahipale «33» 

pantànan hi marna 'BlcsQam àèjàsi éa narottama i 

atonimittaù éocam me vardfcjasj amaropama • 8 #34* 

jadi éà 'jam aBipràjas tava gBàttn vraged iti i 
aahitàv èva gaéSàvo vidarfiàn jadi manjaae «35« 



CANTO IX. 117 

Tali parola Naia re, a Damajanlt dedito, 

tristo più fiate disse e più, verso la B'aimt, B'&rata; 24. 

e questa tratta dal dolor, con suon spento da lacrime, 

la B'aimt a Naia re parlò in detti lamentevoli: 25. 

"io trepidar mi sento il cuor, le membra tutte msncanmi, 

„ al tao proposito, o mio Sir, se penso e se rimedito; 26. 

„ ch'io parta e privo io lasci te d'oro e di regno, in Torrida 

^ foresta senza vesti andar, per fame e sete squallido? 27. 

, quando affamato e stanco, o re, ti sovverrà del giubilo, 

, nel bosco orrendo io fugherò da te la lassitudine; 28. 

* non hawi alla consorte ugual, pregiato in l'arte medica 

„ un farmaco per ogni duol, — m'ascolta, io son veridica!,, 29. 

Naia: 

* Come tu il dici è ben ciò ver, B'aiml dal seno amabile, 

, non v'ha alla moglie amico ugual, per l'egro è il miglior farmaco ; 30. 

„ e abbandonare io non ti vo', perchè paventi, o timida? 
„ potrei me stesso si lasciar, mai te in cui non v'ha biasimo.* 31. 

Damajantt: 

* Se abbandonare, magno Sir, me qui tu non desideri, 

„ verso i VidarBa deh il sentier perchò venir tracciandomi? 32. 

„ da me a partire, il veggio, o re, non può bastarti l'animo, 

„ potresti sol di senno fuor lasciarmi, sommo prencipe; 33. 

„ ma di frequente il mio sentier segni, o il miglior degli uomini, 

„ quinci alimenti il mio dolor, tu agi' immortali simile 98 . 34. 



„ se in tuo pensier volgi cosi: „ M a' suoi ch'ella rivolgasi "„ 
„ oh uniti appo i VidarBa andiam, so buono ciò consideri! 



35. 



2l8 NALA 



vidarBarfigas latra tvàm pfigajigjati màoada ♦ 

tona tram pugito ràgan sucan vatsjasi no grhe «36# 

♦j iti nalopàéjàne navama: sarga: *9« 



NOTE AL NONO CANTO. 



08* si. 2.6. pratipftno -sii cas tava, guai contro-posta hai? — 
si. 8.6. Bopp verbalmente :. Cum Nalo qui simul adstet, is eat in occisio- 
ncm mei (i. e. per me). 

él. 9. Ospizio. Sacrosanta è pure air indiano la ospitalità ; egK la nomina sel- 
cerà che vale il buon- fatto xai* i$oxì v ' Manu (111, 70-106) esalta il merito 
di codesto sagri/ilio offerto ai mortati, che guadagna gloria e prosperità pe- 
renni. — E di Ajodjl Ì detto ir somma lode, in Ramàjana I, vi, 17, che 
i Mani vi si onoravano e i Deva e gli ospiti (. ... pùgajanti pitfn de- 
vltitìns taffi). 

il. 1 0. a. V. frase consimile più avanti, XVI, 17: mandanirhàm a m a n- 
ditim, ornatu-dignam, inornatam. 

04. Qui (si. 19) e allo sloca 12.° gli uccelli son chiamati éac<ana*). 
Nella scelta di questo vocabolo mi par di scorgere un'allusione ; e , fors'anzi 
per riuscire a quesf allusione, immaginò il poeta simile ratto degli uccelli. 
Sappiamo cioè **) che il nostro regale uditore soccombette in ambo le sfide 
a é a e u n i ***), giuocator ribaldo, cognato di D'rtaràstra e compagno di Dar- 
jotfana. Ora il poeta, che narra l'istoria allo scopo di consolare lo sconfitto « 
Judièfira, desidera di far viva in questo con ogni messo la somiglianza a 
Naia nella sventura, per rendergli viva altrettanto la fiducia di consimile ri- 
sorgimento. 

*) lacuna, oltre a dinotare una data specie d'uccelli, vale: avi* in uni- 
versum ; v. i gloss. di Bopp e Lassen. 

**) V. pref. p. 60. ***) Che è pure sinonimo di sa cuna, v. Bopp, 
Gloss. p. 342, a. 



CAMTO IX. 1\<) 

„ quel re ivi onori renderà a (e <T onori prodigo, 

., e, in pregio ■ lai, nostra magion ila i te lieto ricovero. „ 3G. 



9£ r Traduco per regione del Sud o terra-del-met*odi la voce dacàinfi- 
pafa. Da esina significa verso il mewdX\ pala via, e foro' anche, 
come il nostro contrada, via e regione. La forma pracrìta del primo 
vocabolo è dacci nà, donde il Decan (Dekhan) dei moderni. Da e Sina 
vai dexter e meridionali* per l'Indiano, che, volgendosi di voto alla plaga 
dove ai alza il sole, segna il Sud colla dritta e il Nord colla sinistra. Non 
altrimenti, ÀI -j a man i/ lato destro, divenne per l'Arabo il nome d'una 
regione meridionale (Jemen), mentre la Siria, che giace al Nord dell'Arabia, 
è detta Àl-i£m, cioò lato sinistro, quindi plaga settentrionale*'). 

È noto che la catena del Yindja corre attraverso la penisola indiana, 
nella direzione da ponente a levante; e quantunque, a gran distanza dalla 
costa orientale, vada digradando e confondendosi colla pianura, suolsi tutta- 
via riguardarne quasi bipartita l'India, nominandosi Indostan (dal persiano 
Àindnisiàn, India) la regione al Nord del Vind]a, e Dekhan (Decan) 
quella che si estende al Sud del medesimo, nella quale sappiamo, dalla n. 
&• , compresa la terra anticamente detta dei Videro* a. Ora Naia si trova in 
sulla giogaja**) che, parallela al Vindja propriamente detto, confina al mez- 
zodì la valle della Naro» a dà (Nerbudda). Dobbiamo immaginarcelo nel 

*) Così in ebraico: &3ft qerfem (quel eh' è datanti), oriente; TO jami:n 
(destra)) plaga meridionale; wBìp s è mò\ (sinistra), plaga settentrio- 
nale. ' 

**) Oggi chiamata Salperà, v. Lassen, Ind. Alt. 1,575, e nell'epopea 
rciavat, v. più avanti. Ma il nome generale per tutto quel sistema 
di montagne risulta esser stato VincTja dalle indicazioni raccolte ib. 
n. 572-73, e dal nostro passo istesso. A torto, mi sembra, il L a s é e n 
che dapprima (I, 574-75) par sicuramente che ammettesse qui intesa 
per rcàavat la cinta meridionale del Vindja (Satpura), più tardi (II, 
525) ci vede quella parte del Vindja propriamente detto, che s'innal- 
za incontro ad Avanti, al Nord cioè della Narmadl. 
i4* 



220 NALA CANTO TX. 

ponto in coi quella si avanza maggiormente verso il Sud, e spinge il ramo 
nord-ovest della Tapi o Tapatt (Tapty) a confluire coli* altro, la vera 
Pajosnì, modernamente Puma*). Di là indica il re NaisacTa la via che 
alla patria contrada condurrebbe la sposa sua ; e, insistendo perchè questa ben 
la discerna, le dà a divedere il desiderio eh" essa senza di lui rimpatriasse, 
desiderio che non gli reggea V animo di manifestarle apertamente. 

44 A chi (dice Naia), venendo da Uggaj ini (~ Avanti) abbia varcato 
M il RcSa, si presentan qui le molte vie che vedi, per ascendere nel Decan. 
„ Alla inospitale catena del Vindja si collega il Rcia , 1' estrema giogaja a 
w cui siam riusciti. La PajoSnt, raccolti ambo i suoi rami, corre a' nostri 
„ piedi verso il mare. U braccio meridionale che scorgi venirne incontro 
44 all'altura sulla quale ci troviamo, e che ha il margine sparso d'eremitaggi, 
w è il fiume santo dei Re della tua patria ; ed è la via che mena ai Vidarfa, 
„ questa che si tiene alla sua ripa. L' altro braccio che scuopriamo al no- 
M atro sinistro fianco, n' ò il ramo settentrionale ; e la strada che lo costeg- 
l4 già ti condurrebbe verso i Cosala." 

Questa mi sembra la più naturale interpretazione del nostro passo. La 
PajoSnt ò fiume di celebrata santità nell'epopea brahmanica **)• H paese dei 
Cosala, cui Naia accenna, è nel versante meridionale del Vindja, e non va 
confuso colPaltro d'ugual nome, capitale Ajodji, sito nell'Indostan (n. 0*.)- 
B opp riferendo samaticramja a p a n t i n a s , lo traduce transgrediente$ y 
e Las seti nelle Imtitut. pracrit. (app. p. 15), forse colla medesima intenzione: 
lraiicentes\ ma, quest'ultimo parmi aver colto nel segno, rendendolo néiVArcheo- 
logia (I, 574, 3) per : dopo che si è varcato (nachdem man uberschritteh). 
È noto che la proposizione secondaria, inserita mediante le forme verbali in 
tvà e ja, può anco avere un soggetto proprio, diverso da quello della pro- 
posizione principale***). 



*) 91 e ter ripete la supposizione di Wilson, accolta dal Lassen ib. 1.83, 
* 175, che la PajoSnt sia la moderna Pajin Ganga, fiume tributario 
della Vara di (Wurda)\ ma il Lassen stesso ha con sodi motivi re- 
spinto quella ipotesi, ib. 572-73. n. , 576 (n. 3), identificando la 
Tapty (e particolarmente il ramo meridionale, la Puma) alla Pajoinf, 
e trovando piuttosto verisimile che la Prave pi del Mahiftarata sia la 
odierna Pajin Ganga. 

**) V. Lassen, ib. 572-73; e la illustrazione seguente. 

***) V. Humboldt, Ind. BibL I, 462. 



i 



ILLUSTRAZIONI. l'i I 

II La$$en però (op. ulk cit. ib. 575. n.) vuol vedere qni indicate 
quattro vie per calare nel Decan, la prima delle quali, del Nora\ da Avanti 
per il Rcàa. Senonchè mi sembra evidente, e risulta pure dalla versione or' 
ora lodata di questo chiaro indianista, che Naia voglia dire, come tutte le 
differenti vie da là partenti conducano al Decan chi abbia valicato il Vindja per il 
sentiero che vien da Avanti; tutte le altre riescono quindi una continuazione, 
per così dire, di quello. Stima il Lassen una seconda strada (per l'Ovest) 
quella della Pajoèni, una terza (per il Sud) quella de' Vidarfia, e trova la 
quarta, per l' Est, quella che mena ai Cosala. In questa dichiarazione mi par 
vi sia dello stento. Naia, accennato a Damajanlì, come, tutte le varie vie che 
di là si diramavano, tendessero al Decan, si ferma, com'è naturale, ad additare 
quella verso i Vidarfta (sud-est), porgendone alla moglie gì' indizj; e solo 
avvertendola di non porsi con facile errore nell'altra, che, dal confluente dei 
due rami della Topty, si dipartiva verso il nord-est*). 

Reda {jotso, o Rcàavat dotato d'orsi) è il nome d'un' importante se- 
zione, meridionale del sistema del Vindja. Il Bopp ritiene, e nelle note (ed. 
1832, p. 215) o nel glossario (1847), che Avanti sia altro nome di 
monte, e molto si compiace di compararvi ripetutamente VAt>entinum dei Ro- 
mani. Ha temo il grande sanscritista siasi ingannalo, sedotto probabilmente 
da tale confronto, che la omofonia venne a suggerirgli. U testo ha parva- 
tam montem, al singolare, che si riferisce a rcsavantam; nò altrove 
rinvengo Avanti per nome di alcun monte. È bensì uno dei nomi di Ugga- 
jinì (la odierna Oojein, Ujein\ 'Of 17*17), città principale nel paese di Mala- 
y a (i/a/tra), anticamente residenza di monarchi illustri, e sita appunto al Sud 
dell' Indostan, e quindi al Nord e non a gran distanza del Vindja**). 

SO. Il Rrfthmana, dopo aver compiuti i sacri studj qual brahmaéàrin, 
esser vissuto qual g r h a s l a tra i padri di famiglia, deve recarsi ad abitar 
nella foresta, divenendo vànaprasfa vXópiog, per poscia, di regola, pas- 
sare al quarto stato (Manu VI. 33), all'ascetismo puro, durante il quale è 

*) Si badi anche allo sloca 32.° di questo Canto. 

**) Pure un fiume nella regione medesima Odetto Avanti; Wilson^ Vià- 
nupurt p. 185; Lasaet» nomina innoltre gli Avantja (Ind. Alt. I, 
574, n. 2; 680, n.), popolo di quella contrada; ma reputo sia da 
leggersi Àvantja. 



231 NAIA CANTO IX. 

detto sannjàsin, il renunziante, dall'abbandono d'ogni mondano affetto, o 
Bicèu, mendicante, dal viver d'elemosina che gli ò imposto. Questi varj 
stadj son chiamati àsrama (ib. 34), denominazione che è però principal- 
mente propria, come nel passo che illustriamo, agli eremi in cui ad austere 
pratiche si danno i vfinaprasfa. Siffatti romitaggi ci si presentano ne' tempi 
più antichi infra i pericoli di vergini foreste, poscia in selve di soggiorno 
lieto, tranquillo *) ; e di frequente in vicinanza a fiumi sacri, come nel caso 
attualo in riva alla santa PajoSnì, tl le acque della quale son saluberrime e 
tergenti le peccata", ed il cui Urta, luogo di sacre abluzioni, va celebra- 
tissimo nell'antichità indiana. — „ Della Gaumatl **) alla sponda celebrata, dice 
il Brahmapurftna parlando dell' eremo di Cancju , che è solitaria e dolcemente 
rapisce l'animo, abondante di frutta, di radici alimentari, di fomiti, di fiori, 
di sacr' erbe e d'acque, popolata d' anitre di più specie (càrandava, 
hansa) e di gru, di testuggini, di pelicani (madgu, pelecanus graculus) 
e d'altri animali acquatici, - colà era sito T eremo di Candu, pieno di ar- 
busti, di alberi varj e di mandre di damme d'ogni specie; ivi quest'anaco- 
reta esercitava la penitenza sua, immensa, miracolosa, con voti e digiuni e 
astinenze acconciamente accompagnate da lavacri o da silenzio ; nella sta- 
gione estiva al fuoco del sole altri quattro aggiungendone, nella piovosa 
giacendo tra l'acqua, e nel verno coperto d'umide vesti, perpetuamente l'ana- 
coreta perseverava nella sua macerazione." 

Segue, come al solito, V apprensione suscitata ne' Celesti da tanta san- 
tità, e l'invio d'una ninfa a tentar l'anacoreta. 

97. si. 19.a. naiia(fàs, in luogo del solito niéacTàs, per ragione 
metrica. 

él 24. a. samlhita divolo, dedito, colf accusativo della persona cui è ri- 
volta la sollecitudine; come anuvrata, II. 27; e a nu racla, X. 11. 
él. 24.6. Baimìm uddisja Barata, verso la B'aimt, o B' arata. Bopp: 
...... inter monstrandum, Bhdrate, e : Stima' s Tochter zurechtweisend. Ma il 

gerundio uddisja, che può avere il senso proprio di avendo mirato (tendendo), 
venne ad essere osato quasi preposizione: verso, contro t)> come si scorga 

•) y. Lassen, Ind. Alt. I, 581-84. 

**) La Goometie (Gumti) delle carte inglesi; sbocca nel Gange a breve di- 
stanza da Benares, l'antica Viri nasi, f) Cfr. il nostro : in riguardo. 



ILLUSTRAZTOiq. aa5 

dogli esempj che il Westergaard raccolse, Radices, p. 267, b. Il no- 
stro passo andrebbe tradotto secondo questo chiaro indianista : rottone habita 
fi'oùnùr*, avuto riguardo alla B'aiml; cioè: mirando a lei\ e parimenti 
Begli esempj 1D cmWestergaard tradurrebbe uddiéja per propter, come 
£alam uddiéja, per il premio, mirando alla ricompensa; o per 
versus: uttaràn diéam uddiéja prèsti tum upaéacrame, *' •»- 
camminò verso la (mirando alla) regione settentrionale ; o finalmente per 
contro: tam uddiéja tena lagucja: pracsipta:, contro di lui 
(mirando a lui) fu lanciato da questo il bastone. — Bopp nel Glossario 
(dove ancora sostiene : u d d i é monstrare, Naia, 9. *4), ben traduce per % i c- 
len , prender la mir^V uà di è deirultimo esempio (H i t . ed. Bonn, 23, 12). 
si. 29. a. B i s a g à m m a t a m , stimato dai medici ; letteralm. dei medici. 
si. 30. b. mitra (0 mi tira) amico, è nome neutro. Bopp che riguarda nel 
glossario unicamente per sostantivo questo vocabolo, citandone il nostro esem- 
pio*), traduce amicum medicamentum ; quindi pare supponga che mittra 
aia qui apposizione di B e à a g a m medicamentum : „Non v'ha uguale alla mo- 
glie un medicamento (che sia) amico dell'afflitto." — Bòhtlingk all'incon- 
tro vuol che Aeéaga sia apposizione di mittra (Crest. p. 285); quindi: 
^ Non v'ha alla moglie uguale un amico (che sia) medicamento dell'afflitto".— 
lo riguardai mitram e Beéa£am indipendenti l'uno dall'altro, e il 51 r- 
jisamam in reiasione con ambo. La mancanza della congiunzione é a , che 
taluno potrebbe opporre a simile interpretazione, ò in altri luoghi ben più 
sensibile. P. es.: V. 30: devair mahariiBis. 

SS* Cosi si esprime Bòhtlingk (Crest. p. 286) intorno agli éloca 33-34 
*iel nostro canto : tt Io intendo queste due strofe nel modo che segue : Veggio, 
^ principe (che mi vuoi abbandonare), ma tu non dèi abbandonarmi (nò mi 
^ abbandonerai) ; però in un'alienazione della tua mente potresti abbandonarmi. 
^ k (Questa io temo) giacché ripetutamente mi additi la via. - Difficile a spie- 
«>< garsi è pure l'ablativo presso nimitta; si legga, col Bopp e coll'edi- 
«« rione calcuttense, ato nimittam diviso. 1 ' 

1 due tu dello éloca 33.°, e il hi del 34.°, appajono nel loro valore 

"*) Benfey però, nei glossarj al Samaveda ed alla Crestomazia, ammette 
mitra aggettivo. 



224 N ALA CANTO IX. 

fondamentale in questa interpretazione del valentissimo sanscritista. Io preferii 
però di rivendicare alFarh del nostro passo il senso di potere (a r ha si 
Iti puoi, pari a ti è possibile non a li è lecito), che in altri esempj incon- 
testabilmente glie proprio; e di reputare, dichiaratilo il primo tu (davvero, 
veramente, propriamente'), più continuativo che altro il secondo, ed oppo- 
sitivo il hi; ottenendo di questa guisa una facile e non interrotta prosecu- 
zione dello stupendo dialogo*) 

•) V. Benfey, GIoss. alla Crest. s.t. tu e hi. Cfr. per differenti usi di tu 
(oltre il valore avversativo e il frequentissimo continuativo) : II. 2 ; 
[VII. 10]; XXII. 13; XXIII. 5. 7. - Dunque: „E bene io comprendo, 
„ o re; a te proprio non è possibile abbandonarmi; e converrebbe ti 



X. 

Jafà ràgjan tava pitus tafft marna na sanéaja: * 

na tu tatra gamisjàmi viSamasfa: cataiiéana «Iti 

cafan samrdtfo gatvà 'han lava harèavivarJana: s 

paricjuto gamiéjami tava éócavivartfana: «2* 



iti bruvan nalo rfi 
éàntvajàmàsa caljàntn 



puna: puna: s 
vftsaso "rJena sanvrtàm *3* 



t&v ecavastrasanvttàv 
càutpipàsàpariàràntau 



dtamdnàv itas tata: s 
safiàn 9 9 càBéid upejatu: o4tf 



tàn safiàm upasampràpja tadà sa niSadMipa: s 

vaidarBjà sahito ràgft nigasàda mahltale «5f» 

sa vai vivastro vicato malina: pànéuguiifita: s 

damajantjà saha órànta: susvàpa darapitale f»6* 



damajantj api caljàQÌ nidrajà 'pahrtà tata: s 
sahasà du:òam àsàdja sucumàrl tapasvinl «7* 



ILLUSTRAZIONI. Il5 

Quanto alTatonimittam, il pentimento del B òhtlingh non mi par 
giusto. Il costrutto ato nimittam non è convalidato da verun altro esempio; 
mentre atas, uno di qnegli avverbj pronominali che la lingua sente quali 
ablativi, può ben stare al principio <F un composto nelP attinenza che vi si 
rinvengono alcuni veri ablativi (asmat, m a t , t v a t , y. I, 20) o neutri 
pronominali (e t a t , j a t , t a t). Perciò reputo atonimittam pari, p. e., air 
etaonimittan (= etadartam) del pracrito di éacuntalft, ed. Bóh- 
ttingk 48, 16 (Chéty 76, 9). 

lk fosse tolta la mente perchè ti disponessi ad abbandonarmi; ma di 
t4 frequente ecc. " 



Canto decimo* 

"Siccome è del tuo genitor quel regno (il dubbio è illecito) 

r> mio fora; ma giammai ne andrò stretto colà in angustie; 1. 

„ queir io che giunsi grande gii, fattore del tuo gaudio, 

„ come v* andrei tapin così, faltor di tua mestizia? „ 2. 

Tai sensi a Damajantt il re spiegando di continovo, 

la donna illustre tranquillò, che in mezza veste avvolgesi; 3. 

e quinci e quindi neir errar, d'un manto ambo cuoprendòsi, 

in una casa s'abbatter, per fame e sete languidi; 4. 

ei, de' Nisada il regnator, s'addentra in tal tugurio, 

e con la B'aimì egli eh' è il re, sul nudo suolo adagiasi; 5. 

e ignudo e senza strati aver, brutto di fango e polvere, 

con Damajantt si assopì lasso in la terra ruvida; * 6. 

aHor la B'aimì illustre fa colta da sonno sùbito, 

dessa che aveva attinto il duol, dessa divota e tenero. 7. 



a?6 fULA 

suptàjàn damajantjàn tu nalo ràgà visàm paté « 

éoconmafitaéitUHmà ° ° na sma Sete jatà pura a8» 

sa tad ràgjàpabaranan suhrttjàgaB éa sarvaéa: ♦ 

vane éa tam paridVonspm precsja éinlàm upejivàn " »9* 

cin nu me sjàd idan crtvà citi nu me sjàd acurvata: ♦ 

cin nu me maranan éreja: paritjàgo ganasja va tflO» 

màm ijan hj anuractai 'va dutéam flpnoti matcrte s 

madvihìnà tv ijan gaécet cadàéit svaganam prati tflltf 

maji nksandajan dir.cam ijam pràpsjatj anuvratà » 

utsarge sanéaja: sjàt tu vindetft "pi suèan cvaéit «12» 

sa viniééitja bahudà viéàrja éa puna: pana: s 
utsargam manjate érejo damajantjà naràdìpa: «13# 

na éai 'àà tegasà éacjà ° 9 caiééid dforàajitum pati * 

jaéasvinl mahàBàgà madBacte 'jam pativralà «14» 

evan tasja tadà buddìr damajantjàn njavartata s 
calinà du§}afiàvena damajantjà visargane «15* 

so "vastratàni àtmanaé éa tasjàé éà 'pj ecavastratàm t 
éintajitvà 'rfjagàd ràgà vastràrcfasjà 'vacartanam «16» 

cafan vaso vicartejan na éa bucTjeta me prijà » 
vi&ntjai 'van nalo ràgà saBàm parjaéarat tadà «17* 

paridftvann afa naia itaé ée 'taé éa Barata ♦ 
àsasàda saBoddeée vicoéan òadgam uttamam «18* 

iena 'rdbù vàsasaé Sittvà nivasja éa parantapa: » 9 
dhptàm utsrgja vaidarBlm pràdravad gatacetana: h19h 



CAUTO X. 9*7 

Dormirà Damajtntì ancor, ma il rega Naia, o principe, 

in sonno non giacerà più, scosso da affanni l'anima; • 8. 

d'ogni suo fido all'abbandon pensando, al folto imperio, 

e della selva al triste error ", venne così a riflettere : 9. 

"che mai se questo io fo ufawieq, che se noi faccio avvienemi? 

„ fora miglior la morte a me o l'abbandon degli nomini? 10. 

„ nel dnol s'immerge a mia eagion la donna che m' è dedita, 

„ ma s'io F abbandonassi, un dì recar da' suoi potriasi; 11. 

„ a me vicina, eerto dnol dee la mia fida attingere, 

„ certo s'io parto ai non sarà, — trovar può altrove giubilo. „ 12. 

E dopo molto ponderar, lungo restarsi ambiguo, 

migliore l'abbaadon stimò di Damajantt il principe: 13. 

a tale ha fulgor che niun potrà " per via colei che adorami 

„ violar, la sposa sl'fedel, sì grande e in sorte e in gloriai,, 14. 

Così circa alla B'aimt alfin Io suo pensier volgeva*?, 

lei derelitta ivi a lasciar, spinto da Cali perfido; 15. 

badando poi che ignudo ei va e ch'essa ha una sol tunica, 

risolse per metade il Sir quell'abito dividere. 16. 

"Sensa che destisi il mio ben oom'ho la veste a scindere ?„ 

Naia pensava e al casolar davasi intorno a scorrere; 17. 

e quinci e quindi Naia re vagando, ottimo, o B'trata, 

sema vagina rinveni un brando appo il tugurio; 18. 

con questo, al manto la .metà l'eroe motto, e indossatala, 
lasciò la B'aimt qui dormir, fuggi colto da insania; 19. 

i5 



3*8 KALA 

tato nivrttabrdaja: punar àgamja tfiù saBàra ♦ 
dataajanttn tadfi dpHv* ruroda niàadMipa: «20» 

jfla na vàjur na éfl 'ditja: pura paéjati"me prijàm s 
Se 'jam adja saBàmacTje Me Bùmàv an&tavat *21* 

ijan vastrfivacartena sanvltà éàrubàsin! s 

unmatte 'va varàrohà cafam budcfvà Ba vinati «22* 

cafàm ecà satt Baimi majà virehità éuBà s 
óariSjati vane gore mrgavjàlanigevite »23« 

àditjà vagavo rudrà aévinau samarudgaijtau % 
racgantu tvfim mahfiBftge (formella 'si aamàvrli «24« 

evam uctvà prijàm Bàrjàù rùpeiià 'pratimàm Bovi t 
calinà 'pahrtagBano sala: prfitiàfad udjata: • • «25» 

gatvà gatvà nalo ràgà panar eti saBàm muhu: ♦ 
AcrSjamtoa: calinà sauhrdenà 'vaccate «26* 

dvidfe 'va hrdajan tasja du:èitasjà Tfavat tadà i 
dolo 'va muhur àjàti jàti 6ai 'va saBfim pcati «270 

avaq-Stas tu calinà mohita: pràdravan naia: • 

gnptàm utsréja tàm Bàrjàn vilapja caniQam babà «28* 

naS{àtmà calinà sprgfas tat tad vigaQajan nrpa: \ 
gagàmai 'càft vane óùnje Bàrjàm utsréja du:6ita: i29# 

• iti nalopàéjàne daéama: saiga: §10# 



CAUTO X* 39Q* 

ma poscia ecco, pentito il cuor, ver la capanna riedere 

il re Naiéade, e ivi mirar la S'aiuti e dare in lacrime: 20. 

* ramata mia cui '1 Sol veder pria non polca né l'Aere, 

p al suol, qnal chi tutor non ha, è stesa in un tugurio; 21. 

„ cuopre di veste un brano sol lei, eh' è dal riso amabile, 

„ la bella appar demente già, e qual fia allor che destisi? 22. 

„ oh derelitta s'è da me, sola la B'aimt fulgida, 

„ per selve orrende come andrà, cui fiere e draghi invadono? 23. 

„ gli Àditja e i Vaan e i Rudra e ancor tutti i Marat coi Gemini 20 °, 
„ te cui ricuopre la virtù donna preclara guardino ! „ 24. 

Cosi all'amata che in beltà ogni altra in terra supera, 

quei che di senno Cali orbò disse e involossi rapido; 25. 

ma ognor ritorna al casolar, , Naia per quanto partane, 

se Cali trar da quinci il può, sa affetto ricondnrvelo. 29. 

è bipartito all'egro il cuor; reso simile a un pendolo 

ver la capanna spesso il pie move e di là rimo velo; 27. 

ma Cali lo trascina alita, demente Naia involasi, 

la sposa in sonno lascia e dà in alto lagno e querulo; 28. 

da Cali tòcco e in preda a un sol pensiero, e affranta l'anima, 

parti e nel bosco ermo lasciò sola la sposa il misero *•*. 23: 



a3o HALA CANTO X. 

NOTE AL DECIMO CÀNtO. 



éL 4. sani. Questo vocabolo, che rinvienti anco ne' Veda, è tradotto 
dal Benfey, nel gloss. al Sima veda, per radunatila, e nella versione (I, 
3, 2, 4, 5) persola; nel glossario alla Crestomazìa: casa, palano, adu- 
nanza, corte*). Bopp nella versione tedesca: Waldhùlte (tugurio selvarec- 
cio), nella latina: casa. Lo scoliaste presso Bopp dichiara sani per grha, 
che vai domus. — Sarebbe mai da supporsi qui intesa un'abbandonata sta- 
zione di carovane? Tale significato concilierebbe, per cosi dire, i differenti 
valori assegnati dai glossarj a questo vocabolo**). 

éL 8. éoca-unmafita-éitta-à'tmà' (fttman); Bopp: M ~.,ita ut compo- 
situm nostrum proprie significai: moettiUà quatti animi naturam habens." 
él. 9. a. sarvaéas, v. n. Ol* — 

él. 9. b. vane p a ri «Tv a n sa (m) è tradotto '.della scita il triste error. Bopp 
nel glossario: pari <fv ansa, ì)actio dilabéndi,ruùuL Hit. 68,20. 2) actio 
circumerrandi, circumcurrendi, citando questo passo. Bóhtlingk (Crestom. 
p. 286), forse a ragione, vuol qui pure conservato il senso di ruina\ che 
unicamente par consentaneo al significato del radicale «Tvans con pari. 
Nel Nai&aptpcac. però, II. 14, «Tvans ò fra i verbi che esprimono 
V andare (gaticarmftna:). 

éL 14. H passivo di éac potete, e specialmente al participio futuro, spesso si 
rinviene cosi adoperato coirinfinito ; in maniera che se ne ha come se p. es. 
nel nostro passo dicesse : non (è)da-essere-potuta-tiolare per: non può es* 
ser-tiolala. Il passivo dell' infinito manca all' indiano antico. 
éL 19. a. Ni-vas vai dunque vestire (ipduere) anco seni' essere al causa- 
tivo. — Parantapa, qui hostem urit ; nella ediz. berolinense e nella pe- 
tropolitana è messo al nominativo, riferendosi perciò a Naia; Bopp per isvista 
ha nella trad. lat. il vocativo, come se quest'aggettivo spettasse a Judié&ra; 
nella tedesca ha rettamente : „und entzog' t, Er, der Feinde Sckreck." 

*) v. Hit op ad. ed. Bonn, proam y p. 7, dist37, e lin. 1 2 (a du nanza). Cam" 
ment. p. 12 : aula. 

**) Damajantt s'abbatte hi una carovana, C. XII, XIII. - Circa i provvedimenti 
per gli agi dei viaggiatori nell'India antica, v. Latten, Ind. Alt A, 
527. - Naia trova un'ottima spada colà dimenticata (él. 18). 



ILLUSTRAZIONI. l3l 

al 21. La lingua, coante una volta le sue forme, le adopera infinitamente 
spesso senza necessiti, solo per amor <P analogia. In cidi «omini il plurale 
▼al pns, ed è utile ; in vidi tre uomini è superfluo. Dal tempo più semplice, 
il presente, è utile farne uno cbe indichi il passato, quando vogliasi, p. es., 
con brevità e precisione enunciare: mangiai due mele; ma^ee dirò jeri 
mangiai due mele avrò una vaga indicazione del passato, superflua. Il san- 
scrito rifiuta talvolta queste superfluità, e, in frasi simili a quella dello éloca 
nostro, viene a dire: in passato non vede (na puri pasjati) dove noi so- 
gliamo dire: in passato non cadeva, non vide*). 

èl 25.6. udjata. Bopp: festinans, senza addurre altri esempj. Dalla eti- 
mologia parrebbe piuttosto: incitato, risoluto. 



k Gli Àditja e i Vara e iRudra e ancor tutti i Marat coi Gemini *\- 
I. Àditja, che vale anco sole(y.é\. 21), è il nome comune a dodici divi- 
nità solari (tra le quali si enumerano Indra,Viinu, Veruna), che reggono, 
un per ciascuna, i dodici mesi deiranno. Gli Àditja traggono il nome dalla 
madre Aditi, la quale, sempre secondo la mitologia epica, è moglie di 
Casjapa (sorella di Diti, v. n. SO. II.)? genitrice degli Dei, quindi delle 
trentatre divinità che spesso soglionsi nominare e che tutte occorrono nel 
nostro passo; i dodici Àditja cioè, otto Va su, undici Rudra, e i due 
gemelli, gli Asvin, che mi permisi di chiamar Gemini nella versione me- 
trica e che ci son noti dalla illustrazione SS* — Aggiungerò a quanto iti 
ne diasi, che un di loro si chiama nlsatja, l'altro da ara, e che l'uno o 
l'altro di questi nomi è adoperato nel duale a indicarli ambidue **). — I Va su 
non genj propizj della luce e dell'aria; i Rudra, genj delle tempeste. Nel 
libro terzo di Manu, al ter»* ultimo éloca, è detto, parlandosi dei Mani, che 
la rivelazione (il Veda, v. II, 10) insegna esser chiamati i padri Va su, gli 
avi Rudra, e i padri degli avi Àditja. 

Restano i Mar ut, genj del Vento; e tento indica il loro nome. Nel 
Itàmàjana I, xlvit, è descritta l'origine di sette Mar ut, sórti dal feto di Diti, 



*) Egualmente in ebraico dopo di un preterito si può usare V infinito, senza 
ripetere la* indicazione del tempo; p. es. «^ rm:i *rn* r:cb WD*! ( Geo « 
XLI. 43). 'Prof! S. D. Luìtatto. 

*f) Di una diversa genealogia degli Aévin v. Loiseleur-Deslongs- 
champs, Amarao.; ed altrove. 



23? KÀLÀ CANTO X. 

scisso da ladra (y. n. *©• II; e 09*); ma dappoi ne annoverarono qua- 
rantanovo. Qui è detto ifgli Aévin colle schiere di Marut ; altrove, questi aitimi 
o sodo indipendentemente nominati, o sembrano subordinali ad altre divinità, 
nello stesso modo ohe qui agli Asvin, o appariscono quasi al séguito dei 
Celesti tutti. Ma il Peva cui son destinati a far corteggio ò particolarmente 
Indra, che sappiamo (p. 77) chiamarsi il Marutvat, dotato di Marut*). 

L'almo Nume, nello squarcio panteistico della B'agavsdgltà già altre 
fiate citato, è: t4 fra gli Àditja, Vi&nu; fra i Vasu, Pivaca (ilfuoco); 
fra i Rudra, Siva; fra i Marut, Marléi." — Siva è il Rudra 

IL Ne' Veda, aditi la infinità, la Mimitatex>%a, la eternila personifi- 
cata, procrea i sette Àditja, grimmortali, tra cui son precipui Va runa, 
Mitra e Arjaman. — Vasu buono (qual sostantivo si ne' Veda che 
nel sanscrito classico: bene, ricchezza) e rudra**) vi sono ancora attri- 
buti comuni a varie divinità ; vi si vengono però personificando, e t u d r a ò 
il Dio delle procelle, il generatore dei venti, cioè dei Marut ***), Dio terribile 
che più tardi s'immedesimò con, Siva. 1 Marut, accompagnano ladra anche ne' 
Veda, e validamente lo soccorrono. I Vasu, i Rudra e, gli Àditja son 
nominati, in sembiante epico, nel Rgveda I, 3, 31, 1 (-Sàmav.1, 1, 2,5, 6)u. 

*) ftditjdn vasùn rudrin aévinau marutas tata, B'agavadg. XL 
6. — Varunit samarudganilt, Àrgunasamlg. IV, 29; è Indro 
che parla. - Vasùn rudràn sftdjifióéa samarudganln; ib. 53. 
Ssdja è il nome di dodici genj, i quali, del pari ohe i Vasu (sitfja:, 
v ss a va;) rinvengonsi nel Nai&aof. fra i sinonimi di raggio (ras-* 
mindmàni). — Devi: serve saha marudganai:, R&mij. I. 
xlix, fi ; qui i Deva sono inviati da Indra che sen rimane indietro. — 
. MaRImlj.ì, Lxin, a8: marudganavrta: prafiu: il signore cinto dalla 
schiera dei Marut, detto d'indra. 

**) Vedendo rudra nel Nai&apf. fra ì sinonimi di stotr (cantore d'inni), 
. Benfey nel gloss. al Simav. immaginava che tal nome, derivato da r u d 
(fiere), valesse lamentante, implorante, pregante. Ma , tra i nomi del 
sacerdote (rtvifinftmftni, Naife. Ili, 18), v'ha similmente marut. Nel 
Gloss. alla Crestom. suppone all' incontro : i4 da r u d nel senso di rug- 
gire". — Roth, Niructa ad X. 8, traduce rudra per spaventevole. 

•**) rudrasja marjfc, Benfey Chrest. 290,2; cfr. Lassen^ Ind. 
Alt. I, 763. Rudra al pi. valse anco Marut: v. Kuhn Zeitschr. 
fuer vgl. Sprachf. IV, 102-16, che discorre della identità primitiva 
de' Rudra e de' Marut, e della loro orìgine umana. Cfr. il passo 
di Manu che allegai nella pag. antecedente* 



i 



ILLUSTRAZIONI. ?33 

ltal* Rapidamente toccai nella nota SO, del inerito poetico della nostra 
jiarrazione, in sino al punto in cui Damajantt prega i Deva, per k Verità, 
che a lei ai manifestino. Nei canti successivi, le bellezze, non che scemare, 
annientarono. I disperati tentativi di Damajantt per istrappare Naia dal giuo- 
co; il furor aXeae di Naia posseduto dal demona; lo scherno gettato da 
Pulcara al vinto e il nobile silenzio del corrucciato Naia, in cui X affetto per 
Damajantt riesce finalmente a render vano per allora ogni sforzo del de- 
mone; la cupa mestizia del re che si vede involata l'ultima veste, e il di— 
Meato modo col quale egli addita alla sposa la via del ritorno, - sono tratti 
poetici di pregio non comune. Ma fra i più stupendi aaggi di poesia va posta, 
panni, la aecondà metà del nono canto; quel mirabile dialogo tra Naia che, 
lacerato dai rimorsi, stretto da Cali e dall'amore, vuole e disvuole, e Da- 
majantt, che, all'idea d'esser lasciata sola in mezzo ad orride selve, deplora 
unicamente i mali che a lui dall'abbandono avverrebbero. A tale confronto 
non impallidisce tuttavia il decimo canto, che pia vivamente ancora ci dipin- 
ge P interna lotta, tra l'affetto che Naia nutre per la consorte, e la irresistibile 
potenza dello spirito che lo invade. Nò all' undecimo potremo dire che h 
ispirazione del poeta siasi rallentata. 



«34 



DIRKZIONI RITUALI 

PRATICATE NELL'ANTICHITÀ ORIENTALE ED EUROPEA. 

DI 

€*• Rota» 



t 



accordato che per inoltrarsi Hello scoperte sulla sto- 
ria antica dei popoli, bisogna investigare ogni elemento di 
loro vita, ogni reliquia della loro civiltà, bisogna confrontare 
lutti i fatli riconoscibili, perchè talvolta una circostanza che 
a primo tratto sembra indifferente e che fu trascurata, lori-* 
duce a conclusioni importanti. Più si penetra nella storia e 
più si palesa cho nei fatti umani nulla è a caso, che tutto 
ha una ragione storica e fisiologica di essere, e che vi è 
sempre correlazione fra i fatti e le idee. 

Uno dei fatti costanti nella storia dei popoli antichi, e 
che non sembra considerato complessivamente quanto merita, 
ò il costume universale di tenere alcune determinate dire- 
zioni cardinali nei riti e nell' esercizio d' ogni cosa solenne 
e sacra. 

La tradizione antica che la prima sede degli Dei sia 
stata la terra, che i primi popoli vedessero faccia a faccia 
la Divinità, cho conversassero e commerciassero per mille 
modi cogli Dei, adombra non solo i fenomeni della gene- 
razione del mondo, ma eziandio le origini umane di alcune 
mitologie, e specialmente quella mistura di Terra e Cielo 
che è tanto maggiore quanto più è nuova la civiltà. Perchè 
i primi uomini usando più 1' immaginazione che il calcolo, 
videro in ogni moto, ed in ogni fenomeno, non leggi ma- 
teriali, ma influssi divini; quindi scorsero ovunque la pre- 
senza della Divinità, si trovarono in continuo contatto con 
quella, improntarono tutte le azioni pubbliche e private del 



DIRCZIÓNI RITUALI. l55 

carattere religioso, e confusero la Religione colla scienza, 
colla civiltà e coi costumi. 

Nulla più influisce sui fenomeni terrestri e sulla vita 
umana che il sole, quindi nel sole i primi uomini videro la più 
potente manifestazione della Divinità, e dagli aspetti del sole 
presero le mosse ad una quantità di operazioni sacre, e di riti. 

Osservando le posizioni del sole designarono i punti 
cardinali, punti sacri quindi e venerabili, ed osservandi in 
ogni posizione di cosa importante. Si è trovato che le pi- 
ramidi dell 9 Egitto, che sono i monumenti più antichi ancora 
conservati, hanno, del pari che quelle dei Toltechi nel Mes- 
sico, una perfetta orientazione ; e ciò confermò la tradizione 
della loro sacra destinazione, ed abbattè V ingegnosa ipotesi 
di Pebsigny, che le prime fossero rizzate a frenare l'in- 
vasione delle sabbie del deserto. Nel 1851, si diseppellì nella 
Galizia dal letto del fiume Zbruez, presso il villaggio Linzko- 
wic, un rozzo simulacro di pietra alto sei piedi, di Svjatòvit 
dio degli Slavi, avente quattro faccio vòlte alle quattro plaghe 
del cielo, al modo di que' pilastri quadrati ora ritti nelle 
campagne di biada di alcune parti della Germania, e de 9 paesi 
"slavi, detti Gottesaugen (occhi di Dio). 

Anche nell'Indie dalla più alta antichità si determina- 
vano i punti cardinali e loro si attribuivano alcune virtù 
sacre. Leggesi nel codice di Manu: u Chi mangia vòlto al- 
u F oriente, prolunga la vita, guardando al mezzodì si ac- 
4ft quista gloria, volgendosi ad occidente si giunge alla felicità 
u (quindi le Isole fortunate neW Oceano occidentale), al set— 
t4 tentrione ottiensi la ricompensa della verità*." Il Novi- 
zio dei Bramini doveva fare le abluzioni vòlto al setten- 
trione ** , a quella plaga cui volgevansi pure i Germani 
antichi sacrificando ed orando***, ed alla quale guardavano 



*) Leggi di Manu, L.EL él. 52. 

**) Manu, IL 70; però ib. 61: u Chi sa la legge e brama purezza, ese- 
guisca tempre l'abluzione.... col viso a leyante o a aetten- 

trione." _ 

***) Grimm, MUhologie der Deutschen. Gottinga, 1M5. 
i5 # 



236 Diiroom mtuau 

pure gli Scandinavi quando consultavano i morti*, perchè 
stimavano che il regno della vita fosse al mezzodì, quello della 
morte air aquilone. 

Gli Etruschi, i Druidi, i Romani antichi, e pare anche 
i Fenici, tenevano per plaga più sacra il mezzodì, ed a quello 
si volgevano nelle azioni più solenni. Le Nuraghe di Sar- 
degna, che indubbiamente sono i più antichi monumenti rimasti 
in Europa, e che si attribuiscono generalmente ai Fenici, 
hanno una sola apertura vòlta a mezzodì, cui sono rivolti 
eziandio i templi etruschi. Cosi i sepolcri ciclopici che si 
trovano nella Svezia, hanno una piccola apertura verso mezzodì. 

Presso i Romani antichi interveniva l'augure alla li- 
mitazione del terreno palla costruzione degli edifici sacri, pella 
fondazione delle città, polla disposizione del campo militare, pella 
esplorazione dei vaticinj. Quest'augure primamente sul terreno 
sacro designava un quadrato, coi lati paralleli vòlti alle quattro 
plaghe del Cielo, tenendo il volto verso mezzodì, come fa- 
ceva il sacrificante. Quindi nel linguaggio latino la plaga me- 
ridiana lu appellata antica^ la settentrionale postica^ la orientale 
sinistra, destra V occidentale **. 

Numa volendo consultare gli Dei intorno la sua elezio- 
ne a Re di Roma, salì il Campidoglio allora detto Tarpejo, 
co" sacerdoti e cogli auguri, e quivi, postosi avanti gì' indo- 
vini, si voUe a mezzodì velalo***, I Druidi, ne 9 tremendi 
sacrifici umani per trarne gli auspici, uccidevano la vittima 
verso mezzodì**** 

Mentre, come abbiamo veduto , nella mitologia scandi- 
nava si faceano viaggiare le ombre de 9 morti verso il set- 
tentrione, nelle antiche credenze greche la sede de' defunti 
si pose air occidente , forse perchè il tramonto del sole ò 
immagine di quello della vita, o perchè nell'Egitto i se- 
polcri erano all'occidente, cioè al di là del Nilo, sul quale 

*) Monne, Gesckichte des Heidenthum im uòrdtichen Europa. 
**) Varrò, de lingua latina, L. VI. 

*••) Dione Cassio, L: IH. | 

•***> Str abone, L IV. 



MESSO GLI ANTICHI. I^j 

erano traghettati in barca, origine del mito di Caronte. Da 
questa credenza o tradizione stimiamo sia derivato il Costume 
di alcuni Ateniesi di seppellire i cadaveri vólti verso oc- 
cidente, come riferisce Plutarco*, e come tuttavia si sep- 
pelliscono li óeremissi, razza tartara sul Volga. Ha gli Ate- 
niesi, cosi come gli altri Greci, erano un misto di Varie razze 
originalmente diverse, ed aventi quindi varj riti e costumi. 
Perciò fra gli stessi Ateniesi, come fra i Megaresi, troviamo 
anche il rito orientale di seppellire i morti vólti a Levante. 

Gli Arabi prima di Maometto, quando in gran parte 
erano dati al magismo, orando si volgevano sempre al sole, 
quindi a mattina a Levante, a mezzodì ad Ostro, la sera ad 
Occidente. Così fanno ancora i Parsi a Bombay. 

Ma il rito seguito più universalmente dalle antiche na- 
zioni civili, è quello di volgersi ad Oriente nella celebrazione 
delle cose sacre, rito che pare diffuso particolarmente dalle 
popolazioni tra l'India e la Grecia, date al culto della natura, 
e segnatamente a quello della luce, del fuoco e del sole. 
Nel Rg*Vcda, il più antico libro conosciuto, è detto che è 
di buon augurio la voce degli uccelli, quando viene dal mezzodì, 
ovvero dalla destra del focolajo, donde appare che questo 
era vólto ad Oriente, e che le plaghe più venerande erano 
P oriente ed il mezzodì ; perciò, forse, nelle leggi di Manu, 
e nel Ràmàjaga, è proibito di volger la schiena al sole cacando, 
e lo stesso è ripetuto da Esiodo nel poema delle Giornate. 
Nella Siria, dice Tacito, è costume, salutare il sole levante**. 
La sfinge dell'Egitto, emblema della storia e del mistero, o 
secondo alcuni del re, era vòlta a Levante. Sui kurgant^ 
sepolcri dei Mongoli, nel mezzodì della Russia e nel Cau- 
caso, stanno rozze statue di morti, la faccia vòlta air Oriente. 
Così li vide anche Rubruquis, andato nel 1253 ambasciatore 
per Luigi IX al Can de' Tartari Mangu-Temiz; e Rusbto* 
scrisse che gli Indiani nel Messico settentrionale la mattina 
inginocchiati sui tetti piani delle loro case pregano colla faccia 

•*) Diogene Laerzio in Solotie. 
* # ) Taci io, Annali, L. 18. 



a38 direzioni rituali 

vòlta al sole levante. 1 guachi sepolcri de' Peruviani, di for- 
ma tra conica e piramidale, hanno l' ingresso a levante, come 
i teocalli del Messico, come il tempio della Mecca, e come 
lo aveva il tempio di Salomone. À levante si apriva il Par- 
tenone, cosi come tutti i tempj degli Ateniesi, che si cono- 
scono sino ad ora *. Le quali aperture si dovevano pra- 
ticare da quel lato onde poter mirare e venerare il sole 
levante, e riceverne gli influssi. E ciò era più squisitamente 
praticato nel tempio di Serapide presso Alessandria, dove 
s'apriva verso Oriente una piccola finestra per modo che, 
nel giorno stabilito per 1* introduzione del simulacro del sole 
a salutare quello di Serapide, un raggio di sole entrante per 
quella finestra colpisse la bocca di Serapide cosi, da parere un 
bacio del sole **. Nello stesso rito di Numa si legge in Livio 
(L 18) che T augure era seduto alla sinistra del re colla 
faccia ad Oriente, talché dexteras ad meridiani partem, lae- 
eas ad septentrionem esse dixif, onde asserì Servio che si- 
nistras parte* septentrionales esse augurwn disciplina con- 
sentii. Nella lingua ebraica, sanscrita, irlandese e gallese, quelle 
parole che indicano la destra denotano anche il mezzodì, quelle 
che significano la sinistra accennano anche al nord ***; e 
ciò prova luminosamente l'antico costume di quo' popoli di 
volgersi ritualmente all'Oriente **** 

Gli stessi latini, che nelle orientazioni de 1 terreni sacri 
prima tracciavano la linea dall' Occidente air Oriente, poscia, 
forse per prevalenza di idee orientali (di quelle che fecero 
mutare anche la direzione della scrittura, che prima andava da 
destra a sinistra, poscia si volse dalla sinistra alla destra), 
diressero le limitazioni da Oriente ad Occidente-}-. Fron- 

*) E. Q. Visconti, Sculptures du Parthenon et de VAcropole tfAthènes. 

**) Ru fino, Historia Ecclesiastico, L. 2. e. 23. 

***) Jacob Grimm, Geschichte der deutschen Sprache. Lipsia, 1848. 

V. 2. p. 981. 
****) V. la illustratone OS. al Naia (p. 219). G.I.A. 

-f) Secondimi antiqnam consuetudine»! limites in occidentem diriguntur; pos- 
' tea placai! omnem religionem convertere ex qua parte coeli terra illumi- 

natar. Sic et limites in orìentem constituontur. Hyginus. 



PRESSO GLI Afflici!!. ?5g 

tino attribuisce ngli Etruschi Y antico costume romano di 
volgersi per le cose sacre ali 9 Occidente, onde chiamarono 
destra la parte settentrionale, dexteram appellavere quae 
septentrioni subjacent, laonde Hygino riferì che gli antichi 
architetti volgevano i templi all'occidente. Per cui nel Lazio 
trovammo tre riti, quello al mezzodì, quello all'oriente, quello all' 
occidente, venuti forse da tre stirpi o da tre religioni diverse. 
I Cristiani seguendo le tradizioni orientali non solo, 
ma ripetendo il simbolismo evangelico, che presenta il Sal- 
vatore sotto T immagine del sole levante, adottarono univer- 
salmente il rito di volgersi ad Oriente, nel sacrificio della 
Messa; quindi all'Oriente perfettamente si trovano vòlte quasi 
tutte lo Chiese cristiane, cioè il coro e V altare maggiore, 
costruite prima del 1600. Un concilio del terzo secolo, nella 
collezione del Manzi, ordina di pregare a Dio colla faccia vòlta 
all'Oriente, perchè Gesù Cristo sali al Cielo verso Oriente. 
11 Marini dice avere trovato in un codice vaticano, scritto 
circa il secolo XI, un carme contro a 9 malanni che, come tutti 
gli antichi, dovea ripetersi tre volte, in cui era prescritto: 
et eerte faciem tuam contro orientem, et invoca sanctam 
Trinitatem desuper *. E nei canoni apostolici tratti dai co- 
dici caldaici, e pubblicati da Mai, si legge che i santi 
apostolici hanno stabilito: Orate tòlti aWOriente, perocché co- 
me la luce splende dall' 1 Oriente si vede fino air Occidente, 
così sarà la tenuta del figliuolo delV uomo ** ; ed al- 
l' Oriente si volgono tuttodì pregando i preti Nusarii, che 
sono eclettici per religione, ed abitano la Siria. Il Corano 
dopo aver detto che ogni popolo ba una plaga cui si volge 
pregando***, soggiunge, che la virtù -non consiste nel vol- 
gere il volto a Levante od a Ponente **** ; ma poi sta- 
bilisce che i credenti in Maometto debbano da ogni parte 

*) Marini, Monumenti de* Fratelli Arvali, p. 640. ' 

**) Scripiorum velerum Nota Collectio e vaticani* codicibus edita ab A n- 

gelo Maio. Romae, Typis vaticanis, 1825. T. X. Canones Apostolici. 

Ebedicos ex chaldaicis codicibus. 
***) C. 2. v. 143. 
****) C. 2. v. 172. 



240 DIREZIONI R1T0ALT 

volgere il viso alla plaga (Q ib la fon) dell' oratorio sacro, 
cioè verso la Mecca. 

La scrittura in origine era cosa sacra, perchè escita 
dalle scuole sacerdotali, perchè tenuta secreta da 9 sacerdoti, 
e perchè usala specialmente per dare lode alle Divinità e 
per perpetuare le gesta dei re. Quindi non è meraviglia se 
nello stenderla alcuni popoli, come opina l'Abate Lanci, 
seguissero gli aspetti del sole, ed il di lui andamento. Donde 
avveniva, che coloro i quali nel celebrare le cose sacre 
volgevansi al mezzodì, dovessero per tracciare il corso del 
sole condurre le linee dalla sinistra alla destra, come tutta* 
via si pratica nell' Europa, mentre quelli che miravano al 
Settentrione ed al Levante, dovessero scrivere andando dalla 
destra alla sinistra, come Ebrei, Fenici, Chinesi, per tracciare 
il corso diurno ed annuale del sole *. GF Indiani antichi ve* 
nerando lutti gli aspetti principali del sole, avevano fuochi 
sacri perpetui (Agni) vòlti al Levante, al Mezzodì ed air 
Occidente **. 

È probabile eziandio che alcuni antichi abbiano istin- 
tivamente tenuto costume simile a quello imposto da Mao- 
metto a 9 suoi fedeli di volgersi alla Mecca, da qualunque 
parte orassero. Perchè può essere facilmente avvenuto che 
le colonie staccate da una patria stabile e ricca, che lascia- 
vano al luogo natio santuarj veneratissimi, ai quali, come a 
Delfo, seguivano per lunga serie di secoli a spedire offerte: 
orando e sacrificando si volgessero verso la plaga dov' era 
la madre patria. Perciò alcuni volgimenti sacri dei popoli 
ne potrebbero guidare a scoprire la direzione delle loro 
emigrazioni. 

I Greci antichi chiamarono cxcuà, (ombrosa) , tidpvpos 
(benedetta), àQiat^a (ottima), la mano sinistra. Come vedem- 
mo, fu generale e primitivo e naturale il costume di volgersi 
ad adorare il sole levante ; e le sedi degli Dei si posero al 

*) II corso diurno per i vólti al Nord, V annuale per i vólti a Levante guar- 
dando il sole dal solstizio d'inverno a quello d'estate. Lanci. 
•») V. l'illustrazione ao. al Mala (p. 105). CI A. 



PRESSO CU AWTICHT. ^4 1 

Settentrione dagl* Indi che ricordavano i sacrar] del Mera, 
dai Persiani che veneravano l'Elburs, dagli Armeni che ram- 
mentata no F Ararat, dai Greci e dagli Itali che ponevano 
gli Dei sull'Olimpo e sulle Alpi al Settentrione. Quindi gli 
auspici che venivano da quel lato si tennero ottimi dai La- 
tini; onde mentre Livio dice: Laevas ad septentrtonem, Ci- 
cerone afferma : Nobis sinistra eidentur meliora. E vi con- 
cordano Servio che scrisse: u Sinistras parles septentrio- 
nales esse disciplina augurum consentii, et ideo ex ipsa parte 
significantiora esse fulmina , quoniam alliora et viciniore do- 
micilio Jovis"; e Festo» aggiungendo : Sinistra meliora auspi- 
cio quam dextera esse existimantur. Greci ed Itali poi nelle 
migrazioni ad Occidente ebbero al settentrione non la sini- 
stra ma la destra, e però fu costume anche si degli uni che 
degli altri di volgersi pure air occaso, e si ne venne che 
pei Greci la destra diventasse fausta, infausta la sinistra: 
Orajis et barbaris dextra meliora (Cicerone, de dio. 2. 39); 
laonde G. Grimi conchiuse: u Ai Greci la plaga setten- 
trionale, poesia, diventò anche destra, *«£«£*". Perciò noi 
ancora diciamo cera sinistra, sguardo sinistro, per cera fo- 
sca, ombrosa ; sguardo torbido, infausto ; e gli Estonj chia- 
mano kurra, cattiva, la mano sinistra. 

La direzione verso l'occaso per cui vedemmo identifi- 
carsi il Nord e la dritta, è additata eziandio nella tradizione 
egiziana. Gli Egiziani, dice Plutarco, credono che l'Oriente sia 
il. volto del mondo, che quindi il lato boreale sia il destro, 

*) Geschickte der deutschen Sprache, p. 983. — Quando adunque i Greci 
si volgevano al levante, la sinistra era al nord, alla plaga delle tene- 
bre, (Jxid, onde si chiamò ffxaui, e fa fausta: àQWtsQa, evoiwpog. 
Quando nelle migrazioni guardarono all'occidente, diventò fausta la des- 
tra, infausta la sinistra, crxcuós ~ infausto. (Mi permetto di notare che 
tra ffxia e axcua non è ammissibile dna reiasione etimologica. Jlxicc— 
axoà-cxoià riviene al sansorito 8àjl, ombrai di <rx = 8, v. gliStuaj 
comparai, che seguono, li, $. IX. - JSxma all'incontro (crxcuFa) è — scaeva 
lai sinistra, = s a vji sscr., id. Gli auguri greci fi volgevano al nord (v. 
Porcellini, a. laevus); e di questa direzione, in cui riusciva alla 
destra la fausta plaga, cioè 1' oriente, mi sembra fare indubbia fede il 
vocabolo (Txauig, che vale sinistro e occidentale e infausto. G.LA.) 



?4? DIREZIONI RITUALI 

il meridionale il sinistro *. E ponendo il volto del mondo 
air Oriente, accennavano agli sguardi del sole, personifica- 
vano queir astro ed indicavano anche origini orientali , e 
movimenti di popolazione e di civiltà da oriente ad occi- 
dente, nel quale procedimento il settentrione resta alla dritta. 

Questi studj avendoci condotti a considerare V origine 
ed il significato di alcuni nomi dati alla mano sinistra , ne 
furono cagione eziandio di scoprire altre origini degne d'os- 
servazione d'altri nomi delle mani; origini che sino ad ora 
da nessuno furono chiarite. 

Quella mano che noi chiamiamo destra, dai latini si 
disse dextera, dai Greci <fc|wé; dai Tedeschi nomasi, rechte, 
dai Francesi droile*. 

Destra e Dextera, manifestamente derivano da degli e 
questa dal verbo déxopcu che significa accolgo, a/ferro; e per- 
ciò mano destra vale quanto la mano die piglia, che af- 
ferra, che palleggia. Eschilo la chiamò doglnaXtog palleggiatile 
Fasta, e ciò ha relazione sempre alle armi**. 

La destra italianamente si dice anche retta, ritta. Retta 
viene da reggere, e reggere da Rex, 1/ re, dalla quale 
radice derivano pure le redini. Dunque retta o ritta si- 
gnificano quella che regge, che governa; da recto venne la 
rechte tedesca, e derivandola diversamente sarebbesi potuta 
dire anche la reale. 

A quel modo che da ove e da entro, si fece dove 
e dentro, da ritta si fece dritta e diritta, dritto e diritto* 
Alla dritta italiana corrisponde la droite francese, parola che 

*) Plutarco,' de Iside 32. 

**) In sanscrito v'ha la radice da ci, che i lessici dichiarano: augerì, 
crescere, festinare, strenuum esse, ecc.; da cui ne' Veda : d a e s a s, fonai 
dacia, for%a, forte, e nell'epica: destro, nel senso di atto, abile, 
donde da esina, destro, e in siffatto senso e in quello di collocalo a 
dritta (quindi meridionale, v. p. 219), e benigno e probo. Dex-ler è 
un comparativo; il suffisso risponde al tsQO-g greco, t a r a - s sanscrito; 
t'ha pure il superlativo, cioè dex-timus = sscr. dacia -la ma -s. U 
comparativo dexterior appartiene ad un'epoca in cui la lingua non 
sentiva più il valore del t or, e vi appiccò una seconda nota compi- 
lativa. 6. LA* 



PRESSO GU ANTICHI. Q^3 

esprime anche il jus latino, che italianamente dicesi diritto. 
Quindi il diritto, che è una giusta competenza, etimologica- 
mente vale modo retto di essere*. 

La denominazione dell' altra mano, che è sinistra in 
italiano, laeva in latino, linke in tedesco , significa le fun- 
zioni militari, cui quella mano anticamente era destinata. 
Perchè sinistra significa che sta al seno, e ciò perchè la 
sinistra imbracciava Io scudo, e con quello si applicava al 
seno. Laeea da levare**, e denota V atto di sollevare lo 
scudo ; linke viene da lenhen guidare i cavalli , e discerne 
la mano che usa il cavailiere a tenere la briglia. I fran- 
cesi fino dal secolo 15.° la dicono gauche forse pure dalla 
sua applicazione al seno, perchè gauchir valse declinare ed 
ha relazione al greco yavaóg curvo. 

Cosi il sapere mentre si allarga si viene anche pro- 
porzionalmente semplificando, laonde le menti ne ponno sem- 
pre afferrare le fila principali ed aggrupparle ed accostarle 
sempre meglio a quel centro unico che è la mente creatrice, 
e la ragione prima e suprema di tutto lo scibile, nel quale 
troveranno adequata ed assoluta spiegazione tutti i fenomeni 
distinti nelle immense varietà di tempo, di numero, di spazio. 



*) Ciò che il mio dotto amico dice intorno a ritta . e dritta e droile , in- 
contra varie difficoltà. Ritta e diritta, la prima da rego, la seconda da 
dirigo, son forme non attive conf egli le vuole, ma passive. (Di)rectum 
è il ben frenato, indi il buono, il ben diretto, il dritto, V idoneo, 
V atto, il destro, V adroit, le droit. Storia analoga a quella del dacsa 
indiano. Grimm (op. ci», p. 987) notando ohe ds£ióg, dexter, e deas 
irlandese indicano pure fine, abile, si domanda se sia da derivarsi il si- 
gnificato di abile da quello della dritta, o viceversa. Noi vedemmo però 
e in destra e in dritta essere abile il senso fondamentale. G.I.A. 

+*) È molto arrischiato il trar laeta da levare* Consuonano a laevus, com' è 
noto, XaiFó-g dei greci, Ijew degli slavi, lef-t degli inglesi. G.I.A. 
16 



*44 



•TUIJJI COMPARATIVI 

di liofue ario-earopee. 



PROEMIO. 

tri fa naturar cosa che l'attenzione del pensatore ben 
per tempo si volgesse ai misteri della provenienza delle 
parole ; a indagare le origini delle singole parti di queir 
insieme maraviglioso che si nomina lingua, in cui la tradi- 
zione gli porgeva , attraverso età innumerevoli , pronta la 
veste ad ogni idea, anzi Io stromento e spesso il fattore 
delle idee. Non poteva mancare ch'ei si venisse chiedendo 
ragione di quegli atomi che nel complesso loro fecondavano 
il legame del passalo coir avvenire; di quelle alate parole, 
una oteQÓspta 1 , che per l'immensità del tempo portavano ri- 
tratti i moti dell' animo e raccolti i lavori della mente. 
Quando più tardi a lui venne fatto di esaminare favelle di- 
verse, allora, le varie gradazioni di affinità e l'indole e la 
entità delle dissimiglianze che fra di loro scorgeva, lo con- 
dussero a scrutare le vicende isteriche de 9 vocaboli che tro- 
vava, con maggiore o minor evidenza, a più d'una comuni; 
lo acuirono allo studio della genesi delle parole ; lo spinsero 
a tentar di riporre in qualche armonia le discrepanze ap- 
parenti, anzi, di recarle tutte a fonte primordiale ed unica; 
lo spronarono insomma ad elicere dallo studio dei vocaboli 
le numerose verità isteriche, etnografiche e filosofiche, della 
cui scoverta sembrava un presentimento notevole l'antico 
nome di tale indagine: Etymologia, quasi sposvsione dei vero. 

Ma la letteratura speculativa delie genti europee contava 
tuttavia venti secoli e più, senza che fosse peranco diradata 



STUDJ COMPARATI^. £45 

la tenebra che involgeva e il nesso di affinità e la sorgen- 
te comune degli idiomi loro. Qualche antica sorella asiatica 
fa, a varie epoche, indispensabilmente appresa da Greci; dal- 
la qual conoscenza , anco i meno attenti dovevano racco- 
gliere osservazioni che, ripetute dalla fama e messe a pro- 
fitto dai sapienti, avrebbpr potuto d'un tratto sparger lume 
su quelle attinenze. Temistocle, che si addestrò nel linguaggio 
dei Persiani al punto di riuscirvi facondo parlatore quando 
si presentò innanzi al Re dei Re 3 : è mai possibile non si 
accorgesse della strettissima somiglianza che tra jl proprio 
e il barbaro idioma palesavano le dizioni più familiari, 
come : due, cinque, sette, stella, sto, do, è, osso, padre, fi- 
glia, nome 3 ? E alla corte dei re greci della Battriana, dov 1 
erasi certamente introdotta la sanscrilica lingua indiana che 
sta nelle leggende delle costoro monete, e in quella dei 
re greci neir India stessa , è egli lecito supporre che sian 
trascorse inosservate consimili manifestissime traccie di con- 
sanguinila? Ma, per la scienza restarono tuttavia ioavvertite 
cotali parentele , che i' idioma ellenico incontrava nell' Asia 
occidentale e mediana. Gol progresso del tempo, le lingue 
alterandosi, sempre men facile tornava lo scorgere la cogna- 
zione tra le sanscritiche asiatiche e le europee a chi non 
poteva aver ricorso agli antichi monumenti; e se ebbe a 
rimaner celato ad Aristotele che da fonte comune scaturisse 
la lingua sua e quella del bramino; se, quattro secoli dopo di 
lui, nessuna nozione di codeste affinità venne a fare attento 
Plinio che il nome del monte Hitnaus, Imam (cui sapeva 
proprio il significato di nitosus 4 ) spettasse alla famiglia 
dei vocaboli hiems e hiemalis della sua lingua latina : meno è 
da maravigliarsi se, or son tre quarti di secolo, nessun fosse 
in grado di additare come nella parola pagode stesse quel Voca- 
bolo (B a g a) che allo slavo cristiano servi, nella leggera diver- 
sità di bog, a dinotare T Ente supremo; espressione identica 
al b a g a che valeva Dio per i re persiani guerreggienti 
colla Grecia, e al Baga che neir antica mitologia indiana 
è il nome d'uno dei meglio adorati fra gV immortali § . 



9{6 STUDJ COMPARATITI 

I dotti europei erano, fin dal secolo decimosettimo, in sulla 
via di rintracciare la parentela asiatica delle nostre lingue, 
avendo rivolto al persiano moderno i loro studj etimologici; 
ma quest' idioma, nel quale è molto innanzi il processo di 
dissoluzione, mal riesce atto a raccorrò dalle favelle euro- 
pee i raggi della intima loro affinità convergenti verso l'Asia; 
e quindi non si pervenne a ricavarne che la comparazione col 
germanico, di cui già altrove toccammo, unilaterale ed inesatta 6 . 
Air età nostra era serbata la scoperta dei vetusti idiomi 
asiatici, il sanscrito e lo «zendo, nei quali si riconobbero le 
immagini più fedeli dell' antichissimo linguaggio onde tras- 
sero origine le ario-europee tutte quante. Il sanscrito, mercè 
del quale si procedette a interpretare gli avanzi della zen- 
dica letteratura, mostra bensì, in alcuni casi, forme che ce- 
dono d' antichità alle corrispondenti in una o 1' altra delle 
sorelle; ma riunisce mirabilmente le varietà dei fenomeni 
ohe nelle lingua a lui consanguinee si appalesano, e ciò 
per due modi: ossia esibendo la forma prossima o identica 
alla originaria, in cui si ravvisa 1' unico tipo dal quale si 
dipartirono le varietà; ossia dispiegando nella sua ricchezza 
gli elementi affatto diversi che, singolarmente distribuiti, co- 
stituiscono le differenze tra le altre ario-europee; per gui- 
sa che, il nesso di queste tra di loro, ne vien manifestato 
per duplice argomento di comunanza d' origini. 

Rischiaro con qualche prova ciò che vado enunciando. — Nel sanscrito os- 
servasi un abbonimento dell'aggruppare consonanti nelle uscite, il quale non si 
confà alla energia primitiva, meglio rappresentata da taluna delle sorelle. Ve- 
diamo, per dir di qualche esempio, i vocaboli sanscriti vie, discorso, voce; 
rué, splendore; -rtg, ra; -j u ^attaccato (gli ultimi due usati spio in fino di 
composti) sdegnar di assumere la sibilante caratteristica del nominativo, ed ap- 
parir quindi spogli di terminazione in questo caso: vie, me, -rtd» -juc; 
ma il latino non rifiutarla nelle voci corrispondenti, e mostrare voc-s, luc-s, 
ree-s,JMC-8 (vox, lux, rex, coqftuO, analogamente a ciò che in consimili congran- 
ture e Io sondo e il greco ci presentano. Cosi, declinando il suffisso participiale n t, 



DI LINGUE ARIO-EUROPEE. 3^ 

identico al nt (am-a-»f-M, ecc.) dei participi latini, il sanscrito rinunzia nel 
nominativo al segnacaso e pure alla $ del suffisso; mentre nel latino resta 
$ dalla combinazione $s, e perciò vi si contrappongono alle mozze forme in- 
diane come juHg-a-n, » - a - n , le equivalenti jung-e-ns, -s-e-ns. — La 
desinenza greca medio-passiva fjuu ha i caratteri d' una forma originale, della 
quale il dittongo solo (e -ai) è rimasto al sanscrito. Cosi Òido&i dà! ha, e 
nella radice e nella terminazione, maggiore antichità del corrispondente deh! 
sanscrito; e la iniziale della radice AS sscr. z= SS lat. = E2, che è sparita 
da tutte e tre le persone plurali del presente nell'indiano (s-mas, s-fa, 
s-anti), è conservata dal greco nella prima e nella seconda (ia-fiév 9 àr-ra), 
più tenace dei latino che la mostra in una delle due soltanto (s-u-mus, es- 
tà). Il dorico èc-ci (tu sei) è parimenti più integro del sanscrito a s i , che, 
nel combaciarsi della s radicale con quella della desinenza, sagrificò una dello 
due sibilanti. — I SS* H e III del seguente articolo mostreranno come x greco 
e e latino trovino di frequente bei riscontri sanscriti gli affievolimenti 6 e i. 
Passiamo a contemplare un esempio solo della molti plicità unificata mercè 
la identità che vi si discuopre partendo dall'indiano antico. Cane dicesi in 
sanscrito évan (nominativo évi), tema che si contrae in alcuni casi a éun. 
La sibilante iniziale di questo vocabolo, la qual sappiamo essere (p. 51) af- 
fine nella pronuncia a se italiano in scevro, è, per istorica dimostrazione, 
come si vede nel citato paragrafo III, V indebolimento d'un* antica gutturale; 
vicenda che ci si presenta anco nel francese, dove a caballus risponde 
cheval (scéval), a e a n i s , chien (scien). Ora, alla forma piena évan (pronun- 
cia quasi se ina n) riviene, coll'antica gutturale intatta, il latino CANi 7 , e, colla 
sibilante iniziale, lo zendico spft nominativo, accusativo épduém, indurata 
con vezzo iranico a p la © susseguente, come p. e. in a é p a zend. =,a èva 
sscr. — EQVO lat. Lo zend però, con uno scambio la cui ragione sarebbe 
oscura senza il sanscrito, sostituisce pur desso in alcuni casi a éptn il te- 
ma fievole é ù n , che « offerto, colla gutturale, anco dal greco KTN di xw-óg 
xw-i ecc., ed al quale tra le lingue iraniche si conforma lo è ù n (gen. San) degli 
Armeni, mentre Io spei degli Afgani (Af.polygl. 59, a) dipende dall'altra forma* 
Erodoto (1,110) ha il medo spacca, cioè la forma iranica del tema più 
forte, col suffisso e a, il quale riappare nell'analogo s(o)ba-ka russo e po- 
lacco, cagna, e si incontra nuovamente, ma colla forma contratta (propria 
anche del lituanico, e, colla gutturale, pura del gotico e delT irlandese), in 



3*48 STUDJ COMPARATIVI 

su-ka cagna, russo (As. polygl. 78, e) e polacco .| A quést' ultima composi- 
zione conduco in fine il seg cane del persiano moderno, ed il seh dei 
Curdi (As. polygl. ib.). Per tal modo, rimpetto alle due leggere yarieli san- 
scrite s v a n e é u n , che portano all'unico prototipo cvan, abbiamo, con inelut- 
labile evidenza istorica, riconosciuta la identità etimologica di lutte queste 
de'nominazioni del Cane. Stacchiamole dall'albero che ha radice nell'Asia antica, 
e la parentela rimane un enimma fra il chten francese e lo spei afgano, fra 
la suka dei Polacchi o il seh dei Curdi ed il canis dei Latini. 

Vediamo ora brevemente, come il sanscrito serva all'unificazione rive- 
lando in sé comprese per qualche modo le diverse particolarità degP idiomi 
consanguinei. — Se esso offre tirai? fratello per analogo di fràler, bró- 
thar ecc., sa mostrarvi anco le forme anziane dei componenti 1' à-dsXapóg 
fratello dei greci, letteralmente con-uterino, oltre che vi porge consimile 
composizione coll'identico significato 8 . — Candidus, Xtvxóg, h v e i t a go- 
tico (nominai, h v e i t - s) bianco, nuli' hanno fonologicamente di comune tra 
di loro; ma nel sanscrito esistono i radicali di tutti e tre: éand, ru6 = loó 
risplendere, e é vi t esser bianco. Il bianco sarebbe il lucido per eccellenza 
nell' antichità ario-europea (candeo, candidus) ; giacché anco s v i I manifesta 
il suo valore di lucere 9 , p. e. nello slavo antico : svii-ati illucescere (Mik- 
losich, radic. p. 79); ed anco suora sanscrito vale splendente, albicante, 
bianco, da sufi splendere. A onora poi si attacca il s ù b a r dell' antico te- 
desco, satiber del moderno, nitido, purus; né purus ha minor dilucida- 
zione di sauber dal sanscrito, dove troviamo la radice p ù purificare , donde 
pù-rus col suffisso rus, identico a quel ra (nominai, ras) che vedemmo 
in sanscrito formar Suora dalla radice é u fi , e identico al rus di g n à - r u s , 
che presenta intatta la radice indiana gfià conoscere, co-GNO-scere. — A 
prendere anco dalla grammatica un pajo d'esempj per il caso nostro, fare- 
mo osservare che V imperfetto greco, e per P aumento e per le desinenze, 
consuona mirabilmente ad uno dei passati sanscriti, rispondendo a forme greche 
quali e-Tvnt r ov 9 i-wnt-tq, le indiane a-tud-am, a-tud-as; ma che 
non meno sanscritico si é l' imperfetto latino, le supposte desinenze barn, 
bas, bat ecc. di am-a-bam, am-a-bas, am-a-bat ecc. altro non essendo, 
come Bopp ha scoperto, che le forme contratte dell'imperfetto d'un ausi- 
liare, rispondente a 5ù essere (v. qui avanti II, SS XVI, XVII) dei san- 
scrito, che fa nel singoiare dell'imperfètto a 7 fiavam, a-Bavas, a-Bavat, 



DI LINGUE ARIO-EUROPEE. «49 

e die è adoperato pure in sanscrito nella composizione d'un preterito, il 
perfetta perifrastico. — Le anguste indagini linguistiche d'un dì, appagandosi 
alle apparenti somiglianze, reputavano V oiq dei dativi plurali greci della se- 
conda (w secondo pronuncia reuclinicà) identico all'i* dei dativi latini come 
focis. Ma a render sospetto di apocope V oig (ois) greco, esistevano le forme 
joniche eome Xiyoun che portavano al ai originario, della terza ; quando nel 
latino l'ì-s doveva apparire contrazione al cospetto della desinenza più ro- 
busta (O-fas, della quale rimanevano saggi notevolissimi per la prima e anco 
per la seconda, oltre che in duo-bus e ambo-bus, in diibus (e dea-bus), par- 
ri-bus, amici-bus ed iibus 10 . Ora, la desinenza bus s % incontra col fijas dei 
dativi ed ablativi plurali sanscriti, e fratr-i-bus risponde a firttf- fijas; 
mentre il ai greco è affine al s u dei locativi indiani, per cui a vav-al gre- 
co va contrapposto il n a u - è u sanscrito. Forme come sive-iu (= sivai-su) 
rivelano nel tema il dittongo finale, che si ripete in Xóyot-at n . 

Il carattere del sanscrito che gli valse meritamente il 
titolo d'eccellente tipo di questa nobile famiglia d'idiomi, è 
una coerenza singolare in tutto il suo organismo, quindi una 
perspicuità nel derivare, nel comporre, che permette di scor- 
gere chiarissima V etimologia anco in vocaboli dei più ovviL 
Lontano perciò da quelle inconseguenze fonologiche che lin- 
gue a lui sorelle palesano, coir accoglier desse inconsapevol- 
mente sotto a differenti aspetti e una medesima radice, e 
una stessa voce, e gli elementi di una medesima flessione; 
lontano, diciamo, da siffatte condizioni, cbe di frequente por- 
tano a considerare taluna di quelle quasi la risultanza della 
fusione di più consuonanti dialetti : il sanscrito porge i mezzi 
di rischiarare simili intime loro istorie, di restituire ai veri 
ceppi, di portare alle loro origini, vocaboli delle lingue af- 
fini che alla indagine ristretta apparivano isolati e rimane- 
van misteriosi per gli etimologisti; di ricavare sorprenden- 
temente, dalle più recondite latebre dell' edilizio glottico, 
sottilissime somiglianze che per buona parte hanno ragione 
in lui solo ; di scernere forme originariamente diverse, nella 
identità in cui, logorate, queste vennero a fondersi; gio- 



?5o STUDJ COMPARATIVI 

vando esso cosi, del pari che alla scienza delle affinità este- 
riori , a quella della individuale sostanza di ciascheduna 
delle sorelle. 

La strettissima parentela colle altre ario-europee dal sanscrito manife- 
stata, servì di rimbalzo a sconfiggere le congettare che un moderno linguaggio 
ei si fosse, nn raffinamento sacerdotesco di qualche volgare, anzi quasi una 
lingua a dirittura artificiale **; congetture cui la incomparabile regolarità, la non 
comune ricchezza sì di forme che di flessioni, e la lucidità appunto di questa 
lingua avaanno per buona parte suggerito. Dagli esempj che precedettero, e 
da quelli tutti che seguiranno, si ricaverà un qualche criterio dell' indole di 
questa consanguinità, atta a disperdere ogni simigliente ipotesi. Nessuno può 
ragionevolmente sospettare che una lingua convenzionale abbia incominciato 
in tempi non remotissimi a chiamar la figlia con regolare formazione: d u h - i - 1 r, 
la mungente, quand' ode V eco del vocabolo indiano nelle lingue dell' Eliade, 
della Teutonia, della Scandinavia, da lunga serie ài secoli divise dalla sorella 
asiatica 13 . In p i - 1 r , padre, s' ha, col suffisso medesimo, il senatore, pro- 
iettore, signore, dalla radice p fi , meglio ancora conservata nelle voci analo- 
ghe delle europee, pa-ler, na-wtjo, fa-dar> in mà-tr, sempre collo stesso 
suffisso, la procreatrice, e il vocabolo si rinvenne al maschile col senso di 
creatore in un passo del Rgveda ,4 . — Sùnu figlio è il generato, dalla radi- 
ce su col suffisso nu, e dell'antichità del vocabolo fa fede il gotico sunus 
equivalente. B se il nome per la divinità presenta una normale derivazione 
dalla radice splendere, comune a quelli del giorno e del cielo (div splen- 
dere, d i v cielo, diva, diva sa giorno, deva dio), ' non vi fi può vedere 
l'ordinamento d'una metafisica di mediocre antichità; giacché (prescindendo 
dai moderni parlari indiani) il diewa-a. dio dei lituani e i consuonanti vo- 
caboli delle nazioni sorelle, il sub divo dei latini (a del scoperto), e il dies, 
die, dei*, latino, armeno, armorico, per giorno, attestano remotissima queste 
applicazione del pensiero ano-europeo l9 . 

Ora vorrei che acconci esempj dimostrassero ad ogni lettore i vantag- 
gi che accennammo derivare, dallo studio del sanscrito, alla intima cono- 
scenza delle sorelle. Do, per primo, nn esempio di duplice aspetto in no 
medesimo elemento di flessione, senza che ve n' abbia ragione nella lingua 
stessa che 1' offre ; e lo awertisco nello «end, in quello idioma appunto che 



DI LINGUE ARIO-EUROPEE. ?5l 

indagini non abbastanza profonde hanno voluto assolutamente più antico del 
sanscrito. La desinenza del locativo plurale sanscrito è, come vedemmo a 
pag. 249, sn , che per legge eufonica diviene in molti incontri è u . Ora, lo send 
presenta hu (hva) dove il sanscrito adopera su, per regolare trasforma- 
zione di s sanscrito in h zcndo; e éu (ava) dove il sanscrito mette Su, 
perchè a i sanscrito innanzi a vocali risponde hi zendo l' equisonante sibilo. 
Ma una permutabilità, una relazione eufonica nello zend tra A e i non è da ammet- 
tersi *°; e le due forme di questo carattere locativo non hanno quindi tra di loro 
una sendica dipendenza organica, ma son semplicemente calcate sulle due leg- 
gere diversità eufoniche esibite dal sanscrito ; le quali dilucidano la relazione 
di quelle, come la attinenza di épi(n) e éun (v.p. 247) è compiutamente 
dichiarata solo dal parallelo indiano. Con ciò non vuoisi già indirettamente 
negare la maggiore antichità che lo zend, come sommi maestri hanno notato, 
in molti fenomeni palesa. 

Il latino sahus risponde al sanscrito sarva-s, ogni, tolto 17 ; valse 
cioè (del pari che totus) tutt' intero, quindi salvo. Ma V osco assimilò 
alia / la semivocale susseguente, e, come Poli per primo avverti, ne fece 
a olio 18 ; indi nel latino: soll-ers, solerle, che ha tutta Torte, e soli- 
ennis, solenne, che veramente significa „qui certis temporibus quotannis 
flit ", etimologie che già da Pesto si ricavano. Vigevano così nel Iati no, l'una 
alla insaputa dell'altra, due forme del ssrva indiano; e il pregiudizio che 
yoleva le lingue d'Italia figlie della greca traeva dall' oilo? (holos) greco il 
sollo osco , il quale gli è affine bensì , ma portato all' archetipo asiano si 
manifesta, per la doppia /, forma più integra dell' olog, o dello jonio ovlog 
(intero, sano), che, a scarso compenso della consonante perduta, allungò la 
vocale 19 . Similmente in due varj aspetti ci si presenta nel Lazio il sanscrito 
p r a 6 8 , domandare ; in proeo cioè (blande pelerò, donde proc-ax ecc.), 
e in prec-or ft0 . — La radice indiana or (Bar), con quella labiale che suole 
incontrare f lat, se iniziale, e b lat., se mediana (B r 1 1 r fràter, -fijas -bus), 
disvelò come la germana radice latina PER si riproducesse in sak*-ber (perciò 
identico, pure fonologicamente, a saluti-fer) e simili, in una veste che mi- 
rabilmente coincide col BAR bairan gotico equivalente. — Da s a m a sscr. sunto, 
uguale, si ha samam , con, insieme, unitamente, cioè in uguaglianza, A 
parità temporale o locale-, e eoa fratelli della medesima famiglia «mito (si- 
mile) p simul (unitamente) latini. Né estraneo le può essere il si mi- nei 
16* 



?5? STUDJ COMPARATIVI 

composti sanscriti, pari al semi- dei Jatini, dinotante una somiglianza, un' 
approssimazione, alla proprietà espressa dalla parola cui si congiunge ; quindi 
uno stato dubbioso, medio, quindi la metà, meno ; semi-vivo ~ quasi-vito — 
mezzo-vivo — me*%o-morto. Ora, la unità originaria di questo gruppo di vo- 
caboli non sarebbe, in assenza del sanscrito, facilmente avvertibile nei greci 
opó-g = s a m a - s , ifia = s a m a - m , 17/ii- = s I m i -; tanto è vero cbe i les- 
sici non Tbanno notata, ed hanno ritenuto 17/ti- contrazione di jjfuavg. E la 
lunghezza della vocale in tjpi- ha il suo riscontro e la sua ragione nel de- 
rivato sanscrito s I m i -; come la dissoluzione dell'o latino di octo, nel deri- 
vato octav-us, ha motivo nella desinenza (duale) au del corrispondente numero 
cardinale sanscrito: aàfau (da actau). Cosi la sillaba intramessa fra la ra- 
dice e la desinenza personale nel presente jonico orÓQ-w-fii (r= <rzoQérwfii), 
ma 'espulsa dalF aoristo {è-GtÓQ-saa), e quella che appare nelF equivalente 
latino sterno (ster-ni-s, ster-ni-t), per isparire da stra-vi, slra-tus : altro non 
sono che n n (n 0) e ni (n ì) sanscriti, sillabe distintive delle classi verbali quinta 
e nona, ad ambo le quali appartiene la radice sanscrita corrispondente, cioè 
a t r , che fa nella prima persona singolare del presente s t r - n o - m i s t r - 
nà-mi, nella terza str-no-ti str-nl-ti; nella prima plurale str- 
9 u - m a s =r (rró^-w-fwff, oppure str-nt-mas (per s t r - n t - m a s) =: ster- 
nì-miis, ma in uno de' suoi participi passati str-ta-s = sfra~tos. B chi 
mai, senza il soccorso di un tant' ausiliario, avrebbe, pure addandosene, 
reputata incontestabile la regolare graduazione in (positivo), in- ter (compa- 
rativo), in-Umus (superlativo); ci-s 9 ci-ter 9 ci-timu$ ; ul-s, ul-ter 9 ul-Hmus y 
ecc. (v. p. 242, n.), che serbano suffissi rispondenti a tara-s Inoos) e 
t a m a - s dei comparativi e dei superlativi sanscriti ? Suffisso quest'ultimo, che 
pel latino è t u m u s nella forma più antica (op-tomus ecc.), poscia t i m u s ; 
e che infine, dalla composizione is-timus visibile in soU-is-timn* (sol-is- 
timum), superlativo del soUus (sollo) di cui parlammo a pag. 251, ed in sin- 
is-timus^ vi divenne il simus di is-simus (cfr. mac-simvs). 

La identità di ? e ayé (sé) è rischiarata fonologicamente dal sanscrito 
s v a , pronome riflessivo di terza persona , che ci si offerì ripetutamente nel 
Naia (p. 92) in sva-sfa in-$e-$tons. II digamma cioè che risponde a • 
sanscrito (p. e. n I v - a s gen. , navis, pari all'eolico taFóg)> si rafforzò a q> 
in trcpé, come nei residui casi che ci presentano tr<p iniziale; mentre negli 
altri, ridottasi la s iniziale a semplice aspirazione (comeinwr^p [hyper] =« u- 



DI LINGUE ARIO-EUROPEI. «53 

per sopra-, vg [hys] — sus troja), e sparito cerne suole il digamma (efr. dor. 
vaiq da vaFóq ; otq da oF«^ ; aim da aiFow), <rqp^ ai ridusse a f, an pri- 
mitivo erFo* a 01, eoe. — Se àipl (eimi) io sono si distingue solo per l'ac- 
cento da sifu (eimi) io vado, e se perfettamente identiche son le due forme 
che amboi verbi mostrano nella seconda persona: slq, sì (eis, ei) tu sei o 
tu vai, son vane cionnonostante tutte le metafisicherie che 1* apparente unità 
delle due radici ha suggerito ; giacché il dorico ififu per io sono ci palesa 
nella doppia m la s mancata, che riappare in iff-fià» siamo, fo-té siete ecc.; 
ci reca cioè ad un primitivo &ft/ = asmi sanscrito; e il dorico tetri per 
fu sei (quindi sìq, poscia si) abbiamo già veduto (p. 247) allato alla corri- 
spondente indiana eh' egli supera in integrità. Et-fii, sl-g vo, pai (lai. eo, is), 
sono all' incontro della radice t (cfr. t-fisr, *-ra, t-mus, t-té), e si schierano 
colle equivalenti yoci sanscrite: e- mi, e -ài (i-mas, i-fa, imus, ite). 

V articolo greco ó, rj (a dorico), tó, è radicalmente ben diverso dal 
pronome relativo og, fj («), o, abbenchè, oltre la somiglianza esteriore, v'abbia 
più di qualche mischia nza nell' uso. Neil' articolo greco, il qual sappiamo servire 
anco di pronome dimostrativo e personale, non è genuino lo. spirito aspro 
che al nominativo singolare dei due generi personali, riapparendo in tutti gli 
altri cesi la t propria del nominativo neutro singolare ; giacché, anco nel 
nominativo plurale, il dorico e gli epici serbano tot, tal (v. Buttmann , 
Gr. ed. 1818, p. 139). Manifesta perciò tale articolo una mirabile analogia 
col sanscrito sa (questo, quegli), sa, tat, che presenta la s iniziale (=al!o 
spirito aspro greco) solo nel nominativo singolare del maschile e del femi- 
nino, e I in lutti gli altri casi S1 . Il relativo og, q(a), o, risponde all'incontro 
al jas, j 1 !, jat, equivalente sanscrito, collo spirito aspro sostituito allo j 
(estraneo al greco), del pari che in altri casi; in ay-io-g, p. e., =jag-ja-s 
colendus, o in jjiirs-oo-g domato, dimesticato (che appartiene alla radice san- 
scrita jam re frenare) , vocaboli ellenici che, limitandoci al greco, ci re- 
stano di provenienza affatto enimmatica. I lessici, in mancanza d' un congruo 
positivo, traggono Òqbìcov migliore ed aqurcog il migliore, ad *Aqriq Marte, 
pugna. Ma uru sscr. grande, contrazione di varo M , ha yartjas nel 
comparativo (nominat. vari j in = aQsloav) e variifa nel superlativo (no- 
minata variSfa-s = aQictoq), significante amplissimo, massimo. Quindi l' èvQV-q 
ampio, che è fratello di uru-s, par che si rivendichi in aowrog (che se- 
condo il Bop p 9 Gloss. 310 a, vele anco optimus, excellentissimus) un nuovo 



954 - STUDJ COMPARATTVf 

superlativo, ohe né per forma né per senso rammenterebbe più il suo positivo, 
e che fa confinato a servire ayct&óg buono, virtuoso, valente. Quest' ultima 
voce pure, di etimologia impenetrabile per i grecisti, avrebbe ta il suo perfetto 
analogo nell'aggettivo composto sanscrito a g fi <f a , che non ha fondo, profondo, 
adoperato anche metaforicamente, come in agficfabndcfi di mente profonda, 
strenua*, nel qual nesso greco-indiano sta forse la preziosa idea del buono, 
del vero, pareggiato al profondo, del falso equiparato al superficiale : 

„ Chò nelP abisso Verità dimora * 4 % \ 

Ottenutosi Bel sanscrito il foco dei raggi di consonanza 
delle lingue sorelle, 1' analisi potè cogliere più agevolmente 
in questa convergenza molte norme costanti che presiedono 
al vicendevole corrispondersi dei suoni affini, e potè scoprire 
le recondite ragioni fonologiche onde riescono dilucidate rag- 
guardevoli discrepanze offrentisi nelle parole e nelle flessioni 
che pur son proprietà comune tra cotesti idiomi; per modo 
che la fonologia delle ario-europee surse in breve tempo 
grandiosa a giudicar delle simiglianze suggerite dall'orecchio 
e a rivelar nascose affinità, con una, sicurezza quasi scono- 
sciuta in simili regioni, prima che, per giovarmi delle espres- 
sioni d'un insigne maestro, il sole del sanscrito s'innalzasse 
suir orizzonte delle lingue. I più arditi etimologisti dell'epoca 
in cui senza freno alcuno si costringevano le parole a ub- 
bidire air una o air altra ipotesi, non avrebbero osato di 
ravvicinare vocaboli equivalenti, la cui identità è ora mani- 
festata per sorprendenti equazioni pòrte dalla fonologia ario- 
europea. Messa questa per base alle grammatiche e ai dizio- 
nari comparativi, ed estesasi la cognizione delle antiche lingue 
e letterature appartenenti alla famiglia nostra: risultò, come 
infinite diversità, più o men notevoli, che appajono in ogni 
singola delle antiche sorelle, vi si disviluppassero organica- 
mente dai fondamenti di originaria identità, oppur ne provenis- 
sero per naturali processi di mutazione e di decadenza, e non già 
vi dipendessero da inorganiche trasformanti mistioni con altri 
idiomi aborigeni, cui fosse venuto a sovrapporsi, come taluno 



D! LINGUE ARIO-EUROPEE. q55 

fra noi opinò, un debole strato sanscritico; si poterono di- 
scernere le somiglianze che rappresentano la unità di suoni 
esistita primitivamente nella culla asiana, da quelle seconda- 
rie che, risiedendo in particolari alteramenti delle forme pri- 
mitive, posson dinotare pecufìari attinenze genetiche fra talune 
branche della famiglia, o da quelle isolate somiglianze infine, che 
alterazioni consimili hanno indipendentemente prodotto; si ebbe- 
ro criterj utilissimi per distinguere, col soccorso dell'istoria, la 
comunanza di parole apportata da posteriori incrociamenli di 
stirpi e di cognizioni tra popoli parlanti lingue di questo ceppo; 
si rese più agevole il riconoscere dove sianvi accrescimenti 
ridondanti delle forme originarie e dove la maggior pienez- 
za risulti indizio d'antichità; e, per dir breve, si ebbe un 
ottimo fondamento alla istoria naturale delle lingue in genere 
e di queste in ispecialità, in luogo d'un campo di ginnastica 
letteraria dond' erano riusciti vilipesi questi stùdj per il ridicolo 
rivaleggiar d'anzianità di popoli e d'idiomi, pella superficiale 
universalità, di regole, pelle arbitrarie divisioni, pegli elastici 
paralleli di lingue ai quali unica guida era l'orecchio, cosa 
non altrimenti disdicevole' che se la descrizione e la classifi- 
cazione dei fenomeni che formano il soggetto delle scienze 
naturali si fondassero sul li scernimenti dell' occhio nudo d'un 
profano. Lo studio filosofico delle lingue guadagnò finalmente 
nelle ario-europee un ubertoso campo dove può con sufficiente 
sicurezza indagare lo sviluppo della parola e delle idee; 
i ravvicinamenti istorici, fatti sicuri e in buona parte procac- 
ciati dalle dottrine fonologiche, sgorgano in istupenda abon- 
danza dalle fonti orientali testé dischiuse; che mentre si vien 
spiando la cronologia relativa della dipartenza di ciascun 
membro della famiglia sanscritica dal centro asiano d'unità, 
le più notevoli attinenze si dispiegano innanzi a noi tra le 
credenze e le tradizioni dei yarj popoli dell' antichità orio— 
europea. 

Continuo ad illustrare con pochi esempj ciò che affermai. — Gli etì«- 
mologixxanti alla ventura reputavano un sostegno incrollabile della strana dot- 



q56 studj comparatiti 

trina delle antilogie il parallelo di kalds gotico (freddo) e calidus Ialino; 
ma la tenne gotica ha, di regola, particolarmente allorch' è iniziale, il riscon- 
tro della media nel nesso indoitalogreco ; e kalds riviene perciò a gelidu$\ 
mentre e latino s'abbatte all'incontro in A gotico, come in caput — ha ubi Ih. 
Klaproth (As. PolygL 47), a' cui tempi non regnava peranco il rigore eti- 
mologico sorto da' buoni studj sanscritici, si compiaceva di confrontare fides, 
fede, a veda sscr.} ma la /"romana risponde, di stretta regola, alla labiale 
aspirata fi dell'indiano, e mai alla semivocale sanscrita t> ; veda che veramente. 
yn\ scienza è dalia radice vid sapere (vedere intellettualmente) che è il video 
latino. Il medesimo orientalista (ibid. 45) poneva il sanscrito vinàsa esilio 
allato al finis latino ; ma (pur prescindendo dalla obiezione grammaticale circa 
la s di finis, segnacaso del nominativo che si riprodurrebbe in vinftéa-s, 
e dalla considerevole discrepanza à— 1) ci ò vietato, come or'ora vedemmo, 
di contrapporre la f latina alla © indiana, e la i che v' ha in vinàsa è, 
come pure già sappiamo, x e e nei paralleli greco-latini. Vini sa vien 
dalla radice nas col prefisso vi, la quale è in nec-s latino (nex) nec-is, 
nec-are, wx-góg ecc. 

All'incontro ripugna all'orecchio l'identità del nostro cinque col five (fai!) 
inglese, che la fonologia guarentisce pienamente. Alla gutturale sanscrita v cor- 
risponde non di rado la labiale, nel greco, nel ramo meridionale (ci m ri co) delle 
celtiche, e nel germanico ; vicenda identica a quella per cui nell'osco, nell'umbro, 
e, per dir d'un idioma moderno, pur nel valaco, scorgiamo rimpetto al Ia- 
lino quaiuor: petora, petur, patru. All' inverso, nel latino e nel ramo 
settentrionale (gaelico) delle celtiche, trovasi talvolta opposta la gutturale alla 
labiale sanscrita ; in attinenza forse non dissimile a quella per cui nel dialetto 
siciliano chiana, cchiù, ecc., tengono le veci di piano, più * 5 . Al p a 5- 
éa-n sscr., cinque, da un antico pafica-n, riviene adunque il quinque 
lutino, in cui la prima gutturale risponde alla labiale indiana ; la forma senza 
nasale e con ambo le gutturali ò offerta dal cuig irlandese. Air incontro 
son due labiali nel pemp armorico, nel rtipm eolico, e, con regolare di- 
versità dell'organo medesimo, nel fimf gotico, fif di varie antiche teutoni- 
che s6 , five degl' inglesi. — Il vocabolo neo-persiano e ai* h e r sorella (in 
zendo qafiha nominat., qafihrém accusai), che aggruppa intorno a so il 
qujr degli Armeni, cùr degli Afgani, cor dei Curdi, co degli Osseti (ila. 
polygl. pp. G 1 , 95), è ricondotto con perfetta sicurezza al tema sscr. s v a s r $o^ 



DI LINGUE ARIO-EUROPEE. > QS7 

retta (nom. svasi); giacché qa zendo e cai neo-persiano rappresentano 
regolarmente Io sva indiano, e alla s sanscrita innanzi avocali e semivocali 
(quando sv non divenga q y e) è costantemente contrapposta la semplice aspi- 
rata h nelle lingue ironiche S7 . Si confrontino s v a p dormire, sva suo del 
sanscrito, cogli equivalenti qap, qa in zendo; così cafb nel persiano mo- 
derno vai sonito (e som-nus è da sop-nus, cfr. sop-or); e e air sole è 
pari a s v a r sscr. cielo, e sole nel Veda (zendo : h v a r è), enrr, cor 
degli Osseti (As. polygl. p. 95). Della corrispondenza s = À, basti, fra i mol- 
tissimi, l'esempio di saptan sscr. sette = haptan z. —he fi p. — Dunqne 
e w h e r è pari a s v a s r , acc. svasftram, con altrettanta evidenza di quel 
che lo sia svistar gotico, il latino soror, sororemdasosorem (v. 
F art. seg. §• XXIV) = svasàram. — Le due equazioni indo-iraniche s~h y 
st(d)=q(à) ci conducono a discuoprire nelP haraqaiti dei libri zen di, 
Àrachotos dei 'greci, 1' identico nome del fiume indiano Sa ras va ti, per 
santità celebratissimo ; la » introdotta fra a e f è pure in regola, come in 
hap tài ti settanta!, rimpetto a sa p tati sscr., e in mill' altri. Ai trastulli 
di apparenti somiglianze, la indagine d'oggidì contrappone discoverte di iden- 
tità fonologiche quali Euclia , EvxXbwl , Euclitms = C o s r o e , Eteocle = S a- 
tjasravas. La forma persiana del nome Cosroe è éosrui, Susrav, 
l'armena cosrov, la zenda husjravanh, nominai, huérav o a8 . Huéra- 
vafih è — Susravas sanscrito (nome d'un antico re dell'India mentovato 
nel Rgveda), per la nota corrispondenza indo-iranica s = A, e per quella nor- 
male inserzione della fi di cui avemmo esempio anco in q a fina sorella 
= svasl sscr. Ora Su-éravas da su- bene, bellamente e sravas (v.p. 
138, n.) gloria, non ha soltanto il medesimo significato di Eu-clia, Eu-clitus, ma 
in ambo le parti corrisponde altresì fonologicamente a tali composti greci. Il su 
sanscrito diventa h u in zendo, ed u semplicemente nel persiano delle iscrizioni 
cuneiformi ; sparita ugualmente l'aspirazione dalla forma greca di questa voce, 
Tv si allargò ad w, come in svov-g rimpetto ad uru-s sanscrito 29 . KXéog 
(da xkiFoq) -xìls/a, xkvróg y derivano poi, com' è notorio, da xAvco udire 
= sru sscr., i rispondendo a x greco, come già sappiamo. KXiFog è quindi 
perfettamente identico a sravas, per radice, per suffisso e per significato, 
in quanto éravas vale gloria. - Passando a Eteocle 'Ktso-xXìjq = Satja- 
iravas, la seconda parte d'ambo i nomi e' è ornai chiara; ed èzsó-g ò in- 
dubitabilmente pari a satja-s «ero, sebben vi manchi lo spirito aspro che il 



a58 > STUDJ COMPARATIVI 

greco sostituisce di solito alla s originaria iniziale. Ne va senza quasi sempre 
pure l'a- con - pari al s a - sanscrito ; e del pari noi mostra 'E(>iftv-g (Erinni) 
= Saranjù-s, equazione fonomitologica di cui è a vedersi Kuhn, Zeit- 
schrift fùr vergleichende Sprachforschung, I, 454. — Gli studj storici ed 
etnografici vengono per queste vie a ricavar validi sussidj, dopo aver per 
tanto tempo subito i capricci di quegli esercizj etimologici per i quali, a mo* 
d'esempio, il biblico j..h..t>..h era pari al Jori*, che altro non è, come ve- 
demmo alla nota 15, se non il djo indiano, cielo, giorno, djaus nel no- 
minativo, djavi nel locativo vedico. E nel Veda troviamo piti djaus pa- 
ter coelutn, forme identiche a quelle offerte dal Dìes-piier de* latini, come 
la Aì\-\irpy\Q (—rrj-firjrTiQ) dei Greci ha il suo riscontro ideologico nella espres- 
sione vedica miti prfivt, maler terra. Il lettore non avrà forse dimen- 
ticato altre parentele mitologiche (Manus sscr., Manaus teut, Minoq\ Ve- 
runa sscr., OvQavòs; Sftrameja sscr., *EQiulaq) che nelle illustrazioni al 
Naia ci venne di notare. Delle concordanze in cui la parità dei nomi non 
sembra sussistere, abbiamo accennato quella degli Asvin coi Dioscuri; e, 
per dir di qualche altra, la tradizione di Prometeo che rapisce il foco in cielo, 
e la leggenda di Caco il ladro delle vacche d* Ercole, hanno parimenti, sott' 
altri nomi, i loro analoghi nel Veda 30 . 

Gettando ora uno sguardo alla istoria dalle diversità, per cui cotanto si 
offuscò la originaria identità di queste lingue, richiameremo alla mente come, 
ne' pochi esempi addotti a pag. 248-9, avemmo un qualche saggio dello 
divergenze derivanti dall' esistere ripartita tra le sorelle le varietà d'una data 
espressione grammaticale o lessicale, raccolte nella primitiva unione adombrata 
dal sanscrito (svit slavo, CAND latino)*, di quelle altresì, provenienti dalla 
equivalenza cui si ridussero tra le varie lingue fenomeni non del tutto equi- 
pollenti ne' primordj (-bus e -<rt dei dativi latini e greci, in sanscrito duo 
casi diversi) ; e di quelle finalmente che appajono tra le differenti sorelle per 
applicazioni particolari di elementi comuni (-barn, -bas, -bai degl* imperfetti 
latini), applicazioni che o non ò necessario o ripugna di supporre coesistite 
ai loro analoghi, prima della divisione. Esempj di varie specie di divergenze, 
preziosi anco per la filosofia della grammatica, ci si presentano osservando 
i differenti modi d' esprimere 1' infinito ed il passivo. Il sanscrito classico 
«doperà alla formazione dell'infinitivo 1' accusativo impietrito del suffisso tu 
(tu~m), suffisso che s'incontra anco in estratti femioiii greci, come *(({*-*»-£ 



m LINGUE ARIO-EUBOPEE. *5g 

(jonico per *(>«£*£), bdtj-tv-g ; mentre il lituanico e lo Biavo si servono pel 
loro infinito di ti, che in sanscrito produce alla sua volta nomi astratti, del 
pari che nel greco i corrispondenti suffissi ti-s, <n*£. II gotico fa uso pe* 
suoi infiniti di a n (en del tedesco odierno), che riviene al suffisso sanscrito 
idi, mediante il quale l'indiano antico crea pure sostantivi astratti, che in 
alcuni casi obliqui vengono in qualche modo alle funzioni degl* infiniti. La 
desinenza dell'infinito latino, re tra due vocali, da un antico se (v.pag. 25T 
presso s o r o r e m), conservato in es-se inf. di erfo, riverrebbe al ora degl* 
infiniti greci dell'aoristo, se di alcuni infiniti vedici 31 . Il tum del sanscrito 
(ten, den degl'infiniti neo-persiani) riappare nel tum latino dei supini ; ondò 
stupendamente a vam-i-tum-, s fi- tum, gan-i-tum sscr. vomitare, 
giare, generare, si contrappongono vom-i-tum, sta-tum, gen-i-tum latini. 

A pag. 17, n. accennammo come il ja, che le radici sanscrite si an- 
nettono per esprimere il passivo, sembri non altro essere che il verbo jl 
andare ; similmente ne* modi italiani come: tengo chiomato, vien conferùo i 
nel reìleo jou ueng /miai» 38 , il verbo venire concorre, quale ausiliare stac- 
cato, alla espressione del passivo. Il greco a quest* uopo si serve semplice- 
mente delle desinente mediali, affini alle sanscrite; le quali ultime bastano 
ugualmente in certi tempi a dar la voce passiva. Lo slavo antico fa verbi passivi 
coll'aggiungere l'accusativo sja(se) sé, d'un pronome riflessivo molto diffuso 
nella famiglia , indistintamente a tutte e tre le persone 33 ; quindi 6 é te té-* 
sja Oetteralmente: onora-sè) è onorato, honoratur, e nella seconda óéteii-» 
*J a ([ta] onori-se) sei onorato, honoraris. Noi pure diciamo, con analogo 
costrutto, nella lena persona : st mangiano le mele per : le mele som man* 
aiate, ed i valachi estendono siffatto modo a tutte le persone, ma senta 
costringere, come fa lo slavo, il pronome della tersa a aervire per tutte, 
e dicono: jen (jo) me ve* (letteralm. io mi veggo) per son vedalo ; tu 
te vez (luti vedi) sei veduto', jel se vide (egli si vede) per è veduto**. 
Ora il latino, se Bopp e Poti non fallano 35 , deve la r del suo passivo pa- 
rimele al pronome s e, fatto bupno come nello alavo a tutte le persone ; ed 
amor sarebbe da amo-se (s =: r, come l' e s di es-tis è V e r di er-am, er-o ecc.), 
amaris da amaa-i-se, amalur da amat~u-ee, amare (imperativo) da 
anta-se. 

Alle divergenze dell* ultima apecie additata di sopra, pelle quali si ma- 
nifesta la giovenilo vegetazione continuata neUa individualità di otascheduna 
«7 



360 STUDJ COMPARATIVI 

dello antiche sorelle, Va portato il oongiunger ch'esse fanno, a crear nomi, 
la radice medesima quale ad ono quale all'altro dei suffissi che son di co- 
mune proprietà. Se da v a s vestirsi il sanscrito fa vas-tra-m vesto, il la- 
tino, con altro suffisso che già vedemmo proprio dell' indiano, delle slave, 
del greco, si compone dalla radice istessa; ves-ti-s, donde rampolla la 
radice secondaria vesto, e indi vestì arius, vestimentum, ecc. —-Il tra però 
di vas-tra-m è il Ini latino di $pec-tru-m e di tanti altri, il greco rqo 
di <j^p-M£0-*s confrontato da Bopp, nelV AccenhuUiong$ystem, e per costru- 
zione e per accento (non già per radice o per senso) al sscr. pét-a-tra-ra.— 
Abbiamo altri importanti argomenti di dissimiglianze, nei diversi significati inerenti 
originariamente ad una radice, ma singolarmente manifestantisi nell'uno o 
nell'altro idioma; negli ombreggiameoti e nelle applicazioni svariatissime dei nuclei 
radicali, apportate, dopo la divisione, dal meccanismo non interrotto de' pre- 
fissi e de' suffissi ; nelle vicenda che subì coi secoli il significato de' vo- 
caboli, per cui la parentela di questi si oscurò 36 ; e nei fenomeni che possono 
riuscire affatto isolati in qualche ramo della famiglia, per esserne disparito 
ogni vestigio negli altri. Arrogi le dissimi glianze che sorgono dalle permu- 
tazioni fonologiche di cui vedemmo esempj; dalla tendenza dissolutiva, da 
corrompimenti e da alterazioni accrescitive o diminuiti ve, che pur nelle antiche 
si palesano; alterazioni che hanno uno speciale incentivo negli innumerevoli 
vocàboli composti che vengono a perdere la coscienza de' proprj componenti, 
e delle quali il pensiero spesso profitta, come altrove (p. 23) dicemmo, per 
collocarvisi in novelli discernimenti. Il latino perde il duale, si stanca della 
reduplicazione nelle radici verbali e ne serba poche intatte vestigia (spopondi, 
enctort, ecc.); il greco perde i suoni j e e, e, dov'era anticamente il primo, 
mostra interessanti fenomeni di assimilazione che nel seguente articolo ci av- 
verrà di descrivere ; la purezza delle antiche vocali si vien conturbando, ond* 
esse moltiplicansi, e alle tre brevi indo-gotiche a, », t», si . contrappongono 
le cinque brevi greco-latine a, e, », o, u. — E qui trattando di alterazioni 
mi ernie in acooncio di soggiungere nn pajo d' esempj relativi ai mezzi 
per riconoscere P anzianità delle forme, ai quali ho alluso. In Xóyoig abbiamo 
avvertito apocope (p. 249), in Myoi-oi l'anteriore integrità. Ma nella t della 
desinenza -ait ( = cn, [v]ti) di terza persona plurale, che Buttmann 37 repu- 
tava la forma originaria, scorgiamo all' incontro nn' epifosi, perchè la desinenza 
ellenica fondamentale, il dorico -rti, che non assume mai questa > M t ò pari 



DI LINGUE ARIO-EUROFHE. l6l 

al nti delle tene plorali indiane (colla » finale in consnonanca alle tre de* 
ainenze singolari mi, ai, li;, al quale rispondono nti Modico, nt latino, 
nd gotico. — n%ih$ ha per vezzo ellenico la epentesi d'una *, giacchi 
nohg ai dimostra più antico, pari al pnrl sanscrito, ritta, cioè la piena, k 
a follata) dalla radice pt che si ritrova in *lfi-nhi-iu= pi -par-mi. 

Mi resta ancora, per compire il faticoso commento del mio testo, a dar 
qualche prova della comunanza inorganica di parole affermata dalla fonologia, 
e delle tre differenti apecie (v. p. 255) di simiglianze organiche, — Hori, Ter 
si, kendra, termini astronomici che gl'indiani presero dai greci in uno con 
dottrine astronomiche (rn^o, qxttxig, xévtQov), ai riconoscono immediatamente 
parole tolte a prestito, poiché la fonologia non ammette la cognazione in-» 
do-greca di questi vocaboli; h sscr.=* , t> sscr.^o;, é sser.=ff, d sscr.= 
% essendo equazioni sospettissime in linguistica. Uo esempio notevole di vocabo- 
lo greco che abbia subito in nn volgare sanacritico asiatico le alterazioni 
medesime cui aoffrono in simili dialetti le parole dell' antica lingua brahmanica, 
è il fa tega che si rinviene in leggende di monete per duco d'esercito^ 
vocabolo che la fonologia riporta alio ovoatnyóc dei greci, scorgendovi si 
ridotto a f (th) come Io st sanscrito diventa tt in pracrito (asti=atfi), 
e sparita la semivocale come nel caso perfettamente consimile di setto pra- 
crito rimpetto a é astra sanscrito, strale, arma. 

Nella gutturale aggruppata alla liquida che abbiamo prima veduto in 
xkéosy xXv-vóg, xléog, comune al latino clueo, in-clu-tu$, al gotico bliu-man 
orecchio (Gehór) sta una somiglianza proveniente da unità primitiva ; ma il san- 
scrito, come pure già c'è noto, affievolita a sibilante la gutturale originaria, oppone 
s r a v a s udito e gloria a xUFog greco ; e questa degradazione si ripete, qui 
come in molti altri casi, nello slavo, che ha slava gloria 89 ., nella qual secondaria 
peculiar somiglianza il grande Bopp (Vgl. Gr. p. 1255) vede uno dei più 
importanti indizj del fatto, che le slave siensi dipartite dalla sorella asiatica 
ben più tardi delle classiche e delle germaniche. È poi fortuita combinazione 
se (v. p. 142) dvi-, dvis si ridussero in latino a bi-,bis (cfr. duellum = 
belluini) identicamente come avvenne in zendo 40 ; o se il lituanico 1 i k a dieci 
nei composti numerali (p. e. try-lika 1 3) riesce somigliantissimo al leh indo- 
stanico = dieci, della composizione s o - 1 e h 1 6 41 , pari al r e h degli altri com- 
posti indostanici, che ha il suo riscontro nel r a h a dei pracrili da d a h a per 
d a éa(n)= (foci, decerti, lit. desùnti, dina. Il pracrito perdendo pur desso, nel 



9&1 • «TUDJ COMPARATIVI 

.vocabolo per dodici, la d iniziale del numerale due, come il latino in tri, 
offre vfiraha (Vararne!, II. 43) perii nostro dodici, saor. dvftdaéa, dal 
quale s'è ben più allontanato il b ft r e h dell'odierno indostanico che non il dodese 
del nostro dialetto veneto I Le coincidente quali bis nendo e bis latino, 
-lika litoanico e -leh indostanico, dovute ad alteramenti indipendentemente 
consimili, si moltiplicano, com' è naturale e come accennai a pag. 22, nei fe- 
nomeni presentati dalla decadenza nelle lingue figliate. In praorito, p. e., 
troviamo due, dove, do per nominativi del numerale due (sscr. dve, 
dvau); sattamo vi è settimo (sscr. saptamas, in cert' incontri sap~ 
lamo). Al nostro giovane, coli" antica semivocale (juven-i-s) ra Sonata a pa- 
latina, risponde guvàn (giuvan) del persiano moderno, rimpetto al juvan 
sendo e sanscrito, o il praorito govana (giovaoa) rimpetto a j savana 
aecr. giovinezza (£ac. ed. Chézy, 10.5- BohtL 9.22). Il mehrattico ha 
sasari per suocero, dal sanscrito évasura (per svaéura), con altera» 
»oni notevolmente simili a quelle del socer latino, di cui viene fortuitamente 
ad. apparire più antica la forma toscana suocero. 

Al rapido prosperamento della scienza comparativa de- 
gli idiomi sanscritici, contribuirono principalmente gli sforzi 
di alcuni illustri alemanni, che, raccolta con avidità dagl'in- 
glesi la conoscenza dell'indiano antico, si diedero a quelle 
lunghe e coscienziose indagini, i cui frutti essi hanno sporto 
negli ammirandi lavori onde la patria loro va* a buon dritto 
superba. Nominerò, per dir degli antesignani soltanto, Fran^ 
cesco Bopp e Augusto Federico Porr, che, a tutto il cam- 
po quanto vasto è, estesero la fecondissima investigazione. 
Jacopo Grimsi, pei numerosi suoi . lavori toccanti specialmente 
il ramo germanico, ed il francese Eugenio Burnouf per quelli 
concernenti la lingua e la letteratura zendica, vanno glorio- 
samente congiunti a que' primi. Mal esperto ma non servile 
seguace delle orme di questi e d' altri chiari oltremontani, 
io mi prefiggo di ammannire al lettore italiano una serie 
d'articoli, che presentino varie importanti risultanze di tali 
studj; e intendo incominciare, nella puntata prossima, dalle 
leggi fonologiche toccanti il nesso indo-italo-greco. 



DI LINGUE AMO-ECROPEE. 265 



ANNOTAZIONI. 



# - Ario-europea si dirà con maggior convenienza la illustre famiglia 
di lingue, che altrimenti è appellata indo-germanica, indo-europea, mnscri- 
tica. La prima denominazione pecca d' inesattezza in ambo le sue parti ; giac- 
ché in Asia non all'India soltanto, ed in Europa non ai soli paesi germanici 
si restringono le favelle di cui trattiamo. Nella seconda, il primo elemento 
serba il vizio medesimo ; la terza ha minore evidenza di quella che prescelsi, 
e può d' altronde condurre alla falsa idea <T una derivazione delle altre ano- 
europee dal sanscrito quale ci pervenne ne* famosi monumenti letterarj del- 
l' India. Ma non si può dir tuttavia impropria, siccome quella che accenna 
alla sorella in cui abbiamo il tipo più compiuto della grammatica e del les- 
sico della famiglia ; ed avendo innoltre il pregio della semplicità, la adopere- 
remo simultaneamente a quella di arto-europea. La voce arto (sscr. Irja, 
zendo a irja) cui la letteratura brahmanica oppone mie 6 Sa barbaro, stra- 
niero (Manu, X. 45), e da cui ebbero varj nomi genti e regioni medo- 
perse (a i r j a , a i r j a n a , donde f : r à n ^ 'Aola , 'Aosta , 'Aowcvrj , *Aqwi), 
è adatta a dinotare le sanscritiche asiatiche; e l'epiteto di europeo non si 
può trovare angusto se pure al continente nuovo si son dilatate siffatte lin- 
gue ; giacché ivi si parlano idiomi compiutamente elaborati in Europa, e quindi 
essenzialmente europei. 

È ormai generalmente riconosciuto, appartenere al sistema ario-europeo 
{seguenti gruppi di lingue: v 

I* V indico. Ha per ceppo il sanscrito (s a n s e r t a) , da cui si ri- 
petono le origini del paiico (pfili), e del pracrito (pràcrta). Sotto que- 
st'ultimo nome comprendoni i varj vulgari san se ri ti ci a riti chi dell' India, dallo 
Stemperamento dei quali surse nell' evo medio l'idioma induo (h i n d a v 1 , h i n- 
dut), colla preziosa varietà brag-bàifi (sscr. vraga-Blàl) tutt'ora in 
qualche uso. DalHnduo alterato, trassero origine I* hindi e P A i n d ut stani: 
(indostano), con colluvie di vocaboli persiani ed arabi portati all'India dalla 
invasione musulmana. Il primo di questi idiomi, essenzialmente non distin- 
to dall'altro che per minor proclività ad accogliere voci forestiere, si parla 
dagli Indù bramanisti nella parte settentrionale della penisola; e come meno 
alterata da mistioni si cita particolarmente la sua sottospecie cari b o 1 1 . 
11 secondo (A i n d ut s t à n i:) all' incontro, proprio dei musulmani dell' In- 
dia, zeppo di vocaboli persiani ed arabi, è esteso in tutta quanta la peni- 
sola indostanica, e si suddivide in ù r d ut (zabàn-i-ùrdui o ùrdut-za- 
bàn, pers. lingua da campo) ossia indostano settentrionale, e dacnt ossia 
indostano meridionale (da col meridionale f., prdcr. d acci pi — sscr. dac- 
fiipl, v. p. 219). — Antecedentemente i linguisti chiamavano hindi la 
lingua pura succeduta agi' idiomi pracriti, alla quale sarebbe spettata la va- 
rietà bragà-bàSd, e le opponevano 1' A i n d ut s t à n i: , lingua di mesco- 
lanza (v. Wilson, ap. Lassen^ Inst.pracr. App. 21, n.; Vater-Julg 
S. Hindi). Ma stando al de Tassy, valente scrutatore di questi parlari, e 
a* suoi seguaci, risulta che l'appellazione hindi si conviene bensì all'idioma 



9l>4 IIUDJ COMPARITIVI. 

che, per una qualche purità, ni eno si scosta dalla braga-Dàià* dì quel che 
faccia, F h i n d ut s l à o i: ; ma U vera pracritica nominarsi h i n d u 1 (= h i n d a v i); 
ed hindi non altro dinotare alla fin fine che. una varietà delP indostano (v. 
Journ. As. IH. S.,T. XI, p. 203 ; IV. S., T. IX, p. 549, e T. XIV, p. 349. 
cfr. Zeilschr. d. deuisch. tnorg. GeselUch. I, 360). 

^Itre lingue sanscritiche indiane viventi (v. n. XVII della Introduzione), 
sono: la bengalica (b anglll)-; la pengiabica (pengibl, da Pengàb 
pers. = PentapoUmia = sscr. Paficanada) -; la mahrattica (mahfràstri 
sscr. dal-gran-reamé) - ; la gmeratica (gurgart) -; la casmirica (e us- 
ui ir 1), e varie ancora. Non appartengono però alla famiglia sanscritica uè il 
malabarico (m a 1 a j a* l a ni), nò il tamulico (timi 1), né il telinga (telugu), 
come fu supposto da taluni (anche dal dottissimo Biondelle, Atlante lin- 
guistico deW Europa, I, 30-31), indotti probabilmente in errore dall' averne 
Colebroohe parlalo nella dissertazione On the sanscrit and pràcrit lan- 
guages inserita nel settimo volume delle Asiatic researches. Ma a torto si 
accusa I* illustre inglese (v. Ellis, ap. Las s en 9 Jnst.prócr., De liu£uis 
dekhanicis) di aver voluto derivare il telinga (telugu) e gli altri idiomi 
dell'india meridionale dal sanscrito. Del tàmil (presso di lui: tornei; làmia, 
tàmalah) esso dice: / can venture lo pronounce, thal the tamia con- 
lains many sanscrit word*, either unaltered, or little cnanged, with o- 
thers more corrupted, and a stili grealer numòer of doubtful origin (ed. 
Lond. p. 227). u Posso avventurarmi ad asserire che il tàmia contiene parec- 
chie parole sanscrite, o intatta o con lievi mutamenti, altre più corrotte, ed 
un numero ancora maggiore di origine dubbia " — Del telinga, nella pagina 
susseguente: The characler in which Ihey tcrile their ownlanguage is la- 
Jcen front Dévanàgart, and the taiianga Bràhmens employ il in 
jori/ing the sanscrit longue, from tohich the Uilanga idiotn is said lo 
Hate borrowed more largelg than other dialecls used in the soulh of India. 
M It carattere col quale scrivono la propria lingua è cavato dal devanaga- 
rico; e i Bràhmana del paese se ne servono quando scrìvono in lin- 
gua sanscrita; dalla quale dicesi che l'idioma telinga abbia preso a pre- 
stito con più larghezza che non V abbian fatto altri dialetti usati nella parte 
meridionale dell'India. " Codesti tre idiomi (malajà.lam, tàmil, telugu), del pari 
che il camalico o danarete (carpata in sanscrito, in canarese canna<Ja = 
cannarà)* il tu [uva (tuluva di Ellis, tutu di Weigle\ son membri 
principali della famiglia delle lingue decani che o dràvi<Jiche, d* indole 
affatto diversa da quella delle ario-indiane, ma arricchitesi d' un maggiore o 
minor numero di vocaboli arici. 

Tra gì' indiani volgari san seri liei menzionerò bensì ancora lo unganico 
(romani gib), per cui s'intende quel fondo originale che scuopresi più o 
men compiutamente conservato in mezzo alle tante diversità presentate dai 
parlari de' zingari; i quali in ciascun paese accolsero a profusione nel loro 
idioma vocaboli della lingua che vi trovarono parlata. 

II. V iranico. I più antichi rappresentanti ne sono lo zend (v. 
pag. 93), ed il perso delle iscrizioni cuneiformi. Vengono poscia le varietà 
antiche e moderne del persiano propriamente detto (v. più avanti) ; il be- 
iucico ; T afgano (p u è t u) ; il curdo ; 1' armeno o aicano (gli Armeni pre- 



ANNOTAZIONE \ Q65 

sumono discendere da Botò, cui fanuo figlio di HlJTIjh tooarmaÀ [Gen.X. 
8.]; e haj, al plurale hajq, vale Armentus, Armenti); e la lingua degli 
Osseli che si danno il nome d' Iròn (v. Adelung, Mithrid. IV. 140; 
Klaproth, As. polygl 82; Qosche, De ariana indole etc. 16). — 
Biondelli, ib. 15-16, 54, 244, opina a torto che fosse esageratone 
d' alcuni linguisti V inchiudere nell' ordinamento ario-europeo gì* idiomi degli 
Armeni e degli Osseti, e che in séguito a più mature considerazioni questi 
debbano essere aggregati ad altri sistemi. DclP appartenente dell' ossetico al 
ramo iranico delle ario-europee, detto altrimenti medo-perso y non è 
più lecito dubitare, lndizj manifesti ne son pòrti e dalla raccolta di voci os- 
secene nt\V Asia poliglotta (88-97), e dai confronti istituiti dal Bopp nelle 
note XXXI e XXX IX al suo lavoro : Die kaukasischen Glieder des indoeu- 
ropdischen Sprachstamms , e più che mai da' materiali raccolti per lo 
Sj 6 greti (Ossetische Sprachlehre nebsi kurzem ose. - deuteh. d. - oss. Wórter- 
buche,, St. Petersburg, 1844; cfr. Po//, Die quinare und rig esima le Zdhlme- 
thode, Halle, 1847, p. 81). — L'armeno del pari è rivendicato al ramo me do- 
perso da Windischmann (Die Grundlage de$ Armenischen im ari- 
schen §prackstamme,xit\\t Memorie dell'Accademia di Monaco, I. T. IV. P. II); 
da Petermann {Grammatica Unguae armeniacae, Berlino 1837); da R. 
G os che (De ariana Unguae gentisque armeniacae indote, Berlino 1847); 
da Boetticker (Vergleichung der armenischen Consonanten mit denen 
des SamkrU, Zeitschr. d. d. morg. Ges. IV, 347-69; Arica, Halle 1851); da 
un anonimo nell'opuscolo: Zur Urgeschichte der Armemer, Berlino- Vienna, 
1854; e da altri (Diefenbach, citato da Gotche, e Bopp all'oc- 
casione, e Klaproth stesso). Tali osservazioni non vengono a menomare 
il merito del chiariss. autore dell' Atlante linguistico, siccome quelle che toc- 
cano punti ancora controversi nell'epoca in cui egli scriveva (1841). Mohl 
stesso tenendo parola alla Società asiatica di Parigi (luglio 1845) della pub-* 
blicazione dello Sjógren, la qualificava tt un ouvrage que je ne saurai» 
faire eutrer dans aucune des familles de langues dont j' ai eu occasion de 
parler". — La linguistica è, si può dire, bambina ancora. Illustri contem- 
poranei P hanno veduta nascere e sconfiggere sistemi ed asserti da essi avan- 
zati ; ed i profani, sedotti da nomi famosi, giurano in verbo magistri e vanne* 
da errore in errore. Nel 1833, il celebre de Hammer (dappoi H a m me r- 
Purg stali) scriveva nel suo Essai sur la langue et la letterature persa*- 
nes : „ Il faut bien distinguer le véritable persan, soit le moderne, soit ran- 
cieri, des langues mèdes ou ariennes, comme le %end et le pazena\ les- 
quelles, quoique autrefois florissant en Perse comme idiomes deB livres sacre» 
de Zoroaytre, et, à ce qu' il paralt ausai, comme la langue des inscriplion» 
en caractères cunéiformes, n' en sont pus moina d' une aulre branche que 
le persan, avec leqnel elles n' ont que peu de rapporti direcls". Però, già 
nel 1789, il grande Jones aveva riconosciuto, con quella sagacilà che 
abbiamo magnificato altrove (Introd. n. LXVUI), F indote san scritica sì dello 
zend che del persiano (As. Res. ed. Lond. IL 51-54). 

Il pftzend, ben lungi dal non istare che in scarsa relazione diretta 
eoi persiano moderno, altro non è se non, per nome improprio, il parsi, 
che Hammer stesso menzionava a buon dritto fra i dialetti persiani, qual 



966 STCDJ COMPIUTITI. 

generatore delTidiosss attuale. Il pirsi (parse) cioè (mcn non 



lavori interpretativi delle scritture zoroastriche, che possono sudar compresi 
follo la denominazione P is e ■ d), forum Fascilo di cougiaazio*e Ira fl i 
no dall'una parto e Funvàres e lo stari dairaltra (▼. Spiegai, 
derPà>sisprackenebuSprackproben,ÌÀpakì 1851). L' stava rei (huz vi rei, 
pani avi:, pelvi), idioma bob più parlalo aeppur desso, consta di elementi 
ìb parto arasiaici (semitici) ed ia parte arti, per Biodo tuttavolta da esibire 
osa nsiouoaua iraoica (v. Spi egei, ZmUckrifi der demtsck. wtorg. Gas. L 
251). Di codesta fastose pelvica di elementi sesiilici ed arti debbono scasa 
dubbio euerm conservate vestigia, per la traila del pam, ad persiano moder- 
bo; e quindi si aUcsdcrà con profitto a scersere qiel di sentito ebe per 
siffatto processo genetico v'abbia nel persiano, da quello eòe l'arabo, lingua 
sacra dell'Isiàm, vcbbc ad inlrudervi dopo che gli Arabi ebbero conqui- 
stala la Persia. 

III. V ellenico. 

If/. V italico. Abbraccisi i\ latino; nitro antiche italiche, coate Tosco, 
Tumòro-, e le favelle derivate dal latino. 

. V. Il germanico. Comprende tulli gT idioau teutonici o scandinavi 

*/■• Il letto-slavo. 

VII. Il celtico. Si suddivide in due gruppi distinti, il gaèlico cioè 
(gaoTelico di Diefenback, Celtica L 9) ed il cimrico o coatta». Al 
gruppo gaèlico appartengono: V irlandese (irish degl'inglesi), cui si congiunge 
il manx parlato nelf isola di Man ; e Verso {erse in inglese) ossia il gaè- 
lico propriamente detto, parlato dai Higklanders della Scozia. La denomina- 
sione erso {erse) pare etimologicamente identica ad irisk, e fu quindi da 
varj autori attribuito alf irlandese (dall' A de lungi da Canta L H, Etno- 
grafia delT Europa*,*,. 2, VI. e 3; da B tondelli. Atlante linguistico,}. 61, 
e da altri); ma spelta solo air idioma dei Highlsnders, cioè al gaèlico nello 
stretto senso. V. Pici et Journ. As. marzo 1836, p. 272; marzo 1840, 
p.238; Diefenback, Celtica, II, 2. 246, 317-19, 376. — In fondo, V ir- 
landese e Terso sono due discosti dialetti della medesima lingua, e nei loro nomi 
istessi vengono a identificarsi Gaèlico cioè ( - erso) deriva da Gael, nome che li 
Higblanders si danno, e che altro non è se non sincope di Gaoédhal che ìb 
irlandese vale irlandese (e montanaro della, Scoria; v.Lhuyd, ap. Arndt^ 
Urspr. d. europ. Spr. Franco!, s. M. 1827, p. 235), donde gaoidhilg 
lingua irlandese. V. Diefenbach, ibid. 273, 318, 381. — La grande 
simiglianza dei dae idiomi fece si che persino in qualche grammatica andas- 
sero confusi (v. Vater y Vergleickungstafeln, ecc. p. V), e rende comprensi- 
bile come taluni potessero dare il dialetto di Man per una varietà delP erso^ 
mentre la èdeirs>Ja*a>se(v. presso Diefenbach, II. 2, 248). La medesima 
ambiguità rinviensi in riguardo all'idioma celtico parlato nelle Ebridi, detto 
però erso dagl'indigeni (v. ib. 246). — Il nome di gaèlico, nel senso pia 
lato, abbracciando, come di sopra vedemmo, sì F irlandese che T erso, si 
chiarisce come dal nome gaelico, gotico fossero intitolati lavori grammaticali 
• lessicali toccanti sì l'uno che l'altro idioma, od ambo. 

Il fecondo gruppo del ramo celtico, detto cimrico o costerò, comprende 
gallese (welsh degl'inglesi, gallois dei francesi, cgmraeg dei cimri), i«ko- 



ÀrfNOTAZIOHI. M. a(h 

ma popolare Bel Galles, Ogmrm^ e lungi ancora dall'esami limitalo, come fa 
scritto, ai soli montanari (y.Dief. 11,2. 140); -il bretone vivo nell'Anno^ 
rica, detta B r e i s Bretagna nella lingua del paese ; - il comico (cernùac= 
k e r n ù a k , ib. 1 55) parlato un giorno nella Cornovaglia {CormoaU) inglese, ap- 
pellata Cernia in gallese, Cernow, Cornea in comico; idioma quest' 
uUiafto oggidì spento o quasi (v. ib. 157; Arndl, ib. 34). Per cimrieo 
assolutamente detto, intendesi il gallese. 

U bretone, celto-breton dei francesi, si chiama nella lingua del paese 
brézuaek (masc). Breizad dato da taluni (Bio n delli, ib. 64; Valer* 
Jélg, LiUeratur der Qrammatiken ecc. art. Bretagna) per nome della lin- 
gua, è il nome maschile per l'uomo bretone, plurale b rei sii. Omonimo 
al ComucaU dell' estremità sud-ovest dell' Inghilterra, ritroviamo un tratto di 
paese nella Bassa Bretagna, al nord -ovest della Francia: Cornouailles 9 haute e 
hasse. Non più distinto amministrativamente, esso fa ora parte de' tré di— 
partimenti: Finisterre, Cdtes-du-Nord, e Morbihan; ma è sempre chiamato 
dai Bretoni Kerné — Cornouailles (v. Le Goni de e, Grammaire celto-bre- 
tonne, ed. 1839, pag. 191). Il dialetto armorico che vi si parla vien detta 
cornovallico (la Comouaillère), e si suddivide, analogamente al territorio, in 
alto e basso comovallico. È altresì da notarsi che il comico (idioma dell* 
Cornovaglia inglese) par che fosse chiamato anco brethonek (Dief., ib. 
155); il qua! nome torna al medesimo di brézunek (bretone), giacché lo 
* in bocca a molti bretoni, come nota Le Goni de e, ha ambo le pronuncia 
del th inglese. Oltre il cornovallico si distinguono 'più dialetti armorici, 
sui quali si possono vedere: Diefenb. ib. 162; Le Gonidec 9 ib- IX-XI# 

Controversa è ancora l'ammissione dell'albanese nel sistema ano-europeo. 
Vedine Poti, nella Zeilschr. d. a\ morg. Ges. IX (1855) p. 280, contro Max 
Mailer che recentemente ve lo introdusse, come già altri* avevan fatto. Io. 
spero che in ano dei prossimi fascicoli mi sarà dato di estendermi so que-c 
sto proposito. — Bopp tentò di aggregare alle ano-europee anco le ma-, 
lajo-polinesiache, e un gruppo d'idiomi caucasei formato dal georgiano, dal 
méngreheo^ dal suanico, dal lasico. Egli stima che il ramo malajò-polinesiaco 
■on vada fraternamente congiunto al sanscrito, come fanno p. e. lo «end, il lu- 
tilo, il gotico; ma gli stia in tralignante reiasione filiale. E le favelle cancasee or'orn 
•numerate riconosce egli membri della famiglia ano-europea meno antichi a 
men bene conservati di quel che lo sieno lo zend, il latino, il gotico o ri- 
mili. (Ober die Verwandtschaft der malayisch-polynesischen Sprachen mit de» 
indisck-europdischen, Berlino 1841; Die kaukasischen Glieder dee indoeu- 
ropàiscken Sprackstamms, ib. 1847.) 

1. - Ik*ù4uQ riesce in questa combinazione uno degli aggettivi quasj 
connaturali ; non si potendo dire che vi implichi propriamente il senso di pron* 
io, rapidissimo. V. //. Vili, 496; XV, 35 e 48; XVI, 6; XXIII, 535 e 557. 
I commentatori annotano : alate parole, cioè parole celeri, perchè nulla pie 
pronto della parola (kóyov yào ovòh ta'jfitsQOf). Lo Schrevelio s'era ridotto; 
a dir di questa aggettivo : Aliquando aagittis tribuitur : aliquando etiam verbis, 
qnod emissa ex ore revocar! ncqueant, ao animum vulnérent instar sagittarum. 

«7 # 



165 STUBJ COMPARATIVI. 

s 

2. - Corn. Nep. in vita, X. Die orane illud tempus littori» sermo* 
nique Persarum dedit: quibus adeo eruditas est, ut malto commodias dicatar 
apud regem verba ferisse, quam hi poterant, qui in Persi de erant nati. 

3. - Di questi esempj pongo qui allato al vocabolo greco il corrispon- 
dente persiano sì d'un idioma molto antico, cioè Io zend (v. p. 264), e si del 
più moderno, cioè il persiano d'oggidì: dvo (duo), dva *., dm p., due;- 
nirts (pente), panéan s., peng p., cinque; -ima (heptà), haptan *., 
A e f t p., sette ; - àtrtriQ (astéV), s t ft r(é) »., s i t fi r e h p., stella ; - btrjfu (bi- 
stènti), bis tfimi »., fstem (sor.) p., io sto, Aestem p., iosono (v.p. IO, 
nota); - òYoVnpi (diddmi), da (fami s., deAem(aor.) p. (infinito di-den), 
io do; - iati (osti), aé ti s., èst p., egli è; - òtrrsof (ostóon), aéta *., 
Qstuhafn p., osso; - ncttrjQ (paté'r), patar »., peder p., padre; - ^v- 
yórrjQ (thOgétér), du&ffar *., do iter p., figlia; - 6-topa (ónoma), ni- 
man *., n à m p., nome. — In trascrivere il neo-persiano, mi attengo al sistema 
adottato per .l'arabo (v. pp. 51-54). Le lettere che furono aggiunte all'alfabeto 
arabico per rappresentare suoni estranei alla lingua araba e proprj della per- 
siana, sono: 

pe: [collocato per analogia grafico-fonica dopo il bà] p. 
è* e: [ , „ dopo il gi:m] 6 = 6 indiano, 

jfe: [ „ „ dopo il sa] j=j francese. 

gàf[ v „ dopo il kàfl g=g italiano in- 

nanzi <z. 

Nella trascrizione del persiano, il fatba è rappresentato ora da a ora da e; 
il kasra sempre da t', tranne il caso in cai col jà susseguente esprima il 
dittongo 6, che rendo per e:. Per l'arabo all'incontro v. p. 53, IV. 

4. - Quorum promontorium Ima&s tocatur, incolarum lingue n i v o s n m 
significante. Nat. hist. VI, xxf. Parla dei monti Emodi, ossia della catena 
dell' Himàlaja, detto pure Himavat (da hi ma neve, col suffisso possessivo 
vat), donde s'ha l'aggettivo baimavata che darebbe la forma pracrita be- 
ni odo. Io credo col Lassen (Ind. Alt. I. 17, nota) che l' Imaùs di Plinio, 
Tffutog di Strabone, corrisponda a himavat; ma non mi appaga la sua ipo- 
tesi di trar la forma /greca da un pracrito himavan con elisione della t>. 
Piuttosto supporrei una varietà dialettica per la quale il suffisso vat, nella 
forma piena v a n t , si fosse debilitato ad u s , in analogia al suffisso del par- 
ticipio del perfetto attivo che si mostra nella declinazione ora v I fi s , ora v a t , ora 
u S ; quindi h i m o s ( - h i m a u s) da himavat. S'hanno nel sanscrito classico 
istesso i vocativi interjettivi : fiagos da Daga vat, Boa da fiavat; nel 
primo de' quali è certo ridotto ad us il vat nominale che v'ha in himavat. 

5. - Ei mi sembra cioè fuor di dubbio che i vocaboli pagode, pagoda, 
pagodo (diffusi tra noi da' moderni visitatori dell'India), i quali nelle varie 
lingue europee dinotano idolo x tempio degli orientali (non musulmani), e una 
eerta moneta indiana, altro non siano che la riproduzione della voce volgare 
indiana corrispondente al sanscrito Saga va ti, venerabile, divina, uno tra i 
nomi di Umfi moglie di &va, detta pure Pàrvatl, Annadfi, Anna- 
puro a*, Durgfi ecc.-(V. As. Re*. VIII., 72; del culto odierno, di simu- 
lacri di questa Dea, v. Oarcin de Tassy , Sur les fétes populaires dee 
Hindous, Joorn. As. févr. 1834); e che perciò sia finalmente da rigettarsi 



AHHOTàZKWII. 114%. 369 

fra i sogni dei vecchi etimologisti la interpretazione addotta dall'Adelung (e da 
aitino ancora ripetuta nelf Enciclopedia popolare di Torino), secondo la quale, 
pagoda sarebbe composto di put e geda voci persiane indicanti idolo e tem- 
pio. In pracrito, stipite, per cosi esprimermi, dei volgari indiani san 8 critici, 
è ovvio che l'articolazione ava si contragga ad 0, e l'antica *. ai attenni a 
a\ Bravati aanscrìto, p. e., la eccellente, la signora, ai riduce in pracrito: 
ftodl (àac ed. Chézy, 93. 9; 122, 16; ecc.). B'agavatt diverrebbe analo- 
gamente 5 a g o d 1 ; ed in realtà troviamo pagòda tra i nomi volgari di quella 
Dea (v. Syst. brahm. p. 99, 100). Le monete con V impronta di Parva ti 
ossia B'agavatì (ve n'ha pur nel Museo borgianò di Velletri, a detta del P. 
Paolino, Syst. brahm. p. 246) avranno quindi portato per prime il nome di 
pagode , appellazione che si sarà estesa anche a monete con altea effigie, 
come fu di ghtUo presso di noi. Abbiamo adunque chiarito il senso di 
pagode per idolo e per moneta; e potremo ammettere di leggieri che gli 
Europei siano passati ad attribuirvi il significato di tempio (di simili idoli), 
quando pensiamo che da noi si dice frequentar «.Marco, per: la Chiesa 
di s. Marco. D'altronde è possibile che esista in qualche volgare indiano 
un nome consuonante a 5 a godi (venerabile), col valore di tempio. Intro- 
dotto poi questo vocabolo negli idiomi europei, l'uso si piacque di applicarlo 
■ idoli e a tempj, e forse a monete, estranei affatto al culto ed al paese 
donde la etimologia ce lo mostra oriundo. — 11 sanscrito Bagavat (da 
Daga col suffisso vai) significa: beatus, excelsus, tenerabilis, divina prae- 
ditus. poientià.. B a g a nel persiano antico (delle iscrizioni cuneiformi) vale Divo, 
Celeste; il bog slavo. B'aga è nei Veda, e nella letteratura posteriore, uno 
degli Àditja (v. la illustrai. ISJO. al Naia). 

6. - V. Stufi, p. 35. 

7. - Il tema è accresciuto d'una t, come in teuu-i-s = tanu sscr.; jti- 
«e»-ft-s=juvan sscr. — Do supposto evan la forma prototipa, quindi ri- 
tengo soppressa la nel tema latino. A Hòfer all'incontro (Beitrdge tur 
Etimologie, I.' 261) par lecito congettura/e che can, in cui la e non si 
sarebbe peranco sviluppata, rappresenti la forma primitiva. Di simili sviluppa- 
mene diètro a gutturali, v. il seguente articolo, §§. XI, in fine, e XXI. Ma 
nel nostro caso, apparendo in tutti gli altri rami della famiglia il riflesso 
della e sanscrita, mi sembrò ragionevole di reputarla perduta da] latino. 

8. - Vi- con- di à-dsXyóg risponde al sa- sanscrito equivalente; 
e -òèlyog (d&yvg, cfr. òfióddcpog) a garba, v. l'art, seg. §§. VI e XVI. 
Analogamente compone il sanscrito da safudara (con e ventre), sodare, 
sodarja, germano, fratello camole. Kuhn notò l'aggettivo sagarbja, 
che occorre nella San hi ti del Jagus bianco (v. Stuaj, p. 79), adoperato 
presso a Brttr fratello, col senso di carnale (5 rata sagarbja:). L'ag- 
gettivo sagarBja-s è proprio identico Vàdikcpeóg jonico. 

9. - Candidezza e splendore si fondono specialmente nell'aurora. Noi ed 
i francesi la nominiamo la bianca: alba, aube; e da é vi t essere bianco, 
che dicesi valer nel Veda anco splendere come lo stit slavo, s' ha s v e t j à , che è 
fra i sinonimi d' & a s aurora, con a r g u n 1 bianca, fi a s v a ti splendente, ed 
arali rosseggiante. Quest'ultimo nome, allude, come il rosso mattutino (Morgen- 
rdthe) dei tedeschi, alla vermiglia luce che l'aurora dalle rosee dita spande intorno. 



*70 STUDI COMPARITITI. 

10. - V. For&ellini, s. Deus $. XXVI (Dibus omnibus deabue- 
ytw); 8. 15 S§. XVII, XV1U. Cfr. Bopp (da Hartung), Vergleicfaende 
Grammatik, pag. 282. Tali fenomeni non debbono qnindi unicamente andare 
ascrìtti ad una tarda tendenza di distinguere il fèmjnile dal maschile (fili**, 
filiabus; eqvis, eqnabus; liberti*, Uberiabus; asini*, asmabus). È egli lecito 
immaginare che, ad ottener simile scernimento, siasi inorganicamente raf- 
forzata la terminazione del medesimo vocabolo in ambo i generi: ambobus y 
ambabus; duobus, duabus ; diibus, deabus? — Neil' istrumentale del numero 
dei più, affine per desinenza al dativo-ablativo (-Bis istr.; -Bjaa dai), 
i temi dIT sanscrito classico in a elidono parimenti la labiale delia termi- 
nazione; quindi gatais (per gatIBis) da gata, in confronto di cavi- 
Bis da cavi, e di gatàBis (fem.) da gatftr 

11. - V. Bopp, Vgl. Gr. §. 250; Vgl. Accentuationssyst. n. 72; 
Aufrecht, Zeitschr. fuer t>gl. Spraehf. I, 117-8. 

12. - Alcuni furono allucinati dal nome sanscrta che vale ornato, 
perfezionato, e dai sistemi grammaticali degli indigeni. V. Colebrooke, 
At. Rè*. VII. Lond. p. 201; cfr. pure Klaprotk, Asia polggL p. 45. 

13. - V. p. 104. Lassen neir Anthohgia: quae molgendi oflciom 
habet in vetusta familiae institutioiie. Hi garba meglio ohe l'accezione di 
Bopp (Vergi. Gr. pag. 11 34) lattante, poppante (Saugling). È evidente come 
ambo le interpretazioni provengano dal valore di mulcere, proprio della ra- 
dice d uh, che incontrastabilmente v'ha in duh-i-tr. Consuonano il gre- 
co &vy<tiriQi il gotico dauhtar, l'antico scandinavo déUir y il litnanico dukté 
(il lapponico daktar [taktar]), ecc. 

14. - Ed. Roseti, I. 61, 7; citato dal Bopp, Vgl.Gr. pag. 1134» 
li., e dal Benfey nel Gloss. al Sàmaveda, s. v. 

15. - Div cielo, mostra nella declinazione le due forme secondarie 
djo, nominativo djaus, e djn.il Jovis latino che si rinviene qnal no- 
minativo, sta al djaus quasi come navi* a naus sscr. {Poti, Et.Forsch* 
l, 1 00). Il Jev dei casi obliqui 4 contratto in J4-piter. Il dialetto vedico ci 
mostrò, dal tema djo, casi che nel sanscrito classico si traggono da div; 
per es. il locativo djavi. L'analogo dativo sarebbe djave = Jovt. La è è 
perduta per il latino, ma non per V osco ; il quale gradevolmente ci sorprende 
col dativo diovei, che ripetute volte incontriamo neh" iscrizione Agnonia- 
ha. — Bopp ha nel Glossario (s. v. diva sa) il gallese diev e l'irlande- 
se dia per giorno, ciocché non trovo confermato altronde. Bensì dia e con- 
simili forme celtiche valgon oVo; v. Diefenbaek, Celtica, L 154, e 
Bopp stesso sub deva. 

16. - Lo stesso avviene in altri fenomeni grammaticali che presentano 
le medesime combinazioni. Una permutabilità tra h e è entro i limiti della 
medesima lingua, non sarebbe impossibile ; troviamo anzi nello slavo quella 
analoga di % e £ (v. Kopitar, Glagol. p. 53. a). Ma ripugna di suppor- 
re che l'antica s, dopo esser degenerata a h nello tendo, vi ti ripristinasse 
(ad una sibilante che risponde alla i sanscrita) precisamente ed esclusiva- 
mente nei paralleli di quelle forme sanscrite dove s è divenuta è. Si deve 
ammettere che, laddove la sibilante originaria venne ad assumere via certa 
Ispirazione, non discese in fendo alla ecmplice aspirata * come, per fatto 



ANNOTAZIONI. X-XXJ. 171 

logo, vi si conservò, nella forma di i, dove raggruppamento a consonanti la 
rese più tenace ; . quindi ahi z. (tu) set, = a s i sscr., ma asti z. è, — a s t i 
sanscrito. 

17. - Bopp traduce nel Glossario sarva per quitis ed omnis sol- 
tanto. Ma vale anche totus, v. p. e. Mala, X1U, 27. Bo. — Benfeg nel 
Gloss. alla Crestomazia; ali, goni, vollstàndig. 

'" 18. - Sollus, folta, omnis> solidus-, v. Forcellini, s. solhts e 
solemnis. 

19. - Torna per avventura impossibile il giudicare se questo compen- 
so sia fortuito o ragionato. Aufrecht (Ztschft f. v. Spr., I* 120-21) si 
pronuncia decisamente per la seconda ipotesi; ma altri esempi perfettamente 
analoghi, coir o dittongato e lo spirito aspro assorbito, come ovdóg per 
òàóg età, ovoog per OQog confine, fanno sospettare in ovlog per okog sem- 
plice vezzo jouico, particolarmente se schierinsi con ovvopa nome per ovoaa\ 
ovloóg funesto per òloóg, Ovlvunog Olimpo per X)kvfinog, ovQog montagna 
per ooog. Che nel greco v'abbia questo principio di compensazione, è peraltro 
innegabile e notorio ; e nel nostro caso esso manifestasi forse in ovoóg (òoóg) 
zzÒQQÓg siero di latte. —Kuhn (ib. 515-16) e Bopp (Accenluationssystem 
n. 248) suppongono che il digamma del primitivo OAFOZ (olvos) siasi ri- 
tirato nella prima sillaba e ne sia nato OFAOZ (ovlos) donde ovlog. Se- 
condo questa attraente spiegazione , il dittongo non sarebbe propriamente 
compensativo, ma conterrebbe la semivocale smarrita. 

20. - E son quattro se i linguisti hanno rettamente, come pare, av- 
vicinato a quella radice e rogo, e posco. Rogo, proprio tuttodì dei valachi 
nel scenso di prego, ha nel valore di chiedo i seducenti analoghi FRAH, 
frag delle teutoniche, ed andrebbe manco della iniziale, come la smarrì o 
quasi la diversa radice greca *PAr ((Jifr-w-fu, id^aytjv) rompere, in con- 
fronto di BRAK gotico, frango (fregi, frac-tum) latino, che la miope etimo- 
logia d'un dì voleva trarre dal mutilo $w-rv-pi, e del Bang sanscrito, fran- 
gere. L'ultimo va air incontro privo della liquida r, come ne sarebbe il « 
posco (da porsco), quarta modalità latina del p r a 6 e sanscrito (pra3 = prask 
v. T articolo seg. §. IX), alla quale si pone allato fora eòo, ricercare, 
delP antico-alto-tedesco, e l'umbro p e r s - n i - , precor, manco esso pure tal- 
volta della r. V. nelle tavole eugubine pesniinu-persnimu; cfr. Ku hn, 
Zeitschr. fuer vergi. Sprachf. 11,397; Ebel, ib. IV, 445. Mei pere cium 
umbro (pers-clum) non so però vedere con quest' ultimo linguista l'antico sh 
della radice. — Il sanscrito mostra i per 8 in p raso a inchiesta. — Il ra 
di prac5 sì contrae in sanscrito a r, e questa vocale (v. p. 51) riducen- - 
dosi ad u in pracrito (come p. e., in san-vudo = vrto [vrtas]), si giun- 
ge pure in quest' idioma alla forma senza r : p u e e . Il persiano ha però e 
la u e la r: purs-i:den, forma notevolmente vicina all' umbra. 

21. - Alia famiglia del pronome sa, si, la cui indole affine all'arti- 
colo si appalesa nel servir desso come tale e al greco e al gotico (sa, sd, 
thata), mi par che sia da ricondursi l'articolo d'un altro interessante idioma 
arìo-europeo, ad approfondire il quale mi son mancati in sino adora i mez- 
zi; intendo dire l' articolo del dialetto sardo. I Grammatici attestano come 
gli antichi latini serbassero la radice pronominale di cui discorriamo, e trai- 



*7? STUDJ COMPARATIVI. 

tono e danno esempi di sam per eam, di sum per eum, di sas pere**, di 
$os per eos, tutti accusativi, meutre altrove questo pronome è limitato et 
nominativo; v. Forcellini, s. v. V'ha però anco sapsa (y.Bopp, vgl. 
Gr. pag. 492-93), quasi sa-ipsa, e non se ipsa come il Forcellini vor- 
rebbe: ()tio re* sapsa foco s«* ostentatque jubetque; Ennio. — Ora, 
T articolo sardo è si» per il mascolino singolare: su nomen, su nomine 
il nome ; sa regna, su renna»/ regno ; e sa per il feminino :sa vo- 
lantat, voluntade la volontà, sa terra, ecc. Stando all' A del un g 
{Mithridates, IL 529), il dialetto campidonese avrebbe soltanto a per ar- 
ticolo plurale : is liburna, is r u m or i s ,> i s pa r a n I i s , i libri, i rumo- 
ri, le parole ; e l'altra varietà direbbe sos e sas; sos o j o s , gli occhi. Nel 
Pater nosler, ut in pagis, Chamberlay ne p. 42 ba: is deppidos 
nostra s allato ad à sos deppidores nost ras. Ro e ca però (1591) 
scrive (v. ap. Adelung, in ambo le lesioni: città e campagna) s o s dep-* 
pidos (Vtos) e (a) sos deppidores (-torca). Troviamo poi in tutte le 
versioni, veramente sarde, in sos quelos, chelus, ne' cieli. L' Oraiio. 
dominicalis non dà occasione per il plurale feminile, come non ne porgo- 
no i bei versi citati dal Cattaneo {Alcuni scritti. II. 183): 

Mira s' umidu mantu tenebrosa 

Sa notti in's'aria sténdiri; 

Mira sa luna splèndili 

De stellas coronada. 
Questo insigne letterato, al cospetto della istoria dell'articolo sardo che ten- 
tammo diseppellire, ritirerà forse la ipotesi che dall'Anse latino quello sia da 
ripetersi. 

22. - Affine a vara eccellente, eletto, anziano. Cfr. Bopp,kt. sskr. 
Gr. §. 226, a; Vgl. Gr. pag. 409; Gloss.s. uru; e Benfey, Ghss. ai 
Sàmav. s. uru . 

23. - Bopp, s. agàrfa. 

24. - tt Und im Abgrund wohnt die Wahrheit". Schiller, Spré- 
che des Confutine, ultimo verso. Ciò scriveva io, nel mano 1848, a FiL 
Lu%%atto, che ravvisava Vaya&óg nell' agata, veritiero, secondo lui, dello 
iscrizioni cuneiformi persiane. V. Giom. dell* i. r. Istituto lombardo, T. I. 
della nuova serie, 1848. 

25. - V. i sas/gi poetici in dialetto siculo recati da Emiliani-Giu- 
dici nella Storia dette belle lettere in Italia, Lei. XXL 

26. - V Gabelent* e L o e 6 e , Ulfilas, Ghss. p. 205. -Grò tef en è 
credeva aver scoperto, nell'osco del Cippo Abellano, fuf per cinque (Ru- 
dimento linguae oscae p. 43, 48) accanto a sekss per sei, forme che mi- 
rabilmente avrebbero consuonato alle germaniche. Ma antiche fuf an sekss, 
ora si legge fufans e k k s (v. Mommsen, Oskische Studien, p. 59, 81 ; cfr. 
Ebel, Zeitschr. f. vgl. Sprachf. 11,58,61; Corssen, ib. IH, 292); e nes- 
suno più crede che in quel sito v'abbian numerali. L'aspiraiione delle labiali 
nel supposto fuf, doveva render sospetta questa forma; giacché nel numero 
quattro (petora, p e tiro-) enei pronome relativo (pie, pid, per qui», 
quid) sta la tenue labiale osca per la tenue gutturale latina. — Checché sia del 
ponUis che si legge nella linea XV della tavola bustina, cui Mommsen traduce 



ANNOTAZIONI. XXIKXXXVT. 273 

per cinque : riman però probabilissimo che un'antica forma italica delP ordi- 
nale quinto v'abbia io Pontius =: Q h i n e t i u s , e che in Pomp-ejus, Pomp- 
ilius ecc. stia il cardinale cinque con ambo le labiali come nei paralleli gre- 
co-germano-cimrici. 

27. - V. Bopp, Vgl. Gr. §.53; e pag. 1256: „ Uno de' precipui 
caratteri delle lingue arie (intende iraniche) è il mutar ch'esse tutte fanno la 
s originaria o dentale (ove totalmente non la sopprimano) in h, sì in prin- 
cipio che in messo delle parole, quando vi è preceduta da a ed I". Ed a 
e il son le uniche vocali sanscrite che vi amano dopo di so questa sibilante. — 
Cfr. Windischmana, Die Grundlage dee Armenischen itn arischen)Sprack- 
stamme, p. 20-22. 

28. - v. Mordlmann, Ztschr. d. d. mgl. Ges. Vili, 84. Circa la 
probabilità che.il nome Ciro (korei, kotrei della Bibbia) altro non sia 
che l'alterazione di Cosroe, come ha congetturato Burnouf, r.Ph. but- 
tati o, Études sur ies inscriptions assyriennes, p. 17 « seg., dov*ò riven- 
dicato aihusravafih xendo il senso di svxlsyg. 

29. - Poti, Etym. Forsck I. 138, erede che sa siasi ridotto ad tv 
(iv-g) dissolvendosi la s in vocale. Hoefer, Zur Etimologie, 1.394, sup- 
pone un «(Tv, donde éi colla elisione della s ; e non sa decidere se la a dì 
questo ipotetico sav sia per proteai p se abbia* ragione etimologica in un 
primitivo a s u (parimenti ipotetico, dalla radice a s , come s a t buono) , ri- 
dotto in sanscrito, per sferesi, a su. 

30. - V. Roseti, Rgv. I. vi, e i commenti relativi ; Ruth, Niructa, 
ad VII, 26; Kuhn, I. cii II, 395. — Hittig (Drei Stàdie in Syrien, al 
principio) biasima chi parifica senz' altro, Mb<ag a Manus; vedine però 
Kuhn, I. e. VI, p. 91 e seguenti. 

31. - V. Bopp, Vgl. Grammatik, p. 1223-26; cfr. Pott, op. cit. 
II, 93. Mi sembra si possan rimovere facilmente le obiezioni che lo S e hu> e •"- 
* e r avanzò contro il ravvicinamento del re latino al s e vedico = ffcu greco 
(Ztschr. f. vgl. Sprachf. Ili, 361-2). 

32. - Diefenbach, Die jetzigen romanischen Schriftsprachen, p. 96. 

33. - V. Kopitar, Giagolita, p. 50,7; 58 e 64. 

34. - Molnar, Grammatica valaca (1810), p. 199. 

35. - Vgl. Gramm. p. 686 e seguenti. Et. Forsck. I, 133 e seg. 

36. - La radice bucT deve aver significato in origine il venire a co- 
noscenta nel senso più lato ; in sanscrito vale : scorgere, conoscere, sapere, 
pensare, reputare, destarsi. Questo complesso di significati si frange tra le so- 
relle; il greco presenta in TJTTQ (ttw&avopaQ quelli di apprendere (udire), scor- 
gere, conoscere ; la semplice radice zenda b u <f offre quello di scernere colla «tato, 
vedere ; nei litdanici : b u n d u vigilo, b u d - r u s vigil, si ritrae quello di destarsi; e 
il senso del causativo (far conoscere, proporre, annunziare, indi mandare, coman- 
dare) sta in b i u d an gotico (v. Bopp tPott,%. r.). - Da (f fi (da^tfl-mi) 
porre, collocare, l'indiano trae <f I - m a n casa (stabilimento); il greco ha dal cor- 
rispondente rlQHftt (oltre che &ijua, #17x17, ripostiglio) {ripa, posta, posta 
ideale, quesito. — La radice del sanscrito mah-at grande è nel greco 
pax-oóg, nel latino mag-nus, mac-tus, nel gotico m a h - 1 s polenta. Ma nel- 
l' esclamativo latino macie chi mai sente più il perfetto parallelo del tedesco 



074 STCDJ COMPARATIVI. 

Macht? -Tanu sanscrito tenue, dalla rad. tan tendere, venne ad indicare, 
come il tennis latino, la esilità che proviene dalla tensione ; quindi sottile, 
minuto, delicato, piccolo ; V identico raw che abbiamo nei composti greci, 
allude air opposto all' ampliamento che deriva dalla tensione, quindi steso, 
lungo, largo : *avi&Qi£ dai lunghi capelli, ecc. La parentela ò bene oscurata, 
e gli etimologisti d'un dì sarebbero ricorsi alla dottrina delle antifrasi. 

37. - V. Gramm. greca, ed. del 1818, p. 168. 

38. - Burnouf, Métk. pour étudier la langue grecane, $. 237. 

39. - Lo slavo ha slu (slu-ti, Miklosich, p. 82; cui spetta s I a t a) 
= éru sanscrito; le quali forme stanno al xlv-m greco, clu-eo Ialino (cfr. 
pure il cluas orecchio, irlandese) come sto ' slavo = fiata sscr. cento, a 
i-xató-v ; come éstwa lituanico = a é v A sscr. cocolla, ad equa latino. V. il 
loco citato nel testo; e i vocaboli per dieci che quivi seguono poco ap- 
presso. 

40. - In guzerati (v. Journ. As. 1841, mano, p. 199) due si dice 
be, cui si pervenne da dve, come in latino da dvis a bis. Il Pavie 
suppone a torto una dipendenza tra simili forme, dicendo che il guzeratico 
b e M expliquerait assez 1' anomalie de b à r e À dome, et b i: s eìngt de l'hin- 
doustani, mots qui ne paraissent pas formés régulièrement dans oette dernière 
langue, et conduiraient à retrouver le bis latin". 

41. - È ben vero ciò che Poti (Zànlmethode, p. 178) obietta, che 
la cerebrale del sanscrito 5 o <J a é a n (da ìa<J<Jaéan per fi a fi f d a fi a n) 
sedici ha dato origine alla / del so -le h (so* le A) indostano, mentre gli 
altri composti indostani oppongono r alla dentale d; p. e. pand-reh = 
paHóa -dafia(n), 15. Ha ciò si .riduce a dire che in Socjafian la d si 
alterò, per uno speciale incentivo, a quello stato in cui è prossima a / oTd 
r; s'istradò cioè a queiralteramento che in reh o in lika sarebbe avve- 
nuto senza una spinta particolare, ma solo per la parentela della media den- 
tale con r ed L In generale, le difficoltà opposte dal Poti non mi pajono 
atte a far dubitare dell'affinità di lika e reh sagacemente scoperta dal 
Bopp, ed ammessa, nella Storia della lingua tedesca (p. 246-247 = 172), 
dal Grimm stesso, per la cui anteriore spiegazione del lika lit (lif gotico) 
il Poti parteggia (ib. 75). V. il seguente articolo, §. XL 



ERRATA. 

A pag. 180: Óvàngeli:fti:s; correggasi: évàngeli:fti:f 

184: i n p(ò«); — leggisi ^ p . 



STTJDJ CRITICI 



di 



<B. I. ASCOLI. 



CENNI BULL* ORIGINE DELLE FORME GRAMMATICALI SAGGI DI DIALETTOLOGIA 

ITALIANA COLONIE STRANIERE IN ITALIA FRAMMENTI ALBANESI 

GERGBI. 



Dagli Stndj orientali e linguistici, Fase. III. 



GORIZIA 

TIPOGRAFIA PATBRNOLL! 
1861. 



Slndj critici. 



i. 



(Studii linguìstici di B. Biondelle, membro effettivo dell'Istituto lombardo, 
eco. — Milano, 1856, di pag. XLVI e 379,) 



Linguista più operoso del Biondella non saprei citare 
in Italia. L' autore dell' Atlante linguistico d' Europa e dei 
celebrato Saggio sui dialetti gallo-italici, F editore delle 
Poesie lombarde inedite del secolo XIII e dell' Evangelia- 
rium, epistolarium et lectionarium aztecum site mexicanum, 
ci ragiona, nella serie d'importanti scritture che abbiamo 
dinanzi , della linguistica in generale , degli studj italici e 
romanzi, delle colonie straniere in Italia, delle lingue fur- 
besche, delle germaniche, della popolare letteratura epiro- 
lica, e della slava. E nel corso di questi Studii linguistici 
ei ci promette un trattato speciale Sui dialetti istriani (58); 
un esteso Prospetto delle varie favelle albanesi parlate in 
Italia 9 corredato di saggi e filologiche osservazioni (62); 
un trattato SulF apparizione degli Zingari in Europa ac- 
compagnato (V una illustrazione della lingua zingarica in- 
torno alla quale egli raccolse molte notizie dalla bocca degli 
zingari stessi (72,115), ed una generale Illustrazione delle 
lingue proprie alle colonie straniere «T Italia (73). A' gior- 
ni nostri, in cui, per l'amplissimo sviluppamento delle in- 
dagini sugli idiomi e sulle letterature delle differenti» nhzioni, 
T abbondaza de' materiali impone a chi aspira ad esauriente 
erudizione di restringersi entro a confini sempre in più mo- 
desti: potria sembrare strano F ardimento che portava il 



6 6TUDJ CRITICI. 

nare un libro, scritto in idioma che rispondesse a simil 
ritratto. Con un pajo d' esempj, io vo 9 per ora brevissima- 
mente rappresentare al lettore, come nel cinese, che il Biondeili 
fa tipo della classe, le cose non sieno a tali estremi. Ad 
esprimere in cinese la forza del popolo, o mi limiterò a 
preporre il sostantivo significante popolo a quello che in- 
dica forza (min li, populi vis), sendo regola costante che 
il genitivo preceda il nome che lo regge, o potrò anche, 
per evidenza maggiore, frammettere una certa particola che 
è voce puramente grammaticale (min -tei II, popolo-dél for- 
za). Nelle frase sé hu (ien ti-téi kian, che vale empie 
del cielo e della terra lo spazio, abbiamo in se il verbo, 
in hu una preposizione la quale altro non indica se non 
il rapporto grammaticale che è tra il verbo e 1' accusativo, 
cioè kian, spazio, nome alla sua volta preceduto come di 
regola dai due genitivi (fien cielo, ti terra), rilevati dal- 
lo tèi, segnacaso che già conosciamo. Tutt' altro ch'esser 
nulla, v^ la sintassi, ovveramente la posizion relativa delle 
parole , è cosa principalissima nel cinese ; per cui a buon 
dritto fu osservato, che la grammatica cinese deve assu- 
mere un aspetto sintàttico, e che le regole di posizione 
sono quasi P unica bussola del sinologo, una stéssa parola po- 
tendo essere, secondo il posto che occupa nel discorso, ag- 
gettivo, sostantivo, verbo od avverbio 1 . K discorro sempre 
della lingua dotta; la volgare, come più tardi vedremo, 
meno ancora si confarébbo alla descrizione del Biondelli; e 
stimo quasi superfluo T avvertire , come al giaponese , che 
parrebbe doversi comprendere nelle lingue «delle regioni 
orientali dell' Asia •, disdica di gran lunga più che al ci- 
nese il caratterismo che per le lingue semplici ne è of- 
ferto dal nostro autore. Ora passiamo alle altre due classi. 
Dividere le lingue, secondo la genesi delle forme gram- 
maticali, va affissile td inflessine, fu pensiero dei due Schle- 

1 Endlicher, Chinesische GrammaUk, $ 121 e seg.; p. 201, 208-9, 
168; Si. Julten, Journ. as., mai 1841, p. 403-407; Ab. Rc- 
. mnsal apod Pauthier, ib. aoftt 1841, p. 103. 



sull'origine delle forme grammaticali. 7 

gel; ma la scienza odierna ha dimostrato insussistente si- 
mile criterio di distinzione, che risulta mal sostenibile anco 
dai cenni del Biondelli stesso, costretto siccome egli è a 
dichiarare che le finniche si posson collocare sì nella se- 
conda classe che nella terza, e a introdurre con perples- 
sità gì' idiòmi celtici nella seconda. Federigo Schlegel , nel 
terzo capitolo del Saggio sulla lingua e la sapienza degli 
Indiani, parlò del sanscrito come di lingua assolutamente 
inflessila, presso la quale svanisce ogni più remota pro- 
babilità che le sillabe flettenti (Bieguogssylben) fossero in 
origine particole, voci ausiliari, fuse dipoi nella parola, 
permodochò 'torna necessario d' ammettere « la struttura del 
« sanscrito formata onninamente per processo organico, mercè 
« flessioni od interni alteramenti e trasformazioni de' radi- 
■ cali 1 .! Nel capitolo quarto doli' opera medesima 3 , discorse 
all' incontro delle semitiche come di lingue la cui gramma- 
tica presenta bensì qualche vera flessione, ma, nella mag- 
gior sua parte, si mostra affissino, ossia consta di prefissi 
e suffissi, originariamente significativi di per sé. Sennon- 
ché il Bopp, da un pezzo, ha fatto sagacemente avvertire 3 , 
che, alla definizione schlegeliana delle inflessile, risponde- 
rebbero anzi, men male del sanscrito, le semitiche, siccome 
quelle, che nella radice bisillaba avendo maggior campo ad 
adagiare le interne modificazioni, di queste largamente si 
valgono (paqad, piqqed, puqqad, poqed, paqod, peqod), 
oltreché dell'accoppiamento di elementi significativi (paqad- 
ta, peqad-tem), a produrre le ,loro forme grammaticali; 
quando il sanscrito all' incontro, stante la monosillabità delle 
sue radici, quasi unicamente a siffatte composizioni poteva 
avere ed ebbe ricorso nel formare la sua grammatica. A 
svigorire il prestigio delle flessioni che mal furono re- 

1 SdmmtL Werke, Vienna, 1846 r T. Vili, p. 297:.... durchaus organiseli 
gebildet, durch Flexionen oder innre Vcrànderuugen and Umbiegungen 
des Wortelhtales.... 

3 ìb. p. 299-301. 

3 Vergleich. Gratnm. § 108. 



6 STCDJ CRITICI. 

pula te dinamiche, organiche, non originate da composi* 
Mioni significative, io già attesi brevemente nella Introduzione 
, della Raccolta (p. 10-12), colla mira di togliere un'urina ai 
propugnatori della origine rivelata della parola. La mante- 
nuta evidenza dell' originaria composizione significativa nelle 
forme grammaticali .de' varj idiomi che la scienza analizza, 
è questione di più e meno; ma codesto principio atomisti- 
co non saprebb' essere 1' assoluto distintivo d' un certo nu- 
mera di lingue. D'altronde, è cosa avventata il far sup- 
porre grammatiche in cui tutto si eseguisca per suffissi e 
prefissi, che per di più abbiano ancora, isolati, significazio- 
ne lor propria, quali esser dovrebbero quelle ' degli idiomi 
ascritti dal Biondelli ella sua seconda classe. Prendiamo il 
copio, per esempio, e vedremo in primo luogo se l'autore 
non sarebbe costretto di convenire che pur questa lingua 
si «datti splendidamente, in qualche sua parie, al carette- 
rismo che della terza classe egli stesso ci dà. Le radici 
copte assumono il senso passivo, quando convertano in età 
{v) la loro vocale; p. e. óp, numerare, ép, essere nu- 
meralo \ kò porre, ké, esser posto; mour, legare, mdr 
essere legato; fenomeno questo che ben si addice all'ideala 
d'una flessione organica, come vi si addirebbero i plurali 
49ul gusto di abét, mesi (sing. abot), ouhóór, cani (sing. 
ouhoor), e i feminili che stanno a' maschili come moué, 
leonessa, a moui, Hone, o sceere figlia, di scére, figlio. 
In secondo luogo poi, le restrizioni colle quali, attenendoci 
al copto, deve andare inteso ciò che assevera il nostro 
autore circa il senso che offrirebbero di per sé gli ele- 
menti affissi alle radici per ottenere le forme grammaticali, 
sono di grandissimo rilievo; anzi tante e tali, da rendere 
assai problematica, pure in quest'aspetto, un'assoluta di* 
stinzione del copto da altre favelle che il Biondelli collo 
Schlegel direbbe inflessine. Aiouò§, per esempio, signifi- 
cherà io voleva* ouóS valendo volere, Va essendo la ca- 
ratteristica normale del perfetto, ed t l'affisso di prima 
persona; come akouòg varrà tu volevi, per essere k Taf- 



sull'origine delle forme grammaticali. 9 

fisso della seconda. Ammetteremo lutti, senza dubbio, che 
questo k affissivo di seconda persona sia anco fonologi- 
camente il rappresentante dell' entok, tu, come la * af- 
fissi va della prima plurale lo è dell' a né n • fio/, o it ten 
affissivo della seconda plurale lo è dell' éntòtèn, eoi; ma 
per l'i affissivo di prima singolare, rimpetto air anok, 10, 
dovremo ricorrere ad ipotesi etimologiche ; né si potrà dire 
che k o n abbiano dipersè un significato lor proprio, o che 
ricordino i rispettivi pronomi più pronunziatamele di quel 
che facciano le desinenze sanscrite di prima e di terza sin- 
golare, -mi, -ti (dadà-mi, dadà-ti, A/to-pi, m<a-at\ rela- 
tivamente ai temi pronominali sanscriti ma e ta. Né Y a 
indicante il perfetto nel copto vorrà dirsi etimologicamente 
più chiaro dell 1 a preformativo dei preteriti sanscriti, 1' 6 del 
greci ; oppur flettilo in sanscrito, ma affissilo in copto, IV finale 
che rende feminino il maschile, come nel copto bóki, ser- 
va, da bdk serro (cfr. sscr. ma ha ti fem. grande, da ma- 
hat masch.). Anzi, puf di particole non istrettamente gram- 
maticali sentiam parlare il venerando maestro del copto 
come di elementi, di sillabe, « che sono usate tempre con- 
« giunte a vocaboli e giammai solitarie , e formano deri- 
« vati ora aumentando ora sminuendo il valore del radicale 
« o variamente modificandolo! , sillabe eh 9 egli vuole studia- 
te siccome quelle « che in tutte le lingue rimontano ed ori- 
« gin! remotissime , e per lo più rappresentano voci anti- 
« quate. » Atmou p. e. vale immortale, e Pat, che nega, 
non vive dipersè 1 . Analoghe obiezioni andrebbero fotte cir- 
ca il basco, che il Biondelli mette ugualmente tra gì' idio- 
mi della seconda classe (affissivi), e intorno a cui mi li- 
miterò a trascrivere alcune assai opportune parole di quel 
grande conoscitore della lingua cantabrica che fu Guglielmo di 
Humboldt. Trattando della congiugazionè basca, e precisamente 
del ra interposta creare verbi causativi , il grande linguista 



1 Peìjron, Gramm. Ung. copia, p. 21, 149, 38, 35, 96, 84,35, 27-8; 
Leste., p. 13, 91. 



IO STUDJ GRITIQ. 

osserva : « Il modo per cui simile distinzione viene iodi- 
« cata , dimostra che il basco , ad esprimere le immuta- 

• zioni, non si limita di gran lunga air accumulamento di 
« sillabe significative. Che vediamo qui intromettersi una 

• sillaba, della quale affatto s' ignora se mai abbia avuto si- 
« gnificazion sua propria ; con di più , che talvolta , cioè 
« dove la lettera iniziale è consonante, questa si cangia ; ad 
«esempio Juan, eruan, andare, far andare.* E nel con- 
chiudere le riflessioni sulla declinazion basca, l'Humboldt 
medesimo avvertisce : « Risulta ancora , per incidenza ,' da 
« quanto sopra è detto , che il basco non può annoverarsi 
« tra le lingue le quali conoscono aggregazione o compo- 
« sixione soltanto , e non flessione ; se del resto può esser 
« fatta, con fondamento e con vantaggio, simile distinzione 

• tra le varie lingue. 1 » 

«Nelle lingue in flessive, vien conchiudendo il Bion- 
« dalli , esiste quasi un principio vitale, mercè cui possono 
■ variare all'infinito, senza cangiare oatura, mentre le sem- 
*plici, collo sviluppo delle idee, cangiano la materia e la 
« forma. La vera cognizione delle prime consiste nelL' ab- 
« bracciare d' un colpo d' occhio il complesso delle leggi 
« sulle quali son modellate ; quella delle seconde nelP im- 
« parare a memoria T infinita serie di voci staccate, proprie 
« d' ogni singola idea. Perciò appunto suol dirsi, che al più 
« erudito chinese non basta il corso della vita per appren- 
« dere la propria lingua ; mentre P europeo , col soccorso 
« dell' artificio grammaticale , può impararne simultaneamente- 
« parecchie. - Da ciò appare manifestamente assurdo ezian- 
« dio l'intento di quelli che impresero a ricondurre tutte le 
«lingue del globo ad un solo stipite primitivo, mentre nes- 
« sun fatto storico ci addita una sola lingua semplice tras- 
« formata in lingua inflessiva , o viceversa ; che anzi veg- 
« giamo la più antica fra le lingue semplici conosciute, cioè 
« la chinese, attraversare quaranta e più secoli in tutta la 

1 Milhridatesy IV, 321, 318. 



soia' origine delle forme GRAMMATICALI. li 

i primitiva semplicità, senza assumere una sola forma gram- 
i maticale, a malgrado dell' incivilimento cui giunsero da età 
€ rimota le nazioni che la parlano ; e d' altronde scorgiamo 
€ la più colta e perfetta tra le note favelle inflessine, ossia 
€ la sanscrita, perdersi nella notte d' una rimotissima antichità.» 
Ho già toccato della grave esagerazione in cui si ca- 
de immaginando che il cinese abbisogni d'un nuovo ca- 
rattere o , peggio ancora , d' una voce Affatto nuova , per 
ogni singola modificazione di ciascuna idea. Ed è ripetere un' 
antica esagerazione il parlarci ancora della vita intera spesa in- 
darno da' cinesi stessi per bone apprendere la loro lingua; 
com' è finalmente oltremodo arrisicato 1' attribuire a quest' 
idioma un'immobilità assoluta. La volgare odierna favella 
cinese (kuan-horf) differisce grandemente dall'antico stile 
(kù-ven), dalla lingua dotta. Il linguaggio della dottrina potrà 
bensì ritenersi quale un gergo filosofico (sit venia verbo) 
che non fu mai in bocca della nazione; ma dove son mai 
le prove che l'antico volgare suonasse identico all'attuale? 
Il cinese essendo andato privo di scrittura alfabetica, la sua 
istoria fonologica avrà probabilmente a rimanerci sempre as- 
sai oscura; ma, come varia, più o men sensibilmente , 
da luogo a luogo, cosi ha variato senza dubbio nelle 
differenti epoche la favella volgare della Cina '. La quale 
oggidì, secondo il chiaro sinologo Bazin, sarebbe una lingua 
come le nostre, bene sviluppata in grammatica ed in sintassi; 
ed anzi (del che meraviglierà non poco più d'uno de' miei 
lettori), a sentir lui ed il cinese Ou-tAn-jin, nell' odierno idio- 

1 V. Si. Julien, Joarn. as., maggio 1841, p. 401 e seg. — Batin, 
Mémoire sur ks principe* gétiéraux du chmois nulgaire, ib. aprile- 
maggio 1845, p. 393: "La langoe garante' est impenetrable pour lo 
peuple.» U Bazin (ib. 350, 394) non oppone al kuan-hoà eho. il 
ven-tsé „langne sa vanta u , ma si distinguono due linguaggi dottrinali, 
il kù-ven cioè, vecchio siile, e i\ ven-f6ang, siile letterario (scien- 
tifico) de' tempi moderni (o. Endlicker^ o. e, p. 165). - V. an- 
cora lo stesso Barin, ib. p. 350 (e il P. Cibot da lui citato a p. 
363), e giugno, 479-480, 486-7, 473-74; Endlicher , o. e p. 
100-102. 



1? STUDJ CRITICI. 

ma volgare non s' incontrerebbero se non pochi monosilla- 
bi 1 . Io ammetto che tali asserti non yadan presi alla let- 
tera; essenza dubbio, la pretesa polisillabilà dell' odierno 
cinese non proviene in fondo che dal numero smisurata- 
mente accresciutosi di vocaboli composti, ne 9 quali, i sin- 
goli componenti (tutti monosillabici) rimangono spiccatamente 
distinti e inalterati, senza che un unico accento li raccolga 
e trasformi a vera individualità di vocabolo. Questa ine- 
sauribile facoltà compositiva però, di cui il cinese è spinto 
a profittare anco per togliere ambiguità ai tanti omofoni, 
basterebbe di per so sola a negare che lo sviluppo delle 
idee cagioni un infinito cambiamento di materia e di forma. 
Né v 9 ha per certo, nel volgare in ispecie, un assoluto di- 
fetto di aggregati che vengano a formare o a derivare 
grammaticalmente per guisa non guari dissimile da quella 
che si manifesta in lingue non-semplici. Il monosillabo tsè, 
col carattere che gli spetta quando vai figlio, viene og- 
gidì a formare la pura desinenza di molti sostantivi *• Si 
tenti pure di spiare il procedimento, per il quale, dal va- 
lor di figlio, questo monosillabo sia passato a indicare sem- 
pre più vagamente la derivazione, in sin che arrivò ad es- 
sere un semplice afformativo, un atomo che serve a dare 
precision di senso o semplicemente disillabità al radicale cui 
s'unisce ; ma quest' ultimo fatto non può esser messo in dubbio, 
e, se ming vai nome, gloria, nominanza, persona, accusa, 
ming-tsè dirà il nome-, se il carattere che si pronuncia 
fang vai casa nello stil letterato, abbiamo anco fang-tsè 
ugualmente per casa, modo quest'ultimo che per certo non è se 

1 Delle assertìoni di On-ttn-jin, abilissimo sièn-seng (maestro indigeno) 

ohe fa coadotto in Inghilterra, ▼. il Joora. as., oUobre 1846, p. 859. - 
Cfr. Ba%in, I. e. p. 386, 391, 470, 478: "Le vocaboiaire de la 
laegue parie© renferme eoviron 8000 mota et locntioos , sor lei qaela 
on compie à peìne cent mota vraiaent monosyllabiqaes„. E ancora 
a p. 481, 483, 487, 488. - "La langne Talgofre èet une langne 
grammaticale et ayntaxée cornine lea nótres„. Ib. p. 394.. Ofr. ago- 
sto 1845, p. 117. 

2 Endlicher, o. e. § 134; Bazin, ib. 1845, gingoo, p. 491. 



i 



SULL* ORIGINE DELLE FORME GRAMMATICALI. 1 3 

non del volgare \ come in volgare si dirà hiai- Isù per scar- 
pe, in luogo del hiai delia lingua dotta. Innegabile è del pari 
che eul è diventalo una desinenza diminutiva 2 .; e il men, che 
appo il nome ed appo il pronome serve nel volgare al nu- 
mero del più, vcnue facendosi una specie di desinenza 
grammaticale 3 , che non sarebbe illecito confrontare p. e. 
al lar dei plurali jacuto-osmani. Già nell'antico stile si 
deriva l'aggettivo verbale con preporre la radice al pro- 
nome relativo (tee), p. e. vvei-lcè, agente*, alla lettera: 
agire- il- quale. Il copto, che è per il Biondelli una lingua 
affissi va, fa la stessissima cosa, quando da me, amare 5 , 
tira il suo participio e tm e, amante, preponendo cioè al 
radicale il pronome relativo et. E analogamente procedette, 
secondo ogni probabilità, il sanscrito stesso, io splendido 
esemplare delle inflessive, nel formar primitivamente nomina 
agentis quali éan-a-ca, scavante ; unendo cioè alla radice, 
come avverti il Bopp, il tema pronominale (ca) che non è 
più se non interrogativo nel sanscrito, ma altrove nella 
famiglia riapparisce qual relativo. Così, a dir d'altro analogo 
esempio sanscrito, in pa-ti, signore (lai. po-ti-s), avrem- 
mo, come in altre formazioni congeneri, il suffisso ti dal 
ta tema pronominale di terza persona; quindi letteralmente: 
dominare-eglù Noi troviamo nel cinese qualche avviamento 
a formazioni grammaticali, mentre scuopriamo nella svilup- 
patissima grammatica sanscrita le vestigia di primitivi prò- 

1 Endlicher , ib. ib.; fasti», ib. ib. p. 470. 

2 Eul vai fanciullo quando è rappresentato da un carattere che gli rimau 

proprio anco se sta per desinenza diminutiva; ma, oscuratasi la si- 
gnificazione originaria di tal desinenza, ora è rappresentata a oche dal 
carattere che vale orecchio e suona ugualmente eul. V. Endlicher , 
o. e. § 139. 

3 lb. p. 198, 257-8. Schott, Vocab. sinicum, O. 116. 

4 Endlicher, § 241, cfr. § 178. Il Bazin dà (l. e. ag. 1845, p. 

97) ti per desinenza degli aggettivi, avvertendo che è anco il se- 
gnacaso del genitiva; ma il ti corrisponde, nelle formazioni di cui ci 
occupiamo , allo tue del kù-ven ; ci va dunque, direi, preso piuttosto 
per pronome relativo. V. Endlicher , p. 201, 270. 

5 Peyron, Gr. copt. p. 129. 

3 



14 STUDJ CRITia. 

cedimenti alla cinese. Tara, il suffisso che forma i com- 
parativi sanscriti (gr. -?£?<>-?), viene per certo, come vide 
il Bopp, da t? , trapassare ; évet-a, p. e., bianco, avrà al nomi- 
nativo del comparativo àvet-a-tar-a-s, etimologicamente: quel* 
trapass-ante-bianco. Tfldré fatò, kldré qualis?, e altre con* 
simili formazioni sanscrite, valgono realmente quegli-sembiante, 
chi-sembiante?, e così via. Asmi sscr. io sonore manifesta- 
mente scomposto della radice as,edel tema pronominale di 
prima persona ma, da cui màm, me, me, dime, a me; rap- 
presenta quindi la congiugazione sanscrita in istato affissivo, 
a servirci della nomenclatura biondelliana, e ce la fa in- 
travvedere nello stato semplice. Ci corrisponde il latino sum, 
che ha perduto la radicale iniziale (cfr. est = sscr. asti), 
come la perdette anco il sanscrito in smas, s-anti = m- 
mus> sunt; e ne Ua snella voce latina possum, io posto 
(composta, . come ognun sa, di poh\s) e sum), noi abbiano dun- 
que un aggregato di atomi significativi che sappiamo tra- 
durre : dominare- queg li-essere-io. 

Nel barmano, lingua sul taglio fonetico del cinese, 
che però ci sta dinanzi in veste alfabetica, e no offre, 
ne 9 sostantivi formati colla semplice a prefissa, dei deriva- 
ti cui si stenterà a negare disillabità vera ! ; nel barmano noi 
avvertiamo eziandio più d'un fenomeno che contravviene a 
quella immutabilità de 9 radicali, a quella infondibilità degli 
elementi concorsi a formare un composto qualsiasi, che 
pure appariscono caratteri distintivi degli idiomi monosil- 
labici. «Due o tre monosillabi (è detto nella grammatica 
barmana dello Schleiermacher *) sono di frequente uniti 

1 u Ainsi e a ufi: qui signifie bon, ou corame verbo ètte bon, devient ad- 
verbo lorsqa' il est mia deux foia, e a u fi:-c a u fi: ; précède de la 
ayllabe a il devient substanlif, comme acauli: un bon, «io bon hotn- 
me, bonté, etc. On derive de la sorte a I è fi: lumière, de lòfi: luire; 
a 6 à: twurriture, de 66: manger *, a 6 h u fi' une garde, de é a ti fi' vM- 
ler, présider, protéger; a 6 eira: verdure, de éetm: Ore veri', ajft 
reception, de jù prendre. „ A. A\ JEF. Schleiermacher, De /"«*- 
fluence de Vècriture sur le langagc. mémeire sutti de gremmaires 
barmane et maiale, p. 144. 

a 76. p. 139-140. 



sull' origine delle forme grammaticali. l5 

insieme, oppure è ripetuta la stessa sillaba, per creare 
un nuovo vocabolo. Se V infoiale di queste sillabe ripetute 
è una delle due prime lettere (tenue e tenue aspirata) 
delle cinque prime classi, la si pronuncia, nella seconda 
sillaba e nelle sillabe susseguenti d' un vocàbolo compo- 
sto, come la terza lettera (media), senza cambiare l' orto- 
grafia. Così e e é (k e k) vi si pronunciano come g; 
6 e 3 come g; t e (come d; p e ^ come b. Si pro- 
nunziare per conseguenza ka*ga, kat-gat, kja*gja, in 
luogo di ka-ka, kat-kat, kja-kja, e così via, per tutti 
i monosillabi la cui iniziale è una delle due prime lettere 
delle cinque classi, sia semplice oppur composta. Lo stes- 
so cambiamento di pronunzia ba luogo laddove una sii* 
laba, che incomincia per consonante semplice o composta ed 
esce in vocale od in nasale, precede un monosillabo in- 
cominciante per una delle due prime lettere delle cinque 
classi. Si pronunzia quindi ta-graun: lfl>grèfi, ka-gje-sF 
e vun-grf: in luogo di ta-kraun:, una ragione, là:-»k'rèfi, 
alto del venire (action de venir), ka«k'je»sF, ballerino, 
e vun-krf:, ministro. Le finali k, 6, t, p, che immedia- 
tamente precedono delle altre consonanti in una voce 
composta, prendono il suono di quest' ultime; cosi pèk- 
lèk si pronuncia pèllèk.» E più innanzi, nella stessa 
grammatica \ leggiamo : « V hanno tuttavia dei vocaboli com- 
posti o polisillabici, le cui sillabe particolari non offrono 
più senso alcuno, oppure offrono un senso che non istà 
in armonia con quello del composto. Presso alcuni tor- 
na ancora possibile il rimontare in sino alle origini, 
ma, nella maggior parte, queste son rese irriconoscibili 
da quel grado di alterazione che le voci in discorso 
sembrano aver subito. Tali sono ad esempio ka-li o ka-lè, 
turbare, tormentare, inquietare, ka-lù, giocare, divertire, 
pa-11, essere destro, furbo, pa-lù, essere compiacente, adu- 
lare, 11-éèj, domandare, interrogare, ll-8èj, tracciare, pro- 



1 lb. p. H6. 



l6 8TUDJ CRITICI. 

« gettare. Parole disillabe si sono ugualmente trasformate in 
« monosillabe; così l'affisso éeim' che esprime il futuro cau- 
« sativo, è composto dei vocaboli ée ed ari'.» Finalmente, 
più avanti ancora l , ivi troviamo : « Radici attive , per di- 
« ventar passive o neutre, cambiano spesso la loro iniziale 
« aspirata in una non-aspirata ; e un h inserto fa le veci dell'a- 
lt spirazione presso le consonanti che non hanno le corrispon- 
« denze aspirate, vaiò a dire presso le nasali e le semivocali 2 . 
« Tra radici aspirate e non aspirate, si scorgono àncora tal- 
fi volta delle altre modificazioni di valore, mentre, al contrario, 
« cessa in alcune d' apparire ogni diversità di senso ; se 
« tuttavia pressa a quest' ultime non è piuttosto da supporsi 
«imprecisione ortografica. Esempj: kja, gettare, e kja, ca- 
ldere, p'jèk o il composto p'jèk-81:, distruggere, demolire, 
« e pjèk o il composto pjèk-él:, essere distrutto, rovinato, 
« cadere in ruine; p'rf , empire, e prf , essere empiuto ; Ih ut, 
«liberare, mettere in libertà, e lut, esser libero; kjauk, 
« spaventare, e krauk, temere*, Bap, essere compresso fra 
« due corpi, e fihap, comprimere tra due corpi, tagliare, 
« tosare (comprimere tra le forbici), donde fihap, forbici, 
« tanaglie, ecc.; mhì e mi, raggiungere, trovare, toccare. » 
Questo modo di discernere verbi attivi dai passivi o neutri, 
viene a identificarsi, o quasi, a que' fenomeni grammaticali 
che nello sanscritiche , e più ancora nelle semitiche, sono 
prodotti per interni alteramenti della radice, alteramenti 
dei quali non sembra potérsi ripetere la origine da in- 
trusione di atomi significativi; ed a cotali fenomeni non esi- 
terei di rassomigliare anco i derivamenti per semplice sva- 
rianza d' intonazione, che nella lingua cinese incontratisi, e 
i 

/&. p. 147-8. Cfr. puro ib. § 14 (p. 120-1); § 30 (132-33, e v. 
S 34 a p. 141); § 38 (147); §76; § 80 (169) § 81. Del 
genitivo in -I v. § 45 (p. 152, 6 v. p. 134-5 e 289). 
2 Da quest' ultima osservazione parrebbe che 1' attivo fosse la forma deri- 
vata, mercè V aspirazione, dal passivo o dal neutro. Forse converreb - 
be dire che ]' aspirazione viene a crear causativi; p. e. kja, cadere, 
k'j a , far cadere, ossia gettare ; k r a u k , temere, k ( j a u k , far temere, ossia 
spaventare. 



sull'origine delle forme grammaticali. 17 

che per certo non saranno estranei pure ad altre monosil- 
labiche '. 

Ora, coi ravvicinamenti e co 9 ricordi che ho fatto pre- 
cedere, io non vorrei sembrare d'avere esagerata la con- 
formità genetica delle diverse famiglie d' idiomi, mentre at- 
tesi soltanto a ripresentarci come le disformità dei processi 
grammaticali perdano affatto di ricisione ne 9 loro contorni a 
misura che F indagine approfondisce e s' allarga ; come spe- 
cialmente si appalesi illusorio il classificare i linguaggi, alla 
guisa che vollero gli Schlegel e vuole il Biondelli, in ve- 
getatici e aggregativi, secondo la supposta diversità d'origi- 
ne delle loro n normazioni grammaticali. Aggregazione di atomi, 
signiGcativi di per sé, è^ fondamento principalissimo , se 
non Tunico, degli esponenti grammaticali di ogni lingua. 
NelP indole di tali atomi, e più ancora nell'energia per la 
quale essi furono ridotti a cessar d' essere sostanze col di- 
venire puri elementi formali; nelle proporzioni in cui P e- 
lomento grammaticale simbolico (reduplicazioni, mutamenti di 
vocali neir interno della radice, e simili) si appaja al compo- 
sitivo ; nella varia attitudine, infine, d' imprimere nella col- 
locazione delle parole e nelle formazioni grammaticali le 
logiche attinenze del discorso: s' hanno criterj veri per la 
classificazione dei linguaggi. L' applicazione di tali criterj 
non può , quasi per incidenza , trovar luogo in questo ar- 
ticolo, e speriamo abbia a farsi, anco tra noi, soggetto di 
studj particolari. Ne risulteranno divisioni che avranno sen- 
za dubbio notevoli corrispondenze di fatto con quelle che 
impugniamo, le quali ritraggono quel di vero che anco da 
una rassegna superficiale delle lingue si deduce. Ma vi si 
vedrà e vi si ragionerà la vera indole delle diversità, né del 

1 V. Endlicher^ 0. e. §§ 89, 94. Del siamese, il Burnouf riferiva 
nel Journ. as. (1829, settembre, p. 219): tt Les toos qui modi fieni iti 
prononciatioo et le sens des mots soni au nombre de trois. „ È noto, 
come la pluralità d' intonazioni per lo stesso monosillabo sia uno de' 
caratteri distintivi di varie monosillabiche asiatiche. V. Endlicher, 
ib. § 90; Leyden, As. Res., ed. Lond. X, p. &22; Ba*in y 1. e, 
aprile-maggio, p. 384-385; cfr. Schleicrmachcr, I. e. p. 129, 



18 STUDJ CRITICI. 

resto vi si lasceranno le semitiche od il copto accanto alle 
americane, o si anteporrà la facoltà grammaticale delle ultime 
alla cinese. Le diversità distiutive hanno a dirsi, in gene- 
rale, perennemente costanti; sorte in periodi anti-istorici , 
nella prima età delle nazioni. Taluna di queste, compiendo 
nella culla, con mirabile potenza creativa , l' opera del plas- 
mare a pure forme grammaticali i suoi felici aggruppamenti, 
giunse a produrre organismi stupendi; altre rimasero con 
favella più o meno impacciata da processi grammaticali 
non ùmaterializzati , stranienti indocili del pensiero. Ma 
assoluta differenza primordiale non torna necessario sapporre. 
Da elementi consimili, od anco uguali affatto, le nazioni, 
come gli individui, maturano opere diversissime. Gli svilup- 
pi differentissimi a cui vennero le diverse] favelle, non esclu- 
dono la unità primitiva del linguaggio e quindi della specie. — 
A qualche osservazione mi chiamano ancora i cenni 
che precedono V ordinamento dei linguaggi, nei quali pure 
non va, per quanto mi sembra, costantemente congiunta 
alla pregevole chiarezza del dettato quella precisione onde 
si distinguono altri lavori del nostro autore. Così, ov' è de- 
lineata Tistoria del diciferamento delle iscrizioni cuneiformi 
(persiane), troviamo (p. 11) porsi a paro, quali ausiliari per la in- 
telligenza della lingua di Zoroastro (lo zendo) , la cognizione 
del sanscrito e « i fausti risultameli ottenuti da Silvestro de 
Sacy nella interpretazione delle iscrizioni pehlvi dei Sas- 
sanidi » ; mentre la verità è, che il sanscrito servì alla in- 
telligenza dello zendo come l'italiano p. e. potrebbe ser- 
vire alla intelligenza dello spagnolo, e ,che i pochi vocaboli 
pelvici tratti dalle intitolazioni le quali costituiscono la sola 
parte diciferata delle iscrizioni sassanidiche e tra le quali 
non v 9 ha pure una sola forma verbale, stanno alle scritture 
di Zoroastro come pressappoco qualche breve frammento d' 
iscrizione inglese starebbe alla gotica versione della Bibbia '. 

1 "La cognizione già raggiunta della lingua aacra dell' India, alla quale la 
zenda era collocata con vincoli stretti di fratellanza, i fausti risalta- 
menti ottenuti da Silvestro de Sacy nella interpretazione delle iscrizioni 



sull' origine delle forme grammaticali. 19 

Cosi è un volo poetico il far percorrere a Klaproth tutta 
P Asia « da levante a ponente, da settentrione a mezzogior- 
no • ; e provocano redarguizioni i rimproveri acerbamente lan- 
ciati contro il Balbi perchè egli abbia confuso « le lingue 
« lattiche tra le slave , la pehlvt tra le semitiche , o la 
« turca e la ciuvassica tra le mongoliche, lingue di natura 
1 affatto diversa. » Nessuno dee meglio del Biondelli sapere, 
che, se è lecito il formare degli idiomi lettici una famiglia 
a parte , non è illecito per certo 1' aggrupparli al grande 
sistema degli slavi 1 . Il pehlvi, ossia l'huzv&reg, non è per 
vero una lingua semitica; ma è un idioma iranico talmente 
commisto d' arameo , ed è così recente la cognizione , in 
qualche modo esatta, arrivatane alla scienza europea, che 
ben può andar perdonato al Balbi se nel 1826 lo poneva 
tra i linguaggi semitici. Che poi, come il Biondelli vor- 
rebbe, gP idiomi mongolici sieno di natura affatto diversa da 
quella del turco e del ciuvassico (linguaggio quest 9 ultimo 
scarsamente sin qui conosciuto, ma collocato unanimemente 
tra i dialetti turchi, e dichiarato da Klaproth idioma di gram- 
matica turca e di vocabolario per più di tre quarti turco 9 ), 
non mi par lecito asserire senza corredo di prove, e men 
lecito il fare acre rimprovero al Balbi dell'avere asserito 
il contrario, dopo che, non solo lo Schott, nel suo Sàggio 
mgli idiomi tatarici (1836), trattò, come di lingue con- 
sanguinee, del turco, del mongolico, del mansciuo e del 
magiaro, ma e Castrén e Kellgren hanno sostenuto le af- 
finità onde sono collegate le famiglie degli idiomi turchi, 

pehlvi dei Sassanidi, ed i confronti Tra queste lingue istituiti, giovarono 
al conpimento della difficile impresa. „ Cfr. Fr. Spiegel, Grammatik 
der huztcàreschsprache, p. 168-9. 

1 II celebre Jacopo Grimm, interpellato sul proposito dall'autore, gli ha cioò 
risposto: "Chi non voglia annoverarle (le lingue le t tiene) fra le slave, 
potrebbe, senza fallare, formarne una famiglia a parte. „ AtL ling* p. 244. 

* V. ZeiUchr. der devtsch. morgenl. Gescllsckafl, Vili, 386. Klaproth, 
Comparaison de la langue des Tckonvackes avec les idiomes turks, 
nel Journ. Àsiat, marzo 1828, p. 237-246. - Del resto, il Biondelli 
stesso forse non intese di negare la parentela del cinvasso col turco. 



30 STUDJ amia. 

finnici \ mongoli e tungusi, componenti il gran sistema delle 
lingue altaiche (ural-altaiche); affinila a cui non so che siasi 
peranco rinunziato di credere, malgrado 1' immaturità delle 
relative indagini che il Boehtlingk ha testé voluto dimo- 
strare \ 

V assunto della seconda dissertazione, Della linguistica 
applicata alla ricerca delle origini italiche, è di mostrare, 
come, in causa della scarsa o niuna nostra conoscenza delle 
lingue, le quali, oltre il greco e il latino e Tosco, furono 
anticamente parlate in Italia, noi ci troviamo in grande 
insufficienza di mezzi onde poter risolvere, col soccorso 
della linguistica, il problema delle Origini Italiche, ossia il 
quesito circa la schiatta cui appartennero i nostri maggiori 
e circa a quelle con le quali si fusero (p. 38); e come ci 
torni quindi necessario d' apprestar prima di tutto gli oppor- 
tuni materiali, mercè un critico esame dei singoli dialetti 
viventi d' Italia, che ci riveleranno il numero e i confini 
degli antichi idiomi, ci additeranno le origini e le fratel- 
lanze delle schiatte cui furono proprj (29, 38-39). L'au- 
tore, come più innanzi farò maggiormente risaltare, carica 
siffattamente le tinto nel toccar degli effetti deleterj cui il 
tempo e le conquisto fecer subire agli antichi parlari ita- 
lici (25, 26, 27), che uua doppia obiezione sembra ne 
venga ad insorgere contro le speranze da lui riposte ne 9 
dialetti viventi ; apparendo in primo luogo contraddittorio Pas- 
serire che in questi ultimi si troveranno resti abbon- 
danti d' idiomi di cui si perdette ogni traccia o poco meno, 
e dovendosi d' altra parte riflettere, che, il costrutto rica- 
vabile dall' esame dei dialetti italiani per la questione delle 
origini italiche, ha piuttosto a dirsi condizionato da quella 

1 Castrén aggiunge i samojedici. V. la nota seg. 

2 V. Zeitschr. d. d. morg. Ges., Vili, 197. Kellgren, Jahresbericht d. devtsck. 

morg. Gesellsch. fuer das Jahr 1846, p. 194-197; Grundtueg* der 
finnischen Sprache mit Ruecksicht auf den ural-altaischen Sprach- 
stamm, Berlino, 1847. 



SAGGI DI DIALETTOLOGIA ITALIANA. ai 

qualunque cognizione che ne rimane delle lingue o identiche 
o prossime a quelle anticamente parlate in Italia. Supposto 
p. e. cbe un dato dialetto italiano ci palesasse il tipo, i 
resti, d'un linguaggio che altronde ci fosse ignoto, con ciò 
non verremmo che a risultanze negative circa la nazionalità 
degli antichissimi abitatori di quella data parte d'Italia. Sennon- 
ché , dal complesso dell' articolo possono dirsi in qualche modo 
attutate simili obiezioni ; e può ricavarsene compiutamente il 
pensiero che in modo perspicuo fu esposto dal Biondelli stesso, là 
dove nel suo bel Saggio sui dialetti gallo-italici (p. xxxiv-xxxv) 
avvertiva, che « depurando i nostri vocabolari vernacoli dalle ra- 
« dici latine, non che dalle più recenti attinte a lingue moderne, 
« ed eleggendo tra le rimanenti quelle voci che rappresentano 
«oggetti, o idee comuni a tutti i tempi, e quindi alle pri- 
« sche del pari che alle moderne generazioni, verrebbero 
« raccolti e sceverati i ruderi più o meno corrotti degli 
«.antichi idiomi, sui quali instituendo giudiziosi confronti colle 
« lingue conosciute, si potrà forse giungere talvolta alla sco- 
« perta delle origini delle moderne favelle, o ricomporre in 
« parte taluna delle antiche. » Nella interessante dissertazione 
che abbiamo dinanzi, il ragionamento non è corroborato da 
esempj ; ma nel Saggio or' ora citato, che ci porge raccol- 
te pregevolissime di vocaboli lombardi, pedemontani ed 
emiliani, informate ai giudiziosi principi che sentimmo enun- 
ciati dall' autore , sono avvertite, infra V altre, delle analo- 
gie celtiche importantissime. Ricorderò màcan, màcana, 
della Valtellina, fanciullo, fanciulla, la cui consuonanza 
gaelica riviene alla mente di ciascuno 1 ; maràd, marasce, 
della Val Intragna, figlio, figlia, o gli equivalenti nel Bor- 
miese e nella Val Livigno mare, marcia, che rammenta- 
no meréh armo ri co figlia; brìcol, milanese, erti dirupi, 
balze, brtiga, della Val Cavargne, p iccolo promontorio d'un 
monte, brìc, piemontese, poggio, colle, in cui si vede il 

1 Irlandese ma e (geo. mie) filiut, macaomh juvenis. Orimtn, Geseb. d. 
deatsch. Spr., 627 (904). 
4 



11 STUDJ CWTICI. 

brig, brigyn, cimrico, cima di monte l , radice che troviamo 
anco nei toscani bricca , briccola . Due esempj di concordanza 
italo-oeltica io vo' permettermi di aggiungere ai biondelliani, 
nel secondo de' quali non v'ha di nuovo per i filologi che 
solo i' additamelo della fonte sanscritica. Io aveva ravvici- 
nato il rabel piemontese, séguito, strascico (donde rablé, 
strascinare, rablera, sèguito di gente, cadanole il rab- 
boj milanese, nome del demonio (quel dalla coda), al rabo 
spagnolo e portoghese, coda, da cui il Francisque-Michel 
deriva il rabouin, rabuino, diavolo, del gergo francese 
e dell' italiano ; e, spinto a cercar presso i Celti l' archeti- 
po di questi vocaboli, estranei affatto al Lazio ed all'Eliade, 
non tardai a rinvenire gì' irlandesi earball, iorbull, coda 2 , 
ai quali il rabo portoghese starebbe, prescindendo dalla fa- 
cile metatesi nella prima sillaba, come il diabo dell' istessa 
lingua a diabolus, mentre nel piemontese sarebbero tutte 
conservale le consonanti celtiche. Abbiamo poi so ga, so- 
gli ór, corda, cordajo, voci comuni ai varj dialetti lom- 
bardi 3 , le quali vanno unite, dall'una parte, alla soga di 
Dante 4 , alla soga dei sardi, fune di euojo, laccio (ma dt- 
con pure soga de filu, seda, ecc. 6 ), sauga del contado 
bolognese, corda*, e, dall'altro, a syg gallese, catena, 
sfig armorico, corda da tirare, sugan gaelico, ritorta di 
paglia 7 . Se interroghiamo P archetipo asiano, il sanscrito, ei 

1 V. Diefenbach, Celtica, I. 213. 

9 Nella Bibbia irlandese, /*. XIX, 15: a» te ar ball (t-earball), la coda, - 
Deut. XXVIII, 13: agus ni earball, e non coda-, - io. 44 : agu» 
budk tu-ta an tearball, • ... lulacoia.—A iorball, an t-i or- 
bull, LetL III, 9; Vili, 25; cfr. E*. XXIX, 22; Lev. VII, 3. 

3 Biondelle, Dial. Golfo-»*., p. 82. 

4 Inferno, XXI, T3-74. 

5 Spano, Vocab. sardo-iL, p. 382. 

6 tt I conladini bolognesi pronunciano Sauga. „ Ma%%oni-T o$elli, Dia. 

gallo-ii. p. 1292. 

7 V'hanno ancora il basco soca, eorda di giunchi (Humb oidi nel Mi- 

thridates, IV. 302), e lo spagnolo soga, corde, mesure d'arpenteur, 
donde eoguear, meeurer à la corde, sogueria, métter de eor- 
dier, corderie', sognerò, cordier; soguilla, petite corde, tresse 



SAGGI DI DULETTOLOGIA ITALIANA. l3 

ci porge uba famiglia di radicali, onde si trae una soddis- 
faoentissima etimologia per tale denominazione celto*italica 
della fune; cioè: 3agg, aderire, essere affisso, safig, af- 
figgere, svag(o svang), abbracciare 1 . Così da r a Kg sscr., 
aderire nel senso morale , cioè essere dedito , senso a cui 
si prestano ugualmente e sagg e safig, s'ha raggu sscr. 
corda. E il camu di Val Soana (Pieni.) amco s compagno 2 , 
non sarà da portarsi coi gaelici caemh amore, caomh- 
acfa amico, compagno*, alla radice sanscrita cam amore? 
Né per certo sarebbe illecito il cercare nell'indiano antico 
la origine di enigmatici vocaboli offertici dai nostri volgari 
par quando nel celtico o in altre lingue un dì parlate in' 
Italia non se ne vedessero le forme a così dire intermedie. 
Per il canale del latino o del celtico, o d'altri idiomi an- 
cora, è assai probabile che sien giunti a noi dei sanscri- 
tismi che pia non si rinvengono presso a chi ce li ha immes- 
si; com'è ben possibile che la veste fonetica di tali san- 
soritismi e' indichi per quale tramite essi ci sieno pervenuti. 
Ma ognun vede, come pria di presumere d' avere eruito in 
un nostro vernacolo un vocabolo del quale convenga rin- 
tracciare le parentele in remote contrade, ò d' uopo avere 
esaurita l'indagine nelle circonvicine; locchè non ò sempre 
agevol cosa. Delle allueinaiioni cui facilmente si va in- 
contro, quando non ai usi di gran circospezione, mi ] sia 
lecito addurre un esempio. Il glossario pedemontano, che 



de cheteux; solitilo, Ireste mànce de cheeeux. • — I vocaboli 
celtici toio raccolti dal Ditfenbach, Celtica, I. 90; cfr. Dti- 
fre$nej s. soea e soga. Lo spagnolo conserva ambo i significati 
antichi (fune e tnisura di campo). - Anche Pieiro Monti deve in 
qualche lnogo aver notata questa concordanza oelto-italica. 

1 La vocale diversa nelle vooi colto-italiche non forma diÉficoltà; il g 
sanscrito diverrebbe g nella formazione analoga a toga, come in 
safiga da saHg, sorga da srg, e simili. 

* È io ideili, Gàllo-it., p. 564. 

3 tt HH>erft. caemh, love, destre; fine, handsome, pleasanl; eaomhach, 
a friend, à companion., Bopp, s. Cam. - Natorahaente, P odierna 
pronuncia della m aspirata (=v) non debilita questi ravvicinamenti. 



24 stddj cama. 

si contiene nel Saggio più volte lodato del nostro autore, 
ci porge i vocaboli garbé ventre, pancia, garbin al- 
veo, truogolo 1 , i quali, messi per tal modo in rilievo 
come preziosi quesiti per l'etimologo, come fenomeni iso- 
lati nel mondo latino, invitano il linguista a peregrini rav- 
vicinamenti ; ed io so di due indianisti, che si congratula* 
vano di scoprire nell'enigmatico garbé, ventre, il garba, 
uterus, del sanscrito 2 . Ma, se io non m* inganno, il garbé 
piemontese non venne a significare epa che per traslato, nò 
alveo (cioè alveare) e truogolo sono significati primitivi in 
garbin. I quali vocaboli preferirei prendere neli' altra loro 
forma di ghérbé, ghérbin; e li schiero con ghérmo, 
cestello (senso proprio anche a garbin, ghérbin), cesto 
tessuto di vimini sotto il quale si mettono i pulcini, gar~ 
bina, cesta, garbagna, cestone. V epa (il piemontese ha 
pure pan ss a, ventre), sarebbe detta per burlesco traslato 
il cesto, come troviamo corbona per sinonimo gergale di 
pancia-, mentre il cesto dice ai Veneziani le rotondità che 
stanno opposte al ventre. Né in ghérb- garb- 3 vorrei ve- 
dere, malgrado la corba e la corbela che il piemontese 
possiede, vocabolo diverso da corba it., lai oorbis; il 
g starebbe per l'antico e, come in galavron, gavé = ca- 
labrone, cavare, e simili; ghérb- starebbe, per la vocale, 
a corb-, come térbo, tértojé, ghémo, a torbido, tarta- 
gliare, gomito ; Va della forma garb-, che é la maggiore 
difficoltà, direi surto per analogia di altre doppie formo 
(in cui però Va sembra primitivo) come bérboté, barbo té, 
ghérgoté, gargoté ^borbottare, gorgogliare. Per il naturalis- 
simo traslato cesto — alveare, confrontinsi i toscani bugna, 

1 Presso garbin il Biondella rimanda ad aròi, truogolo. 

8 Un celtista ci vedrebbe il garbh gaèlico, grosso. V. Diefenback, 

o. e. p 133. 
3 Ve finale non pare in questo caso -ajo iL (forné=fofnajo, fèrree 

febbrajo); ghérbé, da un ossoleto g o rb = cor h-is, sarebbe ogval- 

mente cesto (non ceslqjo) y come masnoj e masnojé valgono seni" 

alcuna differenza raga%%acdo. 



SAGGI DI DIALETTOLOGIA ITALIANA. ?5 

bugnolo, bugno, o il latino quasillus, cestello, Minestri- 
no , ridotto in sardo (casìddu=ca*itftf) a valere secchio di 
sotero, alveario, arnia 1 . 

Alle scarse e scucite osservazioni cui mi condussero 
sin qui gli studj dialettologici del Biondello mi sia or le- 
cito di soggiungere qualcosa di men frammentario. 

Fra i notevoli fenomeni fonologici che ci si presen- 
tano ne' dialetti italiani, e che forse permetteranno qualche 
induzione etnografica, tiene per avventura il posto preci- 
puo lo scambio de 9 suoni gutturali e palatini co 9 labiali, scam- 
bio che rimano estraneo a ragguardevolissima parie della 
penisola o non vi è avvertito se non qual rara eccezione. 
Il sardo , e principalmente il dialetto logudorese , attirerà in 
primo luogo la nostra attenzione, per il vezzo di sostitui- 
re una labiale alla gutturale antica. Egli è il vezzo mede- 
simo per cui nel greco, siccom 9 è notorio, tnnog (hippos, ca- 
vallo) risponde ad equus latino, Snofiai (Mp-omai, da sep- 
omai, seguire) a sequ-or latino, 1700? (hèpar, fegato) a 
jecur lat., e cosi via. La semivocale-labiale (v) che origi- 
ginariamente accompagni la gutturale, o che dietro a que- 
sta venga a svilupparsi 2 , è, se io non erro, atta a provo- 
care, merco il suo impasto colla gutturale, simile permuta- 
zione. AWippo greco, p. e., sarebbe preceduto un ikoo o 
ift/bpari air a èva (da acca) sanscrito, equo latino. Nel 9 umbro 
e nell'osco, troviamo la labiale per la gutturale ne 9 pro- 
nomi relativi (e interrogativi) e ne 9 numerali 4 e 5 (osco 
pai=laLjriMB; osco -pld = lat. quid; umbro penta = lat quanta ; 
osco, umbro: petora, petur = lat. quatuor; Po nlius=Quin- 
tius) ; in tutti i quali casi vediam diviluppata nel latino la 
semivocale labiale accanto alla semplice iniziai gutturale pri- 

1 II primo significato è del dialetto sardo meridionale (Spano, o. e. p. 149), 
il quale ci offre pure casiddada=mar^oil(t; cfr. l'esempio che il 
Porcellini trae da Catone (R. R. 133): In arboribns radioes ali ca- 
piant, calicem pertnaìim sumito tibi, aot quasilium: per enei ramufam 
transerito, enm quasillum terra impleto, calcatoqne, in arbore relinquito. 

9 Di quest'ultimo fenomeno ai parlerà negli Stufi comparai. Art II, $ XII. 



a6 8TUDJ CRma. 

mitiva. Nel valaco ugualmente, avremo- p e 6 in luogo di 
qt> e gt> latini, a^e^aqua^ limbe-lingma; ma la propen- 
sione a tale scambio sa anco farci a meno dell 1 impulso 
a cai accenniamo, e cosi converte in pi o fi il groppo 
latino et: noap.te=nocte(m), lapte=; laete, eco. 1 Del pari 
nel sardo avremo a ritenere la permutatone in discorso 
promossa in dati casi dalia t (u) assorbita* ed in altri 
avveratasi seoaa che simile causa abbia osistito. IÀ sgrup- 
pamene) latino ngv (ngu) ci ò ridato per mb dal logodorese, 
in sàmbene, sangue*, limbà, lingua (cfr. limbé valaco); 
ambidda, anguilla (dd^tf, come in siciliano); imbena, 
inguine; quimbe (chimbe), cinque 2 . Abbiamo poi abba 3 , 
acqua (cfr. ape valaco); ebbe, cavalla, lei equa (vai. eape, 
jape); àbile, abilastra 4 , aquila, aquilotto. V u è per 
vero assorbito pur quando lo gutturale non si mula (com'è 
anco in valaco), ad esempio: casi (merid.), quasi; distia- 
ghere, distinguere; ma non saprebbe tuttavia negarsi che 
P u originario seguito da altra vocale, quale incontrasi in 
tutti gli esempj sin qui discorsi, abbia influito nel tramutarsi 
di g duro a 6, quando particolarmente si badi alla rarità, che 
mi pare estrema, di b per g duro, di meazo alla parola, ia 
combinazione che sia diversa da questa. Due soli esempj 
saprei addurne, e non resto senza qualche scrupolo circa 
il secondo. Sarebbero: cubuddu (logqd. e settentr.), cap- 
pucdOy cocoUo) da cuguddu, ohe pure esiste nel logudo- 
rese e nel meridionale, pari a cucullus lat., cocolla; e 
joba o gioba, pajo\ donde nel dialetto settentrionale CO- 
ei 

1 Cfr. Studj orienU e Ung., p. 256 ; v. per il p ùmico =* sscr., e gae- 

lico, il Pictei nel Journ. a*., marzo 1836, p, 282 

2 Qui si tratta veramente di nqt (quinte) e non di ngv ; ma , per il eh imbe 

logodorese si dee partire da chingue, il sardo amando di sostituire all' 
antica teline (ea) la Inedia (ga). 

3 Gli esempi . sardi non sempre del dialetto logodorese quando mancano 

d'ulteriore indioasione. 

4 Abilastru, secondo lo Spano, sarebbe del dialetto settentr. e èèl meri- 

dionale; non del logodorese. 

5 V'ha par loba, pajo nel meridionale, e gemello nel logodorese. 



SAGGI DI DIALETTOLOGIA ITA LUNA. 97 

j uba accasare, cioè far pajo, fare j u g u m, mentre nel logu- 
doreses' ha cojoàre accasarsi, cojuònxu matrimonio 1 . Al 
sardo cojubh =oo-jugare staria bene allato il valaco èntre- 
bà, che mi pare fuor di dubbio s= interrogare. Di 6 sardo 
iniziale in luogo della gutturale antica, ci noteremo in pri- 
ma: bAttoro (valaco patru), bar anta, quattro, quaranta, 
bindighi% quindici, bindalu 3 , guindolo, bardare, guarda- 
re*; ne 9 quali Yu susseguito da vocale apparisce assorbito, 
come vedemmo, negli esempj di sópra addotti, accadere a 
qc (gt>) interno, 0imba=ifjs$*a, ecc). Osserveremo dipoi, come 
a questo b per g amo tenga dietro vocal labiale (u, o) ne- 
gli esempj ohe seguono: ab-buare, nascondersi*, buàda, 
abbuàda, eovile del cinghiale, abbuàdu, occulto, nascosto, 
da cùa = cova, covo ne' dialetti logudorese e settentrionale, 
donde cuàre, nascondere, cui lo Spano, e sia detto colla 
riverenza debita a' grandi meriti di questo filologo, infelice- 
mente suppone voce fenicia {cahad)\ bustu, bustare, pranso, 
pranzare, vale a dire gusto, gustare*; boddire, cogliere, 
raccogliere (donde boddidura, raccoglimento, e boddéu, del 
dialetto meridionale, crocchio, circolo di persone, cioè ac- 
colta), che lo Spano ci dà per voce arabica, ed altro non 
è, a ben guardare, che il latino colligere, da cui in Toscana 
s'ebbe cogliere, e in Sardegna coglire, collìre, indi, pe' 
normali mutamenti che già conosciamo , coddire, goddire, 
e in fine boddire 7 ; bulteddu, coltello (il merid. ba gur- 

1 Lo S pano non ha co job à nella parte sardo-it., ma t. a. accasare nella 

it-aarda. Egli trae eojnàre da coso, 
9 V. lo Spano, a* quindici. 

3 Logud. del villaggio di Ghilama. È logudoree* aneo ghindaln. 

4 Manca preaao quest'ultima voce Tiadimione territoriale. 

5 Logudoreae del villaggio di Poeada. 

6 11 verbo sarebbe proprio del villaggio di Ghilarta. Nel dialetto settentrio- 

nale (che è di fondo siculo), abbiamo gusta ri, pranzo ; nel meri- 
dionale, gnstiri varrebbe coiasione di mattina. Spano, o. a p. 235. — 
Anco i friulani dicono gas tè per prantare. 

7 Coglire, collire, goddire, per cogliere, non tutte forme che il di- 

zionario sardo contiene. 



a8 studj carnei. 

teddu); buia, gola; bunnedda, gonnella 1 ; buttiu, 
b u tt i a r e, ecc., goccia (lat gutta), gocciolare. Col séguito 
d'altra vocale, abbiamo : barrili, barriere, carico, ca- 
ricare, che lo Spano vorrebbe trarre al /fo^A» (baréó) greco, 
caricare, da fiaQÒg (barys) greve (il quale alla sua volta ci 
mostra 6 per#, confrontato a gurus, garfjas sscr., greve, 
più greve, lat. gravis, grayior), ma che certamente 
altro non è se non garrigare col primo g mutato in 6, 
ed il secondo eliso; ed antichi manoscritti ci esibiscono di 
fatti la forma garriare 2 ; b^rdu, cardo; barrosu 
(dialetto comune) loquace, millantatore (garrulo, g orr is- 
sa jo); b a s o n e , cavallaro, dal lat agaso -sonis, come 
avvertì lo Spano; battu, gòtto; belu, beladina, 
b e 1 a d ur a , gelo y gelatina, congelamento 3 ; b e 1 o si a , ge- 
losia-, benna rzu, gennajo; bénneru, genero; be- 
nùju, ginocchio; bèlln, bellare,gettito,geUare; bi- 
nestra, ginestra. Negli ultimi esempj il b parrebbe cor- 
rispondere a g dolce anziché a g duro, ma dobbiamo im- 
maginare precedute a belosia bennàrzu le forme ghe- 

1 È pare del diti, settentrionale ; ed è il bunnetru del fiumorbese, io 

Tommaseo , Canti Corsi, p. 59. Nel fiumorbese (Corsica) la doppia 
/ fa costantemente tr, che pare si pronunci dr (ib. 57), ad esempio 
suretra, mescbtnetra, martetra, sorella, meschinella, martella., 
ansi è scritto dr in fratedru, macedru, fratello macello (ib. 58), 
edru, bedru, tinedri, elio (osso), bello, tinelli (56). Direi, che 
dietro il robusto suono dentale (maceatfu, fratedtfu) si sviluppasse la r, 
come p. e. nel -mentre -meni ri --mente degli avverbj antìco-venexiani 
e friulani: ven. graxiosame ntre, solamentre, propriamen- 
Ire, ecc. {Del governo della famiglia» Seconda parte dell'opera ine- 
dita de recto regimine scritta in volgare veneziano nel 1314. 
Venezia, 1856); frisi solamentri, primieramentri, eco. Cfr. gli 
italiani balestra, cilestro (balista, calestis). — Il fenomeno cata- 
lano di ti per // (v. Dici, gramm. rom. I s , 114), che apparisce so- 
migliantissimo al fiumorbese, avrebbe origine affatto diversa, ivi essen- 
do intrusa la dentale. 

2 V. Spano, o. o. p. 226, b. 11 logudorese ha tuttora anco garrigare, 

gérrigu. Cfr. nel piemontese: carie e andari ghé. 

3 Biddia, gelo, brina, non m' è chiaro, ma parrebbe avesse a stare con 

questi. 



SAGGI DI DIALETTOLOGIA ITALIANA. 29 

losia gfaennarsu, e cosi via; confrontasi anghelu, 
piangitore, g h i n ( p e r u (ginepro), e simili. Lo Spano ci dà, 
per gettare, oltre il bettaro che or'ora vedemmo, ed il ghet- 
te i del dialetto meridionale, un 9 altra forma logndorese, credo 
antica, cioè guatare 1 ; la quale potrebbe ricondurre all'ipo- 
tesi 2 che parecchi od ansi i più di questi 6, che pajono stare 
per g duro, siano e indurate, e sia elisa la gutturale ; che, p.e., il 
sardo da agva 9 egea, per aqua, equa, sia venuto ad aro, 
eoa <cfr. antico-francese ai ve, acqua, yve, cavato**), indi 
ad abay eòa, come fa berme, ben tu, da verme, tento ; o 
così succedesse delie u sviluppatesi in Sardegna, ad esempio 
guetare da ghettaro, indi vettare, e finalmente bet- 
taro 4 . Ha, per tacer d'altro, contro tale ipotesi parlano la 
scarsissima consistenza che mostran d' altronde tali ti (e a si , 
cai cu no, distinghere), e la niuna propensione del logu- 
dorese a rafforzare la v interna, che anzi spesso vi si dissolve 

svanisce, del pari che l'antico 6 interno, come in nou, nuovo; 
uà, uva; ou, uovo; aèna, avena; caddu (da callu, cfr. 
kal valaco), co/vailo; nue, nube; trae, trave; hàere, 
avere. Potrebbe ancora supporsi, per esaurire le ipotesi, die 
talvolta v' abbia elisione della gutturale e prostesi del 6 ; da 
guls, gketare, p. e-, essersi prima avuto ut a, etire, che 
pur sono del logudorose, e poscia buia, belare, a mo' 
di bessire ed essire - e$cire, bocchire ed occhi- 
rQ = uccidere . Ha, dal complesso dei fatti che esaminam- 

1 Lo Spano nota accanta ■ questa forma : (Gar). Nello abbreviature non trovo 

Gar., beasi "Garip. — Garipa Gian Matteo, Legendariu ecc., Roma 1627.„ 

* Cfr. Die%, Granuli. rom. y 1*, &45, n. 

3 /6., pag. stessa. 

4 Cono dai k a del tema pronominale interrogativo sanscrito, il gotico hva, 

da questo il wi- we- dell' odierno tedesco (was, wer), e analmen- 
te il bae, ber, di qualche dialetto. — Cfr; ancora nel sardo qa fe- 
de re, in antichi manoscritti = cadere; e forse vanno qui citati anco 
quirca (oltre chiroa) = cerea s. f., e vasi (e gasi) = così* 

* Nei dialetto meridionale abbiamo all' incontro, eoa protesi di $, gamu ed 

amn (il secondo del diaL eoa*.) = amo s. m. — Cfr. nel milanese 
gelsi e vola i = fritti, olsà ~o$are (da ausus). La forma golii è 
in B tondelli, Diai. gmUo-U., p. 68. Mil. vess = estere. 



5o studj critio. 

mo, s' ingenera la ferma convinzione che la labiale spesso 
venga a sostituirsi direttamente alla gutturale; vero essendo 
però che in dati casi deve dubitarsi che di tale scambio V 
abbia solo l'apparenza, ad esempio in badu (che è peral- 
tro del dialetto comune) per guado, voce che esiste anco 
in sordo (logudorese) nella forma vadu 1 . Esempj isolati 
di labiale per gutturale in altre parti d'Italia (ma in conso- 
nanza composta) trovo in falUspa, che il piemontese ci 
offre, insieme a fai nv osca, per favilla, da porsi allato a 
fai a v esca, favol esca, del toscano, fa lise a di qualche 
parlare veneto-friulano; - e nel siciliano girbuniscu, in 
gergo, gergone. E limbus, lembo, sarebbe mai parente 
di lingua (sardo- valaco limba), e gozzo di bozza, 
bòzzolo, buzzo? Buzzusu vale in siciliano gozzuto. 
Di rincontro, nel siciliano, nel napoletano, nel geno- 
vese, come nel valaco meridionale, troviam più o men fre- 
quentemente la gutturale o la palatina per P antica labiale 2 . 
Così per piangere, il siciliano dirà chi é nei ri, il napole- 
tano chiagnere, il genovese cianze 3 ; per pianta- 
re, piaga, piano, pianura, piazza, piovere, piò, piombo, 
pioppo, piumaccio (capezzale), avremo in siciliano chiantari 
(nap. chiantare), chiaga, chianu (nap. id.)* chianura 
chiazza (nap. t'd), chióviri, chiùi e echidi (calabre- 
se cchiù); chiummu (nap. chiummo),* chiuppu (nap. chiup— 



1 Indi Tada, pure guado, del logudorese medesimo, per cui lo Spano dà 

un' etimologia arabica. — Un esempio di tenue labiale per tenue gut- 
turale sembrami offerto nel puètta del dialetto settentrionale (galla- 
rese) = razzo, appo il quale lo Spano rimanda a e o e 1 1 e logudorese, 
che riterrei la forma originale, da 001 = coda» Il meridionale ha g u e t u. 

2 V. Shuij orient. e Ung., p. 256. 

3 II Diez (Granuli, rom. I 3 , 83) dice che pi sì fa nel genovese et, e non 

dà altro esempio che .cianze. 11 Fuchi (Ober die togenannten unre- 
gelmdssigen Zeitwórier in den romanischen Sprachen, p. 145-6) dà 
per esempj ehiù=/>itk, chiazza = piazza, ma eh vuol certamente 
rappresentarci la pronuncia palatina (ciù, ciazza). Il Fuchs (ih. e 156) 
asserisce rara nel genovese tale metamorfosi. Altre autorità per questo 
dialetto non mi sono al momento accessibili. 



SAGGI DI DIALETTOLOGIA ITALIANA. 5l 

pò), chiumazzu. Si osservino ancora: nap. chiajeto, chia- 
j e tare , pialo, piatire, ne 9 quali vediamo altresì rappresentata da 
vocale la sillaba latina (ci) che è del tatto sparila nelF italia- 
no (da piatitosi venne cioò a pjaito, chjaeto, chjajetò, 
cfr. intenzejone, e infiniti simili); chiù via le, piviale 
(lat. pluviale); chiesa, sic. china, piena; nap. chino, 
sic. chi nu (calabrese chinu), inchimentu, pieno, em- 
pimento; nap. chi eia, sic. chic a, piega, donde, coll'al- 
teramento di tenne a media, sic. ghie ari, piegare (anco 
arrivare), come, accanto a chiAmmu piombo, abbiamo 
ghinm mini ^piombini (cioè i noti legnetti lavorati al tor- 
nio); sic. chi a t tu, piatto (agg.), donde F astratto chi at- 
ti zza, ed è la stessa voce il nap. chi allorché ha molla 
carne; sic. chiattidda, nap. chiatillo, piattola; sic. 
chi anca, ceppo, bottega da tender carne (donde chian- 
chiari, macellare), e h i a n e 11 n i , ceppo grosso e lungo che 
fa parte del torchio, nap. chi anca, macello^ chi anca- 
rei la o chiancola, assicelle di legno ecc ; , tutti della 
famiglia di planca (tabula plana) lat., planche frane, ecc. 
Per cappio, il napoletano ha chiappo, con metatesi di vo- 
cale non dissimile da quella che v' è in scoppio da schiop- 
po; e il siciliano dà chiaccu, in cui mi par manifesta la 
metatesi da cappju a pjacu, ossia, per lo scambio di cui 
trattiamo, a chjacu. Di labiale interna che si muli in gut- 
turale, sono esempj : calabr. accuchiari, accoppiarsi l , sic. 
negghia, nebbia; e con media iniziale si citano i napolitani 
ghianco, ghiunno, bianco, biondo \ In lutti gli esempj sin 



1 Fuchs, Le. p. 170, e aggiunge 'ncajati, impiagati, che starebbe 
per in-ckiajati, se tuttavia la forma è genuina. 

3 Di queste due forme, citate dai tedeschi, nulla sa il Vocabolario dome- 
stico napoletano e toscano, compilato nello studio di Basilio Può ti, 
sec. ed. Napoli, 1850, come non sa di s e i a m m a = fiamma, s e i u m- 
me = fiume. Ma i compilatori dichiarano nella prefazione che a tt can- 
„ sare il brutto suono e la goflezza delle parole napoletane, selli- 
„ pre che abbiam potuto, iu luogo di darle tal quale le pronunzia la 
„ plebe, le abbiamo scritte come si odono usar da' non plebei che igno- 
rano la lingua, e si sforzano d'ingentilire alquanto il dialetto,,. Della 



3 9 studj duna, 

qui discorsi, già il lettore l'ha notato, trattasi di antico pie 
bl (;>fenus, 6/ond, cop'Ja, ecc.), la cui l s' è fatta t nel l'i- 
taliano. Esempj italici in situazione diversa non vidi, tranne 
forse il siciliano a e e i a = appio = aphtm , in cai ti sarebbe 
V affievolimento palatino. Chiuppu sic, chinppo nap.= 
pioppo =popuhss non si eccettua che apparentemente, come di-» 
mostra il ptop valaco 1 . Altro fenomeno che va qni citato, 
benché la simiglienza possa non esserne tanto intima quanto 
a prima vista parrebbe, è quello dell' antico fl o di fi ita- 
liano che si fa ne' nostri dialetti meridionali éj o £j; onde 
in siciliano ciamma, fiamma, ci u n n a, fionda (nap, scion na), 
ciuri, fiore (nap. s e i o r e), ciancu, fianco, oiascu, /ro- 
seo, e i umi, fiume. In calabrese vedo scritto hhume, hhuri, 
fiume, fiore, e di hh non conosco il preciso valor fonetico. 
Con j che gli sussegue abbiamo quattro esempj presso il Fuchs, 
che rinunciò a rintracciarne l'etimologia 2 : hhiuhhiari, sof- 
fiare, lo sciusciare del napoletano, in cui la prima sil- 
laba venne ad assimilarsi alla seconda (fla = 8cia); hhi acari, 
rompere, che è lo sciaccare, sciaccarsi nap., rompe- 
re o rompersi il capo per percossa o per caduta; fiaccare, 
fiaccarsi; ahhiari, trovare, nap» asciare, che ci con- 
duce ad afflare lat, soffiare addosso, donde si può venire 
traslativamente a raggiungere col fiatò, toccare, trovare, ed 
afflare vai veramente rinvenire negli idiomi valachi ; h h i a- 
vuru, hhiavurari, odore, odorare (riechen), che per certo 
van messi allato alla voce inglese, manifestamente romansa, 
fla vour, fragranza, sapore\ Quanto alla genesi di queste 

qu»l cura, la filologia comparata non saprebbe per certo esser loro rico- 
noscente. Hanno però : suore e fiore, scionno e fionna, scioccare e 
fioccare, sdoccaglio e boccaglio (orecchino); scetoUre = venir memo 
per desiderio di cosa che mollo piace, o per diletto che si gustai 
direi =fi ovoli re. Raccolsero pure lo sciusciare e \o sciaccare di cui 
parlo in appresso. — Del resto, circa ghiauco si riparla a p. 35. 

1 V. Die*, Etym. Wórterb^ p. 266. 

9 0. e, p. 171. La prima voce gli parve onomatopeica; delle altre disse 
che P origine è forse arabica ma che non sapeva orarla. 

3 È da tenersi presente anco il ci or ari siciliano, annasare, odorare, fiu- 
tare, in un col eia ri sic. fiore che già vedemmo. La massima parte 



\ 



SAGOI DI DIALETTOLOGIA ITALIANA. 55 

trasfoftnaaloni, se consideriamo per primo il fenomeno pj = 
pj=chj\ è d'uopo dire, che la *, la quale viene a riuscire 
ira la labiale e una vocale (pju, pje*o\ ai fa consonante e 
poi si stiaccia colia labiale per guisa da agevolare il tras- 
mutarsi di questa in gutturale. li Die* ba bensì, maestrevol- 
mente come suole, accennato a simile processo 1 , ma ante- 
riormente aveva dichiarato, nel medesimo libro, che «molti 

• dialetti (italiani) si scostano assolutamente dalla lingua scritta 
« (che fa chi dall' antico ci o ti, e ghi> pi, bi, fi dagli anti- 
« chi gl y pl> bl, fa oppure gli da ti, ci, gì e pi interni) ; la- 
« sciano cioè cadere pur dessi la consonante che precede la 
« l, quando pur sia infoiale, ma formano dalla i una palatale 

• aspra o dolce secondo V indole di quella consonante 2 »; e 
recava esempj di ci in dialetti per chi, di gi per ghi, e del 
chi per jw, oltreché di ghi per bi e sci per fu li chi na- 
poletano in chiagnere, o il ci genovese in cianze=/N a an- 
gere, del pari che il ci in ciar, ciaro (mil. venez.) per chiaro^ 
avrebbero dunque ad essere le i di pia e chia ingrossate a 
consonanti sotto la influenza di p e di e (k) che svanirono? 
Non sapremmo ciò ammettere per certo ; e in chia (disce- 
so nel genovese a eia), per p i a, terrem fermo a vedere la 
permutazione che è il soggetto del nostro discorso, della 
quale abbiamo analogie non solo nel valaco meridionale in 
kerdu per perdo e simili, ma e nello stesso idioma valaco 
in quella regola per cui corbu, coreo, fa il plurale cor£i, e 
sorbu, sorbisco, fa la seconda persona sorgi, e nel vezzo 
del celtico-gaélico che per porpora vi dirà corcor (corcuir) 
e cosi via, e nell' olandese che vi dice kracht, lucht e 
simili per gli alto-tedeschi kraft, luft ecc., e forse nell'ita- 
liano stesso (però nuovamente in consonanza composta) che 
per il latino spuma, veneto spiuma, mostra schiuma (piem. 

de' vocaboli siciliani ho dal Nuovo Dizionario siciliano-italiano com- 
pilato da una società di persone di lettere per cura del Barone Vi- 
cerno Mortili aro. 2 Voi. Palermo, 1838-44. 
1 tirasi*, der rom. Spracken, I 2 9 270. 

• /6, 196-7. 



34 studj ciimcf. 

scarna) 1 ; mentre nel ci di ciaro e simili riterremo l'antica 
gutturale ridotta a palatina, mostrando i dialetti da ce do 
du (dove la palatina inghiotte l' t) in luogo di chia chie chio 
chiù dell' italiano, mercè queir aftievolimento progressivo per 
cui i latini ce ci gè gi dal suono primitivo di ke hi ghe ghi 
discesero al suono palatino che loro è proprio nell'italiano, 
e per cui pure ca co ga go scesero a da do già gio, di- 
cendoci il friulano ciase e ciosse per casa, cosa (chose), 
e gialine por gallina come nel ladino (engadinese) 2 , e gioì-» 
di per godere 3 . Parimenti nel val*soanese ciarestia, elar- 
gì à r per carestia, caricare (friul. e i a r e s t i e, e i a r i à). Non 
negheremo però, che relativamente agli scambj è j = f 1 e ghj = 
bj, massime per i casi dove quest'ultimo è iniziale, v'abbia 
del vero nel supposto del Diez che riportammo 4 . La lingua 

1 II Diez trascura (Elym. Wòrterb., p. 309) il lat. spuma, non mettendo 
allato a schiuma che le forme romaniche (sp. port. prov. fr.), germa- 
niche, la gaèlica e l'albanese, tutte colla gutturale. Questa consonanza 
è rimarchevole; ma non va dimenticalo che sarebbe normale il gaèlico 
s g ù m (scum) dal latino spuma, e che spuma ha chiara etimologia da 
spuo. Il valaco ha spume. 

8 GiaUina. Diez, Gramm. d. rom. Spr., I 3 , 247. 

3 Colla / sviluppatasi dopo V o (o/ -lat. au)* come in olsà fr., volta mi!., osare. 

4 Nella penisola iberica abbiam dei fenomeni fonologici che presentano se- 

ducenti somiglianze cogP italici di cui trattiamo (v. Diez, Gr. rom. 
I 3 , 197-8; Fuchs, o. e, p. 164 e 200). Neir antico spagnolo tro- 
viamo, ad esempio, e n j i r (pronuncia e n e h i r , con eh = eh ted. = % gr.), 
empire, nel portoghese s' ha eh ama (pronunzia sciama), fiamma, 
che somigliano assaissimo alP inchimentu e alla s ciani ma che 
incontrammo nelP Italia meridionale. Ha codeste permutazioni, appa- 
rentemente identiche negli esempj or riferiti, hanno per certo nello due 
penisole origini diverse. Nello spagnolo si fa II (cioè tj) tanto il ci 
che il pi (11) antico iniziale, e j (cioè eh di forte aspirazione) tanto 
il ci che il pi o ti antico interno. Direi, che, nell'interno pure, fes- 
sevi un giorno (; (11), di cui non rimanesse che j, il quale poi sa- 
rebbe divenuto, per vezzo spagnolo, gutturale - aspirata, come lì dove 
risponde a j latino. Il portoghese fa eh (cioè S) tanto ci che pi e 
fl iniziale (talvolta anco interno), e, di regola, Ih (cioè Ij) tanto ci 
che pi o ti interno. Direi che, pur là dove il portoghese mostra og- 
gidì eh (S), fossevi dapprima, come di solito è nell 1 interno, Ij (Ih), 
e che il j di Ij , venuto alla pronuncia che è del j portoghese (~j 
francese) pur quando esso risponde a j latino , eclissasse la /, che 
però gli diede il colore di eh francese. 



saggi di dialettologia italiana. 35 

puntando sali' «he i viene tra la f e una vocale (fiamma, fjara- 
ma), ne fa una semiconsonante palatina a cui la f soccom- 
bente comunica del suo spiro (bcjamma) 1 ; e ghj può non es- 
sere talvolta che il rafforzamento del gj- nato dal j dopo sva- 
nito il 6 che precedeva quest'ultimo, come per esempio in 
ghia ne o bianco napoletano, probabilmente dn janco che 
pure si ha per bianco nello stesso dialetto, come vi si ha 
juorno e ghiuorno per giorno 2 . Cosi potrebbe credersi 
che da un biasimare (=blasphemare 9 bestemmiare), il qual più 
non esiste, s'avesse nel sardo settentrionale (di fondo siculo) 
iastimà e giastemà 3 , e quindi appena il ghiastimà 
di Tempio (sempre Sardegna settentrionale) 4 , con processo 
analogo a quello per cui nel dialetto stesso s'ebbe da jun- 
gerùi giugni e ghiunghì (giungere); ma in Sicilia rinve- 
niamo g a s t ì ni a, gaslimari ecc. imprecazione, imprecare, 
a cui parrebbe slare la ghiastimà di Tempio come la ghi at- 
ta dello stesso luogo a gatta gatta di Sicilia. Altre volte 
il g duro viene a corrispondere al b senza esserne la im- 
mediata trasformazione, ma per l' intermedio della t>, la cui af- 
finità col g duro è notissima. Cosi il gutti siciliano botte 
ha nella sua iniziale non un b converso ma una e indurata ; 
gutti vien cioè da v u 1 1 i, che è ugualmente di dialetto si- 
ciliano, come gurpi ci sta per colpe. Cosi a Tempio si di- 
ce, per «erme, g&ialmu e gialma, mentre son tuttora del 
Wdo settentrionale anco belmu e valmucol significato 
istesso: e ghialmu non crederei da belmu ossia da un 

1 Si provi a pronunciare il j iì fiamma come g dolce (cioè col suono 
che anco j latino viene ad avere in italiano, p. e. in giusto, giungo), e si 
sentiri nascere lo scj napoletano. — Nel siciliano abbiamo tre scrizioni di- 
verse per tale suono ; ad es. xumi, sciumi, dumi - Gume, xuri, sciuri, 
duri = fiore, xascu, sctascv, ciascun fiasco. 

a V. Fuchs, o. e. p. 165. 

3 Similmente da cambiare s'ebbe camjare (il provenzale ha cambiar e 

camjar), indi canfore, cangiare. Anco in loggia, da fobia, il b 
avrà a dirsi piuttosto eclissato che tramutato. - Il Siciliano per gabbia 
ha gaggia; cfr. il francese cage. 

4 Ghiastimà, Tem. bestemmia', ghiastimà, v. frastornare; ghis- 

stimànciu, Tem. v. frastimad ore (log. bestemmiatore). Spano. 



3$ STUDI CRITICI. 

biatmu, ma sì da un vialmu, come nel sardo meridtoftate 
ghiaggianti per viaggianti, o da un j almi nella guisa 
che di sopra vedemmo. Nel quale ghialmu rivedimi cori, 
per mero caso, la inisial gutturale che V ebbe anticbissima- 
meute in questo nome (sanscrito ermi da carmi, cfr. os- 
setico k a 1 m, gr. «fy***), e ci &i mostra per eerto quello stes- 
so espandimento dell* e in posizione (verona) che riabbiamo 
nel romancio (Grigiori) vierm o viario, nel friulano viar, 
valaco vearme, napoletano vierme 1 . 

Ciò eh 9 io raccolsi nella escursione fonologica che ora 
mi son permessa, ò un saggio assai inagro della ricca messe , 
che ci sta pronta dinanzi, sulf attraentissimo campo de' dia- 
letti italiani, importanti fenomeni fonetici, additameli etno- 
grafici e glorici, preiiose vestigia di costumanze e tradizio- 
ni antiche, e mirabili argomenti d'unità in mezzo alla mi- 
rabile svarianza, attendono ne' dialetti nostri F occhia scruta- 
tore della scienza. E assai opportunamente raccomanda il 
Biondello (29-31) che sia data fervorosa opera a rendere 
compiuta, per quanto è possibile, la raccolta del tesoro idio- 
matico italiano; e a buon dritto lamenta la scarsità dei la- 
vori diatettologici, ohe poesan dirsi veramente profittevoli al- 
la linguisticii. Sennonché, Y acerbità del lamento, che oggidì 
sarebbe soverchia, tradisce !' età del lavoro del Biendelli, 
come la tradisce il citarvisi testé pubblicata V Etruria Celtica 
del Betfaam, che vide la luce nel 1842. La quale ansine 
nità dell' Articolo, non precisata però in alcun modo al let- 
tore, attenua per avventura il torto di qualche grave sua 

1 Metto qui attri esempj di tale eepandimeato, ia coi s' iaetmtrtoo il roman- 
cio e il friulano: rom. a ivi ero, fr. anvier, émoermo; rom. tia- 
ra, fr. tiare, terra; rom. nafier, ir. infier, inferno; fier, io 
ambo gli idiomi, ferro; rom. bial, fr. biel, bello-, rora. «vierkel, 
(operculnm), fr. e a v ! a r t (coperte, coperchio) ; rom. 1 1 e « r, Ir. j e « r <?a 
i ai fuse nel frialano coìj deriyato da /), lepre; rom. fi asta, fr. f le- 
ste, festa; rom. captala, fr. ciapìel, cappeUo; rom. piai, miei, 
fr.piel, miei, pelle, mezzo; rom. aiat, fr. aiet, $eUe; siedi, in 
ambo gr idiomi, medico, oap. mi e dice. NeU' ultimo eeempto, e forte 
anco io mie* (medias),< non è il caso <T « in poaiswtie. 



COLONIE ITBAHIEBE DI ITALIA. 37 

menda; benché d'altro canto, non trattandosi la dio mercè 
di pubblicazione postuma, si sarebbe in diritto di chiedere 
perchò gli errori abbiano a starci, come per fedeltà monu- 
mentale, incorretti. Dir che più non esistano se non poche 
reliquie delle antiche lingue iberiche (37), quando ò conser- 
vata la lingua basca di cui tuttora si parlano tre dialetti l ; 

dir che del celtico non si conosca se non qualche svi- 
sato dialetto (26), mentre sono superstiti le due non povere 
famiglie degli idiomi gaelici e cimrici*: è peccar di poca 
misura ne 9 termini. Ha dichiarare affatto ignota la lingua de* 
Fenici 3 , dopo i Monumenta phoenicia del Gesenio e le mille 
scritture che ci tennero dietro, dopo insomma che ninno i- 
gnora essere il fenicio nò più nò meno che un dialetto e- 
braico ; o asserire (27) ohe Y araba conquista venne ad im- 
porre alla lingua turca la massa dei proprj vocaboli ; o par- 
lare, nel 1856, delle tavole eugubine come di monumenti 
etrosci (32), mentre ognun sa che quelle iscrizioni son di 
lingua umbra, mentre a nessun linguista ò lecito ignorare 
che T etrusco riraan bensì tuttora un enigma per la scien- 
za, ma che l'umbro, del pari che 1' osco, s' appalesò un 
Idioma sanscritico affine al latino : questo ò voler deturpate 
di brutte macchie le dotte pagine di codesti Studj. 

Arriviamo alla terza dissertazione, al Prospetto topogra- 
ficO'Statislico delle Colonie straniere d'Italia, in cui si conten- 
gono eziandio dei cenni storico-etnologici intorno a codesti 
frammenti di dieci estranee nazioni (Tedeschi, Slavi, Francesi, 
Valachi, Albanesi, Greci, Catalani, Arabi, Ebrei, Zingani), che 
hanno ferma stanza in terra italiana.- Tedeschi troviamo nella 
regione più settentrionale, sì ad occidente, di qua dalle Alpi 
perniine ed elvetiche (lepontine), e sì ad oriente, di qua dalP 
Alpi tridentine e cantiche. I comuni siti nelle adjacenze del 
Monte Rosa (Piemonte), per i quali lo Schott coniò l'epiteto di 

1 V. Humboldt nel Mitridate, IV. 280-2. 
9 Studj oriMt. e liDgnift., p. 266-7. 

3 P. 32; efr. p. 26. 

6 



58 sTtiDj cama. 

Sihii \ formano la parte principalissima del grappo tedesco ad 
occidente* Questo avrebbe contato, air epoca in cai scrisse 
il Biondello circa 7200 anime, di cai 5800 appartenenti 
ai comuni monterosani 2 ; il resto, tra Sempione e Gondo 
(Valleso), Formazza (Piemonte) e Bosco (Ticinese). Ad oriente, 
sonvi i comuni tedeschi del Trentino, i XIII Comuni nel Ve- 
ronese, i VII Comuni nel Vicentino, e per ultimo, nel Friuli 
settentrionale, i villaggi tedeschi Sappada, Sauris (di sopra 
e disotto) e Timau 3 . 1 Tedeschi del primo gruppo (monterosani 
ecc.) sono intitolati Burgundi dal nostro autore, e Binari 
quelli del secondo (sette-comuni ecc.). Egli ritiene dimostrato 
dalle ricerche dello Schott, a sommariamente conformi» alle 
osservazioni ed alle sentenze sue proprie, che «le co- 
« Ionie tedesche del Monte-Rosa da varj secoli sono stabilite 
« negli attuali lor monti, essendovi penetrate per le inospi- 
« te gole che le dividono dal vicino Vallese; che discendono 
« in linea retta da quei Burgundi, che nel V secolo dell'era 
« nostra fondarono un potente regno sulle sponde del Ro- 
« dano e dell'Aar, e che, sottomessi nel VI alla signoria 
«franca, formarono pur sempre uno stato separato ; chemen- 
« tre nell' opposta valle del Rodano i loro consanguinei ri- 
« parliti fra le corone di Germania e di Francia, smarrirono 
« a poco a poco le primitive nazionali loro impronte, questi, 
« protetti dalle inospitali balze e dai perpetui ghiacci che li 
« circondano, serbarono in gran parte l'antico linguaggio dei 

1 Albert Schott, Die deutschen Cotonieri in Piemonte p. 5, allegando m 
passo di certo scrittore del secolo XVI, ed imo di scrittore del XVIII 
(v. p. VI), mostra che SUttius fosse "l'antica denominazione del Monte 
Rosa o piuttosto del Cervino (Matter-jocA).„ A p. 26, trattando dei 
varj nomi del Cervino, ha: a Cot du Mont-Cervin, probabilmente H più 
antico, parendo contenenti l'enigmatico SUeius^ nome dell'intera giogaja 
(Gebirgsstrecke).„ — Monte Silvio è la denominazione piemontese 
del Cervino {Bitter** Lexicon). 

9 II Welden (1824) portava a 9000 i monterosani, non computativi i 
comuni di Rima e Rimella; lo Schott (1842), da cui ricavo questo 
dato (o. e, p. 89), stimava i Silvi* tutti uniti non più di 7000. 

3 II Biondelli non sa di Timau, né il Bergtnann ne' Wiener JahrlMcher 
der Literatur, Anz.-BI. CXXI; v. però quest'ultimo in Schmelter's 
Cimbrisches Wórterbuch, p. 23. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. 5g 

« Toro padri , giacché i dialetti da loro attualmente parlati 
« hanno molti caratteri comuni coli' antica lingua teutonica meri- 
« dionale (althochdeutsch , antico-alto-tedesco), quale si serba 
« ne 9 monumenti dei secoli XI e XII; che questi dialetti fu- 
« rono in varia guisa modifióati e corrotti per l' influenza 
« dei dialetti circostanti, e del commercio coi popoli vicini, 
« essendo quelli di Gressoney, Issime e Rimella i più puri, 
« sebbene corrotti -d' italiano, ed il dialetto di Macugnaga ten- 
« dendo alle moderne forme del vallesano (p. 48-49). » Sulle 
quali conclusioni mi occorre di osservare in prima, che lo 
Schott ha messo fuori la denominazione di Burgundi per 
raccogliere sotto alla medesimp, co' dialetti monterosani, i con- 
suonanti idiomi, ch'egli chiama leponzii, parlati neU'Àlto»Vallese, 
neÌP Alto-Bernese (Berner Oberland), e in parte da' cantoni 
di Friburgo, di Lucerna e de' Grigioni 1 . Le reliquie borgo- 
gnone nonsarieno quindi ristrette al solo Monte Rosa, come 
parrebbe dalle parole del Biondelli ; il quale non sembra ben 
d'accordò con sé stesso accogliendo tra i Burgundi anco le 
altre colonie germaniche occidentali, il cui dialetto egli rico- 
nosce in strettissima affinità coli' odierno Vallesano. In se- 
condo luogo poi, bene è lungi dal l'apparire accertata la conget- 
tura che nei dialetti o monterosani o leponzii siasi mantenuta 
una ragguardevole parte dell'antico linguaggio dei Burgundi. 
Qualche glossa e nomi proprj, unici e scarsissimi rimasugli 
scrìtti che del burgundo ci pervennero, appaleserebbero anzi 
(tuttavia in modo che, per doppio rispetto, non può venirne 
sicuro giudizio) maggior parentela col gotico che non coli' 
(antico) alto-tedesco 2 . 

L'alto-tedesco, lingua letteraria dell' Alemagna, ha delle 
caratteristiche per le quali si distingue da tutte le altre fa- 
velle germaniche; come sarebbe la sibilante in luogo della 
tenue dentale, p. e. in wasser acqua, das questo, in con- 

.! 0. e, p. 5, 187, 194. 

3 V. Grimm, Geschic/Ue der deutschen Sprache, 2 a edix., p. 491; 580 

(1» ed. 708, 835-6), cfr. 338 (483). V. ancora p. 474 (682), • 

la noia a p. 488-9 (704). 



40 STtJDJ CR1TICT. 

fronto di vató gotico, vatn islandese e svezzese, water ingle- 
se, water sassone (basso-tedesco), thata gotico, dat olandese, 
det s vezzose, that inglese, dat sassone; le quali caratteristi- 
che son naturalmente comuni a que' dialetti che, a così dire, con- 
tinuano gli antichi parlari concorsi a formare la lingua let- 
teraria. Appartengono a cotali dialetti (oberdeutsche dialekte) 
tutti gì' idiomi alemanni che son parlati nella Svizzera, quindi 
anco il gruppo lepontino, al quale vanno congiunti i parlari 
monterosani ; e ci appartengono ugualmente i dialetti bavari, 
ai quali, col tirolese, va ascritto quel dei Sette e dei Tre- 
dici Comuni. I singoli dialetti, e specialmente i montani od 
altramente relegati, conservano^ quasi è superfluo avvertirlo, 
ne' paesi alemanni come altrove, forme e voci che nella fa- 
vella più pulita, nella lingua illustre, si vennero smettendo o 
alterando ; ond'è che lo Scbott ha potuto notare presso i dialetti 
monterosani e leponzii (presso i primi inispecie) non iscarsi 
fratti dell' alto-tedesco quel ci si offre ne 9 documenti del XII 
secolo, anzi d' un colorito forse più antico ancora 1 ; e io 
Schmeller 2 ha ugualmente rinvenuto nell 9 idioma dei Sette 
Comuni, da lungo tempo divenuti Isole germaniche in Italie, 
« l' alto-tedesco del XII e XIII secolo, conservato • in mi 

• sura tale che per certo dir si dee significante, rimpetto 

• alle alterazioni che gli altri dialetti tedeschi, e precisamente 

• quelli che ne sono i men lontani, nel corso di sei secoli 
« hanno subito 3 .» 

Non si potrà a meno di ammettere che i tedeschi mon- 
terosani non solo sieno penetrati in Italia per le inospite gole 
che li dividono dal Vallese (p. 48), ma sieno altresì origi- 
nai] dell' Alto- Vallese 4 , non diversamente degli alemanni che 
presero stanza nel bacino della Tosa (Piemonte) e in Val Ro- 



1 O. e, p. 174-194. 

* Memorie della r. Accademia di Bariera (1. CI.), II Parte, III Ses^ p. 706-8. 

9 Cfr. Biondelli, p. 49 e 54. / 

4 Vegganei, inficine con l'opera dello Scbott più Tolte citata, i Saggi raccolti 

noWAnteige-BlaU del centeeimottaro rotarne de' ffitaur Jakrbécker 

der biteratur. 



coLoifis murami m itaua. 41 

vana (Ticinese), e dei Waleer, ossia Vollisani, che vennero 
a formar colonie ne* Grigioni e nel Voralberg ! . La emigra- 
zione di codesti Vallesani nel verso nordico-orientale, risa- 
lirebbe al secolo decimoterzo; ed è non infelice congettura 
del Bergmann che intorno all' epoca stessa si fissassero le 
prime colonie tedesche al Monte Rosa '• Sarebbe di circa un 
secolo anteriore (seconda metà del duodecimo secolo), giusta 
la fondata opinione dello stesso Bergmann, lo stabilimento di 
coloni tedeschi nella montagna di Vicenza, venutici dai dintorni 
di Pergine nel Trentino 3 ; e l'idioma delle sporadi germa- 
niche di Porgine (alcune delle Guratie montane di Pergine), 
del pari che quello (del monte) di Roncegno (Val Sugano), 
ci ò dato per strettamente affine air idioma dei Sette Co- 
muni 4 . Le vestigia tedesche nella Vallarsa (V. Cimbr. Wtir~ 
terb., p. 13, n. Cfr. la Memoria dello Schmeller, p. 562), 

1 II Biondello a p. 50-51 : * Altre colonie di Valtesani trasportarono in Tari 
„ tempi il loro domicilio in altre più o men lontane regioni, e veggonsi tuttora 
„ isolate e distinte per lingua e costumi fra i popoletti romansi dell'alta e 
„ bassa Bngadina, e nelle Teliate di Rheinwald, di Savien e di Web; 
„ altre finalmente, ai tempi delP emigrazione dei celebri Walter, erano 
„ penetrate sin nell* italica Val Pregallia e in Val Tellina.... n Debbo 
porre in dubbio che sien vallasene quelle colonie che ne' Grigioni ci 
addita per tali il nostro autore (t. Bergmann, Wien. Jahrb. d. Ut. 

A. BL, CV? p. 6-9 ; Schott, 0. e, p. 206) ; ma il parlare dipoi delT*- 
migrazione dei celebri Walser mi pare stranissima cosa. I Walter, 
per quanto io sappia, altro non sono se non coloni vallesani com'eran 
quelli che appunto formavano sin qua il soggetto del discorso. — H 

B. ha in questo luogo, e Dial. gaUo-itaL p. 82, Pregallia, forse ap- 
poggiato su buone autorità, per la BregagUa dei lessici. 

«LcCV, p. 2; CVI, p. 51, CVII, p. 4: 

» V. Wien. Jahrb. d. Ut., CXX, A. BL, p. il, 16-17, 18, e CXXf, A. 
BL, p. 34. Cfr. il medesimo ap. Schmeller' s Cimbrisches Wòrlerbuch 
(p. 32, 33, 102), dove si accenna a' varj elementi tedeschi com- 
mutisi ne* Sette Comuni, alcuni giuntivi forse in epoca d' alquanto an- 
teriore. Ha P elemento decisamente pia importante rimane il tirolese, 
la cui immigrasione fondamentale sarebbe avvenuta all'epoca indicata 
nel testo. V. ancora la Memoria già citata dello Schmeller, p. 703. 

4 Cfr. Schmeller, Memoria, p. 590; Schmeller-Bergmann, Cimbr. 
Wàrterb., p. 33. - 1 tedeschi dei distretti di Pergine, Levico e Borgo 
(Schmeller, Mem., p. 561-2), forse più precisamente quelli della 
Val di Pai* o di Wierono (Cimbr. Wàrterb^ s. mócchen), son chia- 



4? STUDI GETTICI. 

additano forse la strada per la quale i XIII Comuni Vero- 
nesi ebbero la loro popolazione germanica , favellante un 
dialetto non diverso da quello dei VII Vicentini. Lunga pez- 
za, come tutti sanno, si vollero discendenti de'Cimbri questi 
abitatori tedeschi delle Alpi vicentine e veronesi ! ; e cimbro 
si continua a chiamare il dialetto loro; uno di quegli epi- 
teti cui si perdona la scorrettezza, in grazia della persistenza 
e della vetustà dell'errore. Ne' Sette Comuni s'ode ancora il 
popolano, o almeno s'udiva non ha guari, ricordare la origine 
timbrica {bir saint Cimbarn « noi siam Cimbri ») ; ed è probabil- 
mente, come avvertì lo Schmeller 2 , la fantasticheria de f letterati 
infiltratasi nel volgo. Pure, non vanno perduti di vista Cembro, 
Val di Cembra (nel Trentino, a settentrione di Porgine), nomi di 
luoghi onde potrebbero essere in parte venuti questi alemanni 3 . 
La Confermazione de Privilegi rilasciata a favore de 9 Sette Co- 
muni da Giov. Galeazzo Visconti (17 luglio 1388), chiama ret- 
tamente i loro abitatori germanici: theufonici montanearum nostri 
districlus vicentini; i quali erano Tedeschi messi a difendere dagli 
insulti alemanni una delle porte d'Italia, com f è chiaramente es- 

mali dai circostanti italiani : Móccheni; oscuro nome dice il Biondello 
ma che a molti parrà ben dilucidato dalla ipotesi dello Schmeller, am- 
.'. messa anche dal Bergraann, giusta la quale gl'Italiani avrebbero scher- 
zosamente denominato codesti stranieri dal machen fare, verbo da 
essi adoperato, come nell'italiano, quasi a mo' d'ausiliare (farsi ato- 
mo, far giorno, far notte, far preghiera), e quindi frequentissima- 
mente fatto sentire. — SlaperioSIépari si dicono dagF Italiani 
i tedeschi di Lavarono nel Trentino (jCimbr. Wórterb., p. 147-8), ansi, 
secondo altre indicazioni, quelli pure dei XIII e fors' anco dei VII Co- 
, mimi. Schmeller, Mcm., p. 565; Cmòr. Wòrterb., p. 170. la qaest' 
' ultimo luogo, e nel Patriarchi (Vocab. vene*, e padov.), trovo che a 
Venezia (e a Padova) si dica si aparo per luterano, protestante. 

* il ' Biondelli cita, a proposito delle Origini di questi alpigiani, gli stessi 
autori che sono citati dallo Schmeller nella sua Memoria (p. 566-73); 
ma schiera, per isbaglio, coi partigiani dell' origine cimbrica, il Malfai, 
.il Muratori e il Bettinelli, dei quali lo Schmeller dice all'incontro che : 
a per il sano loro criterio cercarono i progenitori di queste popola- 
zioni in tempi ed in luoghi meno discosti. „ 

9 Memoria, p. 565-66. 

3 V. B.ergmann, nel Ombriseli. Wòrlerb., p. 30 e 33. 



COLOIOE STRANIERE » ITALIA. 43 

presso nella Confermazione di Can grande II della Scala (1357) : 
et quod dicti homines teoeantur et debeant tempore belli 
tantum custodire omnes passus, per quos ìtur in Alemaniam, 
ne inimici nostri possint damnum foqere pec inferro terriset 
locis nostris 1 . Anco i tedeschi trentini e monterosani furo- 
no un giorno in Voce di Cimbri o di qualcosa di simile 2 ; 
anzi persino quelli che abbiam nel Friuli 3 , intorno a 9 quali il 
Valussi diede recentemente le notizie che seguono: «In qualche 
« parte della Gamia .... v' ha seminato qualche villaggio, la 
« cui popolazione parla un dialetto tedesco ; come p. e. Sap- 
« pada, con 1,265 ab. e Sauris con 612. Se la prima può 

■ dirsi una continuazione della Germania 4 , un piccolo cuneo 

■ sul versante meridionale delle Alpi, che vuoisi abbia ori- 
« gine da una colonia di minatori, Sauris invece è da con- 
« siderarsi come un 9 isola di più antica formazione posta fra 
« paesi italiani senza contiguità coi tedeschi. La popolazione di 
« Sauris ha dei caratteri d' analogia con quella dei Sette Co- 
« munì del territorio Vicentino, alla quale si unisce anco per 
« qualche tradizione 5 .» Il Bergmann, soccorso di qualche no- 
tizia venutagli dal paroco di Sappada (Giuseppe Gallanda), 
fa i Sappadini originarj del Tirolo orientale (Villgratner Thal), 
e ritiene che immigrassero non lungi dalle epoche in cui ve- 
demmo stabilirsi i Vallisani ne' Grigiori e nel Voralberg ed 
i Tirolesi ne 9 Sette Comuni. I Sauriani parrebbero d' altro 
ceppo 6 . 

1 Wien. Jahrb. d.JWl., A. BL, CXX, p. 20; 19, cfr. 21-22. li documento 
nltimamento citato par che tocchi in particolare Lnsiana (S. Giacomo, 
di Lasiana), ma che por tratti dei privilegi e de' doveri di tatti i Set- 
te Comuni. 

3 Schott, o. e, p. 196; Schmeller, Memoria, p. 567; Cmbritch. Wór- 

terb., p. 99. 

* Giot>. Costa Pruck, Disquisitio de embrica origine popvlorum Vicen- 

tina*, Veronenses 9 Tridentina* a e Sanrias Alpe* incolentìum\ v. 
Schmeller, Memoria, p. 572; Cmbr. Wdrterb., p. 93. Li vuole di- 
scendenti non proprio de' Cimbri, ma de' figurini loro alleati. 

4 E altrettanto sarà da dirai di Timan. 

5 Rapporto della Camera di commercio e cf industria della provincia del 

Friuli, Udine, 1853, p. 31. 

* Wien. Jahrb. d. Ut,, A. BI., CXXI, p. 42-3, 46. 



44 STUDI CRITICI. 

Ha, come al di là delle Alpi rewe (Grigiori, Voral- 
berg, Tirolo tedesco) la favella romanza ha dovuto soc- 
combere verso oriente alla preponderanza germanica e vers'oc- 
cidente non vive di florida vita ! , cosi al di qna deli 9 Alpi 
ha toccato mala sorte al patrio idioma delle colonie germa- 
niche. L' italiano, investendo da ogni parte il timbrico, si è 
mescolato con esso e lo ha sfibrato e alterato per ogni guisa, 
e oggidì si può dire che l'abbia inghiottito del tutto 2 . Nel 
Piemonte orientale, il tedesco aveva un posto avanzato in 
sin presso alla foce della Tosa, cioè il comune d'Ornovasco; 
oggidì la favella germanica non vi si mantiene che alle sor- 
genti di quel fiume, nel comune di Formnzza, attiguo, si 

1 V. Di**, Rom. Gramtn., I* 132; Diefenbach, Jetmge romanésche Schrifl- 
sprachen,?. 41-42; Wien. Jahrb. d. Ut., A. Bl., CXX, p. 7. — 

* "Codesta lingua cimbrica, scomposta e disfatta dall'italiana, s'estingue colla 
generation presente o colla prossima., Cimbr. Wórterb. p. 102. — 
Ne* Tari modi de* quali il cimbro si serre ad esprimere il passito, 
abbiamo notevoli esempj dello sfasciamento a cui per rinSneoza ita- 
liana esso fa ridotto. A rendere p. e. il laudatur latino, l'italiano ba: 
è lodato, vieti lodato, si loda ; e tutti e tre i modi, estranei al tedesco, 
si ritrovano nel cimbro: ist gabest get (letteralmente ist gemesen 
gegeben) è stalo datò; 'as Ab kemme gel (lett. dass «ns tostate 
gegeben) che ci venga dato-, sik lo bel (lett sich lobet\ è già nel 
catechismo del 1602, Wien. Jahrb. d. lit. A. B. CXXI, 18} lodasi, 
on Ione. E io una poesis moderna (ib. 22): hia schanghensigh 
net off eie (lett. hier schauen sich nicht dpfet) qui non veggonsi 
mele; e nel vocabolario dello Schmeller (fiùnbrisch. Wòrterb.\ col 
si posposto e assolutamente in veste italiana, abbiamo vorsetsi (XIII 
Comuni) chiamasi, che ò senta dubbio V addomandasi, da vorset 
(pfonchet; v. altro esempio di vorset nel raccontino che sto per ri- 
portare) e si. — Per ehi desiderasse conoscere in qualche parte il 
tipo fonetico e grammaticale dei principali dialetti germanici parlati al 
di qua dell' Alpi, trascrivo dagli Annali viennesi di letteratura (CVHI, 
A. Bl.) la versione monterosana (Gressoney) e la settecoaunigiaM 
(Asiago) d'uno stesso raccontino, adattando all'ultima l' ortografia te- 
nuta dallo Schmeller nel suo Vocabolario Cimbrico. Ma non tacerò 
che la settecomanigiana fa per certo abbellita dal tradottore (Don Giu- 
seppe Bonomo di Asiago), col darci miglior grammatica e statassi ger- 
manica ed escluderne ogni mistione di vocaboli romansi. Anche la 
monterosana (nach der uralten Mundart) sente forse tu po' troppo la 
lingua scritta (Cfr. ib. 28, Schotl, o. e, p. 250). 
Gressoney: Vor eim dorf ist ein grosies Chritt am weg g'stande, wo 



COLONIE STRANIERI IN ITALIA. 

può dire, e congiunto per molti commerci all' Alto- Valleie 
schott, o. e, p. 250). Nei comuni monterosani istessi, come 
risulta dalle autorevoli conclusioni dello Schott, l'elemento ro- 
manzo s' immischia dappertutto al dialetto originario, che or- 
mai s' appella linguaggio-delle-fetnine ; e da anno in anno il 
terreno va insensibilmente ma indubitabilmente mancando al- 

d'ieite in vorbtgehe an paar vaterunser g'betot hein (haben) ; iroè and 
ooà (nach und nach) hit aber der rege d's Chrits ganz abgVesche 
und d' sonno Inter spran (lauter sprttnge?) and apoalta d'rin g'macht. 
Der pfodrr bat fflr's oalte uà (aus) eim sltìck boli ein noa (neuet) 
and biibacbera maebo loa (lassen). Die bare (bauern) aind aber nim- 
me (nichi mehr) so atoa blebe, wie z'erst. Der pfoérr fregi a mool 
ein bar: waram aie rimine, wie z'erst bina ntte (beim neuen) Chrits 
bethe? Der bar will lang nit nit der rede aa, ohratzt achich hinterm 
ohr, and aeit (sagt) endlicb: jo, wir bein dea nae herrgott oder d's 
noe Chritz nocb ala birobaam (bimbaum) g'kenntl 
Asiago: Vraan onez lant (land, per borgo, paeae) ist an groaaei 
kreutze naach-me (nahe dem) bege gestant, ba (wo) de lente in-me 
bege gebeoten an paar vaterflnzer gebetel habent. Naach nnd naach 
hat-dez aber der regen ganti auagebescht (ausgewaschen) undesun- 
na ofìe (è scrino off te che potrebbe voler dire in timbrico aperti, 
aperte, ma parmi qui si voglia ofte, ossia un plurale di oft che 
si ritrova né* Sette Comuni col significato di spesai, apeaae) 
sprango an klflfte drin gè ma eh t. Der seel-schaafar (pastore-delle-animei 
paroco) lòtte (Hess) vor'z (fur das) alte auz onem stncke boline an 
neuez and achdnerez machen. De paaern saint (sind) abor nicht mer so 
steen bolaibet um irn vaterfiuzer zo peten. Der seel-schaafar vofset 
aa vari (forschet ein mal, chiede nna volta) bromme (warum) ai nichl 
mer bia vor hinan (wie vom-hinein) me (dem) neaen achdaen herr- 
gott patenl ? Der paner will lang [mil der rede] nel anz, kratze aich 
hinterm ohre nnd kùt (sagt) ini ente: je, wir haben den neaen nodi 
ejlez pirpoomen (birnbaum) gekannt! 

Le due voci pia notevoli che s'incontrino nel testo settecomunigiano, 
aono vari per volta, fiata, e kùt per dice. Vari è, per la con- 
sueta motasione di f iniziale, pari al tedesco fahrt, corsa, pilo, ed è 
ovvio il traalato, come p. e. nel Wte pa'am ebr. passo e fiala. Kfll 
poi è un'anticaglia preziosa, da kòden dire, che rappresenta l'antico 
alto-tedesco q ned a n, il gotico qvilhan, rispondenti alla radice sanscrita 
caC dicere, narrare. Questo radicale vive tuttora in diversi altri par- 
lari germanici (v. Gabelents e Labe, gloss.got.*. y.\Cimbr. Wòrterb. 
p. 137), e Io Schott l'ha scoperto anco al Monte Rosa nel compo- 
sto per rispondere, come si scorge dalle seguenti versioni monterò- 
sane del principio del vigeaimonono versetto, cap. XV, di Luca (al Ole re- 
spondens dixit patri suo): Comune d* Issime, is hèd and-ehjèdé 



46 ITUDJ CRITICI. 

l'idioma germanico 1 . E se, nel Frinii, come il Gallanda as- 
sicura, il tedesco ai è ammigliorato a Sappada, in séguito alle 
periodiche peregrinazioni che i Sappadini fanno per la Ger- 
mania; nell'isolato Sauris all'incontro, il parlar tedesco, «fr-o- 
seicato, guasto, commisto di vocaboli italiani e sconosciuti, pare- 
rebbe nop gran fatto lontano dal suo tramonto 2 . 

Gli Slavi attraggono, dopo i Tedeschi, l'attenzione del nostro 
autore. Li abbiamo ad oriente, nel Litorale austriaco e nella 
Venezia. Sono Vinài o Sloveni gli slavi del goriziano, del 
veneto e del territorio di Trieste ; quelli dell' Istria non tutti 
setolici come ha il Biondelli, ma parte serblici epartetfo- 
veni come tra poco vedremo. Il Valussi 3 fa circa 72000 
gli slavi che sono nel Friuli, ponendo il confine orientale 
di questo all'Isonzo; e ne dà 40000 al Friuli goriziano e 
32000 al veneto, ossia alla provincia amministrativa del 
Friuli, alla quale il Biondelli non ne assegnerebbe che 20000. 
Tra questi del Friuli veneto sono i circa 3000 slavi della 
valle di Resia. II nostro autore, dopo avere accennato ai molti 
nomi geografici d'origine slava che attestano l'antica diffu- 



dftm atto (er hat geant-wortet seinem vater); Gressoney, èer hèd 
dfìm atte end-chjèded; Alagna, ma dèr hèd und-ohède and 
hèd g'faid ftoem atte; Rima, und èr had-em and-chèded nitd 
g'faid ftm attan; Rimella: ma deae fa end-chéd dum vetter (in 
Macugnaga all'incontro: und er gld andwird firn fatter). - Ritornan- 
do al testo settecomunigiano, i participi gestant, gemaeki, gebeiei, ge- 
kannt, sembrano annobilitati. Lo SohmeUer non conosce se non ne ao- 
stani, gamachet, gapet preghiera ( Cimbr. W. p. 154, a), gakamL 
Cosi, per il gerundio gehenten andando, lo Schmeller ha gheentm 
o gheeien ; ed ha schdnor per comparativo di schòn, e tara per ir» 
(jhrn), e umme per um t seti (seenolit.) per si ($ie pi.)» eòtor, cioè 
mar (bar, ber y enclit.), per toir. Abbiam qui inoltre nichi e nel a- 
d operati promiscuamente per l 1 alto-tedesco ni eh t non, contro le indi- 
cazioni delio Schmeller ; il quale d' altronde non conosce V aUe% per 
afe, come qui parrebbe doversi intendere, né il herrgoU che il Bono- 
mo sostituì al caratteristico gotta rerre (da gott der herre, che 
pure v'ha nel Cimbr. Wòrt.). 

1 0. e, p. 253. Cfr. p. 20, e 166-9. 

* V. Wien. Jahrb. d. lil., A. Bl. CXXI, p. 45, 46. 

3 L. e, p. 24, cfr. p. 7. 



COLONIE STRAMERE IN ITALIA. 4 7 

eione delle genti slave nelle venete provincie 1 , soggiunge 
(p. 55) che a monumento irrefragabile di tal falto stanno fram- 
messo agli Italiani questi slavi della valle di Regia, serbanti 
costumi nazionali e un corrotto dialetto della lingua vinda. 
Ora, io non intendo di negare il fatto che lo slavo tenesse 
un giorno nel veneto più ampio territorio di quello che og- 
gidì gli resti; ma parai strano l'addurne a prova il sus- 
sistere slava tuttavia la Val di Resia, che è incastonata alla 
estremità nordico-orientale del Friuli, e divisa per solo una 
parete montana dagli sloveni che le stanno ad oriente nel 
goriziano e nella Carinzia. Né le varietà che la segrega- 
zione ha ingenerato tra il parlare sloveno della Valle di Re- 
gia e quello degli altri sloveni, sono tali 2 da far supporre 
in codesti resiani gli avanzi d'uno strato slavo diverso da 
quello cui appartengono i residui Sloveni abitanti su territo- 
rio veneto, ne 9 distretti di Faedis, Tricesimo, Cividale e S. 
Pietro 3 , tutti più a mezzogiorno di quel di Sloggio, in cui 
è sita la vallata del Resia 4 . 

1 * . . . r antica diffusione delle nazioni slave nelle venete provinole al di 

. qua dell'Isonzo ...» 
* V. Valusii, I. e, p. 31; Piiely ap. 0o6ro*sfty,Smvin,§XI; m*», 
Jahrb. d. Ut., A. BI. CXXI, p. 48. 

3 Va lutti, 1. e, p. 30. 

4 Dei nomi geografici pertinenti alla Valle di Resia, non sono ben chiaro. 

Le risposte eh" ebbi da due poveri resiani, non valsero ad illuminar- 
mi. Biondelli parla di Ruitit posto nel centro della valle, e fa (se ben 
lo comprendo) che vi abitino tatti gli slavi resiani ; poi soggiunge (p. 
55): tt 1 vicini villaggi nella stessa valle aono: Ossòaoo, Gniva, Stoltìz- 
ia, Poviey, Coritis, Clia ; f monti che racchiudono la valle chiamansi Po- 
sgost, Canin, Brumaud, Plananica, Stolac, Zlebao, nomi tutti di forma ed 
origine slava. „ Ruitis è nominato per primo anco presso Dobrowsky 
(uelPed. di Hanka, a p. 123, è Auitis per errore tipografico), e par- 
rebbe quindi equivalere al Resia delle buone carte, principal luogo della 
vallata, il nome slavo del quale, nella cartina speciale dello Steinhau- 
ser (ap. Schmeller - Bergmann, Cimbr. Wórterb.), operò Rawenz; il 
RaweneU del Prof. Sreiniewski, che air incontro ha pod Ruitji per 
noma d'un casale (Gehdft; Wien. Jahrb. d. Li/., A. fil., CXXI, p. 
48). Presso il Dobrowsky abbiam posoia: Oseako, Niva> Stoltica (leggi 
Stohi***), Poviey > oome presso il nostro autore; dei due luoghi che 
quesf ultimo dà di più, Curiti* mi riapparisce netT elenco dello Sres- 
niewaki, CUn non rinvengo altrove, ma non ho a mia disposinone la 



48 studj ciarla. 

Alla frontiera orientale dell' Istria, stando ai preziosi cen- 
ni etnografici che ne somministra il Combi \ lo sloveno, che 
occupa i Carsi di Duino, Trieste e S. Pietro, s' imbatte, al 
toccare il territorio dei Cici (Carso di Raspo), in un dialet- 
to per la maggior parte serblico, che non va però privo del- 
l' elemento sloveno; mentre in parti più eque si mescolano 
il serblico e lo sloveno nelP idioma parlato sulla estrema pro- 
paggine delle Alpi Giulie, la quale, continuando in qualche 
modo il Carso di Raspo, scende ritta al Quarnero. A piò dei 
Carsi, fra Trieste e la Dragogna, lo scrittore istriano conta 
29,000 sloveni % dalla lingua corrottissima, «mista di voci 
e di maniere italiane » ; e nei Pinguentino ci addita una tribù 
di 6000 slavi, favellanti un degeneratissimo dialetto slovena 
Altri 5000, « più oltre, nelle terre che divallano dal Monte 
Maggiore e dal Caldera, e in quelle che al di là dell'Arsa 
scendono al Quarnaro 3 », gli presentano a un di presso gli 
stessi caratteri misti offertici dall' adiacente ultima sezione del- 
la frontiera orientale, il cui dialetto sentimmo or' ora essere 
un mescolamento di serblico e di sloveno. Fra la Dragogna 

carta topografica. Dei nomi di monte che ci offre il Biondelli, i tre pri- 
mi atanno per tali in Dobrowsky, ma f tre ultimi vi son dati per no- 
mi di terreni (Gegenden). La cartina citata altro non ha nella falle sen- 
nonché alla sinistra del Canal della Resta: Gniva ed Oseacco, e alla 
dritta: 5. Giorgio, Resta, e Stolvi%%a. 

Una curiosità italo-slavo, .che non ao da altri avvertita, mi fo lecito di 
qui soggiungere. È il muchi (che ritengo abbia a pronunciarsi muct, 
come ad esempio il machiare dello stesso vocabolario ò da pronun- 
ciarsi mudare) per zitto, sta, che il Patriarchi registra nel suo Fo- 
eabolario veneziano e padovano ; pretto pretto il muéi slavo, foci/, che 
potrebbe essere si sloveno che serblico (slov. molói, mouéi, muéi', 
serbi, mtiói), ma che probabilissimamente si fece veneziano per il ca- 
nale serblico degli Schiavoni. 

1 Porla orientale, Strenna, Anno III (1859) p. 99-139. 

9 È detto cioè a p. 105 che il lorotipo è tt assolutamente sloveno e ac- 
cenna a fratellanza di schiatta cogli Sloveni del Friuli,; e a p. 119 che 
in questa parte dell'Istria, sotto il governo di Carlo Magno, * furono 
introdotti gli Sloveni, tolti al Friuli dal duca Giovanni, eh' era luogo- 
lenente del re, nonché Signore del Friuli e dell'Istria ad un tempo. n 

9 P. 105; a p. 106 è manifestamente uno sbaglio la indicazione "destra 
sponda dell'Arsa,, per sinistra. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA, fg 

ed il Quieto abbiamo dipoi un 15000 Sloveni italianizzati, 
Io slavo de' quali è frammisto di parole italiane. • La vera 
transizione dalla stirpe slovena alla serblica, sempre secondo 
lo stesso letterato istriano, rinviensi nelle terre più a me- 
rìggio del Pinguentino e più ad occidente della regione del- 
l'Arsa: tratto non largo di paese, ma che occupa per cosi 
dire il centro dell' Istria. » Ivi sono circa 9000 Slavi, più 
serblici che altro verso Antignana, Corridico, Giurino, S. Jua- 
naz; misti, a Gherdosello, Chersicla, fino a Borato v non lungi da 
Bogliuno '; in complesso « nel linguaggio non meno che nel ve* 
« stire molto affini alla vera stirpe serblica », la quale abita la 
rimanente campagna dell'Istria ■ sotto il Quieto, ad occidente 
« delle tribù sin qui discorse », e fa non meno di cinquantaquat- 
tromila anime 3 . 

Mentre debbo rinunziare a qui seguir l' acuto Istriano 
nella sua beli' indagine storico - etnologica intorno alle im- 
migrazioni slave nelP Istria, che per molti secoli ebbe popo- 
lazione intieramente italica (p. 117): mi occorrerà all'incon- 
tro di ribattere in queste pagine la sua opinione, che è pur 
quella di altri letterati istriani, intorno all' origine dei Rumeni 
o vorrem dire dei Valachi dell 9 Istria^ ai quali il Biondelli ha 
dedicato un paragrafo dei pregevole articolo che esaminiamo. 

Al filologo lombardo non giunsero che imperfette no- 
tizie di codesti Rumeni. « Sebbene appaja, die' egli a p. 58, 
€ che da principio varj fossero (nelP Istria) i gruppi di fuggiti— 
« vi (valachi) colà ricoverati, ciò nulloslante i soli abitanti del 



1 Questo strato staro riuscirebbe aderente, per cosi dire, a quello dei 5000 
di mi s'è prima parlato. 

* A p. 110: tf Abbiamo vedalo come due sieno qoi le stirpi principali degli 
u Slavi, la slovena cioè e la serblica, Tana dominante specialmente nel- 
a risina superiore, nella media ed in alcune parti orientali dell' inferio- 
tt re; V altra nel rimanente della campagna istriana : questa più numero- 
a sa, più originale, più recente e dalle tribù poco tra loro varianti ; 
tt quella più antica, suddivisa, mista, né tutta d' origine slava. „ 

L'Istria superiore, di cui parla il Combi, s'intende costituita da quella 
frontiera montuosa che dà il confine naturale dell' Istria, e lambe il mare 
a settentrione nelle viciname di Duino e n meisodi in quelle di Pienone. 



So studj anno. 

« piccolo villaggio di Cepich, composto di 320 pastori, nel di- 
« stretto di Bellay, serbano ancora i costumi e la lingua dei 
« loro padri, e il dialetto che parlano è affatto simile a quello 
« dei Valachi di Temesvar nel Banato. » Dopo ciò, egli tocca 
di quel dialetto italico dell'Istria inferiore (Digitano, Galle- 
sano, Valle, Rovigfao '), che ò distinto dal volgare degli al- 
tri Italiani dell' Istria; e a ragione non si mostra proclive 
all' ipotesi che da moderne migrazioni abbiano a ripetersi le 
qualche analogie che tra cotal parlare italico dell 9 Istria in- 
feriore ed il valaco sussistono. Chiude coli' accennare ad uni 
colonia di pastori nell' isola di Veglia 1 illirici per costume e 
per linguaggio* ma ohe serbano • Y incerta tradizione che uo 
« tempo gli avi loro parlassero un latino sermone », e serba- 
no ancora « V orazione Dominica e la Salutazione angelica 
« in un dialetto valaoo, il quale* come il mentovato di Cepich, 
« ò simile a quello di Temesvar. » * Sennonché, i pastori di Ce- 
pich hanno anch' essi perduto da nn pezzo l'uso del par- 
lar valaco 3 ; il quale ò all'incontro proprio tuttora, nella stes- 
sa Val d'Arsa superiore, a meglio di due migliaja di Via- 
hi\ Ohe abitano i villaggi di Berdo, Susgneviza, Letay, Vii— 
lanoVri* Jessenóvik, Gromniko e Gradigne; tutti in quel di 

1 V. ilCoiubf,!. e, p. 101,115. 

9 Gemer scrìveva nel suo Milhndatss (Zurigo, 1555): lo Adria versoi 1- 
striam, non procnl Pola, insula est, quam Velam, ant Veglam vocant, 
bìdui forte navigatone Veneti)! distans, non parva ; cojos irioolas lin- 
gua propria oli audio, qaae cute finitìmis nitrica et Italica oommune ni- 
fail habeat (f. 70). — Il giornale L'Istriano pubblicò testò (n*. 13, 14, 
16 e 17 del 1861) un lavoro abbastanza esteso sudi un antico lin- 
guaggio che parlava* nella citte di Veglia \ "una speoie di latino ru- 
tt stico (secondo V autore di quello scritto) modificato dalla comunione 

* eolia popolazioni scito-celtiohe e posata italiane, e dalle relazioni po- 
tf litiche che par Unti secoli avvinsero F isola ai Cesari di Oriente e 

* quindi ai veneti stendardi* „ V autor medesimo stima questo idioma, 
benché di fondo latino, essenzialmente diverso dal rumeno che fu colà 
parlato, il cui ci porgo il P. N. e la Salutazione. Ma, da una fuggevole 
ispezione dei saggi che dà di quel linguaggio antico^ io mi permetto 
di dubitar torto di codesta essenziale differenza. — 

a V. ib..p t 115. 

4 Questo ò il noma che diano loro gli slavi vicini ; ib. 100* - Li dicono pure 



COLONIE STRANIERE 19 ITALIA. 5t 

Bellay, un pò* al «ord di Cepich. Gente di parlar valaco ovvi 
ancora a 6. Lncia di Sohittazza in qneld'Àlbona, ed a Se- 
Jane snl Carso di Raspo \ ossia nel territorio dei Cict. Nel-» 
r idioma dei quali Citi, serblico oggidì in generale come ho 
già riferito,, non mancano vestigia del linguaggio romanico 
che tuttora si mantiene nella loro Sejane*; e tra essi, per 
parlar col Combi, «non più il tipo slavo, ma si veramente 
« il romano ; nero il colorito (dei capelli e degli occhi), vivi 
« gli atteggiamenti, animo coraggioso e bollente, ingegno apeiv 
« to e prontissimo, modi confidenti e gaj.i 11 rumeno fu sen- 
za dubbio assai diffuso un giorno anco in codesta regione 
nordico • orientale dell'Istria; e a poco a poco venne soccom- 
bendo alla preponderanza slava. Ricaviamo da Ireneo della 
Croce, che alla fine del XVII secolo s' udiva ancora il parlar 
rumeno alle porte di Trieste (Opéina, Trebich, Gropada) e in 
molti villaggi dipendenti da Castelnuovo (Cici); « popoli », tutti 
questi, « addomandnti comunemente Chichi, quali, oltre l' idio- 
« ma sciavo comune a tutto il Carso, usano un proprio, e par- 
« ticolare consimile al Valacce 3 .» Uno scarsissimo elenco di di- 
zioni rumene proprie dei Chichi ci dà lo stesso Ireneo; e 
del valaco della Val d 9 Arsa ebbesi un magro saggio nel gter- 

CirUnriy appellazione dileggiativa. Vien di là probabilmente il cognome 
Chiribiri che s'incontra a Venezia (t. la Ga%*.uff. di Yen. del 28 ott 1861). 

1 I nomi dei sette villaggi valdarsesi ho scritto secondo la dettatura del Pa- 
roco Micetioh (vedi più lardi ani testo) ; il Combi ha Grobmco (cora 1 è 
nella carta del Kettaer), e Sesnovik per Jessenovik. Il Combi mede- 
simo, nel riassunto della popolazione dell'Istria (I. c.,'p. 101), mette 
3000 Rumeni; poi (108) ne dà ansi 3000 alla sola Val d'Arsa su- 
periore, e resterebbero quelli di 8. Lucia e di Sejane. Giuste dati uf- 
ficiali comunicatimi dal paroco Hicetich, Berdo, ove si parla il rume- 
no men corrotto, dava, nel 1859, 712 anime; Svsgnevita insieme 
alle sue dipendenze (cioè Letay, Viilanopa, Jessenottfc, luogo insigni- 
ficaute P ultimo, dov'era anticamente una chieaa greca, ora convertita 
a cattolico -romana) ne dava 1114. A Gromnico quel sacerdote at- 
tribuiva circa 180 anime, e altrettante a Gradigne, dove è il rumeno ' 
più corrotto. Sarebber dunque per la Valdarsa circa 2200 Rumeni, 

3 Accenti di suono romanico nota il Combi anco tra i 6000 Sloveni del 
Pinguentiuo ; v. I. e, p. 102, 104-5, 113. 

3 Uistoria delia città di Trieste, ia VeneUs, 1698, p. 334-35; Combi, 
1. e, p. 114. 



5a stpdj critici. 

naie triestino Vhlria 1 . Altro di stampato, che io sappia, non 
v'ha 2 , tranne qualche specimen, non gran fatto generoso, del 
yaldarsese, che, a quanto mi fu riferto, il foglio slavo lubianese 

• Novice » ora è forse un pajo d' anni ha recato. Potendosi per- 
ciò dire quasi sconosciuto agli studiosi codesto importante par- 
lare romanzo dell'Istria, io reputo far loro cosa assai grata 
esibendo in appresso tutto quanto mi fu dato raccoglierne, 
ne 9 giorni 25 e 27 agosto di quest' anno (1860), dalla boc- 
ca del reverendo Signore Antonio Micetich, paroco di Hat- 
terada presso Umago, nativo di Berdo, eh 9 ebbe quasi a lin- 
gua materna il rumeno di Valdarsa, e eh' è ignaro affatto 
degli altri parlari valachi. Al quale sacerdote io godo poter 
qui dare pubblica testimonianza della mia gratitudine, perla 
rara pazienza con cui ha subito, varie ore di fila, le insis- 
tenze della mia avidità filologica. 

Non discuteremo per certo l' opinione del Padre Ire- 
neo, che non debba far meraviglia il trovarsi tal favella ro- 
mana presso genti, • le quali professano 1' origine loro da Car- 
«ni 3 , e suoi discendenti, venuti dalla Toscana a fondare la 

• nostra antica provincia de' Carni.» Ma parrai doversi de- 
cisamente rifiutare pur quella del Combi 4 , che vede nei Ru- 
meni d'Istria i discendenti dei militari romani e de' coloni 
latini onde sarebbersi munite a' tempi di Augusto le frontiere 
della provincia e popolati i suoi monti di confine e le terre del-* 
l'Arsa 5 . Secondo tale ipotesi (e, potrebbe dirsi, secondo il 
P. Ireneo eziandio, astrazion fatta dalle aberrazioni mito-sto- 
riche), il latino rustico di codesti coloni romani si conser- 
verebbe nel rumeno delle accennate regioni dell' Istria come 

1 Anno 1 (1846), p. 7-8. 

a Un abbondante elenco di roci rumene, in foglio volante, uscito tette a Trie- 
ste eoi tìtolo : Adriano Paropai dà gaggio della lingua parlata in Se- 
jane, non è composto con serj intendimenti ; ansi, per quanto spetta la 
patria sejanese od in genere istriana de' vocaboli addotti, è da dirsi più 
che altro uno scherzo, una mistificazione. 

3 Avrebbe, credo, a leggersi Camo^ e si tratta d'un pronipote diNoèfCfr. 

p. 3, 7, 9. 

4 Consentirebbe il Kandler, r. Vhfria^ Anno I, p. 12, b; Cfr., ib. 7, e. 
a L e, p. 113, 115. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. Cj 

il latino rustico d' altri coloni romani ci è. mantenuto nei ru- 
meno della Dacia (valaco dacoromano); e la cpnsuonanza dei 
due parlari rumeni altro non proverebbe se non comunanza 
di romana origine. Ma ciò è ben lungi dai vero. Noi vedrera che 
si tratta di due idiomi (prescindiamo per il momentq dalle va- 
rietà del valaco extra-istriano) i quali debbono ritenersi uno 
idioma istessissimo, e il cui fondamento Ialino si mostra af- 
fetto di tanti e tali peculiari alteramente in parte non lieve 
dovuti ad influsso straniero, che, il volerne supporre fortui- 
ta coincidenza ne' due paesi, ripugna assolutamente alla ra- 
gione; ond' è che non esiteremo ad annoverare i Rumeni 
dell'Istria, d'accordo -col Biondelli, tra quelle genti, che per 
sottrarsi alla barbarie degli Osmani migrarono in cerca di nuova 
patria '. Prenderem le mosse da due spiccanti caratteri, per cui il 
rumeno s'allontana affatto dal resto del romanismo: vogliam di- 
re T articolo declinato per casi (sulla foggia del corrispondente 
pronome nel latino), e suffisso al nome; ed il gruppo pt (fi) 
consuetamente sostituito allo et antico. Nel valdarsese, la 
pretta declinazione rumena non si rimase inlatta per certo, 
ma yen rinvenni non iscarse e preziosissime vestigia. F ré- 
tele, ad esempio, cioè frate- le, vi è il- fratello, islessamente 
che in Valachia (frate- le); ma il genitivo (dacorom. 2 a fra- 
te lui) è in Valdarsa de frate oppur de lu frate, con preposi- 
zione valaca e l'articolo preposto, certo per influenza italo— 
istriana 3 ; anzi vi è tollerato pur de lu f rate le, in cui, co- 

1 Mentre si stampano queste pagine, vengo in possesso della dotta me- 
moria del Prof. Miklosich : Die slaviscken Elemente im Rumunischen, nella 
quale (p. 57, n.) sono varj nomi di famiglie e di case sejanesi (Fa- 
milieu -und Hausnamen aus 2ejane). Ora, a Sejane non meno di 24 fa- 
miglie porterebbero i nomi di Stambulic e Turkotié; e Turco e Tosko 
sono tra i nomi di case. Gl'indigeni avrebbero chiamato i soprav- 
venuti con nomi che dicevano il paese e il dominatore da cui fuggivano. 

3 Pongo di qui innanzi vald. per valdarsese;- dacorom. per dacoromano, cioè 
il rumeno settentrionale, il rumeno parlato in Valachia, in Moldavia, nel- 
le contermini provincie austriache ed in Bessarabia ; - e macedov. per ma- 
cedovalacO) ossia il rumeno meridionale, parlato in Macedonia e regioni 
finitime. 

3 Va notato però che anco il dacoromano e il macedovalaco sanno, presso i 
8 



(£ STÙDI CRITICI. 

me so la lingua non riconoscesse più il valore del le pos- 
posto, v'ha ripetizione dell'articolo; ma air incontro si dire 
un frate tin fratello, «non si tollererebbe un frdtele. Il da- 
tivo (dacorom. frate-Ini) sarà analogamente a ht frate od 
a In frdtele, ma queste forme sod meno nsate di qnel che sia 
il vero dativo rumeno fra telai. Nel plurale abbiamo, con quel- 
lo scadimento della tenne dentale che davanti a vocale scem- 
pia non è comune che in favella rumena, fraisi (dacoroaf. 
fratzi fratelli, fratzi-I i fratelli) 1 , e nel dativo, con purez- 
za rumena, fratzilor (dacorom. id.). Cosi diatele Udente, 
ma un dinte un dente*, gen. de dinte e de dintele, plnr. 
dintzi (dacorom. e macedov. dinte -le, dintzi). Si sentano 
aticora: sórele il sole (dacorom. soare-le), de In sore e 
de sore, a In sore o Indora, ma tollerati, sembrava alHi- 
cetich, anco di In sórele, a In sórele; — éaée [é=c il in 
cena] padre (dacorom. tate 2 ), de e de In éaée 3 , In o a In 
éàée, ma anco éaéelni (dacorom. tate-lui), ablat. dila éaée 
(dacorom. dela taté-1; il macedov. ha dila); piar, éaéi, de 
éaéi, In éaéi o éaéilor (dacorom. tatzi-lor), dila éa- 
éi (dacorom. dela tatzi-T). — L'ti finale ne 9 mascolini vai- 
nomi proprj mascolini, di articolo preposto ; il dacoromano, secondo fl 
Èfolnar (Deutsch-Walachische Sprachlehre, Hermannstadt, 1810, p. 21), 
nel dativo (Ini Petra, al Pietro; a p. 311 però v'è anco nn es. 
diartic. al genit. preposto), Secondo il Die* (Grémm. rom., ITI 1 , 19) an- 
co nel genitivo; il macedovalaco {Bojadschi, Roman, od. macedono- 
wlachische SprachL, Vienna, 1813, p. 132) in ambo i casi, che non 
vi differiscono; p. es: capela aiata este a In Antoni, questo cap- 
pello è d'Antonio. 

Si crede a ragione, cne il fenomeno dell'articolo posposto provenga 
tabi valico da indosso straniero; offerendolo pure l'albanese ed il bulgarico. 
1 Si osservino: valdfcrs. mort morto, morti e mortsi morti; tot, tote 
tutto, tutti; éetata, éétats città, cittadi; skart, aitarti corto, corti; 
decoro*, mort, mortai; tot, tòlsi (Jfo/iiar, I. e, p. 394, I. 9 d. 
s.); 6etate-a, éetétsl; skort, s kart si. V. ancora più avanti, presso 
il verbo. 

* Di 6=1 v. pia avanti. 

* À illustratone di questi due genitivi ho: covintatam de éaée parlai 

del padre; éasta je di la éaée quei? è del padre. Nel paradigma 
mi fa dettato in prima de o dilo o dela éaée, ma più tardi 
mi si fé' cancellare il di In. 



COLONI! STRANITO IN ITALIA. |ft 

riarsesi, come éeru cielo, lupa lupo, capu capo, npssu fla- 
to (dacorom. éerìa-J, lap-ul, kap-ul, >nas£-nl), saj-à pu- 
re ifi riguardarsi come un avanzo dell'articolo, cioè dj i/d \ hepr 
che resti pur coli 9 articolo preposto, ad es. lu nassa al m- 
«e, la capa al capo {anco np s su 1 u i, ca pu 1 a i precisamen- 
te come in dacoromano); lo proyioo un g,r,oss lup un gros* 
$p lupo (dacorom. an Jup grò ss), ,un maéat éer un bel 
deb (pecedov. muSat^bello 2 ), un mjistit ojn (da orna; da» 
corom. om-ul Fuomo) un <belV uomo, pn Ijepur un le- 
pre (da Ijepuru; dacorom. lepore, macedov. lj epura), nei 
quali, cppsa r articolo indefinito preposto, c$de l' avana? del 
definito, come cade il -4e di aratele nella combinazione 
qn frate. Cosi, dato il pronome preposto, guest* u spark*, 
come sparisce il -le articolo, e ricomparirà se il pronome 
è posposto, del pari che il -le; quindi: 6*1 a om queir uo- 
mo, 6ela bar om quel buon nomo, e, persin .da bou bove 
(dacorom. id.), me bo (come un io) il mio bove, ogualmep- 
te ohe me frale mio fratello, ie éesta té frate? èque* 
$to tpo ftqleUo?*; ma air incontro: omu ée\*=ruomo quello, 
bou mev il mio bave, fra tei e mev; e ne|r orazione do- 
minicale è té Lume oppur lumele tev il tuo nome (l]i* 
m»e= dacorom. nume). Analqgamente si direbbe in dacoro* 
mano óm-ul éel bnn=Puomo quel buono, ma òel bun 
om; almieu tate mio padre, ma taté-,1 mieu; e in 
macedovalaco om-lu atzel(u) bun(u), ola atzel(u) om(u) 
bun(u) 4 . Della «declinazione de' mascolini, mi restano: fil- 

1 La « , in ma$$-ul e simili, certamente altro non è in origine che la 
Inalo del tema ; ma apparisce ormai come parte integrale deli' artico- 
lo (dacorom. om, o.m-nl, un om, uomo, ritorno, un «omo), e jion 
ra risguardata in altro modo rispettivamente al valdarsese. — 11 ma- 
cedovalaco dice capln, luplu, e cosi via. 

» Bojadachi, 1. e, p. 37, 137, 148. «Serie molala ecrtoe beilo, ma- 
iati odi bella camita. 

* Neir" Istria „ parò: c\ela a tu queir altro. 

4 Molnar, 26-37, Ili; Bojadschi, 129-30.- Nel valdarsese riesce anor- 
male l'apparire simultaneo delF-u A presso il nome sostantivo e presso 
r aggettivo: grosso lopo il grosso lupo (à>c<?ranL grpasul lup); 
come poro lo sconcordar nel numero Jra npme od aggettivo: muJat 



5*5 STUDJ CRITICI. 

ju de éaée il figlio del padre, ma de lu éaée filj, col 
significato is tesso ; d o i filj, t r e i filj due, tre figli (dacorom. 
f il u , pi. fi i ; macedov. h i I j(u) l ); — d i 1 a 1 u p dal lupo, in coi 
F assenza dell' a finale non avrebbe ragione; lupi, capi, 
ti as si, nominativi plurali (dacorom. lupi, kapete, nas- 
se); dativi plur. lupilor, capilor, nass ilor, oltre (a) la 
lupi ecc.; — domnu il Signore, cioè Dio, de donino, 
Ih domini o domnului (dacorom. e macedov. domn-ul, 
il sit/nore, il padrone); — e cornu, dat. cornului cor- 
no (dacorom. ttf.). — I feminili valdarsesi ci mostreranno 
del pari, alla lor Vòlta, sì al singolare che al plurale, avanzi note- 
voli dell' articolo posposto. Z i a giorno o meglio il giorno (daco- 
rom. zio o zi 2 , coir articolo zio a; macedov. all' incontro 
zua), il cui tema appare confusamente al valdarsese ora zi ed 
ora zie, ha nel genitivo sing. de zi o de zie, dat. la 
z i e; plur. zìe o zi e 1 e (dacorom. z i 1 e, colf articolo % i 1 e- 
le), genit. de zie o de zi eie, dat. zielor (dacorom. 
zi lei or), e meno frequentemente lu zi eie; osi un gior- 
no; me zi od a me zi mio giorno, e zia me giorno 
mio.— Stala, pi. stai eie, /a stella, le stelle (dacorom. 
slea-oa, sleale-le; macedov. steao-a, stea-(l)le); geo. 
Mng. de s t a 1 a, pi. de stale, dat. pi. 1 u s t il 1 e o a lu stòle* 
ma più frequente s tii I e 1 o r (dacorom. stealelor). Il da- 
tivo singolare mi fu indicato lu stillo, in cui 1' a finale ha for- 
se una particolar ragione etimologica (cfr. i nominativi degli al- 
tri dialetti). Nei rimanenti feminili, il valdarsese mi ha costante- 
mente mostrato, al dativo singolare, la desinenza e; questo caso 
cioè, etri si prepone l'articolo, rimostra la desinenza e as- 
sorbita dall' a del nominativo singolare (nel dacoromano a 
da é-a; p. e. capre capra, capra la capra), nel quale a 
il valdarsese sente quindi tuttora l' articolo posposto. Per tal 

(o muèaU) omir, bur omir od omir bur, begliuomini, buoni 
uomini. 11 plurale integro <T om y è o m-e r i (dacorom. oameol; di 
r valdars. =», che è anco in bur=&un, v. più tardi); Pi finale è per- 
duto anche in d o i omir due uomini. 

1 hiljlu il figlio, Bojadschi, p. 131. 

* Die* gr. rom., II (sec. edis.), 53. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. *? 

modo, ho mora 1 mano, o meglio la mano (dacorom. m fi n è, 
man a, mano, la mano), genitivo de mare, dativo In mo- 
re; ploja la pioggia, de ploja, la ploje (dacorom. 
ploae, coirartic. ploa-ia 2 ); ratza f anitra, dal. la 
r a t z e (dacorom. r a I z e 3 anitra, ratza F anitra). Altri con* 
simili dativi ci accadrà di notare nel séguito. Di sor a la 
sorella mi fa dettato anche lu sora, ma indicatomi come 
migliore la sore. L'accusativo stesso trovai uscente in e 
(oppur privo di desinenza vocale), cioè spoglio dell'articolo 
posposto, quando non v' abbia determinazione : ti'am pò re 4 
non ho pane, lotam pere ho preso pane, d e I p a ne ; ma 
latam para presi i I pane ; n'ara sor non ho sorella, 
j'am vezat sora ho veduto la sorella. E il nominativo, 
quando Ve pronome preposto, sor ugualmente: ie casta 
ta sor? è questa tua sorella? La declinazione intiera di 
quest'ultimo nome sarebbe: sora (dacorom. sora da sore), 
de sora o de sor, lu sore o lu sora, dila sora o 
meglio dila sor; piar, sor eri e (dacorom. sur òri so- 
rella, surórile le sorelle ), de sorèr, sorerlor (da- 

1 Qnest' e cho scrivo rovesciata , ha un parlicolar suono , capo e breve . 
Lo troveremo là dove il dacoromano ha quella vocale oscura', rap- 
presentata dal juss (Molnar) dell'alfabeto cirillico, che io scrivo!. 

3 Nel valdarsnse. s'osserva qui un livellamento dei tipi originariamente un pe* 
diversi, che è naturalissimo presso a un dialetto che va perdendo la vita. 

3 Baste antirv, è pure del dialetto friulano; ma è pure sì sloveno che 

serblioo (ratza), tocche io ignorava quando nella mia prima giovi- 
nezza diedi fuori l'opuscoletto intorno alle somiglianze tra il friulano 
od il valaco, lavoruccio insignificantissimo, che ho sentito, non senza 
sgomento, ricercarsi in questi ultimi tempi da qualche studioso. Quel 
po' di non inutile che si contiene in esso opuscoletto (dato per un'o- 
pera dal Biographische$ Lexicon des Kaiserthums Oesterreich), ri- 
vedrà, spero, la luce, in miglior forma, nella presente Raccolta. 

Del resto, ritornando a razza austro, il trovarsi tal vocabolo appo 
nazioni slave in contatto con stirpi latine (i serbi preferiscono polka ; i 
boemi, dicon kachna, i polaohi kac*ka, i russi ulkaj y non fa certamente 
rinunziare a crederlo romano. Forse ò da porsi in relazione coli' ita- 
liano ra%%a^ sp. ra*a y fr. race (di oscura etimologia);; cfr. il frinì, 
armento per vacca. 

4 Circa il vooabolo pera v. pia tardi. 

* Al singolare assoluto, il Die* diede nella prima edis.. (II, 43) so are, 



9* studj cuna, 

corom. surórilor), dila eorèr. — DiUmtia #(09*0, 
divenuto Seminile nel valdarsese anco al stagnare (jDfr. & 
-fa legna), mentre nel dacoromano è maschile Bel nomare 
dei meno e feminile in quello dei più 1 , ho il plurale la ma e le, 
de lttmne, Umnelor (dacorom. le'amnelor^da 1 £*»&), 
— Va del nominativo singolare feminile si tollera pe- 
rò coli' artìcolo indeterminato, e mentre he, oeme di sopra 
vedemmo, un om (da orna), un Inp (da lupa), Arovo: 
e cassa una ca$a (dacorom. o ca$$e), o jaiaia la ma- 
dre, mudata muljesra* una bella danna (dacorom. 
mai ere, maoedov. muljetre, donna). Un ed o (uno, una) 
vedemmo cosi esser forme identicamente comuni al valdor- 
sese e al dacoromano; il macedovalaoo all'incontro par che 
non conosca altra forma feminile che l'unà 3 . — Della «de- 
clinazione pronominale ho, peri pronomi personali: j<o, de 
Bfrire, mie (mifai), accus. mire; tu, de tire, Uie (Ubi}, 
tire; je egli, A e je, a lui lui, je acc; piar. «01, 
de noi oppur nostra (e nostra?), a no' e noti, acc. noi; 
voi, de voi oppur vostra {fi vostra?), a voj o voi, 
voi; iel, de iel, a iel o a lor, iel. {genitivi, formati, 
sul gusto degl'italiani, dal segnacaso unito all' accusativo, co- 
me ad 4ina specie di caso obliquo generale, si scostano 
dalle forate valache *; solo i genitivi plurali in sembiante poe- 
mi odia seconda (IT, 51) ha posto sor*, e oi censente l'/*««r od 
«ao dltionario (WallacMsch-deutsches Wórterbuok, Kronstadt, 1850). 
QnesV attimo però assegna al nostro none un plorale regolare iwré) % 
mentre il Dies nella prima edisione ha sor òri (1. e.) e nella secon- 
da (II, 53) non mette il plorale di onesto «ostsotito. io d od ne o U 
soróri dal sorórilor che è in Moloar a p. 90. 'Analogo è il no- 
ròri da noré (Dies; laser nurori) nuora, D s a l dar te s e convalida In 
forma irregolare. 
1 lt$er. 

• V. la nota 4 a pag. 55. 

* L'ima (ané) comparisce però costantemente anco tuff de cer — a ma » al 

genitiro-datiro (unel); ed ami è poro del noamatiYO-ooeasatfiTO, ma 
limitato all'oso nomerale e pronominale. Molnar, 1M, 'Dita, HI, 
10 (IH» 20). 
4 II macedovalaeo ha a nj*i per di me, come ha a <*y to per om» paso- 
atra cioè quetTeffleTolimento della *• *he più Tette ▼i^ inw tra in 



colonib munu» in italu. . $£ 

aessivo le ricordano. Del resto, consuonano i dacoromini 
len o jo, mie dai (macedov» a stfia), mine; tu, taie 
dat (mecedoT. a tsea), Une; lei, Ini, lei; nei, soao 
dat, noi; voi, yoao, voi; lei (macedoT. elji), lor, lei. — 
Di possessivi valdarsesi bo: nei o ani o me mio, mtt, 
ama mia (dacorom. (al)mien, (a) me a); tev o a té o té 
Ivo, t atea (dacorom. (al)ten, (a)tà; valdars. a té sùflet, 
ma sùfletu té V anima tua, e così in dacoromano al tea 
sùflet ma sftfletul ten); lui suo, sua, p. e. Ini éa~ 
èe suo padre, Ini maje (maje, sena' articolo, perchè il 
pronome va innanzi) o maja lui sua madre, cassa lui 
(o cassa de je casa di lui) la sua casa. Questo lui ò 
il dativo singolare del personale, adoperato qual possessivo 
(cfir. il frane, est à tei); come nel dacoromano (e nell'italiano) 
a' ha il dative plurale del personale (lor) adoperato qual pos- 
sessivo di terza plurale, mentre per la terza singolare vi si 
conserva il suus latino (séu), il quale non è ignoto nò an- 
co al valdarsese, poiché trovo (Istria, A. I ., p. 7-8) e n 
ra se calle in Ola sua calle, en rtt sa cassa in Ola 
sua casa. Abbiam poscia nostru, nostra, vostra, vo- 
stra (dacorom. nostru, noastré, ecc.); e gli obliqui 
delle tre singolari: gen. de me e de mev, de te e de 
tev, de lui (del suo), dat lu me, lu te, lu lui o lu 
a lui (p. e. lu lui éaée a suo padre), acc. mev, tev, 
lui. — Dimostrativi: éesta questo, de óesta, lu óesta, 
pl.óeséi, de óeséi, lu éesói e éesòilor; fem.éa- 
ata, de éasta, lu éasta, pi. óaste, de éaste, lu 

situazione analoga, e che è ignoto al al dacoromano e ai, par quanto 
ho potuto vedere, al valdarsese; vi troviam poscia a fi» di te, a lui 
di lui. Njui e tui sono in fondo genitivi dei possessivi corrispondenti, 
del pari chawi plurali a nostror di noi, a vostror di voi, e del pari 
che le rispettive voci latine. Njui none, come il Die* asserisce (II* 
105), il mieu del dacoromano, ma V (a)meui macedov. del mio, 
come nju è il meu mio (Die*, l a 344). — 11 dacoromano ha, nelle 
due prime persone, il nominativo del possessivo corrispondente, al mieu 
al nostru, al téu, al ros/ni, di me, di noi, ecc. Per la tetta: lui e 
Jòr, di lui, d'essi; ma nel reciproco riabbiamo il poasessivo: al sia 
(il suo) per di sé. 



v- 



$0 STUDJ CRITICI. 

éaste o éastelor. Nel dacoromano troviamo éest, pL 
6 e è ti ^ dat. pi. éestor; fem. óasté, pi. ceste, dat. 
pi. éestor. Il voldarsese ci rioffre qui, nel plorale cesóia 
un e rimpelto a / dacoromano, come presso éaée=taté; 
nella qual trasmutazione, comunque non incontri certa diffi- 
coltà ad essere spiegata valachicamente (t-tz-é), può vedersi 
per avventura un influsso slavo, il / inclinando nei serblico 
a tramutarsi in un suono che s'accosta a e, ad esempio brat 
fratello, bràkja fratelli. — L'altro dimostrativo valdarsese 
è éela quello, fem. éa; gen. mascolino *lu cela, nom. 
pi. *6elji 1 (dacorom. éel, e e a, pi. m. éei; macedov. pi. 
m. atzelji). — Pel relativo, troviamo nell'orazione domi- 
nicale carie il quale, che è manifestamente il care re- 
lativo (-interrogativo) dacoromano, di cui sappiamo che può 
fare al nominativo, coir articolo posposto, care le (dibz, 
II 1 94, II 2 106) 2 ; il plur. masch. valdarsese sarebbe *c a r- 
lji, il sing. fem. *cara 3 . — Il*vo, che ò tradotto eam*, 
è il dacoromano vo che si dice per vreo (issbr) qual- 
cheduna. — Per ultimo, si osservi nuscarle, pi. nuà- 
carlji, alcuno, qualcheduno; il dacoromano niscare o 
nescarele, cui l'Isser dà il medesimo valore di qualche- 
duno, alcuno, mentre il Diez, non so su quale autorità, gli 
attribuisce (II 1 94, li 2 106, niscare, fem. nescare, niscare) 

1 Le voci segnate coir asterisco, tolgo dal saggio che accennai esser com- 
parso nelP Istria ; non però direttamente dall' Istria, ma dalla Zora 
dalmatinska, giornale dalmatico che l'ha riprodotto nei numeri 19 e 
20 dell'anno 1846, de' quali ho dinanzi un esemplare che è munito 
di correzioni del paroco Micetich. 

* Neil' /stria s'ha di più: a de ótre, lu cui, lu carie (col qua1e\ di 
lu carie (dal quale). „ De éire e la cai vanno portati 8 IP altro 
interrogativo dacoromano (6 in e, cui); il primo è un genitivo, for- 
mato nella guisa stessa che de mire, de lire ; il secondo è un dativo. Lu 
carie sarebbe il dativo del relativo che recai nel tesìo, e mostrerebbe 
non più sentito il valore del le posposto: Di lu carie dev'essere er- 
rore per di la carie, ablativo (dacorom. de la kare). II Micetich non 
ha emendato questo passo (v. n. antec). — 

aa Fruniga cara avut„, reputo che stia per cara a atut. 

4 a Jon vo e ne noi amo vo afilat „ ego habeo eam et non nos kabe- 
mus eam Io holJa e non noi abbia mfa trovata. 



COLON» 8TKAHIZMC IH ITALIA. 6t 

quello di nessuno. Questo ò forse uno sbaglio dell' insigne 
linguista, dacché più tardi (II 1 372, IP 423) traila senz'al- 
tro di nis-care fra gli equivalenti di aliquis. 

La seconda caratteristica rumena che ho messo in ri- 
lievo (pt per T antico et), è nei valdarsesi 1 a p t e lolle, voce 
addotta anche dal Padre Ireneo nel saggio del parlare dei 
Cici (unico esempio che il Combi omise di riportare, forse 
parendogli, a torto, sospetto), nopte notte, e nel sejanese 
opto olio (in Valdarsa adoperano V ossam slavo); dacoromano 
laple, noapte, opt, da lode, notte, odo. Due altri e- 
sempj valdarsesi di pi per e/, ci portano a considerare al- 
tri interessanti fenomeni fonetici rumeni. Sono cljeptq il 
petto, e e i a p t i r u il pettine. Il dacoromano direbbe p i e p t-u 1 , 
p i e p t e n-u 1 (lat. pectus, peclen) ; il macedovalaco air incon- 
tro dirà cheptu, chiaptine come dice chiale ipev pelle 
(dacorom. piiaie), e cherdq, chearde 1 perdo, perde 
(dacorom. pierd perdo). In quest'ultimo verbo, il valdarsese 
ha T epentesi d'una / dopo la iniziai labiale: jo plierd 

plierdu, je plierde perdo, perde-, ed un'epentesi 
affatto consimile, con più la permutazione a guisa macedo- 
valaca, ha prodotto il valdarsese cljeptu petto, in ci a pa- 
tini (valdars.) pettine, confrontato al macedovalaco chiap- 
tine che or 9 ora vedemmo, osserviamo quel naturalissimo 
affievolimento della gutturale che abbiam nel valaco éiné 
rimpetto a qninque, o, per ricordare un esempio doppiamen- 
te calzante, nel e i a n z e geno vese rimpetto al chiagnere 
napoletano per piangere ; ed inoltre la r per fi, che è vezzo 
valdarsese, cui già incontrammo in bur, omir, mora, 
mire, tire, *cire, buono, uomini, mano, me, te, quote 
(dacorom. bun, oameni, m&nè, mine, tine, dine 
chi), e si ripete infarira (dativo lu farire), pljr, lu- 
ra, farina, pieno, luna (dacorom. fé in e e ferine [isser], 
p 1 i n , lune; macedo v, farina), ed in milP altri ; permodo- 

1 Dicz, l* 270; Bojadschi, p. 10, 102: eu me keptinn, eia te 

k e » p t i n § , io mi pettino, egli si pettina. — Cfr. le noti 1 • p. 65. 

9 



6? 8TUDJ CRITICI. 

che, il valdarsese ctaptiru* condotto con perfetta atee- 
rezza al p e e t e n latino, offre insieme una particolarità ge- 
nericamente romena (phet), un fenomeno che si dà per spe- 
cialmente macedovalaco (e da *=p), ed uno che ò distintivo 
del dialetto rumeno dell 1 Istria (r±n). Questo della r per * 
non ò per vero mutamento ignoto al romanismo extra- 
istriano; ma vi è raro assai; anzi, oltre il dacoromano fe- 
reastré o fereaste (issbb) = fenestra recato dal Dies, non 
so ricordarmi che di mormftnt monumento sepolcrale, da- 
coromano del pari, da mori meni (monimentum), per quanto 
mi sembra, malgrado il mortai ftnt che Tlsser adduce per 
suo sinonimo. La propagazione di tale fenomeno parrebbe pò» 
steriore all' epoca in cui si staccaron dalla patria questi Ru- 
meni istriani; e ad esterno influsso perciò parrebbe dovuta, 
ma a quale io non saprei '.La fi va salva dove s' appoggi ad 
altra consonante ; si osservino v i n d e tendere (dacorom. irf.), 
mintzì mentire (dacorom. itf.), e le forme gerundiali che 
esibirò in appresso. Nella conjugazione di veri venire (da- 
corom. vini, macedo v. venire) e tziré tenere (dacorom. 
tsine'a), è notevole la n conservata più o men pura da 
quelle persone del presente che nell'italiano la accoppiano 
con gutturale; quindi: jo tzin (io tengo, dacorom. tzià 

tzin, macedov. tzenu), tu tziri, je tzire, noi 
tziremo o tzirem, voi tziretz, jel tzignn (ten- 
dono); jo vin e jel vignu {vengo, vengono*; dacorom. 
leu viu o vin, maced. jinu). Ilparoco Micetich mi as- 
sicurava d'aver notato, in più esempj, che a Sejane si con- 
serva la n originale, fatta r inValdarsa; come in pane, 

1 Chi sia per dare gran peso a quo" tratti di speciale somiglianza ohe par 

v'hanno tra il valdarsese e il macadovaIaco t vorrà indagar per avven- 
tura se qualche sub-dialetto di qnest' ultimo idioma non presenti spesse 
r per n come fa nn parlare a cai esso riesce attiguo, o quasi attigna, 
neir Epiro, vo' dire il tosco (Albania meridionale, v. più innanzi), il quale 
ha p. es. k e r p per canape (ghego k à n e p), a r m i k per nemico (ghe- 
go an emf k), vére (valdarsese vir) per ciato (ghego véne). V. Hakn, 
Atboneshch* Stuòie*, II, 16; cfr. I, 15 — 
* Neir * latriti „ : verit-a éelji carlji venuti sono quelli i quali» 



COLONI! STRANIERI IN ITALIA. 65 

pane, che in Valdarsa è por a (feminile, dat. In por e 1 ). 
Anche Ireneo ha, colla », p u i n e 2 , ed ha ,v i o o, mentre in 
Valdarsa oggidì si dice v i r tino ; ma ci dà arra o v a = una 
ovili e riferisce che i Chichi si addimandino Rumeri. Nel valdar- 
sese vedemmo colla fi antica Pun articolo indeterminato, ma il 
numerale è ur(l), fem. ara 3 , ed nr(l) dicesi anco a Sejane* 
Una terza caratteristica rumena è il passivo espressa 
dal riflessivo, permodochò io mi pedo venga a dire so» ve- 
duto 4 , e così via. Nel valdarsese, par che oggidì il modo 
più comune di esprimere il passivo sia quella perifrasi che 
è par dell* italiano ; quindi jo som batut io sono battuto, 
che in daooromano si direbbe leu me bat 5 . Tuttavia, ho 
potuto trarre dal mio testo vivente delle forme valdarsesi 
che senza dubbio sono avanzi del passivo alla rumena. Oltre ad 
afide-se sussuru si sente susurro, e aùdu-se sono sen- 
titi, si sentono, circa i quali potrebbe pensarsi ad imitazione 
dall'italiano, n'ebbi il prezioso auditz-va (non avzitz-va, 
come sarebbe, da quanto vedrem poi, normale), letteralmente 
ri udite, per siete sentiti) vi si sente (audimini). Voi vA 
auzitzi direbbe il macedovalaco, e voi ve euzitz il 
dacoromano, per audimini 6 . 

1 Per il daeoromeno, laser hi pfine, che dà per maschile. Holaar alT in- 
contro, p. 343, ba, eoli' articolo femioile, pfiinea; v. Ja nota secon- 
da a pag. 17. 

• Forma prettissimamente dacoromana; il p line della nota antecedente, fatue 

secondo ima diversa trascrittane della prima vocale. Il macedovalaco 
dice pène (Die*, I 9 338). All' incontro mugliare moglie, e fratogli 
(parrebbe erroneo per fraUgli) fratelli, del medesimo elenco d'Ireneo, 
sentono di macedovalaco. 

• Anche nel milanese l'tu»«s ba dae forme diverse: ah' era on <w», e' era 

un nomo; vob o> quel paes la, nno di quel paese. 

4 Studj orient. e ling., p. 259. 

5 II dacorom. leu me bat può anco significare io mi bailo (v. Di**, 

II 1 212, U* 245); mentre il valdarsese jo me bat a avrebbe esclu- 
sivamente codesto valor riflessivo. * 

• La perifrasi del passivo mediante il verbo essere, non è ignota al da- 

coromano (v, Molnar, p. 314, Die», II 1 212), ed tasi, in certi tempi, 
è normale ael macedovalaco (■?. Bojadsenj); ma eia oste calcata (ma- 
cedovalaco; letteralmente egli è calcato) vale, eUe latine, §aU fu calcato. 



64 «TUDJ CRITICI. 

Continueremo a considerare il verbo. Gl'infiniti vai- 
darsesi non mi danno il re finale, che pur nei dacoromano 
è inusitato 1 ; si sentano vede vedere (dacorom. vede'a, 
macedov. vidére); auzi udire (dacorom. auzi; macedov. 
auzfre);jocà ballare (dacorom. j u e à giocare, ballare; ma- 
cedov. j ( n e a r e ballare, cf r. l' i g r a t i serblico giuocare e 
danzare) \ àrde ardere (dacorom. e macedov. *</.); cavtà 
guardare (dacorom. k a u t à , cercare, guardare, contemplare); 
porta portare (dacorom. purtà, macedov. purtare); co- 
6 e arrostire (dacorom. koaée, Diez); pian j e piangere 
(dacorom. pUn^e); potè potere, jo poc o jo poto, 
tu potei, je potè, posso, puoi, può (dacorom. pule'a, 
leu p o é u , tu p o t z i , I e 1 ponte; macedov. p u t é r e). Il 
presente valdarsese di ave avere (dacorom. ave'a; mace- 
dov. avere) è jo am, tu ari (a i nel perfetto composto) , 
je are, noiarem o avem, voi aretr oavetz, j e I 
aru; e diversifica da quello degli altri parlari rumeni per 
la inserzione della r nella seconda singolare e nella terza 
plurale (ari e aru in luogo di ai, auì, e per la facoltà di so- 
stituire la r al t> nelle altre due del plurale. È la r della 
terza singolare (are in tutti i dialetti) che si estende a quel- 
le altre persone, per male inteso amor d'analogia (come, p. 
e., la r del regolare numèrè egli numera è anco in numeri 
tu numeri, numerem ecc.). Il resto della conjugazione d'are 
ci chiamerà ad avvertimenti che toccano il verbo valdarsese in 
generale. Può dirsi identico in tutti e tre gl'idiomi ru- 
meni l' imperfetto (ed anco il presente, come più tardi ve- 
dremo, se dagli ausiliari si prescinde), il quale suona per 
l'ave valdarsese: aveiam, a ve i ai, aveia; aveiam o 



1 Appena come licenza poetica sarebbe tollerata questa desinenza, a quan- 
to riferisce il Dici. L'User la ritiene nel suo diiionario; il Molnar 
non la conosce, né la trovo in no giornale rumeno che ho diosnsl 
Il Bojadschi dà gì' infiniti macedoralachi tatti in -re, ma awertisce, a 
p. 74, che presso i Hacedovalachi, del pari che presso i Greci, V in- 
finito non s'usa nel discorso, in vece sua adoperandosi l' indicativo 
colla particella si se. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. 65 

aveiàmo, aveiatz, aveia (dacorom. e macedov. ave- 
am, a v e a i ecc.). Il perfetto semplice manca ai verbi val- 
darsesi; il composto vi mette indifferentemente l'ausiliare o 
prima o dopo del participio, come nel dacoromano s' ha a m 
acris o scrisam, au vezut o vezntau iper ho scrìt- 
to, ha {hanno) veduto (diez, 111 1 259, III 2 273). Quindi, 
di ave valdarsese, joam avut, j'om avut o avu- 
tam (dacorom. leu am avut 1 )., tu ai avut, fai avut 
o avutai, jo a avut o avuta; noi am avut o 
avutam, voi atz avut o avutatz, jel a avut a 
j e 1 a v A t à. Il futuro formasi in tutti e tre i linguaggi ru- 
meni, (come si forma, stando ai grammatici, nel neo-greco, e co- 
me neir inglese), dal presente del verbo volere e dall' infinita 
del verbo che si conjuga 2 ; ma il valdarsese s'accosta per 
il volere, in un pajo di forme, più al macedovalaco che al 
dacoromano. Futuro valdarsese di ave: jo voi Yé o a- 
vó, tu ver ave, je va ave, noi rem ave o vem 
ave, voi vetz ave, jel vor ave (dacorom. voi, 
vei, va, vom, vetz, vor avo'a; macedov. voi, 
vrei, va, vremu, vretzi, voru avere). L'impera- 
tivo valdarsese di avere si scosta da quello degli altri idio- 
mi rumeni ; la r, di cui parlammo presso il presente (le for- 
me del quale si riproducono quasi esaltamente nell'impera- 
tivo), ha invaso tutto il tempo: dri tu, ari je, arem 
noi, aretz voi, aru jel (dacorom. aibi tu, aibe 
lei, avem noi, avetzi voi, aibe lei). Tre tempi 



1 IIBojadscbi ha, per il macedovalaco, e a ama avuti, come ha e a amo 
calcati ho calcato, e così sempre. Il Diez, che pur prende datBo- 
jttdschi quanto concerne la conjagaiione macedovalaca, scrive ama 
calcate. V. la n. 2 a p, 70, 

9 II macedovalaco fa il futuro anco preponendo va (vuole) 8 tutte indi- 
stintamente le persone di una specie di congiuntivo ; servile imita- 
zione del modo volgare neogreco ed albanese. Di avere p. es. : e a 
va si amo, tu va si ai, noi va si avemu, ecc. = &à s%(o, 
uà iffig, &à Igco/itr, ecc. Il Bojadschi chiama questo futuro più ©oJ- 
garei xotfóttQog. Cfr. Vergleich. Gramm. der Neu-undAlt-griechischen 
Sprache, Braunschwetg 1825, p. 23; Hakn, Albanes. Stud., II. 62. 



66 studi cuna. 

del congiuntivo di avo valdarsese ho potato raccorrò; for- 
mazioni importanti tutte e tre, la due prime comuni agli altri 
Terbi, la terza limitata ormai, per quanto io intesi, a questo 
ausiliare. È un panato il primo di quésti tempi, che pres- 
so avere suona: sera£veoavó*e io avessi, se rai 
avo o ve «e tu avessi, se ra ve o ave s'egli avesse, 
se rara o ramo ve se noi avessimo, se ratz ve o 
avo «e aveste, se ra ve o ave se avessero. Mi pare af- 
fatto fuor di dubbio che qui vi sia, innanzi all'infinito, Tini- 
perfetto del verbo volere, che forma pur nel dacoromano, 
premesso ugualmente air infinito, un tempo equivalente (de 
vrea.m ave'a leu, de vream ara leu, letteralmente 
se volevo avere io, se volevo arare io, per se avessi, se 
arassi), e che suona, si nel dacoromano che nel mecedo- 
valaco, vream(u), vreai, vre'a, vream(u). vreatsi, 
vre'a. Il valdarsese avrebbe perduto il v iniziale, come glielo 
abbiam visto mancare, a danno dello stesso ausiliare, in noi 
rem avo del futuro; e vi sarebbe divenuto a il dittongo 
ea, espresso nel dacoromano con quella lettera-dittongo ci- 
rillica di cui il Molnar dice che • P e deve, con pronuncia 
lieve e rapida, unirsi all' a ». Resterebbe da dichiararsi la 
desinenza del rag che è nella prima persona valdarsese; 
per la quale mi acquieto ali 1 analogia dell' a i , ohe il ver- 
bo ave'a offre in luogo di am {ho) nella forma che assume 
quale ausiliare in tempi condizionali dacpromani 1 (leu a è 
ave'a, leu ag fi fost arat, letterata, io ho avere 9 io 
ho essere stato arato, per io avrei, io avrei arato). — Il 
secondo dei tempi congiuntivi valdarsesi, ha, di più, fra P au- 
siliare e P infinito, il participio passato di essere; e il va- 
lore d'un trapassato. Quindi: se rea fost ave (letteral- 
mente se volevo stato avere) se io avessi avuto, se rai 
fost ave se tu avessi avuto, e così via. Hi par forma- 
zione tralignante; altra rumena, che in qualche modo le si 



1 Ai, ai, ar, am, ale, ar, da am, ai, are, aiem,ai>eUi, am. Lo ecor- 
eio aia froTaauno aooo nel perfetto composto faMaraaae. 



COLONIE STRANIERE IH ITALIA. 67 

accosti, sarebbe il voififostavut dacoromano, avrei 
avuto, letteralmente voglio-es sere-stato avuto, ossia sarei-stato 
avuto, sul gusto dello slavo che dice sono scritto per scrissi. — 
È un futuro il terzo tempo congiuntivo valdarsese che ebbi, 
e solo per avo; il quale suona: se avureh se avrò, 
se avari se avrai, se avr8, se avremo o aremo 
o avrera, se avretz, se avara. Nulla di consimile 
rinvengo nel dacoromano ; ma il macedovalaco ci porge, in 
tatti i verbi, an futuro congiuntivo sullo slampo di quel d'a- 
vere, che vi suona: si avurimu, si avuri, si avari, 
si avurimu, si avuritu, si avari 1 . Malgrado {gua- 
sti sofferti dalle voci valdarsesi, non si può sconoscere l'i- 
dentità dei due tempi, e il rispettivo tipo latino (habuero 
(-rim), habueris, ecc.) ricorre alla mente d' ognuno. — Pas- 
sando ad essere, valdarsese fi (dacorom. fi; macedovalaco 
hi re, con h per f, come in herbu, dacorom. fi erba, lai 
ferveo, e in più altri), il presente del nostro dialetto istriano 
ne è in condizioni tristissime: j e sani o sam, jeàti o 
éti, ie; jesmo fmorfa esmo), jeste, jesca o sca. 
Lo slavo prevalse, ajulato probabilmente dalla quasi-identità 
che presenlavasi fra il serblico ed il rumeno nella doppia 
forma della terza singolare (macedoval. e s t e od è, dacorom. 
iaste le; serbi, jèst, je; valdarsese ie). Prettamente 
serbliche sono la prima singolare (in ambo le forme) e sii 
la prima che la seconda del plurale (serbi, j è f a m [=jessam] 

fàm, jèfmo, jèfte*); e la seconda singolare, che ò 
romena (dacorom. lei ti [e è ti], macedov. e è t i), ricorda 
nella forma scorciata lo slavo (serbi, jèfi e fi), del pari 

1 Cosi furino, caloarimu, arupsarian, avzirimn. 

* 11 dacorom. ha s fi n t (so) sono [e s fi n t anco per (essi) sono, cfr. Vii Mo- 
no], il macedovalaco esco (io) sono, forma notevole che cerco di 
diobiarare in appresso. Il Diez, nella prima edizione, dava per altra for- 
ma della prima aingoiare decoromana : a fi m, ma la omise nella fecon- 
da edizione. Ci risponderebbe il sam valdarsese, che a pag. 19 ve- 
demmo nella costruzion passiva (jo som h a t u t).- La prima e la se- 
conda del plurale sono nel dacorom. s&ntem, s fintele, nel mace- 
dov. le (re plorali: htmu, hitzi,santu. 



68 STUDJ CRITICI. 

che la lena plorale nella sua (serbi, jèfu, fa). Quest'ai* 
tiina persona valdarsese non è diversa dalla prima singola- 
re del macedovalaco, escu, singoiar voce intorno alla o- 
rigioe della quale non so astenermi dall' esporre una mia 
conghiettura. Il dacoromano e il macedovalaco hanno cioè 
una classe di verbi dalla congiugazione analoga a quella de 1 
nostri colla prima in isco\ si confronti il dacoromano me- 
resk io magnifico, mereSti, inèreaste, merito, me* 
ritz, meresk, o il macedovalaco florescu io fiorisco, 
fiorenti, floreale, florimu, floritzi, flore- 
scu, col nostro finisco, finisci, finisce, finiamo, finite, 
finiscono. Ora, la terza singolare rumena di essere, este 
o iaste come vedemmo (=lat. est), consuona fortuitamente, 
in modo quasi perfetto, colla desinenza della corrisponden- 
te voce de 9 verbi in esk ideaste) ; la seconda (ed ti tu sei, 
dall'antico es) sarebbe quindi venuta a modellarsi precisa- 
mente sulla terminazione della seconda di quei verbi (mer 
•ed ti), e per la prima sarebbe surto alla fine, per forza 
d' analogia , 1* e s e u -io sono (flor*e s e u) , che incontriamo 
nel macedovalaco, quasi si trattasse d' una radice E con- 
giugata sul modello di m è r e s k(u) e simili. Quindi avrebbe 
spiegazione anco il j e s e u valdarsese di terza plurale, giac- 
ché air e s cu di prima persona singolare sarebbe affatto si- 
mile la voce di terza plurale, come s' ha mer-eskiu) per glo- 
rifico e glorificano. — Il presente d'un verbo valdarsese di 
codesta classe sarà qui al suo posto: fines 1 finisco, fi- 
nenti, fine, finim o finimo, finitz, finesco; im- 
perativo finé-tu, finé-je. — Lo -sci -sce latino-italiano 
fiorisci, fioretti s, fiorisce) è — S ti -è te nel rumeno, per quel 
vezzo medesimo che dallo scio latino fece il dacoromano ètiu 
io so, il quale si ripete fedelissimamente nel valdarsese i ti v 

stivu so, stii sai, stie sa*, come le voci dacoroma- 
no kresk, kreàti, kreaète, cresco, cresci, cresce, so- 
nò mirabilmente conservate nelle valdarsesi crescu, cre- 

1 Cfr. Moloar, p. 162. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. 69 

Iti, create l . — E procedendo coir essere valdarsese, 
il cai presente ci ha fatto un pò 9 divagare, veniamo 
sùbito al perfetto composto, mancando par l' imperfetto, se- 
condo il Micetich, a codesto ausiliare. Abbiamo: fostam o 
il meno accetto j' ara fost sono stato, letteralmente ho sta- 
to, f ai été (dacorom. leu am fosL, macedov. eu amu futa), 
fai fost o fostai, je fósta, noi am fost o fostam, 
voi atz fost o fostatz, jel a fost o fósta. Il fu- 
turo: jo voi fi, e i passati congiuntivi se ras fi e se 
raà fost fi, tutti e tre i tempi da conjugarsi nel modo 
che vedemmo presso avere. L'imperativo: fii tu, fia je 
(dacorom. fii tu, fie lei; macedov. hi tu, lasi hibà 
elu), fiam noi, fiatz voi, fia jel (dacorom. sé firn 
noi, sé fitzi voi, sé fie lei; macedov. lasi himu 
noi, hitzi voi, lasi hibà elji). Al Valdarsese è pro- 
babilmente estraneo, del pari che al Valaco, l'uso di essere 
qual ausiliare nel perfetto composto. Vedemmo verit-a 
(hanno venuto) = dacor. venit-au. 

Raccolgo ora quant' altro mi resta di spettante al ver- 
bo. Cavtu, cavtzi, cavta, guardo, guardi, guarda; ba- 
tu,batzi, bate; pljerd o pljerdu, pljerzi, pljer- 
de, perdo, perdi, perde; vindu, vinzi, vinde, vendo, 
rendi, eende, plur. vindem o vindemo, vindetz, 
vindu; audu, avzi, aude, odo, odi, ode, plur. av- 
ziinu, avzitz, audu. 11 valdarsese si mostra più tena- 
ce degli altri dialetti rumeni in riguardò air -u della prima 
singolare; il dacoromano dirà p. es. leu bat io batto (ma 
batu-te leu io ti balio) e il macedovalaco ugualmente 
eu bat malgrado Y ortografico eu batu*. Le forme daco- 
romane corrispondenti alle valdarsesi che or* ora leggemmo, 
sono: caut, caulzi, caute; bat, batzi, bate; pierd, 

1 Cfr. ancora dacorom. music e, mas te mosca, mosche-, p e aite, pei ti 
pesce, pesci; macedov. pesca, pe iti; pasco, p aiti , paite = 
pasco, pasci, pasce. 

9 Cfr. Die», II 1 , 209-10, II 2 , 243, 1*, 340; Bojadscki> 6-7; Jfof- 
nar, 161, 310. 
io 



piarsi, peafde (p iarde); vind, vinsi, vinde* 
vindem, vindetzi, Tind 1 ; aud 1 auzi, afide, ao- 
zim, auzitz, and. Il valdorsese distingue anco nella pri- 
ma conjugazione la terza singolare dalla terza plorale del 
presente: je ara egli ara, jel ara essi arano (dacoro- 
mano are, are; macedovalaco calca, calca). Nelle al- 
tre conjugazioni, il macedovalaco offre e per la terza sin- 
golare ed tf (almeno nella scrittura) per la plorale, come nel 
▼aldarsese ; ma per qnest' ultimo dialetto non sono forse da 
perdersi di vista lo desinenze serbi i che -6 ed -tì, come óre, 
orù, ara 9 arano, tréfé o tréfe, tréftì, scuote, scuo- 
tono. — Ho ancora: leg, leghi, léga, lego leghi lega, 
freg, freghi, frega, frego freghi frega, ne 9 quali 
mi si pronunciava 1' a finale della terza assai spiccato e 
quasi coli' accento 2 . Due osservazioni suggeriscono ancora 
questi due ultimi esempj; la prima, che il 47 resta guttura- 
le innanzi ad t, a differenza di quanto avviene negli al- 
tri dialetti rumeni (si fa g palatino nel dacoromano, leg, 
le gì, 1 e a gè = ieaghe, e * nel macedovalaco 3 ), nel che 
sarà da vedersi influsso italiano, del pari che nella media 
subentrata presso il secondo verbo (freg) alla tènue anti- 
ca (dacorom. frek); e la seconda (riferibile anco al cre- 
ate sopraccitato), che la e mostra nella terza persona un' al- 
terazione analoga al normale espandimento che ne offrono 
p. e. il dacoromano leagè (=Ieagbe) e il macedovalaco 
leagft, egli lega. Dell' espandimento che mostra Yo dei 

1 II Moloar ha v i d d 1 p. 233, cono ha il Die* nella prima edizione ; aaa a p« 
139 ha l'infinito vind e, e quest'ortografia è adottata dal Dici nel* 
la seconda edizione. L' laser (che fa uscire in « breve tutte le prime sing. 
pres.) ha vfindn e yìd do io tendo. Il macedovalaco, vfndere, 
Bojadsehi, p. 75. 

* Il calci ei calca del paradigma macedovalaco non va confrontato. L'I 
non vuol rappresentarvi un a accentato ma sì nn a *tra a ed o 9 (Boja- 
dsehi, 2); e vedemmo il Diez trascriverlo è. 

a II tfojadschi non reca, a tal proposito, alcun esempio di verbi in -gm 
della prima conjugazione; ma non fa eccellono veruna. Nei nomi u- 
gnalmente, lnng(u) p. e., lungo, è nel plurale dacoromano luna;!, 
nel macedovalaco lumi. 



COkOOT tTRàiatiUE IN ITALIA. 71 

due dialetti orientali, non ho alcun esempio dalla Valdarsa, 
dove si dice dorm o dormo, dormi, dorme, dormo 
dormi dorme, mentre quaglino hanno, nella terza persona, 
do arme. L'affievolimento di o ad u, che, per regola ge- 
nerale, s'ha nel dacoromano p. e. in port, purtà, pur-* 
tat l , io porto, portare, portato, è nel valdarsese *rugat* 
pregato; ma l'infinito è in Valdarsa roga 3 , mentre ai 
dacoromani è ruga. — La prima plurale del presente di 
ara suonala Valdarsa aremooaram o arem; nell'ora- 
zione dominicale abbiamo 1 a s s a m (rilasciamo. — Per V im- 
perfetto, si sentano: araiam, vendeam, avsiam, 
finiam; alle quali formazioni valdarsesi s' accostano per 
particolar simiglianza quelle dacoromane che il Diez avea 
accolto, non so da qual fonte, nella prima edizione della 
sua drammatica delle lingue romanze, e rifiutò, non so 
ben perchè, nella seconda (canta am, auzieam, f lo- 
ri e am). Le desinenze che pajon più corrette nel dacoro- 
mano, e son comuni al macedovalaco, sarebbero -am nella 
prima conjugazione, ed •eam nelle altre (quindi auà-eam). — 
D'imperativi Valdarsesi mi avanzano : a u z i tu odi l v i n - 
de tu tendi!, identici alle voci corrispondenti degli altri 
dialetti rumeni; di zióe dire (dice-re), ho l'imperativo 
zi di/, e il participio zis detto, enei dacoromano ugua- 
lissimamente zióe, zi, zis. Di vede, vézi vedi!. Col 
pronome suffisso, mi fu dettato dam dammi I (dacorom. de- 
mi). — Gli altri tempi, come presso gli ausiliari : jo am 
vendut io ho venduto; jo voi vinde io venderò; se 
rag vinde se io vendessi; se rad fost vinde se io 
avessi venduto \ — Gerundj: dormlnda dormendo, rou- 

1 V. per il macedov. Bojadsohi, 10. 

* Rugai- a pregito -ha, pregò. Le stampa ha rogata, 

* A. Covai; v. più tardi.-* Dormi è però cornane, colf o, al dacorom, 

e al valdarsese. 11 macedovalaco ha dnrnji(re). 
4 Uà altro tempo condizionale, una specie d' ottativo, pareva che steste 
nelle reminiscenze del Micetich; e varie volte ai provò a mostrarlo in 
un qualche verbo, ma, le forme che gli uscivano, si trovavan non do- 
verle da quelle che avemmo nell'imperfetto. Così p. e. il verija 



~j1 STUDI CRITICI. 

oanda o mwnkonda o monk&nda mangiando, amnan* 
d a camminando. I due primi sarebbero in dacoromano: dor- 
mi nd, m&nkand. il gerundio macedovalaco, oltre la 
forma corrispondente al dacoromano, ne ha una, solla coi 
genesi non oso entrare, che forse dà ragione del Va finale 
dei gerundj vai d arsesi. Osserviamo nel verbo che rispon- 
de al terzo dei nostri esempj istriani, verbo che nel suo 
conio s' accosta d' altronde assai al valdarse se : i m n & n d a~ 
I u i camminando, p. e. i m n fi n d a I u i m a n e u , i m n fi o- 
daini mane A m a , camminando mangio, camminando man* 
giamo 1 . — Chioderò con un verbo irregolare specificamen- 
te romeno. Valdarsese: là prendere; lavo, laji, laje, 
prendo, prendi, prende ; 1 a j è m , lajètz, 1 a v u , prendia- 
mo, prendete, prendono ; 1 a t preso, j o a m 1 a t io ho 
preso; — > dacoromano: loa (prendere; lat. levare); ian, 
iai, ia, loom, luatz, ian 2 ; luat, leu am luat; — 
macedovalaco : loare; Ijau, Ijei, Ija, lomu, lotzi, 
lja; eo amo loatà. — 

Noi vedemmo il valdarsese ora inclinare particolar- 
mente verso il dacoromano (stale le; zi; o (una); fi; 



tenga, dell' orazione dominicale, altro non sembra che una tersa del- 
l' imperfetto (cfr. fìniam, aveia). D' altronde, ad un condizionale 
che poco ai «costi dalle forme dell' imperfetto, non saprei veder fon- 
damento né romeno nò slavo. — .Abbiamo *daje (la stampa ha <te- 
je) dia (det), sulla cui desinenza non sono ben .chiaro. — Più tardi ve- 
dremo dajetz-m datemi, in cui ò certo intruso IV; slavo (dajté). 

1 Rammento, senza però asserire che la somiglianza sia più che esteriore, 
la doppia forma dei gerundj campidanesi (Sardegna): fueddendu 
e fueddenduru favellando (v. Fuchs, I. e. p. 194).— A ... 
lui è il genitivo-dativo macedovalaco dell' articolo (p. e. a domnv-hù 
del signore, al signore), e del pronome personale di terza, sempre al 
maschile singolare.— Quanto all' a mn a camminare valdarsese, i ul- 
na re maeedovalaco (pre-imnarea il passeggiare), non vedo for» 
ma che ci corrisponda nel dacoromano, in cui a* ha all'incontro am- 
bia od émblà (ambulare), forma non inaudita neppur questa air latria, 
Ireneo riferendoci: anbla cuDomno, anbla cu Uraco (leggi 
Braco), va con Dìo, va al diavolo. — 

* 11 Dies ha, nella prima edizione, con / iniziale anco quelle voci che qui, 
giusta il paradigma del Mollar, ne mancano. 



COLONIE ITRAlQEftB IN ITALIA. j3 

fost; alcune voci del pronomo personale; passato del con- 
giuntivo), ora verso ii macedovalaco (dila; Ijepuru mu- 
Ijera; muànt; cljeptn ciaptiru; presente di volere; 
fatare congiuntivo (di ave); omnà; jescn), ora esibir 
fornite che partecipano dell'ano e dell' allro (filju, éelji). 
Altri distintivi del macedovalaco vo' adèsso ricordare uniti, 
e d' uno solo vedrera partecipe il valdarsese. — Dell' antico 
el o c'I (ad esempio in gennàio da genuculo\ il dacoro- 
mano serba intatta, come ha fatto osservare il Diez (1% 
344, 197), la gutturale, e distempera o elide la liquida, 
dicendo kiemà o k e m à = clamare, ureke = aruric'la, gè- 
n a n k e = genic'lam 2 ; mentre il macedovalaco mantiene am- 
bo i snoni, con farli seguire da i; quindi cliama(re), ge- 
nucliu, ureclie. Il valdarsese s' accorda in ciò col 
macedovalaco, esibendo cljemà, jeruncljn, urecla 
(oreclje). — Il Diez medesimo (ib. 350) dichiara proprio 
del dialetto meridionale il tramutarsi del v iniziale in j, co- 
me in jermu eerme, jite vite, jinu pino. Qualche e- 
sempio del valdarsese parrebbe seguire tal vezzo ; ma, a ben 
vedere, il j non vi rappresenta, credo, l' antico è. Ho 
I jermu verme, iarna inverno, e, col j mediano, Viju 
vije 3 , vivo viva. Nel maschile dell' ultimo esempio (dacoroma- 
no v i u), il secondo v radicale, fattosi ti, fu preso per desi- 
nenza (si ricordi il bo bove che di sopro vedemmo), quindi 
spati nel feminile (dacorom. vie), e Vi òhe gli andava 
innanzi s 9 appajò naturalissimamente ad un j. Nei due altri 
che precedono, il v originale ò seguito da e che nel da- 
coromano si espande a dittongo (ea, te, to, v. p. 314), e 
fa scivolar via il v nel dacoromano stesso, in cui trovia- 
mo vearme verme e lerm&nos tarlato, vermou lu, .. i a r- 



1 Di genucuhtm per geniculum, v. il Diei, I 9 , 17. 

9 Nel frinlaio all'incontro è sconfitta fai guUorale e resta para pura h 
liquida iole: a rei e, senoli, voli, pi do I i, orecchio(-*), ginoc- 
chio, occhio, pidocchio. 

* O mmljera ©•/*, oppure o vije mmljéra, una doaaa viva. 



74 studj arno, 

na inverno, lernat invernato 1 . E del resto vedemmo nel 
valdarsese vign vengo (macedov. jintj, Bojadscbi, 108), v ir 
vino (macedov. j i n u). — I cangiamenti normali nelle uscite 
macedovalache di p in h (vulpe vulki, volpe volpi; 
lupa luki, lupo lupi; rapa ruki, rompo rompi) e di 6 
in g' (orbu orgji; corbn corgji; sorbn sorgji), so- 
no estranei si al dacoromano che al valdarsese, i quali ci 
dicono affatto consuonantemente: lup lupi; corb corbi; 
orb orbi; sorb(u), sorbi sorbisco, sorbisci,- e ugualmente 
si distacca il macedovalaoo si dal dacoromano che dal yal- 
darsese per la pronuncia sibilo -dentale dei e che son pa- 
latini presso a questi ultimi dialetti 2 ; onde tzintz, za Uè, 
d u 1 1 z e de' Macedovalachi risponderanno a éi n é, z a 6 e (se- 
a 6 e), dulée de' Dacoromani e de' Valdarsesi. 

Pochi esempi in cui può ancora vedersi qualche par- 
ticolare somiglianza valdarsese -macedovalaca, fanno parte 
del seguente elenco di voci valdarsesi, col quale si esau- 
risce la mia conoscenza del rumeno d'Istria* La parola, 
che, senz' alcuna ulteriore indicazione, tien dietro, fra pa- 
rentesi, alla valdarsese, è la corrispondente dacoromana: 
ontrebà (éntrebà) interrogarci irima<, dal In irime 
(in ime 3 ) cuore; frunza frunze (frunzé frunze) /o- 

1 Nomar: gewintert, auagewinterl — Dello j macedovalsco dice d'altronde 
il Bojadscbi, che suona tf come y greco „, e vorrà dire per certo co- 
me od g palatino; quindi gierme, gite, giapa (verme, vite, cavalla 
= japa dacorom. e valdara.), pronuncia per coi il macedovataco vie* 
ne a staccarsi affatto dagli altri doe parlari rumeni. Lo j in e = fon* (da- 
corom. bine) addotto dal Dies accanto agli esempj dì j per *, « 
presso il Bojadscbi (3, 138) a dirittura gjine, e gj vale quanto per 
il tedesco vai dj o per F ungherese gy (p. 3), ossia pressappoco 3 
nostro g tananai e ed t. Questo esempio apparterrebbe a quel fenomeno 
permutativo (bi-gi), normale nelle uscite, che son per toccare nel testo. 

* Non che i Macedovalachi sieno affatto privi di 6 palatino; a' ha p. e. 
presso il Bojadscbi arióu (aricsu) istrice = dacorom. arie. Cfr. ericms 
e il nostro riccio. 

9 Giusta quanto abbiam prima veduto, i nomi valdarsesi Amenti in a ed in 
ti sono da riguardarsi come forniti dell' articolo ; nella traduzione o- 
metto T articolo per brevità, e non lo affiggo alle vooì daeoromane. 
Inimé, p. e., coli' articolo sarebbe inimastràma valdarsese. 



COLONIE «TKANIERE IN ITALIA. 75 

glia, foglie; apa, dal. lo ape (ape) acqua; at (alt; ma- 
cedov. id.) altro; vftra (vare) estate;. — ur 1, doi 2, 
trei S, patru 4, éiné'5, desse 6, gapte 7 (un, 
doi, trei, patru, éiné, éeasse, geapte); ottoe 
nove si esprimono in Valdarsa con voce slava, ossam, dé- 
eet, ma a Sejane dicesi opt, nuk (opt, noao; macedov. 
n à u), come vi si dice, oltre a zaée 10 comune alla Val* 
darsa, che già conosciamo, ur pre zaée (unsprézeaée) 
undici (e così via?) e doi zaée (doao zeéi; macedov. 
jinjitzi = viginti) tenti, mentre in Valdarsa ripigliasi do- 
po Baée lo slavo: jedennaist 11, ecc., deaiste 20 ! ; -doi le, 
de doile, treile, lu treile, patrele (al-dóilea, 
al-tréilea, al-patrolea) secondo, del secondo, terzo, 
al terso, grtfarfo;-patu (pat(u)) letto; berbat (bérbat) 
a Sejane uomo, ed Ireneo ha berbaz, eh 9 è senza dubbio un 
plurale (berbatzi); japa (j ape) cavalla; mare (mare) 
grande; il comparativo si fa premettendo mai, mai dul- 
bt più dolce (mai dulée; macedov. ma dultze), il su- 
perlativo preponendo cr ut o (voce slava; il dac. ha pre'a, 
il mac. cama, a tale ufficio 1 ); fatza (fatzé) faccia; 
eutzitu (kutzit(u), mac. cutzutu) coltello; mai mun 
(mai mult) più; assira (assin(u)) asino; en (en) in; 
cadi (ka sì) si come; a£a (aSea, aia) cosi; pre (pre) 
in, su; pemint (pémftnt) terra; tfsteze o tfstez (a* 
stézl; mac. astazu o azà) oggi; ài (ài) e, anco; rev 
(reu) male sosL; nu (nu) non 3 ; perù (pér(u)) pelo epero 

1 Per la sintassi de* numerai', si tentano : veld, sa 6 e omir, omir sa 6 e, 
fisci *otnùù\ saóe de jel dieci di laro. 

8 Nell'Ulna: terna foste (fost-a) ii croio raéc, è tradotto: vemus 
fucrat et erada glacies, e Dell' il. gran freddo. Questo cruto èpro- 
bahilissimsmente Io etesso dei superlativi. 

* Gli ultimi nove vocaboli entrano neir Orazione dominicale, che fo qui segni- 
re, mettendo in corsivo le parole che aon di proveniensa slava. Delle 
rumene tutte, s' ò già discorso quanto basta. 

Caée nostru carie àti on éer; stelija-se te 
lume (oppur lumele tev); verija ta krailiestoo 
(oppur hrailiesho tfi); fia volja t8, cadi od 



*fi StUDJ CRITICI. 

(e pera Ih vald.);roiBo (rogiti) rosso; viUelu (vitzéi) 
vitello: # secura (sekur e) scure; *affl a t (afflai, v. p. 313) 
trovato; *tunce (atunél, macedov. atuntzea) allora., 
*raée (r e a é e) freddo; *fruniga (furniké) formica; # h ra- 
na (hranè) vettovaglia, alimento; *trecut (trecut)cAe è 
pattato ; # akmoce (la stampa : avmoce ; dacorom. a ku m ì) 
ora; *su (supt, subt) sotto; *juva (?lat ubi} dov*ì 
*é'am (ée quid) foid habeo; *cfin [k&n](kttnd) quando 1 ; 
# home (macedov. fame, cfr. dacor. hemis-it affama- 
to, morto di fame) fame; hlamund 2 (flèm&nd, fiè- 
ni end) famelico; dande (de un de) da dove; ttns solo 
(parrebbe Pensa dacoromano, stesso, che ai congiupge ai per- 
sonali; lo scambio inverso di solo per stesso è di qualche 
nostro dialetto); torée (toarce) filare; cale (cale) via; 



cer a Sa ài on (o pre) pemint. Pora nostra 
de saca* zi da a noi àstez (o dsteze), ài per- 
dunttna b (operduntta noi, o lass a noi) no- 
stri dug (o nostre dti$rure c ), càài noi lassam 
lu nostri duznié'; ài mi na (o noi) sepeljei on 
napast, ma f zbave % noi de rev. 

a. Serbi. 8 v à k a slov. v f à k a , ciascuna. -—b. Va del prono- 
me suffisso -na prò vieti forse da influsso slavo (si. dal nàm, 
accus. nès\ dacorom. ni, ne, macedov. nà, v. n. 2 a p. 70. 
— e. Notevole questo plurale modellato sui rumeni di nomi fi- 
nienti in g, come ad esempio jug dacorom. giogo, pi. fuga ri; 
e con e finale quasi si trattasse di nome slavo feminile (men- 
tre dug è maschile), certamente per il motivo che i plorali in uri 
son feminili nel valaco. — d. Serbi, duj'nik, alov. dolinik.— 
e. Lo sloveno peljaj conduci!, con una preposizione corri- 
spondente a za serblico e sloveno. Cfr. il serbi, zapljéati 
immittere (hineinschlagen). — f. Parrebbe italianiamo, comunque 
l'Àlexi (Diez, II 1 410) dia ma per d acoro mano. — g. Serblico 
ìzba.viti liberare-, imperat. isbà vi libera. 
1 Dove cioè la stampa ha e' ai in -quando habes lai, la mia correzione 

dice k è n a i t u. 
* Le voci da hlamund impòi, debbo alla gentilezza del signore Antonio 
Covaz di Pigino. Hanno la guarentigia della dotta diligenza di esso 
signor Covaz, e di quella d'un amico suo, che le ha con Ini rive- 
dote, e credo fosse lo stesso signor Miéetich ( v. p. 58). 



COLONIE STRANIERI IN ITALIA. 77 

lucra (lukrà) lavorare; fujì (fu gì) scappare; cuvin- 
tu (kuvfint, ma kuvintà discorrere, cfr. p. 54) discorso; 
rescljis (deskis; v. p. 73) aperto; ucide (uéide)iic* 
cèdere; pUnsu (plttnsoare)piaf»fo sost; spelata (spe- 
la t; spela lavare; cfr. albanese entrai?, énìjdty tipeljé*ig io 
kwo,}jdty Ij^-ig io lavo) lavato; muta (mula) cangiare; 
ossa, ossele (oss-ul, maschile, e al plurale oasse-Ie, 
feminile) re*™, te ossa ; g u r a (g u r è) fiocca, gula ; f ò 1 e 1 e 
(foa\e-le) il ventre; limba (lirob è) /inolia; linjè (Unge) lec- 
care; furca (furk e) conocchia, rocca; muncà (manca) 
mangiare, v. p. 72; btt (be'a) bere; un tu (uot(u)) 6*rro; 
lingura (lingure) cucchiajo; cassa (caé(u)) cacio; 
far de gusta (fere de senza, gust(u) gusto) insipido; 
eira (éinè) cena; revu (rea) cattivo, cfr. re? a p. 7$; 
frica (frike) paura; spiru (spin(u)) spino; jarba 
(jarbe) erba; mera (mev(ìi)) melo, mela; naca (nuké) 
noce ; j e d u (e d u, capretto, Isseb) capriolo (capretto ?) ; por- 
ca, porcéla (pork, pi. f orti) porco ; draca (drak(u)) 
diavolo, y. sopra, a p. 72, n.1; preotu (preot) prete; du- 
mireca (dumineke) domenica; basserica (bessea- 
rike) chiesa '; bire (bine; macedov. gjiae) bene; tre- 
mate (trimite) mandare; farà (fura) rubare; fede- 
ra (feéor ragazzo) fanciullo; betOr (bètrftn(u)) vecchio; 
calù (kal-ul il cavallo; maced. cal-lu) cavallo; bovu 
(boa) bove, cfr. p. 55; oia (oae, coir articolo : oaia, 
come da ploae: ploaia) pecora; sdrpele (àerpe-le) 
il serpente; galjira (ghèine, cfr. fé ine farina; ma- 
cedoval. galjin-Ie le galline, Bojadschi, 133) gallina; 
mnjela [mgnela] (miei, macedov. nielu da miei» v. 
p. 58, n. 4; greco ani. ^lot m é 1 o n pecora, bestiame mi- 
nutp, ecc.) agnello 2 . 

1 Uo altro volgare romanzo in oui vive questo grecismo, è il romancio 
(Grigiooi) oao dice baselgia, chieaa (Fuchs y o. a, 351).- In Friu- 
li abbiamo un villaggio Baaagliapenta (Basajepeote dei 
friulani), quasi Basilica pinta. 

9 Mi restano: piaaèi piacere (verbo); peatèì pestarsi piata, piatto. 



*w 



78 STUDJ CRITICI. 

Diremo che Dacoromani e Macedovalachi sien venati 
a mescolarsi nell' Istria, o non direm piuttosto (comunque 
la scarsità dei materiali studiati faccia apparire ardimentose 
anzichenò simili congetture) che il rumeno di Valdarsa rap- 
presenti un dacoromano più antico di quel che oggidì si 
parla, 0, per dir meglio, si scrive nella Valachia, un da- 
coromano in cui si mantengano certi caratteri d' antichità (v. 
avureh, muljera, urecla 1 , e simili), proprj tuttora del 
macedovalaco, ma perduti dal dacoromano moderno ? Ne' vai- 
darsesi jerunclju ginocchio, cljemà chiamare, che mo- 
strano, corno vedemmo, uno di questi caratteri d' antichità con- 
servati dal macedovalaco, v' ha d' altronde qualche partico- 
larità dacoromana (d. genuake, kiemà; m. genuclin 2 , 
eli a me). È bensì vero che il valdarsese s'accosta special- 
mente al macedovalaco anche in uno de' notevoli fenomeni 
di decadenza (k é=p) e forse eziandio in un secondo (h 
per f) che però non è estraneo pure al dacoromano; ma 
del primo non vedemmo applicazione costantemente comune, 
né identica modalità (vald. cljeptu, mac. che p tu [cfr. 
dac. piept]; vald. pljerdu, mac. cherdu [dac. pi erd]), 
del secondo vedemmo anzi discordanza nell'applicazione (fi 
essere nel valdarsese ehi- nel macedovalaco; home fame in 

vivanda; "patita palila; *donche dunque; frutu (Covai) fruito; 
i quali vanno messi tra gP italianismi.; — *ru, *ra , . *r a [ cfr. ma, ti, 
mia, tua], lo la (articoli; con r per /, alterazione che sappiamo fre- 
quente nel rumeno, e che si ritrova altrettanto frequente ne! geno- 
vesi), come in g r a, r 0, r a, gola, lo, la); verde verde (daco- 
rom. verde evearde), nàvu neve (dacorom. ne a, Isser), i 
quali son forse da unirsi ai precedenti; e roba veste, arpa (dal 
lu orpe) pietra, rupa (dat. lu rupe) rupe, coromàca (Co- 
var) cappello, *aaé (za 6?) ma, i quali nou saprei se abbiano fon- 
damento rumeno; orpa credo che sì. 

1 Non tralascerò per altro di notare che nel valdarsese potrebbe riguardarsi 

come epentetica alcuna di queste / che appariscono antiche; non ve- 
dersi cioè differenza tra la / di plierdu cljeptu (perdo, petto) e 
quella di cljemà, jeruncliu. — Vedemmo anco / proatetica in 
Ijermu = jermu = verme. 

2 V. Die*, l* 197 e 344. In quest'ultimo luogo, il dac. genu nche è 

privo per isbaglio della seconda ». 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. 79 

valdarsese e forno nel macedovalaco). Gli elementi slavi del 
romeno di Valdarsa, cai non mi fu dato rivolgere certa at- 
tenzione, conterranno per avventura qualche prezioso ad- 
ditamelo circa la precisa patria di codesti coloni. Ma, co- 
munque abbiano più ampj studj a pronunciarsi intorno ad 
essa, nessun lettore, che m' abbia sin qui seguito, vorrà più ' 
mettere in dubbio il Valachismo di codesto importante par- 
lar valdarserse '.Il quale non è quindi, come i letterati istriani 
intesero, una diretta propaggine latino • istriana, ma sì il 
latino rustico elaborato compiutamente a nuova lingua, tra 
ogni specie di straniero influsso, là negli ultimi paesi che 
il Danubio bagna. Se alcuni termini rumeni sono tuttora as- 
sai diffusi per F Istria, come vuole il Combi, il quale vede 
in ciò una prova della grande influenza esercitata sul re- 
sto della popolazione istriana dai supposti militi e coloni ro- 
mani: noi altro non ci vedremmo se non parole prese a 
prestanza dal valaco, importato in tempi relativamente mo- 
derni, qualche singola coincidenza delF italico istriano col 
rumeno, di quelle che naturalmente si avvertjscono anco tra 
i più discosti parlari d'uno stesso ceppo. 

I/inlrecciarsi di Slavi e Rumeni sulla terra istriana, 
ci ha condotti a posporre ai Valachi i Francesi in Italia, 
che il Biondelli ragionevolmente ha messi prima. Sono i 
francesi della provincia aostana, ossia, secondo FAutore, « la 
« numerosa popolazione di tutte le valli cisalpine comprese 
« fra la catena del Monte bianco e il Monte Rosa, la quale, 
« sebbene e geograficamente, e politicamente italiana, parla tutta- 
« via un dialetto corrotto della lingua francese meridionale, di- 
« stinta dagli scrittori col nome di lingua d'oc. » Essa ammonte- 
rebbe « ad oltre 78,000 abitanti, in massima parte pastori », e 
coltiverebbe « specialmente le scoscese valli di Challant, Pel- 
«lina, Ferrex 2 , e la principale valle d' Aosta, della quale 

1 Io Valdarsa dicono covintà vlaSki, a Sejane co vinta rumugne- 

Ski, per dir parlare il dialetto rumeno. 
* Di qiieaf ultima ralle non mi fa dato vedere altrove menzione. Verrei o 



80 stodj CBrna. 

« tutte le altre sono altrettanti rami collaterali, sino al gros- 
so borgo di Chfitillon, che, sulla strada postale, divide il dia- 
« letto piemontese dal francese. » Per tal modo ci viene ac- 
cennato come sia di favella italiana una considerevole parte 
dell'Aostano, locchè si vede più distintamente nella pagina 
che sussegue: « Questo dialetto estendevasi, non ha guari, in 
« tutta la parte meridionale della stessa valle (d' Aosta), co- 
« me attestano i nomi di quasi tutti i villaggi disposti sulle 
« due rive della Dora, ... e i rispettivi dialetti oltremodo 

• commisti di voci ed idiotismi francesi; se non che tutte 
«queste tracce vi si vanno di continuo cancellando . . .; il 
« dialetto piemontese vi acquista tutto giorno nuovo terreno, 

• ed è già penetrato sin nel cuore della classe più elevata 
« della capitale (Aosta). » Donde va inferito (e oggigiorno non 
parrà superflua V osservazione), che troppo larga parte face- 
va il nostro Autore all'idioma francese, col dirlo parlato 
di qua dall'Alpi graje da meglio di 78000 individui; dac- 
ché a poco più di tanto poteva ascendere, all'epoca in coi 
egli stese l'Articolo 1 , la popolazione di tutto quanto il du- 
cato di Aosta 2 . Nella quale debbono stare d'altronde, per 
circa tre migliaja, i tedeschi monterosani, la Val - Lesa for- 
mando parte dell'Aostano 3 . — La famiglia occitanica, 03sia 
provenzale^ cui apparterrebbe il francese aostano, occupa e- 
%iandio la Savoja, Ginevra, Losanna, e per certo anco il 
Vallese meridionale (Dibz, I 2 104); quindi troveremmo V oc- 
citanico a ponente ed a settentrione della provincia d'Ao- 

Vérre* o Verrei, circa sei miglia italiane al sud-eri di CMtilloo (▼. C. 
Bianchi, Geogr. polii. deW 11., p. 135), è una borgata aita allo 
sbocco della Val-Challant (Schott, Deutsche Colon, in Piem., p. 6). 
A oriente della V«I-CbalIant s' ha la Val -Lesa 5 a occidente, prima la 
Val-Tournaacbe, poi la Val -Pollina. Se por la borgata di Yerra a- 
vease cornane il none con una vallicella secondaria, ciò non parrebbe 
quadrare per il caso nostro. 

« v. p. vnt. 

1 11 censimento pubblicato nel 1839 (1838) dà 78,110 animo (Bianchi, 
p. 25-29, EnekL pop. a. Aosta); il Qeogr. Leste, di Bitter (1855) 
ne dà 84,000. 

» V. Seno il, 0. c.,.p. 90. 



COLONIE «TEANURE IN ITALIA. 8l 

sta. — Ed affinissima al provenzale abbiamo ancora altra 
favella straniera in Italia : il catalano dei circa 8000 abi- 
tanti della città d'Alghero in Sardegna, di cui più innanzi 
discorre il nostro linguista. 

11 quale annovera inoltre da 85,500 Albanesi, che 
nelP Italia meridionale conservano ancora lingua e costumi 
di lor nazione. La principale immigrazione epirotica in Italia, 
seguì, com'è notorio, alla morte di Scanderbeg (f 1467), 
l'eroico difensore dell'indipendenza albanese. Questi, nel 1461 
(Musatosi), era venuto nel Regno, con uno stuolo de' suoi, 
in soccorso di re Ferdinando I; e sin da allora s' ha che si 
stabilissero quivi alquanti Albanesi. 11 Biondelli fa anzi ri- 
montare intorno al 1440 la prima comparsa degli Arnau- 
ti in Italia, condotti in Calabria, a' servigi di Alfonso I, 
da Demetrio Reres Casiriota, che sarebbe stato rimunera- 
to dal re con terre e privilegi, e preposto al governo della 
Calabria ulteriore. Questo Demetrio Reres è dato dal no- 
stro Autore per padre di Scanderbeg, ma erroneamente per 
quanto sembra, il genitore dell' eroe albanese essendosi ap- 
pellato Giovanni 1 . L'Hahn, che s'è valso largamente delle 
notizie raccolte dal Biondelli su codesti Albanesi, porta an- 
che questa dell'immigrazione del 1440, accompagnando di 
un punto interrogativo la paternità attribuita a Demetrio Re- 
res Castriota 2 . — Il Biondelli ci parla ancora, seguito an- 
che in ciò dall' Hahn, di piccole colonie albanesi nell'Istria, 
«e propriamente nel villaggio di Peroi composto di 210 a- 
ibitanti, poche miglia discosto da Pola, e nel territorio di 
«Parenzo, ove alquante famiglie albanesi vivono sparse in 
« appartati casolari. » L' Hahn ha pronta V etimologia alba- 
nese per il nome di Peroi. Ma il Combi, nel luogo citato, 
scrive a pagina 107, parlando delle varie suddivisioni che 

1 Yban Castriota, Hahn, Alban. Stai, I. 326 ; Hammer, Geach. <T Oam. Reich., 
Pesi, 1840, I. 368, 370. 

9 0. e, I. 30, n. 48.— L'opera del Dorsa (Vincenzo Dorsa, Sa gli Al- 
banesi, ricerche e pensieri; Napoli 1847) non ho potuto vedere; 
l'ho fatta indarno cercare a Firenze, a Torino, a Vienna. 



Sa STUDJ CRITICI. 

gli slavi puramente serblici dell' Istria ammetterebbero : « I 
«villici di Peroi, fatti passare da taluno per Greci di na- 
« zione \ sono invece Montenegrini della chiesa d' oriente. • 
Il nome di quegli che guidava la diecina di famiglie alba- 
nesi alle quali, secondo il privilegio allegato dal Biondello, 
la repubblica veneta concedeva « lo spazio di terra che for- 
« ma appunto il territorio di Peroi », è M i h o Draicovich, 
ed è nome, come ognuno scorge, che sente più il Monte- 
negro che non l' Albania. Miho ha il tipo d' un vezzeggiati- 
vo erzegoviniano 3 , e sarà il Mic&o 4 che il dizionario dà 
per Mitar Demetrio*, sul gusto di Miào per Mijàilo 
Michele, Mijo per Mijat, Drago per Dragùtni, tutti 
vezzeggiativi erzegoviniani, dall' ultimo de' quali s' avrebbe 
Drago-vieti come Marko-vich da Marito ed infiniti altri presso 
i serbli. Dragovich si nomina una borgata della Dalmazia °. — 
Di Greci ed Albanesi trapiantati nell' Istria non tace del re- 
sto il Combi, ma assicura che «perdettero ogni loro spe- 
«ciale carattere; solo alcuni tipi di greca bellezza si rico- 
«noscono ancora cosi nel Parentino come in quel di Pola, 
«dove talora si ode qualche vanto di prosapia epirotica, e 
« oscilla qualche suono di greca favella 7 . » 



1 Qui pare confusione tra greci ed libanesi; cfr. BiondeRi, p. 59. 

s Del 26 novembre 1657. II Combi non conosce questa dati, ed ha, del 

1647, nuovi Dalmati nel territorio di Pota, "nonché Montenegrini a 

Peroi nel 1650. „ L. e, p. 125. 

3 V. Stephanowitsch-Grimm, Serb. Gramm., Pref. p. XXIX. La va- 

rietà enegoeiniana s'estende anco al Montenegro, ib. XXVII. 

4 II eh della trascriiion latina rappresenta una lettera serblica la cui pro- 

nuncia si dice corrispondere pressappoco a tch tedesco. Il serblico non 
ha la gutturale h {-% gr.).— 

6 Per corrispondenti albanesi di questo nome, V Hahn dà: (litro, Mhoe> 

jdifie, Miti (Mie), Mifi. L. e, II, 117. 
• Ri iter, Geogr. Lexic. ; dipendente da Spalatro. — Stephanovich ha 
nel Lessico serblico: Dragovich, monastero in Dalmazia; — v. ib. 
anco Dragovich (e Drago). 

7 L. e, p. 125-6. Un uomo del volgo, ad Umago, mi asseriva però, che 

a Peroi si parla un idioma stravagante, affatto incomprensibile alle al- 
tre genti istriane. 



COLONIE STRANIERE IN ITALIA. 83 

Alle due estremità meridionali d'Italia, in Calabria 1 e 
in Terra d'Otranto, inette il nostro Antere meglio di 18,000 
Greci; e suppone, dottamente fiancheggiando la sua con- 
gettura, che negli odierni coloni ellenici di quel paese che 
fu la Magna Grada sieno le reliquie dei greci colà sta- 
bilitisi in remoti tempi, «intorno a cui molti esuli moderni 
successivamente si raggrupparono. » Ma io ho motivo di du- 
bitar forte dell' ellenismo di codesti 18,000 coloni, e debbo 
crederli Albanesi anch' essi. Una grande autorità vivente, da 
me consultata, nega la presenza di popolazioni greche nel- 
F Italia moderna, e conferma l' asserzione dell' Adelung (Mi- 
thridatis, E, 795) che « degli antichi greci, i quali tennero il do- 
minio della bassa Italia, non esiste più traccia da . . . secoli. » — 
A circa seicento individui fa ascendere poi l'Autor nostro 
la colonia di greci mainotti che abbiamo in Corsica, venu- 
tici del 1676; dalla qual colonia, oppur dai Focesi «che 
si stabilirono in Aleria 550 anni prima dell'era cristiana», 
al Viale pareva che ripeter si potessero le molte parole di 
greca derivazione ricorrenti nel dialetto córso 2 . 

Di vere popolazioni non italoglosse in Italia, non re- 
sterebbe più da menzionarsi se non la maltese, che parla uà 
idioma di fondo arabico; gli Ebrei, gli Armeni e gli Zin- 
gari non potendo andar ragguagliati agli altri coloni stranie- 
ri, i primi perchè favellanti la lingua del paese, gli altri per- 
chè scarsissimi e non radicati. Nel paragrafo che tratta dei 
Maltesi, P Autore accenna alle colonie arabiche, ormai scom- 
parse del tutto, che il dominio musulmano avea lasciato nel- 
l'Italia meridionale, e tocca ancora delle «tracce d'unan- 
« tica araba colonia nella provincia Sulcitana in Sardegna, i 
«cui abitanti, ancora detti Maurelli, sono riguardati da al- 
ti cuni come discendenti da quei Mauri, che, per testimonian- 
■ za di Frocopio, espulsi dall' Africa ai tempi di Belisario, 

1 li Biondelli ha Calabria ulteriore-, ma la città di Cebo, eh' egli di- 
ce occupata da' Greci, non è quella che abbiam nella citeriore al nord 
di Cosenza? 

1 Ap. Tommaseo, CanU Córsi, p. 351. Cfr. Tommaseo, ib. 247. 



84 STUDJ CRITICI. 

r furono deportati in Sardegna, e si stabilirono nei monti pros- 
« simi alla metropoli dell' isola. • Tale origine, nota il Bion- 
dello è oggetto di controversia presso gli scrittori, ma la 
costituzione fisica, i costumi e la pronuncia dei Manrelli par- 
lerebbero per essa. Ora, e* mi sembra assai strano che qua- 
drino al nostro Autore per coloni arabi i Mauri gettati io 
Sardegna nel sesto secolo dell 9 èra volgare ! . Erano, a par- 
lar con Procopio, Mauri Barbari, chiamati dai Sardi, se- 
condo lo stesso Procopio, Barbaricini (e Barbaricini e Bar- 
bagia sono i nomi che portano ancora a' giorni nostri co- 
desta « peuplade de la Sardaigne, et le canton qn' elle ha- 
« bite, à cause d' une colonie de Mauro s qui y a étó trans- 
« portée par les Vandales, et quo les Romaina ne róussìrent 
«depuis jamais à subjuguer 2 »), i quali da varj eroditi, e sa- 
viamente, tengonsi per Berberi, ossia di quella razza a- 
borigena dell'Africa, a cui più tardi gli Àrabi, imitando il 
barbari de 9 Romani, diedero il nome di Berber*. — Circa 
gì' Israeliti, è accennato dall'Autore a leggenda rabbiniche 
secondo le quali la prima apparizione degli Ebrei in Italia 
rimonterebbe in sino ai tempi di Giacobbe e de' re pastori. 
Ma il leggendario giudaico ha, di quei tempi, non già un'im- 
migrazione giacobbitiea ossia israelitica, ma bensì nn' intru- 
sione esauidica nell'Italia, delia quale fa diventar re &epo* 
ftoy), nipote d'Esan; leggenda che si riproduce, con nomi 
sfigurati, presso gli scrittori arabici, come altrove dimo- 

1 Anzi avrebbe piattono a tini nel quinto secolo, giacché Procopio li b de- 
portati io Sardegna, ood a' tempi di Belisario, come vuole il Bioodeìli, 
ma ben prima. — D. B. F., II. i 3 : His quondam (tò ftalato*) irati 
Barbarie Vandali, exigoam eoram marni m cum uxoribne ablegavernnt il 
Sardiaiam, ibiqne okosoe cootioebaot. Progrediente tempore iiQowoe 
nooVÓrtog) elapai illi, vicinoe Cerali mootee occuparmi: «ode ▼iciniam 
occultie latrociniia iofeataraot tnitio. Deinde cum ad 3000 excreriaseat, 
renuntiarunt ktebris, ita ot aperte circomiectia ia locia omnibae gree- 
eareotor, dicti ab iodigeoia Barbaricini. Hoa coatra Mauro* Salomon bac 
hiemo daaaem paravi*. 

* Castielioni, Mémoire géograpkique et nwnismeéique §ur Im partie 

orientale de la Barbarie, p. 85. 

* Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, L 106-8, 18, n. 



FRAMMENTI AUANESI. 95t 

stai (JMtoA*^ der deutsckem morgwt. Ge$ellsck., XV, p. 



Obbedita, come per me s' è potato, meglio, all' eccita- 
melo del Bioadelli di venir seeolui ristudiando le cose trattale 
in eaderta bellissima Memoria sui Coloni stranieri in, Ratio, mi 
fermerò ora alcun poco su quella che le tic* dietro, der- 
dicala alla letteratura popolare deW Epiro (Albania); e, 
per ultisfcs tenterò di annodare qualche mio stadio all' ce- 
sarne della susseguente, che ha per tema F origina la dif- 
famanti è Timporta0*Q delle lingue furbesche. 

Ai saggi di poesia epirotica, acconciamente illustrati, 
vanno immiti alcune considerazioni etnologiche e storiche 
sugli Albanesi, Malgrado, le assidue indagini interna a* Pe- 
laegi, da eoi e Greci e Italiani riconoscono, almeno ii> pftr^ 
te* la «emine loro erigine, non si sarebbe ancora avver- 
tita, secondo ft BiertdelK, o almeno non peranco esaminate 
et» quella severità che richiede il graye problema^ la 
«.forte: concordanza e verisimile idealità» dei Falangi co- 
gli Aitami, osaia cogli Album di Tolomeo. I Falangi, che, 
per tostinumimw unanime, delle tradizioni antiche, furor- 
e* i primi invasori «tella Grecia : sopraffatti dai Jonj e da* 
gli Sileni Al sacebboro in parte ritirali nelle regioni pia 
MtèMrtnwalìì da quel continente^ e in paitfe trasferiti sul- 
le, «oate d 7 JtfUov Ora, accurati sttidj ci paleserebbero «ila 
«-ensiehte della nazione albanese, : nelle regioni poste al 

* settentrione d'ella Cteecia propriamente detta, sta da tempi 
*aitorieri ad ogni storica reminiscenza » , e sarebbe oggidì 
accertalo lo «stabilimento rimato di albanesi colonie, altresì 
«in varie parti delle isole e penisole greche, in particola-? 
«re in parecchi luoghi elevati della BeQj&ia, dall'Attica, del-» 

• PÀrgoiide, dell' Elide e della Lacooia, ove testé occupa- 
«vano interi distretti; e tracce noti dubbie d'origine alba- 
nese serbavano non ha guari gli aMaira delle isole d r Hy- 
«dra e di Spezia, non che d'alcuni scogli dell'Arcipelago.» 



86 sTfrtM càrnei. 

E il confronto detta vivente lingua epirotica coi dialetti gre-* 
ci ed italici antichi e moderni «ci porge ornai, secondo 3 
Biondello ampia messe d' utili e preziose rivelazioni ; e im- 
» portantissima ed amena congerie di scoperte ci promette 
«quello dei costumi e dell' indole degli attuali Albanesi colle 
« svariate peculiarità e vulgari superstizioni dei viventi pò- 
«poli greci ed italici,»— Gii Studj albanesi dell' Hata,' la- 
voro importantissimo, di cui il nostro etnografo non s'è 
fatto prò, c'insegnano, circa le colonie epirotiche in Gre- 
cia 1 , che v'hanno oggidì Albanesi in tutte le Provincie el- 
leniche sì continentali e si peloponesiache, tranne FEtolia, 
P Acarnania, la Laconia e la Messoria $ che nella Beozia, nel- 
P Attica, nella Megaride' e nelT Argolide costituiscono la gran- 
de maggioranza della popolazione; che le isole d'Idra, Spezia, 
Poro e Salamina sono abitate esclusivamente da Albanesi; e che 
in fine questi occupano quasi tutta l'Eubea meridionale, e la 
parte settentrionale dell' isola d'Andro. Gli Albanesi sarieno an- 
che per l'Hahn i Neo-Pela$gt\ Gli antichi Epiroti e Macedoni, 
ed anco gli Dliij, erano, secondo quest'ultimo, genti pelasgi- 
che, icom' eran pelasgici i prischi abitatori della massima parte 
della Grecia (per Grecia intendendosi Ella e Peloponeso) e 
di considerevoli territorj italiani. Ma, nella Grecia, i Pelasgi 
avrebbero adottato il linguaggio degli Elioni che vennero 
a soprapporvisi ad essi; nella Macedonia e nelP IDiria l' idio- 
ma aborigeno avrebbe durato in sino a che la invasione 
bulgarica venne ad estirparlo dalla prima contrada, e la ser- 
bHca da gran parte della seconda *. Nell'Albania (Dliria me-*' 
ridionale ed Epiro) vedremmo all'incontro l'elemento pe- 
lasgico ributtare se non assimilarsi lo slavo che s'era in- 
truso 4 ; e dall'Albania uscire ne' moderni tempi (dal XIV 

1 1, 14. 

9 Dice Megara non Mqjaris. 

* Dico aoitaato boote parlo delT Dliria, perche la regioM pia 

lo dell 9 antica J%rfo è abitata da gli Albaoeei del ceppo -_^-- -^ 
sale (Gheghi), ostia è riattata P«U*f«» t. pariaro coir Halli. V. W 
ateaao a p. 219. 

• Ib. p. 224, dir. 212 in fise. 



FEAMMEirn ALBAREfl. 87 

colo impoi) le colonie epirotiche dell 9 odierna Grecia, alle 
spiali di sopra ci è occorso d' accennare. Ivi ¥ elemento gre- 
co va a poco a poco assimilandosele; ripetendosi per tal 
modo, come osserva l'ingegnoso Alemanno, la crisi avve- 
nutavi ne 9 primi tempi dell' istoria, colla differenza, che al- 
lora eran Pelasgi antottoni fondentisi negli Elleni invasori, 
mentre oggidì son Neo-Pelasgi immigrati che vi si stanno 
elleniuando '. 

L'Hahn, del resto, se reputa i Pelasgi ed i Greci del- 
l'Antichità popoli tra di loro diversi, stima però egli pare 
che non poco di comune tra di loro v'avesse. «Noi im- 
cmaginiamo, dice il diligentissimo Alemanno a pag. 231 
del primo libro, che il linguaggio e i costumi dei Pelasgi 
« stessero a quelli de' Greci a un di presso come stanno il 
« linguaggio e i costami degli Albanesi a quelli dei Neogre- 
«ci; i quali mostrano di molti elementi comuni, per modo 
« che non basta a darcene ragione 1' attiguità di sede, ma 
• per modo tuttavia che non permette di supporre una stret- 
« la comunanza d' origini come v' ha a mo' d' ft esempio fra Ten- 
doni e Scandinavi.» E non di rado lo troviam soffermarsi 
a notar le parentele di voci albanesi con greche e con la- 
tine; e con vasta erudizione lo vediam confrontare i co- 
stumi albanesi oo' neogreci non solo ma e con quelli del» 
P Ella antica e dell' antica Roma. « D proto - albanese, co- 
me propende a credere l'etnografo tedesco, nono soltanto 
«contemporaneo e contermine del proto «romano e del pro- 
nto -elleno, ma sta eziandio in affinità con essi; ovvero, 
« in altri termini, quant' havvi d'uguale ne' costumi dei tre 
«popoli vi fu immesso da un medesimo elemento, che è il* 
«pelasgieo fib. 214,254),» 

Gli Albanesi della regione meridionale, ossia del ve- 
ro Epiro, il cui territorio essi dividono con Greci e con 
Valachi, chiaman To$cheria un certo tratto del loro paese 
(noli' Epiro settentrionale); e i connazionali stanziati più 

1 b. 315, 319-31, 283, 334, 333, 348. 



98 STUDJ CRITICI. 

a settentrione, del pari eh© gli altri vietai, dico» Tbaofe- 
ria tutta 1' Albania australe, e Toschi tutti gli Albata» 
che ivi sono. Abbiamo poi nelP Albania centrale la citte 
di Tiranna, chiamata dal Barlesio, scrittore albanese, 7V- 
ranna major, a distinguerla da altra Tiranna (Tinmna a*'- 
nor) che giaceva non lungi da Oroja \ Codesti nem, ctn« 
sonantissimi a Tusci ed a Tirreni, non è a dirsi quanto 
preziosi suggelli appariscano a chi sa addurre tati' al- 
tro per adombrar negli Epiroti e ne" Macedoni il nucleo 
di quella gran famiglia tirreno ~ ptlasgica, le cai propaggi- 
ni si stendevano a oriente nella Tracia e od occaso nd- 
r Italia 2 . Inguisachè, se taluno tenterà, col aoocwrs© del- 
l' albanese, le misteriosissime iscrizioni degli Etruschi.» non 
potrà dirsi per certo eh* ei si parta da premesse men fon- 
date di qaelle ónde partissero molti fra i dotti che già ci spe- 
rimentarono le loro forze. Ma, V appurar*, di mezzo alla stra- 
na miscela onde si compone il linguaggio degli odierni Al- 
banesi, quel vetusto fondo originale che risulti atromento ra- 
gionevole di simigliente tentativo, è tale impresa inv*ro^ da 
sgomentare i più coraggiosi. 

Le concordanze albafrico-itàBafte, sì negtt idiomi «he 
nelle costernante, le quali, dal cenno surriferito dal Bran- 
delli, parrebbero già in qualche dovizia da quest'ultimo rac- 
colte, gioverebbe assai che fosser messe sotto agli occhi dagli 
studiosi, quasi a continuazione del lavoro iniziato dall' Hahn. 
Le corrispondenze di fatti idiomatici, delle quali non saprebbero 
dirsi a sufficienza provveduti i saggi comparativi del dotto 
alemanno, sarieno pia specialmente .interessanti, siccome quel- 
le cui la indagine può con minor pericolo affidarsi che non 
alle somiglianze ne 9 costumi, nelle pratiche, nelle supersti- 
zioni, nelle leggende ; elementi questi, che più facilmente sor- 
gono o divengono comuni anco tra genti le più disparate 3 . 



1 Ib., 12, 15, 86, 136, 233; e III, 130. 

« V. ib. I, 215, 221, 233. 

* P. e., P atto dello spato preserva dati' oecfato cattivo presso f li Alba- 



FRAMMENTI ALBANESI. 89 

Per la qaale considerazione* io non mi arrischio senza gran- 
de esityoza al parallelo etologico a cui m'invitano la ven- 
detta del sangue e lo cerimonie funerarie, quali si trova- 
no appresso agli Albanesi ed ai Córsi. 

La vendetta del sangue, come ognun sa, è UIC altro 
eh* esclusivamente propria a questi due popoli 1 , ma viene 



* ilèei (Hata, I. 159); e lb tpélò, iecttiAo gti fferet Si fttogéri è Fèh- 
*e pur d'altri della Barberi* (Romanolli, Ucaft be'rao, p. 25-3<J), pre- 
serva ugualmente dalla minaccia dell' occhio, e guarisoe il male da es- 
so arrecato. — far che aia Patto di estremo disprezzo creduto antidoto 
alla Iota, per la quale Si attacca il maleficio dell' ttccftt'o. 

La ve*deaà*det**àngim è promossa dal bisogno d'incotta timore* agno* 
rentigia di se e de" suoi, col non, lasciare impunite P offesa ; oltrachò 
dalla carità verso i defunti, che parrebbero vilipesi se inulti, e dal 
risentimento e dall'alterigia, che spingono l v uomo a farsi giustizia dà 
Sé. La §uatéMf/6a^Ìet*Mngué, che stria gè ad mntià di famiglia par* 
le più o non piccola della «aziona non pergiunta a civili ordinamen- 
ti, ai presenta pronunciatissima presso ad antiche e moderne tribù a- 
rabiche (v. Atnari, Storia dei Musulm. di Sicilia, 1. 34-5, 41 [33], 
44, 45, 69); è affinila Véndette- di-mattgttto, più che altro tuìetatriCB, 
•èro probabilmente qoella che Tige ti Libane presso Orasi e Maro*» 
niti. La vendetta-di-sangue per sentimento, per ponto d'onore, mal- 
grado la pubblica giustizia che non lascerebbe Impunita P offesa, è 
qOeAa che sottriate atoofn in OòrsW, in Albania, in Sardegna. È «noè 
alle Bocche di Coté***, finitime appunto al territorio scodreso <t. 
la nota seguente; e Hahn, I. 205); e degli Illirici in genere il Tom- 
maseo ne dico (Noovi Scritti, IV. 29) che loro è dovere la vendetta, 
e che in un proverbio dicono tf chi non si vendica non si santifica,,, 
giovandosi di quella u terribile etimologia „ per cui vendicare significa 
santificarsi (Tommaseo, Canti còrsi, p. 86). Anche in sloveno abbia- 
mo Tv e ti ti santificare, of ve ti ti fé vendicarsi. — La legge mor- 
aaica mirabilmente conciliava il barbaro impeto della privata col ci- 
vile principio della pubblica giustizia. Quando il giudice avea trovato 
di condannar P omicida, l' affine dell' ucciso, •/ ricuperatore del sangue, 
diventava P esecutor della condanna (v. Num., XXXV, 24; Dent., XIX, 
12).— Il passo che addurrò per chiusa, trailo da certa ordinanza d'uno 
degli Aconi re di Norvegia, e riprodotto dalP Hahn (I. 205), sarebbe 
caduto mollo in acconcio a Btelchlore Gioja nella Confutazione eh' ei scrisse 
dell' opera di feonstellen V hotnme du Midi et V hotome du Nord, ou V in- 
fluente du tlimal, òpera in. cui, circa la séte di vendetta, era asserito: 

* bette ttalheureuse pàssibn (le tratt le plus safllftnt du ctfractère dea 

* habilants dù àlidi), n* etisie pas dans Te Word, et te trait ile carac- 
tf tòre est une des grandes lignes de demarcatici) entrè te? deoi eli-. 



QO ST0DJ CRITICI. 

in etti a costituire carattere principalissimo dalla fisionomia 
nazionale. «Allato alla processore incamminata dalla Auto- 
rità dello stato contro l'uccisore, scrive l'Hata, vige an- 
cora, fatta sacra dall' uso, la venàetta*del*$angue K Alla fa- 
miglia dell'ucciso s'attribuisce non solo il diritto ma ben- 
anche il dovere d'osar rappresaglia sull'uccisore o sulla fa- 
miglia di lui •— E in Corsica ci si dà, come in raro esem- 
pio di perdono^ quello del figliuolo che ai tribunali conse- 
gna non tocco l'uccisore del padre (Tommaseo, Canti còrsi, 
p, 151), negligendo portai modo Y onore <P ineeitabite ven- 
detta CU)., p. 44, cfr. p. 70). — «La vendetta di sangue, 
continua l'Hahn, spetta sempre ai parenti più stretti del- 
l'ucciso; ove l'uccisore non possa raggiungersi, la vendetta 
prende di mira quel più stretto suo parente che sia nel loo« 
go o nel distretto. Se nel casato dell'uccisore v' ha per- 
sona che si distingua per autorità o per prodeua, ai parenti 
dell' ucciso rivien conforto ed onore quando loro riesca di 
prendere vendetta so quella. Nò mancano di esigere per uno 
de' loro congiunti più vittime dal parentado dell' uccisore, 
À ciò allude l'Albanese vantandosi: pe$a $ei uomini ogmm 
ài miei parenti.*— E nei Canti cani sentiremo una fan* 
eiulla esclamare sul cadavere del fratello: 

A fare la tò riadatta 

Ondo Yoli che ci aia? 
Mannaia bieint a more! 

a tò avella Maria? 
Si Lario bob era aiorto, 

Sesta strage bob Saia* 

Lasci sola obb sorella 

roterà, orfana, e «Iella 
Ma per fi la tò riadatta 

Sta sigaro, Tasta anch'elle. 



„ aiata. „ Re Àcoae dieera adoaqae: eke> ove m Norvegia andassi < 
qnakkedsMO, il miglior* uomo deW altro casato era fatto segno atta 
rendette del sangue, sa pure la cosa fosse avvenuta senta che quo* 
sii vi partecipasse in anabiosi guisa; e che per tal modo fiacco- 
vansi i migliori cosati.— V. ancora Grimm, Storia della liagnatod., 
p. 627, a. (903). 



9). a 

aoa Ae 



1 L'Hata» ceaemano aoa ie discorra di proposito ohe sotto ala 



i 



rUNUEftTl ALBAHESL 91 

E in Corsica pura, «alla vendetta la parentela è delitto*, 
e sentiom parlato di «quella vendetta fellonesca inevitabile, 
chiamata trasversale, la quale faceva vagare talvolta sa tolti 
d' una famiglia, e più sopra t principali e i migliori, il ter- 
rore e la morte.» 

Ma per biadkalfo ■ Tabi 
Ce ne Turrite parecchi 

grida una figlia córsa 1 , — «Ogni rappresaglia, ne soggiun- 
ge il chiaro descrittore delle costumanze albanesi, richie- 
dendo una nuova vittima d' infra gli appartenenti al casato 
inimico, e il dovere di vendetta e la colpa del sangue an- 
dando da padre in figlio, ne nasce che talvolta nel giro di 
pochi anni la vendetta estirpa numerosi casati. Di guai ca- 
sato sei? è la prima domanda che l'Albanese rivolge a uno 
aconosciuto, mettendo la mano sulla pistola se sa di aver 
da pagare o da riscuoter sangue; e, pronunciatala risposta, 
due spari che rapidamente si susseguono formano non di 
rado la continuazione del dialogo 1 . » — E tra i Córsi il Tom- 
maseo lamenta « V odio diffuso per tutta la parentela, e per 
la discendenza, scorrere col sangue ; quinti il paese langui- 
re quasi da continovi contagi percosso. » E più innanzi: «In 
un paese (di Corsica) erari le sette de 9 Bianchi e de' Neri : 
e la fanciulla chiesta da uno di parte nemica : sono de' Bian- 
chi, risponde, e me ne tengo. E la cosa finisce in sangue 8 .» 
Riavvertito il lettore, che, se non istimo inutile questo 
parallelo (il quale potrà anco imputarsi di una certa artifi- 
cialità), non presumo tuttavia di trarne ancora conseguenza 

«Costituitone delle tribù «ontano neU* episcopato di Scaltri (Skodra), 
la dà ripetutamente per eostamania propria agli Albanesi ù genere; 
y. ib* p. 69, 91 ; 181, 233, 248, e in quella rubrica stesse fui- 
limp capoTerso a p. 176. 
1 V. Tomaia no, ib„ p. 105 (efr. 187), 83, 168, 110. Bip. 157: 
Per morene osa duina 
Anche dei pie principali, 
Di Mar» li ao stirali 
Restano radicati appena. 
9 L. e., p. 176, 343. 
* L e, p. 137, 145-6. 



91 STUDJ CRITICI. 

alcuna, passo alle cerimonie funerarie. « Filiti* l' agonia, scri- 
ve 1* Rahn \ le donne raccolte intorno all' estinto mandane 
una gridata orrìbile...;. Le amiche si' precipitano ad aumen- 
tare lo spaventevole coro, urlando e picchiandosi il petto. 
Sorelle, cognate, figlie da marito e la vedova, se non 1» 
passala la mezza età, si recidono i capelli; (gli uomini, il 
pgdra ia Specie, lanciano crescere per toito, barba e ca- 
pelli,, corpo i Romani) j mettono * rova$pio i Igeo mantelli, 
p?r wip che i fiocchi riescono ali' estenda, si graffo**) a 
Wflgaa l^e guance, si ammaccano, il seno* si strappai)» i 
spelli cicisi, c«dqn p$r terra, daw<* impetuasampfpta <tej 
c^po i^lle muraglie, clupmanP U defunto per noma. , . . * Ni- 
BQtf (figlie 4* fratello) e cugina si scapigliano, ed anco ta- 
gliarsi un, riccio, q si legano il qapa con ima pe^«ql* aa- 
ra, ct^ 441), iw&lQM per varj masu Xa vedeva la porta 
p<?r sempre 2 ,.,., Ppi lo donna si pongono a ae^erp, ìoIoem 
OJ, p^d^yqr^. e fllpr» incomiocift la yeca Igmentasipne, qui 
wa presto», parte la paraci «$a*ty, w pjir le. vicina* U 
{jWienba\wn* VA». *: pai in proflft; # sagola aojwto. fU due 
y#i^i, contali priipa a, $qIo a poscia ripetati daj pgra Urterò, 
Sijajji lamentane aoqp* Gasate dall' uso, e. sj riferiscono al- 
le pjarticolarUà de}l<* vUa del defwty v Avviap(& p^ò alte volr 
tp qfca iL dolpge ìspidi a wa doma elegie niuwe* I*e )j& 
arcuai paranti tfcaao iapaazi, oasi aia che? refiaao asaaste, e 
nw M Iwip MMenro^&cIe, Venuta poi la vpjta alla altro 
temine,, 1' fl»a, jtoterj-owfla 1' ataa aaaanaando con la ipam 
e incominciando un nuovo verso Se il morto ha stret- 
ta pacanti^ oome> aovaUe o figlie maritate, m lunghi non più 
di dtte o tre ore lontani, invitanti a 9 funerali, ed esse to- 



* Sodo la rubrica» Costumi, del pmese di Ripa (Albania maràl i o — l e 1 ; FIb- 

miliengebràuche der £*?•>; a fi tratta dii maschio perito io buon* età. 

L. e. p., 150; cfr. la aw t » p. 1^ 
tt Preser Niccola, Costantino hai* ferito. 

Dove sei, madre mia? Vieti, raggimi il capo: 

E legolmi stretto stretto, eh' io lamenti. 

Tommaseo, Canti greci, p« 16$. 



rBAMMENTl ALBArfESf. g5 

sto si fanno in ria, con accompagnamento pie o meri nu- 
meroéo, singhiouando od urlando.*..' Altri mandano in re- 
galo, alla famiglia del defunto, vino, aoquàvHa e provisio- 

ni Morendo un nomo in età avanzatissima (ttberlebter 

Greis), usano scannare, a remissione de' suoi peccati, nna 
o pia pecore (è normale che il moribondo, Secondo il sno 
stato, órdini il numero delle vittime), per farne il banchet- 
to funerario; il quale vien perciò ad essere nella Ri<j« qua- 
si un' eccezione, mentre in altre regioni albanesi è di re- 
gola, eome un giorno a Roma, e noli 9 Ella 1 .» 

In Corsica abbiamo tratti somigliantissimi, per non dire 
identici, a quelli che rilevammo presso gli Albanesi; «Fi- 
nita l' agonia, levano il grido ritte I più stretti parenti, 

si levan di case, e in quella d'un congiunte apprestasi lo- 
ro un pasto che è detto conforto 11 . Cominciano quindi i caliti 
funebri in casa, intanto che vengono da varj villaggi il pa- 
rentado e gli amici Guida là schiera un pareute, degne tal- 
volta il paese intero, e di terre lontane Se la morte 

Violenta, le donne all' apparita del paese, si fermano, e si 
scapigliano, urlano, si strappano i capelli, si picchiano il 
petto* si graffiano il viso. Un tempo anco gli uomini. Vsfn- 
no a rincontro quelle del paese, tranne la moglie e riur- 
lano.... I più stretti parenti più si tapinano. Vanno alla 
vedova; e tengono capo con capo, per mezzo minuto. La 
guidatrice della schiera nel Niolo le mette un velo nero 
sul capo ; che, fin che non si stracci, lo tiene Fan cer- 
chio intorno (alla bara), e girano; che dicesi caracolb. 



1 V., per i lamenti greci, Tommaseo, Ganti greci, p. 172 (Fauriel); "... 
finito, sovente svengono... „; ofr. Uahn, p. 150, penultimo capover- 
so. V. ancora la pag. qui scg., n. 1, e Tommaseo, tb. p. 398. — 
In Albania e in varie parti di Grecia continua r antica usanu della 
darccxT}, cioè della moneta messa in bocca al cadavere. Aveva ad essere 
il soldo per Caronte. Cfr. Grimm, Deutsche Mythologie, p. 791. 

* Il Grimaldi presso Tommaseo, Canti còrsi, p. 76: In Niolo chiamano 
il conforto ciò che offresi a mangiare a' parenti del defunto. Questo con- 
forto spesso è loro recato nella propria abitazione, oppure nella casa 
d' un congiunto. 
io 



q4 STUDJ CRITICI. 

Una parente (le donne sole cantano) o intuona o prega don- 
na più da ciò, anco se non congiunta di sangue.... Can- 
tano de 9 pregi del morto, del dolore de" parenti, le lodi de- 
gli antenati. In Altiani due donne chinate capo a capo vo- 
ciano insieme; onde nulla o poco s'intende: in Castagnic- 
cia, una alla volta, e a ogni strofa gli astanti confermano. 
Seguitano le ballate talvolta più dì, e l'una air altra (femina) 

dà luogo Vanno alla sepoltura sbarbati, poi smetton di 

farsela per più settimane. Le donne co' capelli raccolti : e 
alla fossa li scioglievano, o radevano poi. Nel distretto di 
Serra il bruno alle fanciulle era una berretta, che li chia- 
mano cuffia ; alle maritate, pezzuola bianca ; alle vedove uà 
velo fine. . . . Alle famiglie ragguardevoli costan caro le cere 
e il convitto nella perdita d'un de 9 loro furono ammaz- 
zati due bovi e andarono mille pani. Sedevano a tavola ses- 
santa per volta. In certi luoghi 1' anniversario celebravano 
come in Grecia, con banchetto 1 .» 

Il Biondelli, per saggio della letteratura popolare del- 
l' Epiro, ci porge la fedele versione (85) di sedici canti. Il 
primo ha per soggetto « un' avventura di Costantino il piccolo, 
fratello di Scanderbeg » ; poi quattro erotici o nuziali, uno 
religioso, e dieci cleftici. Dei sette veramente cleflict, sei 
risguardano l' eroica resistenza che Suli oppose ad Ali ; e fra 
i Greci ritrovo, di codesti sette, sei per intero, insieme al- 
la miglior parte del settimo l L' Hahn ha un settanta canti, 

1 Canti Córsi, p. 182-84; cfr. p. 64, dove in nota si legge: a V'ha non 
poca somiglianza nel modo di piangere i morti, fra i Corsi, gli antichi 
Irlandesi, e i Morì d'oggigiorno. „ Per costumante consimili presso i Sardi, 
v. Archivio storico italiano, T. XII, disp.I (1860) p. 120.— E cfr. 
Canti greci, p. 36-7 ; donde apparisce non estraneo a' Greci pure il costu- 
ma di celebrare in patria i simulati funerali dei morti fuori ; costarne che 
r Hahn trova * sommamente notevole „ appo gli Albanesi. — Y. ancora 
Canti greci, p. 402.— "Se il cane ulula, senza guardar la casa, annunzia 
morte {Hahn, Gebriuche der Ripa, jb. I. 158).„ — tt È antica e 
comune tradisione fra* montanari, che V ululare del cane è foriero di vicina 
calamità nella famiglia del padrone (Tommaseo, Cauti còrsi, p. 73). , 

• Tommaseo, Canti greci, p. 336-8, 377-8, 379,242, 416,136-7, 
161. Cfr. il BiondeUi stesso, a p. 97. 



FRAMMENTI ALBANESI. g5 

Aon d' importanza storica però, tranne qualche elegiaco ; e 
compresevi otto canzoni (che posson dirsi di letteratura e- 
rudita piuttosto che popolare), di Ne^im bey, il poeta più ce- 
lebrato dall'Albania settentrionale; canzoni pregne di quella 
pederastia romantica e pura, che regna presso i Gheghi, i 
quali l'amor di donna par che non cantino 1 . Ha pur d'al- 
tri prodotti di letteratura popolare ci dà saggi l' Hahn ; pro- 
verbi indovinelli, fiabe. Della vendetta del sangue, onde i 
canti córsi riboccano, nessun riflesso nelle cose pòrteci dal- 
l' etnografo italiano, e solo scarse tracce in quelle che dob- 
biamo al dotto tedesco. Un' ammonizione generica, che suol 
dirigersi principalmente ai fanciulli, per esprimere: non com- 
metter malanni ì (Hahn, HI. 22, b.) dice letteralmente: non 
fate sangue e disgrazia l (poe bari gjax « bóìjbe*), e la parola che 
rendo per sangue vale: sangue, uccisione, colpa-di-sangue, 
cendetta»di-sangue, inimicizia-di-sangue. Ritorna in un canto 
nostalgico, dove gli esuli lamentano: 

2i xovq xipi (tare (*e gjan 
Ih t dalli ftoiiy fìùjahix. 

Come se cadati noi fossimo in causa* di -sangue, 
Fuggiti, fuorusciti dalla patria*. 

E un proverbio tosco, adoperato quando accadano con- 
tese od uccisioni atte ad avviluppare le famiglie in een- 

1 Hahn, 1. e, I. 166. -I Gheghi occupano l'Albania settentrionale e la 
centrale; ib. 12. 

* Dev'essere motto ghego; V ultima voce è data per ghega dall' Hahn, e 

la forma verbale risponde al tipo ghego e non al tosco; v. Hahn, 
s. biiy, e F. M. da Lecce, Gramm. alò., ap. Valer, Vergici- 
ckungslafeln, p. 158 b . 

* 1/ Hahn: Non è egli come se fossimo caduti m colpa-di-sangue, fuggiti, 

sottraeteci alla patria? — Letteralmente: Come se siamo (abbiamo) 
caduti ecc. — È dialetto ghego. La grammatica dell 1 Hahn non trattando 
che il tosco, delle cose gheghe non mi par qui superflua un' analisi 
alquanto diffusa. Ha pur le losche mi parvero richiedere alcune anno- 
tazioni.— Pare caduto è per il tosco Qaoe; v. Hahn, HI, 107. a, 
II, 17, e cfr. Bopp, Vber das Albanesische, p. 25-26.— /xe dalli 
sembrerebbero participi passati (fuggito, fuoruscilo) in cui la radice 



g6 studi carnei. 

deUe-di-sanguei suona : ève)*** hùe póÀe**, *X*xjtx o*fiki&ttù fiepbaì*** 
(E, 152): «I-giovani mangiano le-muple, ai-vecchi aggotto 
-intormentiti i-mascellari*», come a dire, seconde) la dichia- 
razione deir Habn ; i figli fanno il male, i padri la peailen- 
pa. La fierezza, o meglio la ferocità del costarne, è ritrat- 
ta dfl quest'altro proverbio: ha *«*, BbUybtdia* t Mangia po- 
co, e cómpra-fi un coltello**». I! feroce abbiamo pia d'uà 
panto amoroso; una canyon ghega dice aU' fumato: 



JSs bota &óve rfe dv — Ms ra otyi pov s tv. 
Kovi ovfiovvdócpt fis fa dap — Mog novióyt tv b vjape. 
Siov TtQvkóv foQ vga héoe —Ai fiog novió<pr «£ difiet ag pé$e. 



Ohe cianpia la gente questo a quello — par dividerei, me e te; 

chi attese a dividerne— non eessi di andar piangendo; 

la pioggia cessa volta per volta— agii non cesai né verno uè atale***. 



ai presenti affatto spoglia di qualsiasi termininone (v. la pag. 101 
n. 2). Per ix non saprei addurre analogie ; il sostantivo participiale 
ghego di questo verbo è, presso V Hahn, regolarissimo: s ix^^ja. Parimenti 
di dcùlj è : £ daUjfuja ; ma questa radiee potrebbe easersi uniformata 
nel participio a quelle uscenti in -uX (la sesta conjugaaione presso 
Lecce), come fece nel tosco, il quale esibisce, oltre a daMjovQe, daX- 
Xje. La e spesso non si sente nel ghego. Cfr. Hahn, IL 3. — BtX- 
jcur (ir ò la nota del genitivo determinato : della patria), ohe non 
rinvieosi nel dizionario dell' Hahn, è manifestamente il vili jet turco 
(arabo) paese. 

* nXbXJst dativo - genitivo plurale (ai vecchi) di nXjax; v. Hahn, II. 37, 
dov'è il nominat. pi. determinato: 7zUxj-te , \b. IH. 102 ò air incon- 
tro nljsxj-te.— Qv-pM-rx-spe, è del verbo pò// io rendo irrigidito, 
teria perspna plurale del presente passivo ; ed avrebbe V aumento (ov), 
contro P asserto dell' Hahn (11. 62) che solo V aoristo passivo domandi 
codesto aumento. 

** BÌÀy, da bìjéiy compero; imperativo che accennerebbe piuttosto a od 
fiXiy che a QÌJBiy, de| pari che il passivo fiXl%Bf^ — Bidióx, che 
non ritrovasi nel dizionario dell'Habn, è il turco biéaq coltello. 

*** Letteralmente : Perchè la-gente dicono uno e due — [a] divider noi, 
me e te (fu dop dividere, per dividere; il participio pass, pre- 
ceduto dalla prepoa. ine viene ad esprimere l'infinito; v. Lecce, 
1. e p. 152, cfr. Etopprl c.p. 27, 83); chi Mete [a\ «fcwder-ci— 



FRAMMENTI ALBANESI. 07 

E una totca io dialogo : 



Te fov gjovfit? \ie gerrjéfis? 

Nde pe fon, pe £eri s Qérda,-~ JÌQ g pe ty* te filje fina. 

Moj vèrte, te ddxte djalj^ — * Kje tu rdifi$ rag pali* 

Egli: Thi presa il sodio o m'hai ingannato? 
Essa: Se il sonno m'ha presa, il malanno mi prenda, 

La madre non m'ha lasciala venire* 
Egli: Monna madre, il figliuol ti perisse, 

Che ci bai divisi ...... # 



noti abbia-a-cessare nel- piangere (tv è xjape, gerundio, v. Lecce, 
ih. p. 154, Bopp, ib. 82); la-pioggia cessa eolla per volta — tgU 
non abbia-a-cessare né .verno né siale, — V Hahn ha tvty per le, 
ossia l'accusativo tosco, e la rima n'è violata. Io mi permisi di so- 
stituirvi tv, che ò del dialetto settentrionale contemplato dal Lecce 
(I, e, p. 137 e 141). Il quale scriverebbe tov e dov per le e due, 
mentre colla semplice « il tv (tv b tue) concorrente alla formazione 
del gerundio che abbiamo nel secondo distico. 
Letteralmente: Ti prese (lo £ov di questo e del seguente verso, 
del verbo £e tocco, prendo, è una tersa singolare dell' aoristo, sul 
gusto d* Ix-ov fuggì; questa persona dovrebbe suonare, stando air Hahn, 
11. 80, III. 36, CovQQt, fotfpt; ma, nel dialetto settentrionale trattato 
dal Lecce, il verbo za a apprendo, che in fondo è senza dubbio il 
radicai medesimo, ei rioffre alla tersa singolare delP aoristo z ù u , mentre 
per la prima e per la seconda ha zuna, sua e, esattamente corrispondenti 
alle tosehe ^ovqqoc, £ovqo, Covqqb; lo scambio n=r è normale; v. 
Lecce nel paradigma e rt£e presso l'Hahn apprendo, capisco) il son- 
no? me ingannasti?— Se me ei prese mi prenda (▼. 
Hahn, II. 69*) la gravosa (a Q&rda, Hahn: die Suchl; è un agget- 
tivo feminile : la grave, la gravosa, adoperato qual sostantivo, per certo 
con qualche accezioae particolare; non può riferirsi a gjovpe, che è 
mascolino); ma non mi lasciò ch'io-venga la-madre. — 
Monna madre (Moj rérre, Hahn: madre malia; nel glossario di- 
chiara poje: voce con cui si chiama una danna, sul fare dei nostri: 
donnina! raga**al, e rimanda a paq$, prendo, il cni participio vale 
anco pa*>%o; ma, ae pur tale derivazione è la vera, panni decisamente, 
che in modi simili a quello che abhiam dinanzi, il poj (pof) aia un 
semplice vezzeggiativo, nel caso attuale in senso ironico; cfr. Hahn 
H, 129. n. 8, 131. n. 21, 132. n. 26 e 97 (riprodotto il secondo qui 
appresso), e particolarmente 133. n. 3; v. tuttavia ancora, ib. 146. 
n. 1, e IH. 56, a) ti morisse (détte sarebbe la terza singolare 



98 SttJDJ CRITICI. 

Fiero e tenero insieme appare lo spasimo di quest'altra: 

DiXXj *de bgìx s fieètqó (piare. 

Bare peri s pia, (tate. 
DMj 9 poj itala ps gatta*. 

Bare peri s pia, fióre. 
JSaf e? e fikovXe 9Qap, 

Bave fieri s fila, fiore. 

Baci ti monto e guarda il villaggio, 

Ita è la mia manie, è ita. 
Baci amica spada col tao cordone, 

Ita è la mia mente, è ita. 
Oh Tocchi -nera, la pinta-il-sopracciglio ! 

Ita è la mia mente, è ita*. 

Delle due canzoni gheghe che ci portano i sospiri di chi 
sta nella • mesta terra straniera 1 », l'una si termina con 
questi disperati versi: 

2i ow uovi m* povtd6%*t? 

dell' toriato congiuntivo di dtg muojo\ la prima delTaoristo indica- 
tivo è dixja presso Hahn, IL 73) il figlio, che ci dividesti. 
Nga pah lascio seau traduzione. 

* Tosca. Letteralmente: Sorgi ad altura e contempla il villag- 

gio (dsMj da dolly, cpiare offre nn esempio di t perduta innansi alla ¥ 
dell' accusativo, v. Hahn, IL 33),— andarono i aensi miei, 
andarono;— sorgi amica spada oon cordone (pej, v. 
presso la canzone antecedente; nàia e gattav, che mancano al les- 
sico delP Hahn, son la naia spada corta e il yaXxàvvov cordone, fan 
scia del dizionario neo-greco) ; andarono i sensi miei, anda- 
rono. — Occhi-nera e sopracciglio pinto, — andaro- 
no ecc. (gnau non è nel lessico del nostro autore; manifestamente 
il yQappévog neogr., scritto, dipinto.— fiézovkegQau sopracciglio di- 
pinto, cioè dal-sopracciglio-dipinlo, cfr. Hahn, IL 130, XVI: *Qa%e 
jsiil ala verde per daW ala verde, e 132, XXUI, 3. I quali eaempj, 
e quelli più decisivi di p. 129, VII, 3, IX, 1, e 133,11, 5, non sa- 
prei d'altronde come ai accordino colla teoria del nostro autore, IL 
28, 46, che l'articolo mai non manchi preaso l'aggettivo. 
1 Tommaseo, Canti greci, p. 334. 

* L'Habn: Chi mai al par di me fu tormentato? Ma il verbo è al presente; 

e dei valori di no (Hahn, IL 101) quello di sempre, contin uame nte 



FRAMMENTI ALBANESI. 99 

Edi pùteQxa 1 te m* 

Iloiiy gjaxovt tifi 9 Atlpórsre 4 . 

Com* io 7 sono chi maisempre ò-tormentato ? 
Anco la-vipera, qaindo ne bebba, 
Del sangue mio si-awelena. 

E T altra così finisce: 

Kjati trvt èfii, xjdri, 
2iij te jm na-psQbovaQ 5 . 

Piangete, occhi miei, piangete, 
Sinché doriate uon-privi-di-vista ! 

Nelle funerali, tocca la frequente illusione del dolore, che 
parla al defunto come se fosse vivo. È cornane ai canti 
córsi 6 . Uno dei distici (toschi) che si sentono rivolgerò 
ad nomo estinto, è questo: 

NgQiov 9 cs te xeQxóp fiérà\ 
2* te bep 2ja£éfi xovfléedi* 

è il solo, mi pare, che nel nostro caso quadri. — La forma ghega 
dovrebb' essere, secondo lo stesso Hahn, *oq. — 

1 Nel lessico P H. dà per tosco rsnioxe, e per ghego rmxéqe y vipera. 

1 Ili nel tosco (H. II. 76) paro dell' indicativo soltanto. 

9 Tip corrisponderebbe al ff-ip tosco (mio al genitivo), em avendosi pres- 
so Lecce In luogo doIPlm tosco («io al nom.), e te (f) per il geni- 
tivo-prepositivo dell' articolo in Inogo di s è (s') dei possessivi toschi 
(v. H. II. 60). Tuttavia, per il genitivo di mio, Lecce ha non lem ma tim, 
che apparisce tra le forme neutre, ma altro per certo non è che un 
genitivo maschile (di mio) del pari che timit (t'-im-it) dei mio. 

4 Nel lessico (146, 229), è ksijpóg !• forma attiva ghega, e kàìtióosp. ,a 
sua passiva. 

* E\d parrebbe l'spf tosco miei(H. IL 61). Lecce ha crai il mio, tornii 

miei, te mi ite t miei. — £ùj te jin leti, sin che siete. Per cbj 
il lessico ha ait» Il tosco hs, secondo P Hahn, jivi sì per estis che 
per sitis (al congiuntivo manca P acuto presso P H„ certo per isvista, 
cfr. Bopp, 1. o. p. 12), ma P esempio eh' ci cita a pag. 101 della 
sua grammatica, tratto dalla versione del N. T., ci offre jén= siate.— 
BéQÒovaQ(e) accecato^ ha bensì perduta Ve finale, ma non è forma 
ghega. 

• V. Canti Córsi, p. HO, 190, 252, 278-9: 




Kjvi te béiy x o NixoXó, — Kje pbku vi Attuino ? 

Sorgi, o capitan Nicola, — Cingi i lombi con piaatre-d'-argaato, 
Metti arma e pistole» — Acciò tu mi ti-scagli 4 come Ciooga, 
Come Cionga, come il Lepeojota, — Come Marco Bonari il SaljoU. 
Che ti tace? io, o Nfcofó,— Che tee re* ti in Anatolia*? 

Altra funerale èoaì lantetìta: 

Qóte wjiXa xje qi fijégge: — JfCov Ut ip £ot te fie xgije? 
Qeggét hit i* rde xcctova, — 0ite: tf fi oifbé fori fioia? 
Te (te (Mje, te fie viGije, — Te fie hlrtmje 7 te gfmrtfotfe'*. 

Dice la-»spadn, che reataai appesa,— Dov'è U mio padrone che mi tragga? 
Grida il-puledro in istalla, — Dioe: cosami s'**è**fatfo it-paérone dinne? 
Che a-me venga, che mi metta-in-panto*, — che mi monti, che scorra-intoraol 

1 forse meglio: che a te fa mestieri {sia affidato) il discorrere. 

s E fiévtte i /omW, le*, ti mesto, e forse V articolo indica sentirsi r aggettivo 

in qfuests espressione; v. p. seg., n. 5. L'Rahn nel lessico: JKfJé, Taille. 

Còsi il sanscrito m a d' j a m a vai medius, e coma sostantivo medinm cor- 

p**, the waist. 

3 Nel Cantoy V H. ha niixjóla. 

4 II fie mi messo per para energia, come noi diremmo: acciài* nei todc, 

e simili. Ne avremo altro esemplo. 



FRAMMENTI ALBANESI. IOI 

E per chiusa si tollerino tre indovinelli, presi tra le parec- 
chie diecine che l'Hahn ne raccolse. Il primo è tosco, 
del secondo abbiamo la lezion tosca e la ghego, il tor- 
io ò ghego. 

/. Àqa b bÌQÒ%\ (paga a fs'fe, $ potei* ut dógge, s xovag* ps góje. 

Il campo bianco, la semente ocra, la seminagiou colla mano, la rac- 
colta con la bocca. (La lettera.) 

II. t. babai na }jige\ tfàtiji uoqi* (Tsyége 7 , 
g. jac** na }jiue A 9 1 Mqi* fa* 6 Gèyig' 7 , 

Il padre non-ancora nato, il figlio imprese (fa) la guerra. (// fumo.) 

III. itaev, étaer, tjt gjovoue ba» . 

Cammina, cammina, una sola traccia stampa 9 . (La palla d 9 arM- 
bugio sparata.) 

Veniamo finalmente alla Memoria sulle Ungue furbe- 

1 L'Haho, qui ed altrove, scrive biade, ma nel lessico non trovo che 
bao& bianco, il cui femioile do vrebb' essere (v. II, S 14) baoS$ 9 v. 
però novve bagde s. f*. 

* E ubiti ed a xovag son participi fatti sostantivi (II. 87). Stando alla 

grammatica, dovrebbero suonare ubjéXe e xógge (II. 70-2, III. 71. a; 
IL 68, III. 48); nel primo, sparita interamente la e muta e ritornato 
T accento al primitivo poeto, s' ha nuda la radice (v. p. 95, n. *), 
del pari che nel secondo, in cai, oltre alla perdita dell' e, riapparisce 
il dittongo che è nel presente e io altra forma del participio (II. 68, 24). 

* Jar, da ji ed or, suo padre. Cosi TUalin nel lessico. 

* V. H. Il, 17. 

* Abbiam qui letteralmente suo il-flglio, di-lui il-jlglio (v. n. 3), non 

piuttosto r articolo preposto al sostantivo contro la regola che I 1 Hahn 
da per il tosco e che anco per il dialetto settentrionale si desumerebbe 
dal Lecce 1. e p. 141? Per certo codesta regola dovrà intendersi 
con restrizioni non contemplate dai dne autori; v. gF indovinelli ghe- 
ghi n. 7, 13, 19, (28), 35 e 76 ; e il less. s. or, e ancora la 
pagina qui accanto, n. 2. 

* È del verbo uao (IL 71), che vale io prendo. Il ghego ha semplicemente 

fa\ ma per ber, che sarebbe la forma tosca (bev), sarà probabilmente 
da leggersi bat\ com'è nelP indovinello che segue e presso il Lecce. 

* V. H. IL 32, 4. 

* Lett. (a\ v. la n. 6. 

i4 



ioa studi carnei. 

sehe, la quale d o» WBetteiimito. frUa prefazione «gli Stu- 

$ sulle lingua furbesche; pubblicati dui nostro autore pel 

1846. 

È avvertito in sul principio come da nessuno fosse 
posto peranco in chiara luce il fatto costante «che 1' uo- 
«mo stretto ad un patto sociale, oltre alla lingua genera- 
e le, comune a tutta la società cui appartiene, si studia per 
« lo più di formarsi un' altra lingua secreta, convenzionale, on- 
• de frangerlo impunemente » ; fenomeno strano d' assai e 
«di sorprendente generalità», siccome quello che* e? incon- 
tra, in più o men ampie proporzioni, presso le classi ma- 
lefiche non solo, ma eziandio appo tutte pressoché tutte 
le altre classi di persone, e sin dentro i confini delia so- 
eielà domestica. Codesti parlari segreti, gerghi* formereb- 
bero un «campo affatto inesplorato» sul quale il nostro 
autore si compiace di aver «chiamata per la prima volta 
T «ttenztalM. degli studiosi. » Ora, di più d' un gergo aven- 
do conosciuto il Biondelli qualche opera interpretativa \ la no- 
vità deU'iqjfogUip non può volersi riferire che alla speculazione 
filologica e- filosofica del materiale de" furbeschi. Ma pure 
in codesta speculazione non gli mancano valenti predeces- 
sori ; <* (fui mii contenterò di citare il, Poli, che ai secon- 

1 V. Saggio y p. 32-36.— I primi favori sui furbeschi rimontano ad epoca 
discretamente remota. Sul gergo italiano avemmo nej secolo decimo- 
sesto : Modo novo da intendere la tingua terga, cioè parlar furbe- 
sco (Venezia, 1549; v. Va ter, Lit. d. Gramm. ed. Jfllg v p. 192; Frtn- 
cisque-Michel, Études de philologie comparée sur V argot, p. 423) i 
Vocabolario defla lingua terga di Pietro e Giov. Maria Sabio (Ve* 
nezia, 1556), e Libro tergo da interpretare la lingua zerga y degli 
stessi (ib. 1575; il Francisque-Michel che prende, com' io fo,, il tito- 
lo delle ultime due opere da Vater-Julg, stampa per isbagKo Irta. 

r Maria Salio), Il Mithridates di Gessner (Zurigo^ 1555) reca un to- 
cabolario del rothwelsch, ossia della lingua malandrinesca d*AIemagna, 
e non è il primo. Del gorgo di Francia fu impresso un vocaboIariettQ 
alla fine del XVI secolo (v. Francisqpe-MicheJ, 1. e, p. XLVI b).— 
Dei furbeschi di Francia, d'Ai e magna (e d* Inghilterra), trattati di pro- 
posito non pochi lavori pubblicati nel séguito ; ma, prescindendo dalie, 
ristampe d' uoo de' lavori usciti nel secolo XVI {Modo ecc.), al furba-» 
sco italiano non veggo che opere speciali fosser più dedicate. 



GERGHI. 103 

dò volarne de' stìòi Zin§èni ha matèrno binanti una pe*. 
ziosissima Introduzione intorno a' gerghi. 

In due elassi dividonsi naturalmente, secondo il nostro 
autore (115), cotali idiomi; la primo comprende i furbeschi 
Innocui e semplici, i furbeschi di trentotto, il ed artificio 
consiste ■ nell 9 invertire P ordine delle sillabe nelle voci «o«- 
muni, o nell' interporre fra queste alcune sillabe convenzio*- 
nali», oppure in altrettali puerili procedimenti; ita seconda 
contiene i veri furbeschi, ossia « i gerghi parlati dai Varj 
artigiani, e sopra tutto quello de' malandrini » 4 Chiama fi- 
gurati quelli della seconda elasse, perchè a suo avviso con- 
sìstono in una serie di tropi e di figure convenzionali^ tra 
cui però si rinvengono alquante voci antiquate o tolte a lin- 
gue straniere (118). Codesto carattere figurativo costitnireb*- 
be F importantissimo fenomeno della «grande rassomigliaà*- 
%n che la lingua furbesca d' una nozione serba con quella 
d'ogni altra; dappoiché tutte concordano nel principio fon*- 
dementale di rappresentare gli oggetti per mezzo delle pre*- 
cipue e più ovvie loro proprietà o peculiari circostanze (113K» 
E dopo aver Subordinatamente notato che la simiglianza tra 
i V8ij gergbi appare ancor più manifesta in alcane omo*- 
nimie che non sembrano tutte opero del caso, il Biondelli 
Si vien chiedendo : • Come mai uomini di varie stirpi, se- 
parati da barriere politiche e naturali, nei segreti loro con^ 
ciliaboli hanno calcato una medesima tia, e formato se- 
paratamente più lingue, comecché dissimili di suono e di 
radici, affatto identiche nella loro essenza ?» La risposta a 
tale quesito psicologico è cercata dall'autore nella grande 
simiglianza che v'ha tra l'uomo rozzo che si accinge a for- 
mare un gergo e P uomo selvaggio ohe vien creandosi una 
lingua ; simiglianza d' autori che ingenera certa simiglianza 
nell'opera, mercè la naturale tendenza a rappresentare gli 
oggetti per mezzo delle più salienti loro particolarità. Così, 
a mo' d' esempio, la lingua zingarica « che, per la staziona- 
ria sua rustichezza e semplicità, può riguardarsi tuttora co- 
me primitiva », esprime • parecchi nomi d' animali e di og- 



104 STUDJ CEITICI. 

getti oomnni, nel modo stesso (quel dalle gratuli orecchie = 
Fasino; quella dalle due orecchie =1* secchia, ecc.), sebbe- 
ne con radici diverse, col quale sogliono essere rappresen- 
tati dai malandrini europei (114).» 

L' inglese Borrow, osservando come i gerghi « di con- 
trade diverse e discoste presentino generalmente questo me- 
desimo carattere metaforico», conchiudeva alla sua volta: 
« che il linguaggio dei ladri non è nato fortuitamente nei 
• diversi paesi dove oggidì lo si parla, ma deriva da un* u- 
« nica fonte ; inventato probabilmente dai malandrini d' un da- 
« to paese, e portato, col tempo, da gente di questa con- 
« trada, in altre regioni, dove si adottarono, se non le pa- 
« role, i principj di siffatto idioma. » D filologo inglese ri- 
conosce impossibile il determinar con sicurezza qual paese 
sia stato la culla del parlar malandrinesco; ma crede poter 
presumere che fosse l'Italia. Ciò sarebbe additato dal chia- 
marsi rothweUch ossia italiano-rotto il gergo di Alema- 
gna, e dal rinvenirsi ne" varj gerghi buon numero di voca- 
boli italiani o del latino dei bassi tempi. Ora, non essen- 
do presumibile che i ladri sien ricorsi, quasi per via lette- 
raria, ad idiomi stranieri, que' vocaboli dovettero esser pro- 
pagati da individui stranieri, ossia da individui venuti di quel 
paese che nel secolo decimoquinto era maestro in tutto e 
di tutti, sì nel bene che nel male l . — Ma, checchessia della 
prima parte del nome roth-welsch, la seconda non vi signi- 
fica, secondo ogni probabilità, che straniero, barbaro\ e non 
già italiano ; e l' argomento de 9 vocaboli italiani ne 9 gerghi di 
altre nazioni avremo a veder nel séguito quanto poco ten- 
ga pur desso. 

La somiglianza tra 9 diversi gerghi è cosiffatta da aversi 
a riguardare come una meraviglia psicologica col dotto lom- 
bardo, o da doverne inferire gettati i furbeschi l' uno sullo 



1 Ap. Francisque-Michcl, I. e, p. XXV. 

9 V. J. Grimm, Deutsche Grtmm., I*, p. 19, 20; Poii, Zigwner, U, 
241. 



GERGHI. Io5 

stampo dell 9 altro come P inglese vorrebbe ? Io sono ben lon- 
tano dal negare importanza filosofica allo studio dei gerghi 
e dal non riconoscere che in essi v'abbiano elementi non 
fortuitamente comuni ; ma, né le conformità ideologiche a cui 
si allude vengono a costituire quella identità di essenza che 
ci si vanta, né son d'indole tale che abbiano a farci ma- 
ravigliare, o ad indurci, perchè vi si aggiunga la comunan- 
za di un dato numero di vocaboli e di metafore, a non cre- 
dere i varj gerghi surti ne 1 diversi paesi V uno indipendente- 
mente dall' altro \ La società furfantina sentì per certo, dovun- 
que e in ogni tempo, il bisogno d' una favella secreta, <T u- 
na cobertansa, come bellamente in Sardegna si dice un ger- 
go. Nella impossibilità di ottenere il secreto mercè Fuso 
d' una lingua straniera che fosse familiare a lei ed igno- 
ta alla gente che V attornia, essa naturalmente è ricorsa agli 
unici mezzi atti a rendere occulta la lingua comune, lo svi- 
samento fonico, cioè, de 9 vocaboli di questa, e V enimma- 
tizzamento (ad adoperare un termine coniato dal Pott) del 
loro valore; ai quali artifici si aggiunse T uso di vocaboli 
strani o stranieri, potuti pescare nel proprio paese, senza 



1 Direi che anco il Francisque-Michel ecceda alquanto nel toccar della con- 
formili dei gerghi : Un fail qui ne saurait manquer de Trapper un c- 
sprit philosophique i V aspect de ce dialecte, e" est que par tout V ar- 
got est base sur le méme principe, e' eat-à-dire sor la métaphore (ib. 
XXIV). Immediatamente prima aveva però scritto : La métaphore et Y al- 
légorie sembleiit former en effet i' élétnent principal de ce langage, bien 
qu' il n' en soit pas le seul ; car il est bien certain qne, dans che- 
que pays qui possedè un argot, ce jargon contieni nombre de mota 
qui diffèrent de la langne de ce pays, et qui penvent étre rapportés 
à dea langues etraogéres, tandis qne d'entree ont une physionomie 
telle qu' il semble tout à fail impossible de déconvrir leor origine.— 
E il medesimo sagacissimo autore concede forse troppo al Borrow nel 
dire: qualora (secolo XVI) l'argot ait pria urne physionomie iouto 
nouvelle en Allemagne et en Espague, cornine en Franca, je le venx 
bien; mais qn'il soit éclos tont d'une piòce, un certain jour, dans 
despays differente et éloignés, à la suite de V évacuation de Y Italie par 
ceux qui se la disputaient, ou sous V influence des filous et dea va- 
gabonda qui eu élaieot sortis, e" est ce que je ne pois me réaigner 
à croire (ib. XXVI; dopo aver citato Enrico Stefano). — 



106 STUDI CRITICI. 

che sieno tuttavia a conoscenza del maggior numero '. Il 
tipo sintattico dell 9 idioma della rispettiva contrada conser- 
vasi illeso, non occorre {nasi avvertirlo, in meato alle tras- 
formazioni gergali \ e, salve non frequenti eccezioni, pure il 

1 V argot dei Theg o Phdnsigór, la nota catta o setta assassina dell' In- 
dia, presenta caratteri conformi a quelli dei gerghi europei, e orna- 
no per certo vorrà supporre che tal conformità dipenda da imitazio- 
ne. Io ne giudico su di alcuni saggi che uno amica me ne «stras- 
se dal XIII volume delle Asiatic Researckes (Calcutta, 1820); nel 
dar relazione del quale, lo Schlegel scriveva (Io di» che Biblici hek, I. 
X, § 2) : a I Phftnslgàr hanno una lingua furbesca, consistente in mo- 
tt di di dire figurati (verblttmte Redensartea), mercè i quali si ricono- 
* scoao e se la intendono in presenta d* estranei, scasa desiar so- 
tt spetti. „ Dal che parrebbe non trattarsi che di allegorie-eufemismi, 
quali abbondano anco ne* gerghi europei, in particolare nelle dizioni 
tecniche. Ma lo sflguramento fonetico non vi manca per certo ; in pro- 
va inumerali panódrd 5, serlù o cere 6, eatdrti 7, desru 
10, s vece degli indostanici pine, 6 eh, sàt, des. Perl, 2, 3,4, 
ho jeld, bitri, ssncód, uodli (wodli), nel primo de* quali v'ha 
senza dubbio il jek 1 persiano (indost. ek) col suffisso sfigurante 
la (cfr. se-rlu 6); bftrf 2 mi ricorda il he 2 goxeratioo, e la 
prima parte di; sa a co d 3 il sàm 3 siamese (cinese san); ma con 
questi ultimi ravvicinamenti non intendo avanzare che deboli ipotesi. La 
chiave di parecchie espressioni phansigarìche, starà probabilmente nelle 
lingue drlvidiohe (v. Studj, 264). Si tao oro ò forse da aita 
sanscrito bianco, come regata vale nel sanscrito stesso (v. Benfeg, 
Glbss. alla Crostoni.) bianco, argento ed oro\ m a h i piccone t (pick- 
aie) sarebbe un feminile insolito di ma ha o mah! sscr. grande-, 
c&fini coltello per tagliare il corpo morto (knife for cutting the 
dead body) è senza dubbio un feminile da enfine sscr. duro^ e con 
ciò un traslato identico al hfirtllng (da hart àuro') che vai col- 
tello, spada nel gergo di Alemegna, Hohamad can vale straniero 
musulmano, nome proprio ridotto a comune, e vedremo non man- 
care analoghi esempj ne'gerghi europei. Njamet, ohe nel linguaggio 
comune vai dettata, delicatezza (a delicacy ; è l'arabo n a c i: m a t), si- 
gnifica tra i Phdnstgdr: un uomo ricco. La frase che letteralmente di- 
ce spazzate U luogo, indicherà in questo gergo: guardate che nes- 
suno sia vicino. Kedba bahir parija la paglia è venuta fuori, 
dirà: Gli sciacalli hanno estratto il cadavere, non andate per quella 
strada. — Una raccolta lessicale, molto più abbondante di quella che 
8* ha nelle Asiatic Researches, è il Ramaseeana, orVocabulary of 
the peculiar langaage used by the Thugs, with an Introduction, by 
capi. Sleeman, Calcutta, 1836 (Journ. as., oct 1837, p. 397). 

9 Anco le parole straniere obbediscono- inevitabilmente alle leggi sintattiche 
proprie dell'idioma che forma il fondo d'un dato gergo % ad es. nel 



GIUGO. H>7 

grammaticale. Vocaboli creati di pianta e meni in giro tra 
i feyetlmtì il gergo con un significato applicatoci per me- 
ra convenzione, o mutamenti di significalo seni' altro mo- 
rente che il paro arbìtrio conveniionale, Ma vo' negare che 
possa»* esistere; ma sosterrei che noi possano dovecbessia 
se non In numero insignificantissimo. Onomatopcje gergali si 
àaaoe. 

Lo svisamento fonetico, di oni taciono stranamente am- 
bo i nostri autori nelle loro caratteristiche de" farseschi 1 , 
non ò di granhinga esclusivamente proprio a' gerghi di fra- 
$tullo, come potrebbe credersi da chi legge il Biondelli ; ma, 
od è anice elemento dell' idioma furbesco, o va unito agli 
altri due principali che mentovammo di sopra. Parrebbe e- 
sclusivo in un gergo che atfoperan li Zingari spani nei 
Pirenei baschi (Zingari che hanno adottato la lingua del pae- 
se), dicendo, a me' d'esempio, per Janna, che in. basco 
vai signore, jau-pau-na-pa 2 . «Una delle forme del- 
l' argot russo*, ne riferisce il Francisque* Michel (L e., p. 479), 
consiste nell' inserite certe sillabe convenzionali tra quelle 
della parola che si vuol rendere incomprensibile. » Klaproth 
sa di' più lingue seerete che i Circassi usano nelle loro scor- 
rerie hdrenesohe; una delle quali, detta Fartìpsé, è là Ra- 
gne soRta, • insertaci ri" o fé tra d' ogni sillaba 3 . • Il ca- 
pitana Davide Richardson, nella sua Memoria, sui Bàitgnr, 
schiatta nomade dell'India 4 , ci dà eontensa di *due tìnguag- 
« gi peculiari eh* essi hanno ; V uno adi uso dei caporioni 



EOfthwtUck (Poi f, 1. e, p. 30) gohdel me le eh gran re (per Dio)* 
voci ebraiche tutte e due, la. cui collocazione andrebbe infortita aeia 
luogo della tedesca si seguisse la sintassi ebrea". 

1 Non d però trascurato ne' maestrevoli delineamenti deli Fott, £ùy. H 12, 
cft. 2. 

* Francisque-Michel, o. e, p. XXVnt Questi Zingari hanno ancora * uq 
argot partienlier, dans lequel Iti fais signifiera nom faisons, et voler 
une pièce de toile se dira voler une queue, etc. „ 

3 Citato dal Pott nella ZeiUchrift a\ deutock. morgent. GeseRsck, VII, 

391-2. 

4 AnaUck researches, ed. London, VII, 451-79. 



ioS stuw ciana. 

« (craftsmen) soltanto ; P altro cornane ad nomini, donne e 
« fanciulli. L' indostano è la base d' ambedue ; il primo ò fatto, 
« in genere, per mera trasposizione od invertimento di sii— 
« labe (traosposition or change of syllables) , e il secondo 
« è patentemente nna conversione sistematica di alcune poche 
« lettere, locchè sarà chiarito nel miglior modo dallo speci- 
« men che segue. » Ed ecco, riprodotti ad literam, dieci tra i 
ventidue esempj eh 1 egli reca: 
Indostano. Bdzlgar L Bàztgar IL 



Af. 


Ga, 


Bans, 


Suban, 


Dum, 


Muda, 


Lumba, 


. Balam, 


Mas, 


Samu, 


Omr, 


Muroo, 


Peer, 


Reepu* 


Qeella, 


Laqeh, 


Róoburoo, 


Buroo Roo, 


Sona, 


Na«so, , 



fuoco. 

bambù. 

respiro (breath). 

lungo. 

mese. 

età. 

Santo. 

un forte {fortificai.). 

opposito. 

oro. 



Kag, 
Nans, 
Num, 
Kumba, 
Nas, 
Komr, 
Cheer, 
Rolla, 
Kooburoo, 
Nona, 

I Panéplrl (Panchpeeree), ne soggiunge il Richard- 
son, che « si considerano appartenere alla stessa classe cui 

• spettano i BAzlgar, e vanno con questi, sotto la denomi - 
« nazione di iVttf, hanno essi pure, un gergo particolare, sta- 

• bilito su principj consimili a quelli del gergo dei Bftzlgar \ » 

Sin qui avemmo, o ritenemmo avere, la disfigurazione fo- 
netica per unico spediente critiolalico ; ora contempliamola 
in gerghi che di essa non si valgono se non in limitate 
proporzioni. Per invertimenti di sillabe o di lettere trove- 
rem nella germanìa, cioè nel furbesco di Spagna 2 , taplo 
dallo spagnolo piato, per tondo, piatto, e varj consimili 
esempj, che già il Pott ha raccolti (Zig., IL 18). ai quali si 
aggiungerà d e m i a s per lo spagnolo m e d i a s cahe. Nel- 
V argot trovo poco di consimile: lorcefé per La Force 

1 Ib., p. 463-4,466. 

• Seo diétingaerebbero, fecondo il Borrow, due dialetti, P antico e il mo- 

derno. V. Poti, Zigeuner, I. 10.— 



GERGHI. 109 

(prigione di Parigi) e lorgne-b per borgne, ne' quali, in 
luogo della falsa iniziale, che probabilmente è l'articolo, va 
posta la consonante che viene in sulla fine, come nelP e k el- 
beh schiena, gobba del rothwttlsch (Pott, ib.) per b-u^kel 
gobba. Un terzo esempio, sfuggito alla sagacità del Fran- 
cisqne • Michel, ò 1 i n s p r é prince, in cui si pronuncia inver- 
titamente le ns-pre a vece di le pre*ns\ Non son rari al- 
l' incontro nell' argot gli svisamenti per apocope : e m m e 
commerce, r ed ara (per rédemption) grdee, autor autorità; 

per aggiugninfine, come : 1 a b a g o là-bas, lago ici, nel 
qual ultimo parrebbe unirsi un mascheramento ideologico al 
fonetico, icigo ed icicaille ici\ nonsailles nous, 
vouzaille vouzuigaud vozière e vozique t>ou$*, 
bouscaill e bone, boursicaut bouree; per capriccioso mu- 
tamento della parte finale del vocabolo : billemont bUlet, 
promont procès, gilmont gilet, briquemont briquet, 
eabermont cabaret, Versigot Versailles, Toulabre 
Touton, Lilange (do LilP-en-F. ..?) Lille en Fiandre, in- 
golpò insolent, guichemar guichetier (cfr. più innanzi 
cochemar), burlin bureau, prófectanche préfecture, 
portanche portier, boutanche boutique*. V anck tro- 
vo anche aggiunginmezzo, forse in origine con senso frequen- 
tativo: broder e brodancher ècrire\ pitancher 
boire, accanto a pier e picter che valgono il medesimo; 
river e rivancher faire r oeuvre de chatr; doran- 
cher dorer f Esempio d' altra epentesi vedrei in b ir li b ibi 
jeu des dès et coquilles de noix, che sarà il b i r i b i 61- 
ribisso dei dizionari ; ed uno di semplicissima alterazione fo- 
netica è boutoque boutique. Nel gergo di Danimarca, che 
ha moltissimo di comtme col rothwalsch, troviamo, con suf- 
fisso disfigurante, e r d r u m per il tedesco e r d e, e r <P, terra, 
landrum per land paese, ed altri simili. Sagum col- 

1 V. ancora Fr. -Michel agli articoli pàio*, loffe e verter (serrer). 

* "Icicaille, icigo, tet; expreasiona da Jargon. n V. p. XI, e la n. 53. 

* V. più avanti, Ira lo - consuonante. 

4 V. F.-Michal p. 70 a, alt linea (dopo 6011/0») piUer de boutanche. 

il 



no STUDJ cunei. 

tolto però, che il Poti (o. e. IL 33) vorrebbe aggregare a 
eotali formazioni, è il giudee&o s a o k u m (ebr. p?p s a kk i: n), 
proprio eziandio del rothwalsch. Finte derivazioni, consimili a 
quelle che or'ora vedemmo, sodo in quest'ultimo gergo eimer- 
ling per eimer secchio (misura di liquidi), haarlinge per 
haere capetti, mtttzling per mtttze berretto. Più volte, 
nello svisare la terminazióne <Tun vocabolo, i gerghi riescono 
a trasformarlo in uno dT senso affatto diverso; cosi l'or- 
£0f dice arsenal per arsente, batelier per battosr, prò- 
phot e per profonde, ossia, secondo la metafora di quel 
gergo, cantina o tasca. Questo prophète potrebbe dirsi vo- 
ce gergale innalzata alla seconda potenza; e l'importanza 
furbesca degli' oggetti ch'essa accenna, ben ci dà il per- 
chè della squisita elaborazione. Da orfèvre si fece orphe- 
lin, da Guibray: Giberne, da poisson: poivre; fllòu 
s'è amplificato a Philibert, ne* a Nazareth, ena- 
oet a Navarin. Nella germanla, per catenaccio si dirà 
carro n in luogo di cerrojo, mentre il vero valore di cer- 
ron è tela grossolana. V alterazione fonetica involve spes- 
so del significativo, sia col ricordare un sinonimo, sia col 
ritrarre qualche attinenza della persona o della cosa che è 
nominata, sia coli' offerire allusioni o travestimenti burleschi, 
sarcastici. Così nel rothwalsch abbiamo, in luogo di brei (pol- 
tiglia), brappert, per certo, come osservò il Pott, con 
influsso di pappe, che è sinònimo di brei in qualche vol- 
gare ; e il suffisso vi starebbe per secondo elemento dis6~ 
gurativo. Nella germanla, per ventano (finestra), s' ha vento- 
s a (ventòuse, soupirail). M a d r i e e, m a d r i n malizia, ma- 
ligno, dell'argot, presentano madre nelle vèsti di malusi ver- 
ni ois sangue, è termeil ridotto a ricordare il mese, il mestruo 
(v. Fbancìsque-Michel). Si sentano ancora : co eh e m a r per 
cocker; philanlrope per filou (tenne des màrchands fo- 
rains), e d e r, die z w i s t del rothwalsch (letteralmente tf, 
la discordia), per der, die zteeile, il secondo, la seconda, 
altri (Pott, IL 13: Zweiter, e, andere). Talvolta può avve- 
nire che si finga un nome proprio mettendoci per base il 



OEKGBL 1 1 1 

vocabolo ohe si vuol velare, al quale per questa via si so- 
stituisce una perifrasi; l'argot p. e, ha pivois (=vin) de 
Blanchemont vino bianco, e Blanchemont non 00 che 
aia vero nome di luogo. Nel termine contrapposto, per vino 
rosso, pivois de Rougemont, abbiam forse all' incon- 
tro uno di quo 9 veri nomi proprj ' che servono a perifrasi gergali 
perchè contengono, direi quasi in forma gergale, il vocabolo 
che si vuol nascondere; artificio che si ritrova anco fra la 
comune del popolo, come nel toscano mandare in Pie- 
cardia fare impiccare; nel veneto mandar a Legnago 
bastonare. V argot dirà: aller è Rouen, se rwner\ il 
furbesco*: redi Cappadocia cappone, re di Grana-» 
ta frumento. 

Qui van poste altre applicazioni di nuovi significati, che 
hanno la loro intera ragione nella coincidenze, fonetica, proce- 
denti come sono da abuso gergale di omofonie e sinonimie. So- 
1 i r volle dir ventre nel gergo francese, non per altro che 
per la somiglianza fonetica di questo nome col verbo vendre 
che nel gergo stesso si dice soìlir (F. M,); — nel roth- 
wttlsch s'ha dieren per seminare e per e^&ri, nel te- 
desco essendo quasi omofoni séien (seminare) e sfhen (ve- 
dere); barsoi {ferro in ebreo) per ferro e per ghiaccio, 
atante P omofonia di eisen ferro e eia diaccio (Po(t, 1. e, 
20, 36); philosophe è nell'argot marnai* Aotrtfcr, e, il 
Francisque-Michel (malgrado philosophe = misérable, p h i- 
losophie=misère, pauvreté) pensa che sia per la somi- 
glianza tra savant e savate* ; balamjoire traduqe, se- 
condo lo atesso autore, fronde e fronde, perla lqroqwsi- 
omofonia 4 . — Esquinter valendo, in argot frjartinrer, bri- 

1 Rougemont è il nome <T una borgate di Francia e d' qd yillaggio irii- 
zero. 

• Per furbesco dello aseolatamente, a* intenda H gergo italiano. 

* V. Poti, IL 27. 

4 V. ancora Francisque-Mickel, a. mon/otr, e ai aenta: •dix-huit, 
aoolier remonté 011 ressemelé, on pldtftt réderenu neufttfoh eoa nom 
grottesque de dis-kwt, on deus fois neuf (Paria anecdota, f. 165)m» 
— Cfr. Poti, 11. 30, circa l' oapanto della gennanla. 



j 



1 il STUDJ CRITICI. 

ser, che nel linguaggio famigliare ai direbbe ablmer (cfr 
il nostro subissare), se ne tira un sostantivo gergale e s qu i li- 
te abtme; dégui (apocope di dèguièement) è il dominò 
(giuoco), perchè dominò è anche una specie di maschera 1 . 
Sono trasponimene ideologici dalla base fonetica. 

Atala categoria si ascriveranno anco le espressioni ger- 
gali il cui artificio consiste nell'etimologia falsata 2 . Nell'ar- 
got: poignard, habitqui revient ao tailleur pourétrere- 
touehé, pour avoir uir point , poignarder, retoucher 
un habit (argot des ouvriers tailleurs); cerf-volant, 
femine qui attire les enfants dans les àllées ou daus des 
lieux écartés, pour les dépouiller (serf-volant, servo-rubante); 
e r a q u e 1 i n menteur, nel linguaggio comune « une sorte de 
gftleau», ma per l'argot come derivasse da craquerche nel 
parlar famigliare vale mentir. Nel furbesco: cristiana berrete 
ta, come se da cresta ; alberto uovo, come se da albo, al- 
bume. Nella germanla : 1 a d r i 1 1 o (che vai mattone, laL fato») 
per ladron ladro; salterio (salterio) per salteador voleur 
de grand chemin; ti rana (tiranna) per finestra, come se 
venisse da tirar 3 (Pott, ib., 13. 21. 29). Più volte, la tras- 
lazione del significato non si fonda sulT analogia fonica, ma 
si direbbe che in qualche guisa vi si appoggi; come Tes- 
ta e a (propriamente pinolo) che vale daga nella germanìa, 
tra per metafora burlesca e tra per Y assonanza con daga\ o il 
soffia (Biondelli nel Saggio) del furbesco per spia. 

Arriviamo al vastissimo campo delle trasposizioni di 
significato che hanno ragione puramente ideologica. Qui ci 
si para dinanzi la più strana congerie di figure epigram- 
matiche, burlesche, stravaganti, arditissime, oscene, sacrile- 
•ghe, frammiste ad altre che riflettono serio e rigoroso pen- 

1 V. Francisque-Mickely ai rispettivi articoli, e vi ai consultilo 

ancora: ohopin (e ho per); cave; calè; dauffe, monaci- 
gneur le dauphin; crier au vinaigro; morgane. 

2 Qualcheduno- degli eaempj ohe seguono avrebbe forse a stare fra le vo- 

ci dall' incita sfigurata (p. HO). 
* Forse v' ha pure allusione a tirane, ebanaon espagnol, son air. 



GERGHI. Il3 

siero o il candore delle primitive creazioni idiomatiche. L a 
produisante ò, nell' argot* la terra; la perpetua nel 
furbesco V anima, che pur vi è detta salsa 1 , non dal te- 
desco $eele (anima) come l'Hervas voleva, ma nò tampoco 
per pena, tormento come ingegnosamente suppose il Poti, 
certo fidandosi della Crusca che dà questo senso metafori- 
co a salsa per chiarire il noto passo di Dante; bensì ad 
indicare quella daW ingegno, cioè dal gale, giusta il noto tras- 
lato di so/e per Benno. La rubiconda, la sangui- 
nosa, vi è la vergogna; velo ci vai corpo; veloce, ora. 
Nella germania : cierta è morte; espina, sospetto. Nella 
hantgrka, gergo da' ladri boemi, wlastnjk (proprietario, 
il vlasnik dei serbli), significa padre. L'argot dirà: sca- 
tenante alla canna, nageoir al pesce, momnte alia 
lima o alla sega, douce per seteria, changeànte per 
Urna, cassante per noce, dente, lainó per montone (germ. 
velloso, bélier, mouton);nel rothwttlsch: breitfuss (dal 
piede largo) anitra, plattfuss (dal piade piatto) oca, sohmal- 
fuss (dal piò stretto) gatto. La muette vale nell'argot lei 
coscienza, che più sinceramente ò detta, presso Shakspeare, Don 
FefaiefDonWonn'); l'endormi il giudice, che ò hustey 
nella hantgrka, cioò il grosso ;roue, interrogatemi courease, 
piume à écrire; incommode, réverbère; laità bro- 
éer, enere; lycóe, prison; marchand de lacets o 
solliceur de lacet (y.sollir ap-111), gendarme} botte 
à cornea, chapeau; boiteux d'une chajse (chas~ 
se = oeiI), borgne; bride, chaine deformai, ótre bride, 
itre ferrò et prèt à partir pour le bagne; bourre-co- 
quin, haricot; éponge d'or, àfone; lessiveur, blan- 
ehisseur, avocai, quegli che ha da lavar le colpe ; nella ger- 
mania:. secreto, pugnale; sereno, sfrontato; sombra 



1 V. Hema ap, Pott, II. 2; Biondelli, Saggio, $. 74: cuor*, anima. il 

Franciaqne - Michel ha solamente: eoevr. 
* If Don Worm, hia eoneoience, find no ioipediment to Che contrary. Much 

odo obout uotkmg, atto V} v. Franciaque- Michel, p. 471, a. 



Il4 1TGDJ CRITICI. 

ombra), giusUsia; da end e (spirito folletto) truppa che fa 
la randa (Porr, ik, 41); nella. hontyrka: lopicz (masna- 
diero, cfr. serbi* lnpej) per carceriere o simile. Nel fur- 
besco: spalare, spacciare a credenza, esagerare (hàbler), 
che ricòrda lo sperticato della buone lingua ; allungar la 
vita, essere appiccalo; alzare^ fare, bere, fiorire, 
pizzicare, servire, tutti \>er< rubare; pesare, colla- 
re, dar la fune*, star su, fidare; ammazzare, vendere 
(tirar el colo a... si sente a Venezia per esprimere ugual- 
mente il rèndere, forse il vendere per necessità); attac- 
caticci, parenti; bacehetto v co//eZ/o; dannosa o ser- 
pentina, lingua^ santa, 6or*a; birba, elemosina; te- 
diosa, predica. Fra. le più belle creazioni gergali porrei: 
créateur, peiutre; bratal, canon; caméléon, comr- 
lisan; centro (quasi scopo) nom propre 1 ; triage, une 
foie; frale più graziose: soeurs blanches, dents; dé- 
flèurir la picouse (spogliar de 9 fiori la pungente), voler 
le Unge étendu sur leshaies; fra le più burlesche: era- 
vate, arc~en*ciel; cupi don e amour per chi/fonnier, 
comparata la gerla di questo povero mestierante alla fare- 
tra di Cupido, e carquois ({uretra) vale di fatto noli' Ar- 
got gerla da cenciajuolo*; nel cani, gergo inglese: snow- 
ba 11 (houle de: neige), negre; lily-white (blanodelis; 

meglio: Candido come il giglio), negre, ramoneur; k no. ir- 
le d g e-b ox (botte à connaissance) téle (Fiuncisquh -Michel, p. 
471-2); nel rothwalscb : scbneepflanzer (piantatore 
di neve) tessitore di feto (Leinweber) ; steinhanffen (muc- 
chio di pietre) qittà$ bachkatze (gatto dal tiro) pietra, 
sasso. ..>.,.. . • y : 

Il procediqaento; tropologico può condurre a quello scam- 
bia di significati per cui A vai <ft, e B vale A* ;E fufrao- 

1 Bagno, bagout, centro, nom propre. II ya ici allnsion aaz noni 

des mallaiteurs, qui sontle point de mire de tons lei eflbrts, cornate 
le centro d'une cible et les anneaux d'un jeu de bagno. Franfiiqu,*- 
MieheL ' 

• Carqtìoif, ooquille, botte do chiffonmer. 



.' < GttGHI. - ni 

cadere, direi <{tiasi involontariamente, che il furbesco ò il 
linguaggio comune valetìdosi metaforicamente di A in luo- 
go di B, B sia poi adoperato nel furbesco per A, ahche 
se per questa seconda traslazione la spinta ideologica non si 
senta affatto o si senta in misura assai debole; cime sé p. e. 
si venisse a dir pugnale per secreto in seguita all'uso di s e- 
creto per pugnale. Più d'una delle espressioni gergali che 
ci appariscono assolutamente enigmatiche* avrà la sua ra- 
gion d' essere nel fenomeno ora accennato. Esempj chiari di 
scambj di significato sono: b èqui Ile (stampèlla) per forca, 
nell'argot, mentre ò tra il popolo potences (fórche) per 
grucce; elle (misura d' nn braccio) per miglio, lega,,n*\ roth- 
wfilsch, mentr' è del gergo stesso m e i I e (lega) per bràccio; 
sapienza per tale, nel furbesco, il rovescio di sale per 
ingegno che ò del nostro linguaggio popolare '; maldicen- 
te, nel gergo stesso, lingua Malata, rovesciamento della me- 
tafora lingua salata yer uomo maledico; maro h te ' (cioè 
maritai per capro, becco, dall'uso ingiurioso di becco per 
marito*. Quest ultimo esempio riunendo anco la disfigura- 
tone fonetica è un altro saggio di doppio processo enirama^ 
tissatore, da pomi allato a prophète ed a vermoii (p. 110). 
La formazione di nuovi vocaboli per mezzo di .suffi#- 
ai, è ne' gerghi quasi sempre un ausiliare del procèsso trc*- 
polonico. Il suffisso serve a derivare, o semplicemente a di- 
stinguere, ad affannare, e può farsi talvòlta, anco presso a 
traslati, semplice elemento fonico disfigurante, quale 16 ab- 
biami veduto presso a vocaboli conservati neir accezione 
Comune» È superfluo avvertire eh© le formazioni di cui di- 
scorriamo possono trovarsi affette d' altri accidenti gergali. 

1 Potrebbe inmaginarai che il nome di sapienti* telila al sala dal dar 
sapore^ dal render* l'opposto tf insipido. Il Francisqae-Michel «IP in- 
contro (p. 482, a): Allnàion à Pene dei cérdaonief da ^aptèmfc, i>fr 
le eéìébrant placant u graia de tei dani la boocfae dn ndopbyte, lui 
dit: Accipe sol sapienti*. ~- Il gergo Zagorìno (Albania) dice u anal- 
mente, come a? verte lo èteaao Fraaeiiqrie-Miche!, ytmtri («mosca dm, 
cognisione) per sale. 

* V. aopra, dflT abuso delle sinonimìe. 



I 



u6 studi carnei. 

Nel rothwttlsch : g e 1 b 1 i n g (da gelb giallo), frumento ; h e r t- 
ling (da kart duro), coltello, spada; grflnhart (da grUm 
verde), prato, campo seminato; rauschert (quasi romo- 
reggiatore), pagliericcio l ; nella hantyrkà : p o t o p k y (Porr, 
IL 37), calzoni, da potopiti sommergere; nel furbesco: 
s e r e i o s o (veneto sercio per cerchio), coppello, anello ^ai- 
cosa, terra; longano, anno, con assonanza a quest'ul- 
timo; longente, lenzuolo; duroso, ferro. Nell'argot: 
b a r b i e h o n , capucin; b a t o u s e, tolte (sbattuta nella prepa- 
razione); batif, batifonne, neuf, nemoe, per allusione, 
secondo il Fracisque -Michel, alla tela che si batte quando 
ò nuova, ma forse piuttosto da bfttir fabbricare. In fer- 
tillante, piume, festilliante, queue, e juilletiser 
détróner, abbiamo tre belle creazioni verbali dell'argot, che 
posson qui collocarsi; V ultima è un vero medaglione sto- 
rico. Composizioni derivative, che quasi si direbbero per- 
sonificanti, abbiamo in darkmans (cant; da dark oscuro, 
e man uomo), notte; togemans (cant), vesta [robe, toga); 
e r d m a n n (rothwfilsch ; terra-uomo, uomo di terra), pentola ; 
dickmann (rothwfilsch; grosso-uomo) uovo; feldmann 
(uomo del campo) aratro; i quali ricordano il brigmann, 
sabre, dell'argot \ Quest'ultimo gergo ha una derivazione 
personificativa in pòro Frappartper martello, che di 
la mano ai finii nomi proprj sul gusto di Jacques Déloge 
(prendre Jacques Déloge pour son procureur=s' evader), o di 
Abbaye de Monte-à-regret, autrefois la potence, a+- 
jourdhui la guillotine. 

Se i gerghi fingono qualche nome proprio, non di rado 
riducono all' incontro i nomi proprj a nomi comuni od a radici 
di nomi comuni. Non hanno bisogno di commenti: judasse- 



1 Quatti quattro vocaboli ha HBiondelli nel Saggio; l'ultimo è da lai rea© 
per sacco di paglia^ oha mi par traduzione troppo letterale dallo Sfiroà- 
sack (Pott, II. 34: raasohart, Stroltaaek), pagliericcio. : 

* Fraooiaque-Michel : altération voloataira de òriqmet (acaieriao)* lame eav 
praote* à l'argot par notre laagae, où il déiigne un aabra coort al 
an pen recourbé 



GERGHI. 117 

r ics dèmonetration trompeuee (Tamiliè; job, «mi*, j L\er i e, 
miaieerie; bourbon, ne* Lillois, filàcoudre, verrà da 
mie; e 1 in gre, couteau,è Langres (anticamente Leugre*)* 
■mio di città, la quale tuttora, a quanto ne insegna il Francisque* 
Michel, ò celebre per lavori da coltellinajo ; così Orléans, 
einaigre; mirecpurt, violo*; e più altri. Gotbon, eh» 
ò Marguerite, vale fitte de joie, forse perete in Marguerite 
l'argot sente il m a r q n e che gli vale fiUe. Giorgio, fuo- 
on, del furbesco, ritengo allusivo alle fiamme ohe divam- 
pano quando s'arde il Giorgio 1 . Nel rothwftlsch, l'hana 
Giovanni, scorciamento che oggidì sente di burlesco, viene 
in eerti composti a significare scherzosamente : uomo, indi*- 
eiduOf quel tale, e quindi a far quasi da semplice suffisso; 
ad ea. blanhannse, quasi Giovane -azzurro, $etprugm\ 
Così michel Michele in langmichel Michele-d-lungo 
per spada. Nello stesso Michel, i tedeschi, com' ò notorio, per* 
Bonificano poco lusinghevolmente la propria nazione, e il 
Franeisque-lficbel ben si apporrà nel credere che ciò abbia 
contribuito a far che in Francia s'applicasse questo nome 
ai sempliciotti 3 ; anzi par tolta di peso dall' Alemagna la for- 
ma mikel, vocabolo col quale i tireurs de-carte$ dinotano 
in Francia il buon uomo che presta fede cieca alle loro pre- 
dizioni. E veri nomi di nazione di parti della propria no- 
zione sono adottati spesso con senso dileggiente ed oltrag- 
gioso da chi usa i gerghi; ad esempio tallien nel roth- 
wllsch (presso il Biondelli) carnefice, bqja, che crederei cor- 
ruzione A' italiano, italiener; gre e è nell'argot il furfan- 
te che esercita la sua industria al giuoco; greek è ter-» 



1 Vedi fare il Giorgio nella Crusca. — Circa maccabe, machabde, 
mo?**, r. Pranciaque-Mioftel 1. ▼., ecfr. Qrimm, DeuUcke M$tkolo+ 
gie, 3* ed. p. 810-11. V. ancora pregio Francuqae-Michel : laqae, 
greluchon, tempie* chioard, e qualche esemplo nell'elenco 
dei termini gergali traili da Shakapeare. 

* Poti, I. e., p. 36, ed aggiunge siehs 06**, ma pie indietro nulla seppi 

rinvenire intorno a questo vocabolo. 

* 0. c^ p. 260, a; per application! concimili d'altri nomi proprj, r. ib. p. 

269-70, 18. 
i5 



Il8 3TUDJ CAITICI. 

mine gergale per ruffiano presso Shakspeare f ; nel furbesco; 
f o r 1 a n o borsajuolo, furiano ubbriaco, baggéo, b o 1 o g n a- 
re rubare, vendere, cui son forse da aggiungersi: fran- 
zoso bevitore (franzaja è boccale) e spagnuoli pic- 
cioni. Air argot) espagnol è pidocchio 2 . Più osctiri mi 
riescono altri convertimenti di veri nomi proprj : il furbesco 
ha martino (cqn più d'un derivato) per coltello, pugnale, 
forse nel senso di coso, di N. N., di quel che non si può 
e non si vuole nominare 3 ., mentre V argot ha m art in per 
idée, projeL Oliver è, nello slang (gergo inglese), luna, 
e potrebbe vedervisi V astro della notte rossomigliato ad un'o- 
liva; maria, nella germanìa, cassa (arca), forse dalla ima- 
gine che non ci mancherà mai; nelP argot del soldato: j a q u e- 
line, sabre de cavallerie; pi ero è mantello nel furbesco, 
e ritorna nel pedro habitde voleur che il vocabolario spa- 
gnolo ci dà per termine popolare, quando, nello slang, pe- 
t e r è air incontro porte-manteau (F.-M. p. 473). Hans von 
6 e 1 1 e r (Gian-di-Geller) è nel rothwàlsch pan bigio (grob Brod). 
Chi pensi agli innumerevoli enimmi che in so racchiu- 
de il favellìo d' una intera nazione, ogni città, ogni borgata, ogni 
contrada starei per dire, avendo in ogni epoca le sue peculiari- 
tà idiomatiche, ingenerate da mille specie d'accidenti assai 
spesso imperscrutabili ; non maraviglierà per certo allo scor- 
gere ne' varj gerghi un buon contingente di dizioni che sem- 
brano voler perennemente restare quesiti etimologici inso- 
luti. La quintessenza della parte più recondita dei vernaco- 
li, messa in serbo, chi sa da quante generazioni, dalla so- 
cietà furfantina, e* sottoposta per soprassello ad artificj ger- 
gali, quanto mai di stravagante e d'impenetrabile non po- 

1 V. tncon Ethiopiao, Hnngarian (Go ngorian), Tartariao, 
Trojan, presto il Fraocisque-Micbel, p. 468-70. Air incontro : Bphe- 
sian, Adele, loyal. 
* V. il pou espagnol presso Francisqoe-Michel, s. Espagnol 
3 Cosi i Veneziani dicono mar Un al podice, mentre i toscani coso al 
pene. Martino tra noi viene anche a valor semplicemente «n iole, «no, 
Timo. In milanese : Martin bon stomegh, ano che le manda gii 
con facilità. Cfr. Vkans del rothwàlsch. 



GERGHI. 119 

4rà offerire? Agli oscuri esempj che incontrammo neir ul- 
tima categoria, s' aggiungano, per secondo saggio, i seguen- 
ti che mi offre Yargot: biblot, outil d'artisan 1 ; battre 
inorasse, crier au eoleur; arcai, le fait d y ècrire une 
lettre de Jérusalem, cioè una lettera diretta a scroccar da- 
nari; ìaszi-loffe, maladie honteuse; tailbin, effet de 
eomplaisance; daron, daronne, pére, mère*; arvé, dn- 
pe ; p a e q n e 1 i n, pays. Di rincontro, ci si affacciano in chia- 
ra sembianza vocaboli gergali di colore antico, presi sen-» 
■a dubbio pur questi, tutti quasi tutti, ai vernacoli, ma 
forse in parte oggidì periti ne' parlari onde i gerghi li tras- 
sero. Il furbesco ha cobi (lat. cubile) per letto 3 , ruffo 
(cioè rosso, lat. rufus) per fuoco. Neil' argot troviamo : p o i e 
in quel-poique o que le poique, rien, che è il pan- 
ata lat., pane provenzale, od anzi il poi e, che, stando 
al Francisque-Michel (346), v' ebbe, per poco, nelF antico 
francese; e s e u te, oreiUe (« terme du dicttonnaire du Jor- 
gon*, nota il Francisqne-Michel); esquinte r, rompere, 
mandare in pezzi, antico provenzale esquintar 4 ; està- 
phle, e s tabi e, poule, che mi parrebbe l'estable (stabu- 
lum) provenzale, applicato alla guisa del nostro stallone, dello 
stabula dei latini per armenti; estampiller «marquer 
un criminal d'un fer chaud»; bousin, tapage; faire 
Pesgard, 0, per apocope, faire l'esque «détourner 
à son profit partie d' un voi >, dov' è la forma antica di ècar- 
ter, ossia scartare, adoperato obliquamente, nel senso di fare 
uno scarto a proprio vantaggio; étre chaud, se défier, 
dove chaud ritrae l' antico caut, non nel senso di calidus, ma sì, 

1 La bibbia de ir artigiano? ' 

* Cfr. dabe 9 dabease o da buche, roi, reme, mota employéa aree 
le aena de pére, de mère, dans ©ette traduction argotiqa*....; bir- 
be-^abe (vecchio-padre), grand-pére. — Durbi è padre nel gergo 
dei calderai di Valsoana {Biondello Studii tallo lingue furbesche, 
p. 45). 

9 Biondello I. e p. 58. 

4 Sarebbeai mai tratto da quinto uno squartare, quasi un accrescitivo di 
squartare, squarciare? V. all'incontro Die*, Elym. Wórterb., p. 490, 



u# studj cuna. 

cono egregiamente awertisce il Franciaque-Michel, in queHe 
àicemtue; cambriole, chambre, eambriolear «vo- 
leur de chambre. ..•»; e cambriola è dell* antico provensa-» 
le; tractis, doux, maniable, che è dell'antico francete 
(F. •• M.); b a 1 a n e e r, jetcr, abolire, adoperalo ngualmetv» 
te per lanciare nell 9 antico francese e nel provenzale ; m o n- 
m, mouEQ, teton, mantelle \ provenzale moderno mo il- 
io r (da nn più antico monter), mungere; attiger, ble*» 
•er; escarpe r, auassiner, « ancien proven^al et languì 
docien moderne escarpir*; juxta, juxte, prèe; lo** 
che, cuiller\ <lochea, cochlear, Eboronibos (Liegesi) lomm 
(Ddfrjbsnb) •; estorgne «faosseté, méchaocetó *e. MolU 
particolari consuonante dell 1 argot coli 9 italiano incontriam par 
questa via ; le quali non provano quindi P influenza di 
rinoli e cerretani capitati d'Italia in Francia, ma si 
la loro ragione nella pariicolac somiglianza che è tra PI* 
lattano e i parlari francesi di tipo pi* antico che non sfai 
P odierna comune favella di Francia. Cosi, mòche, moMé, 
demi, ben ricorderà il mesto italiano, ma per certo al- 
tro nono se non il mei eh dell'antico provenzale, mi e eh 
dell'odierno 2 ; grato use dice per metafora il merletto 
(grattugia), e nel Delibato abbiamo gratnsi, grattugi*, e 
il verbo gratuzar, gratuser, nel provenzale e nei* 
P «ntioo francese 3 ; fiquerc plonger, comme quand on dit : 

1 Poseon vederti ancora, presso il Francisque-Michei, gli articoli: (bretoque) t 
blaearà\ largue, écorner. — Qualche rimiuiscenaa mitologica, o dei 
tempi eroici, i gerghi dovranno al popolo, qualche altra ad laflaaaa 
letterato. llPotta* note woaneBberg dal rothwilaoh per beUmpah 
colla (L e. p. 24; cfr. Grimm, My Otologie, Ul. ed., p. 887); l'affa* 
he, per épée, sabre de cavatene, oltreché flambé, di coi vedi pia 
avanti, flambar gè, che è l'equivalente della Fusbertm (di Rinaldo) 
■eU 9 Ariosto, la fisberte, spada, della germana (F.-IL, 108,4*9); 
l'argo* offra ancore: dardant, petit dardant, a m o ur ^ il far- 
basco dico argo per cielo, forse dall' Argo dei cent occhi, e ri- 
corderebbe il milToculo (sahasrteia) degP Indiani par lmdr*,p*- 
sonificaiiooe del cielo; il Pott air incontro (1. e. 29) vi enppono eV 
aiterauone di arco. 

* V. Vranciique-Mickel, a. v.; Die* nel tossico ha: prm. mief 

* V. Die*, sai lessico, a>. 182. 



Iftt 

arra eouteau dai» le coeiir», ficar lei provenuto 
(Dici), fiquer net normanno di D. Ferrand (F. M.); jor- 
ne, /wr; prov. Jori; eabrouffe «embarraa, plus de 
brait quo do besogne», che il Fraacisqne- Michel vuol derivare 
dall' italiano sbruffo, quando por gli è noto ohe nel patri* de 
r Brrondissement fé Vite e nel provengale v'ha eabroof 
eoi significato di bruii, tapage; aoulasse (la grande), 
Fa$sa*$imaL> cioè il gran tollaMO, e solati ha il provenza- 
le, a on la 8 r antico francese 1 . Maniere o frasi, comu- 
ni all' or gol e a parlari italiani, ponno attribuirsi ugualmen- 
te ad antichissima comunanza romana; p. e. flambant, 
propre, beau, superbe, e nell' oso popolare flambant neuf, 
eome a Venosta nato fiamante ; se la tirer, fuir, il ca- 
cwrseia dei Veneti, cogliersela, battersela 2 . V 9 hanno del re- 
sto nelT argot parole realmente italiane, di quelle molte che un 
giorno si adottarono in Francia dalla generalità, e che, ripudiate 
poi dalla lingua, furono in parte raccolte dal gergo. A questa 
categoria potrebbe appartenere qualcuno dei termini che inserii 
nella precedente, come viceversa avrebbe forse a stare nel- 
la precedente alcuno di quelli che ora enumero: manque 
(jk la), alla manca; estrade, bouleeart; forfante 9 , A4~ 
bieur, ciarlata*, fóurbe; tabar, tabarin, manteau; can- 
to a, pri$on\ boy e «bourreau d* un bagno, format chargé 
d'administrer la basto nnade à scs compagnone » 4 ; voci que- 
sta, di cui ho prova che un giorno faoessero parte della lin- 
gua francese, mentre delle seguenti è congetturale codesta ap- 
partenenza intermedia: autan (altana), ^reater; camoufler, 



1 V. incora presso il Francieqae-Michel: esganacer, escampette, carne, 
èègue (avena, che il P.-M. ravvicina eli* italiano Mova, biada, e eh' io 
ticoadmrei piuttosto air antico francese òtaf, con g per rf, alteranone 
ohe si ritrova anche nel gàteu-dien della plebe periglia, e aelprf- 
$;0C*=pidocchio, che or* ora vedremo). 

9 V. ancora, ib., tirer one Girotte; corner, meUm\ taf, e la nota 
che ci spetta. 

* Onesta voce è attribuita air argoi dal Nodier. V. F.-M. p. 169-70.' 

4 V. ancora: remgracier, gante, torneami, beffeur, buquer, pagne; e ih. p. 
SI, a, 141, b, 153, b. 



isa studi carnei. 

dégmser; radili (e réduit), bouree, retino ; cagna, gen- 
darme (cagnotto); véloze, poste aux chevaux, vélo, pò- 
sWlon. Ma la qualità d' italianismi verniti direttamente aUF ar- 
got non oserei negare a : e o 1 1 i g é, pri$ 9 arrété (colto); grinte, 
figure désagreable (grinta, viso arcigno, in milanese ; grin- 
ta, persona stizzosa, in veneziano) ; foqrobe, fouro- 
b e r « f (mille, fouiller les effets des for^ats ; termo des for- 
cato et des argonsins ; de V italien fuorarobba, òtez la che- 
mise, qu' on disait sor les galères pour faire déponiller la 
chiourme»; lazagne, lettre; fassolette, mouchoir de poche, 
p ego e e, pou. A questi unirei, col Francisque-Michel: nien- 
te, rie», zèro, dei ladri del mezzodì della Francia; bruge 
cserrurier, tenne des voleurs de la haute pègre, empruoté 
à F italien bruciare*; casquer cdonner aveuglément dans 
un piége»; malgrado il nien (nient) e il brucar del proven- 
zale, e il cascade per caduta (non solo delT acqua) nelF an- 
tico francese 1 . Facciam per ora astrazione da quel che v'ha 
di comune tra F argot ed il furbesco. 

Ormai siamo entrati nel campo de 9 vocaboli stranieri 
Il Biondelli, forse per aver troppo sott' occhio il furbesco, 
fé 9 grave torto all' importanza dell' elemento forestiero, col 
dir dei gerghi, nella caratteristica generale, «che vi si 
rinvengono ancora alquante voci antiquate, o tolte a lingue 
straniere ■ ; mentre il Polt, quasi facendo comune agli altri 
gerghi una particolarità del rothwàlsch, enuncia sulle gene- 
rali che tra la roba straniera prende il primo posto una 
quantità di termini rabbinico-ebraici, capitata per mezzo de- 
gli Ebrei (durch Juden hineingekommen). Il rothwfilsch for- 
micola di voci giudeesche, cioè di voci ebree pronunciato 
e rimpastate alla guisa che sogliono gli Ebrei favellanti te- 
desco i quali ne intarsiano il loro vernacolo germanico ; quan- 
do nelF argot all' incontro, per tacer del furbesco, non po- 
trebbe additarsi un solo vocabolo ebreo, giacché il baite, 
maison, F unico a sembrar tale, è probabilmente tutt' altra 

1 V. ancora : birba&se, bésouilU. 



GERGHI. Il3 

cosa, e va col bàita, casolare, capanna, ricovero, casa, 
dei dialetti lombardi (Biondello GalUhit., p. 59, 8), che il 
Diez giudiziosamente repula vocabolo germanico {Gramm. d. 
rom. 8pr. l\ 87), di quella radice (beiten) che diede an- 
co Pa-bode, abitazione, soggiorno, dell' inglese (v. Grum, 
deutsch. Wifrterb., 1. 1403) '. Le voci giodeesche del rotb- 
wttlsch, che il_Biondelli ha voluto distinguere coli' asterisco 
nel suo Saggio di gergo germanico, non son già « usate dai 
malandrini di stirpe israelitica», com'egli dice 2 , ma sono in 
generale da riguardarsi qual proprietà comune a tutta la 
società furfantina germanica, che nel dialetto alemanno-giu- 
daico ebbe a facile sua portata una ricca miniera di voci 
incomprensibili al maggior numero, come son p. e. quelle 
d'un particolare dialetto francese portale perii resto di Fran- 
cia dall'argot 3 . Del resto, se il Biondelli voleva, come pa- 
re, contraddistinguere tutte le voci di ebraica provenienza, 
il suo assunto ebbe esecuzione non perfetta; giacché, per 
limitarci a pochi esempj, domanderebbero P asterisco: calle, 
sposa (n^9);boser, carnea); lakiechen, togliere (npb); 
vercapern, sotterrare (da iap). Al Pott stesso non è sempre 
riuscito di ravvisare gli ebraismi ; ed è p. e. P ebraico è o \ e r 
(TtpW magistrata) lo schoter o schauter del rothwftlsch, 
birro, sergente, per il quale ei tenta un 9 etimologia tedesca 
(o. e, II. 23) \ Di giudeesco incontriamo anco un termine 



1 Trovo anche presso gli sloveni: bàjta, capammo. 

* Studi* mite Umane furbesche, p. 125; v. all'incontro ih, p. 37. 

* V. sopra, In caratteristica generale dei gerghi; e Derenboura, ap. 

F.-M., p. 449; Pott, IL 13; e J. F. Castelli, nel Wamderer, 
giornale viennese, n. 96 del 1860. Nella hamtyrka, che vige su d'un 
terreno ohe si può dir comune al rothwllsch, non manca l'elemento 
giudeesco. fi quale entra, che s'intende, nel gergo dsnese, cui sappiamo 
identico pressappoco al rothwàlsch. 
4 E il giudeesco potrebbe forse dar ragione, meglio che lo singanico, del- 
l' -e s suffisso si nomi nel rothwllsch di Danimarca, come feldes per 
feld (campo), vintes per wamd (parete), bandes per band (lega- 
me, o forse legaccio), non senza esempj pure in quello d* Alemagna 
(r. Pott, o. o., I. 104, II. 33). Hi fondo sui fatti che ora enume- 
ro: 1. La dementa osi ( n \) dei plurali feminili ebraici è corrotta 



I3{ STODJ CATTICI. 

tecnico nel gergo inglese, che dice gonoffs certa elesse 
di ladri (Lediu-Rollik, De la decadente de P Angleterre, L 
p. 386% il g a Dna 6 (gannav, gannof) ebraico, ladro, il 
cui radicale s' è reso famigliare anco a più d' un dialetta 
tedesco, nelle forme : gamfen, hamfen, ganfen, Jan- 
fen, rubare 2 . E pare in Italia, se non nel furbesco, ne 
apparisce nei volgari qualche influente dei Ghetti. Ebrais- 
mo crederei sicuramente il tarif reggiano, tarèf ferra- 
rese, fraudo, putrido (Biondklli, Galloii^ p. 289), tarèf 
piemontese, malazzato (ib., p. 576, e Ponza nel Voc. piena.}, 
cioè il^rabbinico W (|ar ep, tarèf), che i nostri volghi 



ad es nel giodeetco, e ilrolhwàlsch non solo accolse parecchi di que- 
sti plurali, come oioes fautìm) spese, mackes (ni^) ootfe, per- 
cosse, ma ne riguarda alcuni quei nomi al sing olare, come kaporeSf 
mort0 (ttTto> tittine espiatorie), o behemea (nrcro)* tradotte net 
bétail presso il Francisqne -Michel (p. 450), che ha por chalones 
OlVìbn) P°r fenltre- *• Nel giodeesco, e quindi nel rothwftach, tie- 
ne ad uscire in e s un nomerò roosiderevole di nomi al singolare, i 
suoni finali -ms,-el, -a/, -wl Rn, n;, M, rt, HO, e foste onakiie albe 
ancora, tolti riducendosi ed es in pronuncia giudeesca; ad eeemnjols 
voci seguenti, proprie del rothwllsch: mslves, abito da uomo t^<9), 
me s eh ores, serto (Pn)#p),mo tea, morie (!W?), e nt e n, «ertlA (n&|)« 
elaaiones, sgomenti che adoperino staffi (nu&ttt<<&)« 3. Udir* 
Ietto alemanno -giudaico fa in es il plorale dirocabolt tedeschi ai ma- 
schili che feminini. Ad esempio ho presenti i seguenti proverbj: Alle 
flmgezachte Mamme* (madri), Willen gesachte Riodo; Ans sedere 
Leit's Beiti, is gut Meme* (per Riemen^ strisce di cuojo) acheei- 
dea; Ich hob kane meschfigene Sckmamme* gessen (nsesdieV 
ge=V?$Q matto? Schmammeg per 5chmdmme y fanghi); Taameod Mea- 
schen, alef fueiet (mille gusti).— È dunque, mi sembra, abbaslaa* 
a» probabile, che, una deainensa così frequente nel parlar gMaleo, sta 
adoperata, quale suffisso disfigurante, da coloro eoo rioorrOno a co- 
desto parlare come a fottio di eriltolaJie. 

tt Lee classes ezistent jusque dana net antro de In misere el dai crime. 
Lei Burglars on Smaskere (roleurs atee effraelion) ae pleeent bien 
ao-dessus des Gonoffs (jeones rotear*, mot hébreo intraduit dea» l'ar- 
got par les recéleors juifs). „~ È V autore delP Emquéie che perla. 

V. ZeUtchr. fuer vergleichende Sprachforschung, II. 83, Vili- 394.— 
Fra i termini del gergo deMadri portoghesi, il Fraocisqee- Michel ha so- 
lilo, che traduce per col, cerio nel senso di /Wrft>. Un non oserei 
ravvicinare etimologiosmente questo vocabolo a quelli di senso affise 
che vedemmo nel testo. 



dagli Ebrei come turibolo dette cani che questi rifiata- 
no per difetto o morbo delP animale (o per macellamento 
che non sia secondo il rito); così il tafOs piemonte- 
se, trabocchetto, trappola, e por carcero (Biondello o. c, p. 
576 ; Porsa : imboscata, tranello), V ebraico fc«? (t sp ni s, ta- 
fùs) cattivo, prigione, aggettivo, adoperato volgarmente da- 
gli Ebrei come sostantivo. Ambo i radicali ci riappaiono, 
ma in veste ebreo-tedesca, nel rothwttlsch: terefe (per 
«"93? té re/* a A), impuro, e loffi s, prigioniero. 

Il rothwSlsch, se prese a piene mani dal vocabolario giù- 
deesco, non neglesse per questo, come tra poco vedremo, al- 
tre fonti straniere. I termini forestieri formerebbero, se- 
condo qualche prova da me istituita, poco men d' nn terzo 
del vocabolario del rothwàlsch, mentre nell'argot s'io non erro, 
comprese le voci venutevi da altri furbeschi, la quantità delle 
parole forestiere non raggiunge, a ben guardare, il decimo 
del tutto. L'elemento non -nazionale entra nel gergo italia- 
no in proporr ioni assai minori ancora di quel che sia noli' ar- 
got Si credette air incontro che stesse in proporzioni me- 
ravigliosamente estese in certo gergo de' merciajuoli girova- 
ghi russi, di cui fu detto che « le flessioni, le voci sintatti- 
« che e la sintassi son quelle della lingua del paese, men- 
« tre le radici son prese da un idioma affatto sconosciuto 
« sin qui \ » Sennonché, migliori notizie arrivateci intorno al 
gergo di codesti girovaghi, appellati Afoni od O/é/ii, lo spo- 
gliano di codesto carattere affatto enigmatico ed eccezionale. 
Cel dicono « constare principalmente di espressioni locali (Lo- 
« calwttrter), che in parte corrono tra il popolo, di cui pe- 
« rò si alterano e la forma ed il senso, e a cui vengo- 

1 V. Francisque-Michel, o. e, p. 479; il quale ripete quanto ne 
dice la LUeratur der Grammatiken ecc. (ed. Jtilg, p. 22-23, e 315). 
Quest'ultima non cita intorno a siffatto parlare che il Magali* fuer 
die Literatur det Anskmdes, 29.JuU1840. ». 2ii\ ma né in que- 
sto numero, né in altro di quel periodico, seppe trovare alouna co* 
•a circa il nostro idioma nn dotto alemanno che ha per me cercato. 
Poli (Zig. II. i,n.) cita laconicamente per questo gergo: Ausi. 1843.— 
y. la nota che segue. 
16 



i«6 stddj cuna. 

« no a framescolarsi, in abbondarne, vocaboli stranieri, gre- 
» ci in ispecie l . > Esempj di quest'ultima categorìa sieio : eh ir- 
li i, mani (x*k), p Ò n d a, cinque (»**«), d é k a n, dieci (***«)*, 
p a 1 ó z, mercante (*»%), k r é i o, carne (*»<*$). — Hanno l' a- 
ria di greco par varie voci de' gerghi di Francia e d' Italia. 
Vargotàice ornie per galline (©V«*), e ne trae oraichoa 
povlet, ornie de balle dinde, ornière poulaMer, or- 
nion chapon*; arton o artie 4 , artis, lartif, iar> 
t o n, per pane (<*e*<>ff), e si piace intitolarsi da questo no- 
me del pane: langage de P artie. Dirà larton sa- 
vonné, pan bianco, larton brutal, ii bigio; e il fur- 
besco, chehn parimenti arto, arton per pana» ne fa ar- 
to in 1 e n % a (=aeqna) panateUa, arto in chiaro (=vino) 
zuppa, arton di calcosa (=terra) tassi. Crie {*?•«*), e 
indi crignolle, nell'argot, e crea, creatura, cri- 
o 1 f a (anche t r i o 1 f o presso il Biondelli) nel furbesco, val- 
gono carne. Enrico Stefano 6 confronta al nótog greco (bevan- 
da) il piot del gergo francese, vocabolo che non fa ac- 
colto nel dizionario del Francisqoe-Micbel, dove non man- 
cano però pie et» e pier ferire. H furbesco ha pioda 
osteria ; e ancora vi sentono di greco: cera, aera, 



1 Mi valgo di tua copia manoscritta dell'articolo Sugli Ofdni od Aféai, 
inaerìto da IT. Tickonrawow nell' Archi* fuor die wissensckafl- 
ticke Kunde Russlands, T. XV (1856), p. 167-178. Dopo le paro- 
le tradotte nel testo, vi è dello : tt Benché destinato ad ascondere il 
tt pensiero, queat' idioma, al pari di tutti gli idiomi congeneri che ai 
tt fondano sa di arbitrarie convenzioni (ani Willkùhr), rìraan fedele allo 
tt spirito della lingua del paese nei rapporti grammaticali ed etimologici 

* La particolarità pia saliente di questa lingua artiioiale è ohe lo scor- 
tt rer del tempo noi vi porta immutaaioni; proprietà moria d' un pic- 

• ciol numero di persone, rimane estranea al movimento ed allo svi- 
tt lappo che non possono mancare ad una lingua viva. 9 — È tra gli 
Aféui una tradizione che li fa oriundi da Atene (Aféni = ^Aihpwoty. 

9 Bkiéera4 non può non ricordare l'eolico jr/0V£«ff, con * per » (v. 

p. 33), come sarebbe in ketrjàt (sterga) pietra. 
* V. pure aquige- ornie presso il foncisque-afonel. 
1 U artie vale anco fa spada neir argot. Sarebbe mai per la qaaMHomofoaia di 

l-e-pé t le-pèn? 
1 Ap. Vr.-Hicti., p. XXVH Ifal gergo di Francia egli vedam-moHiaaimo di 

greco. Si limita però ai Ire esempi orli, cri e piot 



GERGHI. II7 

no (z*ìq), onde cerioli guanti (cfr. nella germanìa se r ras 
matto*, Pott, Zig., IL 19, 43); rodiglina roti» (^0*); 
Iacono (Fbahcisqot-Michel) lupo (hixogy lykus presso gli A- 
foni); orita mente (Francisqub-Michel) bene, molto bene, 
(ìq&o-); pò Ugnare (ih.) vendere {n»X*fr). Quanto all' ar- 
fon (pane), il Francisqne-Michel ricorda opportunamente Var- 
io u n provengale {artoma del basso-latino)*, e il Biondelli qual- 
che voce lombarda in cui parrebbe contenuto V a r 1 pane\ 
e presso il Diez (Di*., p. 555) trovansi raccolti i termini 
che vi consuonano nel basco, nello spagnolo e nel porto* 
ghese. Così \>eTpiot,pier, e simili, la grecità è contrastata dallo 
ainganico p i a v a bevo, il piyar bere dello zingaresco di 
Spagna; e pure di qualcun altro degli esempj addotti po- 
trà esser posta in dubbio e forse negata la provenienza dal 
greco od almeno la diretta provenienza da questo idioma '. 
Ha i commerci degl'Italiani e de* Francesi coi Greci, pos- 
son bene avere immesso, ne 9 gerghi di quelli, un certo nu- 
mero di voci elleniche; e d' altronde, tornerà egli illecito 
d' immaginare che disertori del campo di Minerva sien tal- 
volta venuti ad arruolarsi sotto i vessilli di Mercurio e a 
giovare con un po' di dottrina ali 9 incremento de 9 vocabolari 
gergali 3 ? Il caso inverso, d' una espressione gergale intro- 
dottasi neir Università, abbiamo nella frase rotvelscica adot- 
tata dagli studenti alemanni : moore haben aver pwra 
(giudeesco m r e = ebr. m ot r à timore ; Porr, 0. e II. 1 4). — 
Voci zingariche sono ospiti naturali ne' gerghi ; e, ario* in- 
diano sitcom' è lo zinganico, preziosi sauscritismi posson 
venire in bocca a 9 nostri ladri per questa via. Un beli' e- 
sempio n* è il berge anno dell 9 argot, dinanzi al quale 
restò muta la sconfinala erudizione del Francisque-Michel, 

1 A crie, « simili, per carne* di cui la p. anteced., si riviene a p. 141. 
9 Nova vailo** parler dea erchisappóta de l'argot, "les plus accanta, 
dit T allear da Jargon, tea pica habiles marpaula (garcone) de tou- 
tine (k»t) T argot, qui aoat dea eacoliera deabaaches, et qaelquea ra- 
tickona (prélrea), de cea cooreora qui enaeigneot le jargon à roa- 
aeailler bigorae (parler argot), oatent, rotranchent et réforment l'ar- 
got ainai qn'fle veulent.. „ Francisque-Michel, 0. e. p. XXIX. 



iq8 stodj critici. 

ma in cui l' indianista saluterà iocontaneote il varia san- 
scrito, o b a r § a secondo pronunzia indostana, anno; e beri 
anno è difalli dello zinganico 1 . Ci consuona il bero anno 
del gergo de 9 caldera] di Valsoanà*. Esempj di vocaboli tinga- 
nici nel rothwftlsch, sono : m a 1 1 o èbbro, il qual vocabolo in- 
diano è identico al nostro matto pano (di cui manca l'a- 
nalogo latino), cioè il participio passato della radice san- 
scrita m a d, ebrium esse, mente captum esse ; m & r o m a- 
ro,pane; bani (z. pani), acq uà ; pehn (Francisque-Mi- 
chel) sorella, lo p'e n zingarico ; e il b a t o per majale, 
che è neir elenco del Francisque-Michel, riterrei uno sba- 
glio per baio, voce di tal significato presso gli Zingari 3 . — 
Altre denominazioni rotoelsciche di questo animale ci apri- 
ranno una serie di doppj esotici nel gergo <T Alemagna ; il quale, 
cioè, offre in più casi oltre il termine giudeesco un equivalente 
venuto di paese latino. Il porco vi è adunque kassert,g o s- 
ser (ebreo vjn h a z i: r), ed anco spork; per asino vi si 
dice chammer (ebreo "fàq hamor), e bork (bourrique); 
per cane, kohluf alla giudeesca (ebreo 2^3 keleò), 
quien; farina è k&fmach (ebreo n^qemah), e con 
suoni romanici floreale forene; monte: harr (ebreo 
i!iAar), e montane; finestra: ga 11 on (ebreo ^ ha- 
llotn), e fender; coltello: sackum (v. p. 110), e 
kanif; vino: jayen (ebr. ]* ja:in), donde la burlesca 
personificazione Johann (cioè Giovanni) =vino, e anco bl a n- 
k e r t, dal francese blanquelte ; spada : e h a r (il avi h e- 
refe ebraico, harb... nell' unirsi coi suffissi pronominali; e 
non l'it. chiaro come il Francisque-Michel suppose), e spa- 

1 Indostaoo berea; Shakespeare gramm. 1813, p. 30.— Per altri 
zingarismi nell'argot, veggasi il Frane. -Mich. agli articoli laro e, §i- 
v e, s é n a q a i, (m o a a i e h e), gre, e a a r i n, e a r a b 1 e. 

* San tenti aerofono tanti anni. Biondelle, Sulle lingue furbesche, p. 47. 

9 V. ancora rauert, rauling, ap. Poli, o. e II. 34.— Bper il rotw. 
jntiandeae, ib. I. 2, e Frane-Michel, p. 477.— Lo chourin, ooltello, 
che riportammo alla n. 1 (sscr. eia ri, sindhi e indoaUno e liaganico 
Z a r t) li ripete nello achory (E. Anton, Gauner n. Diebesspracue, 
Berlin, 1859) del rothweUch. 



GERGHT. 1^9 

d e, spa di j '. — Allri romanismi nel rotbwalsch sono : b 1 e n- 
kert, derivato gergale da Mane, per neve; schandel, lu- 
me; potris, padre; scharntle, chariot; jplumj*, piombo', 
s t r o d a , strade, strada, grassazione ; b 1 à u m I i n g , penne 
(Federo, Polt, o. e. II. 37), An piuma (ib.)*; nella varietà 
jutlandese del rothwttlsch : p a d r u m , m a d r u m , padre, 
madre (v. p. 109), e \\-fakker = facitore, p. e. in kals- 
ling-fakker calzohjo (skoemager), composto in ambo le 
sne parti romanico, facitor di calzature, di calzi 3 . — Di 
alemanno nel furbesco, oltre il e orni a le, frumento (ted. 
korn grano), e spillare, giocare (ted. spielen ; il furbesco 
ha pure spel, carte da gioco), già avvertili dal Biondelli, 
noterò : e o n o b e 1 1 o , aglio ( ted. knoblauch, settecomunig. 
knoveloch) e faolo, brutto, deforme (ted. fatd, marcio, 
guasto). E il pisto, prete, dello stesso gergo, non sarà 
né dal seguire per la pesta (à la piste) il condannato nò 
per antifrasi da pistore ( che ò bianco mentre il prete ò nero ), 
etimologie che il Franeisque-Michel ha arrischiato ; ma ben 
piuttosto il tedesco priester, la cui desinenza (er) si riduce 
ad una semplice a in bocca di que' molti Alemanni che a 
dire p. e. valer unser (padre nostro) vi fanno sentire va- 
da unsà, voda nusa, o altro di simile 4 . Oltre pisto abbiam 
pistolfo {Franeisque-Michel, p. 431 ; Biondelli: 

1 Al chates, mariaolo, del rothwalgch, il Franeisque-Michel inette a fron- 
te il eheai inglese. Quell'ultimo pronunciandosi cit, non può essere 
il hhates del rothwalgch. Il quale è senza dubbio l'ebreo TWfTì ba- 
llai (kalos secondo pronuncia ebreo-tedesca), peccatum, sacrificium 
prò peccato, quindi la vittima, la sentinella perduta, V eroe ladronesco. 

* Kibis, kabes, presso il Biondelli kabag, testa, secondo il Dorph 

dallo spagnolo cabeia (capo); e da cabeia ugualmente vorrebbe il 
Franeisque-Michel derivare il ealebasse (propriamente iucca) ado- 
perato nel Jargon per testa. Si confrontino però iucca il. per capo, 
e col oq ni n iettile nell* argot; e non si dimentichi per il roth- 
wfilsch il kflrbiss ted. %ucca. 

* V. Pott, o. e. II. 32-33. V. ib. 16, in fine, voci straniere (oltre le 

gindeesche) nella hantyrka. 
4 V. Johann Seeerin Valer, Proben deutscher Volks-Mundarten, ecc., Lip- 
sia, 1816, p. 20-1; cfr. Schmeller-Ber gmann, Cimbr. Wor- 
terb., p. 44, :s. 



i3c stodj cuna 

/riffe, fritte' pi, e bùtolfo), col senso medesimo, come ve- 
demmo cria e criolfa per carne; e per sinonimo di 
oerioli, guattii che vedemmo di sopra, troviam cerulfi. 
li bolfo cane si dirà il wcif tedesco ( lupo ; Settecomani: 
bolf), quando non sia un' onomatopea {bó) collo strascico 
di codesi' olfo \ che or' ora trovammo suffisso furbesco, o 
sfigurante o derivativo ; il quale par che v' abbia anco in 
garolfo (forse da gadolfo) per gatto^ e ritorna per certo 
in martolfa spada (v. martin qui sopra, a p. 118), e 
si rinviene altresì, se io non erro, nel mistolfa sterco 
del vocabolario piemontese (cfr. il ted. mist, fimo, sterco) 
e nel ma reo lf a, goffa, sguqjata, del veneziano (furbesco 
maroona donna \ argot marque fitte; germanla antica 
marca femme publique), col suo mascolino ma re olfo. 
D m organa furbesco {Francie que* Michel), campana, 
potrebbe supporsi originariamente la campana del mattutino, 
da m o r g e n tedesco mattina. — Al tedesco • gaffen » guar- 
dare ad occhi epalancati riporta il Francisque- Michel il 
gaffe guet, dell' argot, donde gaffe à gayé, gendarme 
ou garde municipale à cheval; gaffe de sorgue,gar- 
dien de marche, patrouille grise; ótre en gaffe, gef- 
fer, guetter, faire sentinelle; gaffeur sentinelle. Blasé 
enfié sarebbe un altro germanismo dell'argot, secondo lo 
stesso erudito, da blasen tedesco soffiare; e lo spec 
lardo è tale senza dubbio, il tedesco speck 5 . Di Spagna 
sarebbero venuti al gergo francese: boucanade, action 
de corrompre atee de V argent un témoin, ecc. = bocanada 



1 D belfo del gergo portoghese, che si breve presso Franeisque-Miohel (p. 
441: o belfo bolsa (?) il cane abbaja), sera tolT eltro che il nostro 
bolfo, Belfo, aggettivo, mi dice il Vieyra (Dict., portane eogl.), * 
imo che ha if labbro inferiore pendente, aUa guisa per cui ss di" 
slingue Casa <f Austria. 

9 V. Étud. de phiL comp. sur l'argot, p. 388, b. Quanto al hacker, 
frapper 9 battre y presso il quale il Francisqne-Michel ricorda che il 
francese ebbe in addietro hascier, bvquer, frapperà la porte, op~ 
pelar, io non ci saprei vedere per certo, com'egli vorrebbe, il te- 
desco bochen (recto pocherì), battere. È il nostro bussare. 



GERGHI. l3l 

spagnolo coup, trail de ci»; mira don specchio (spagli, 
mirador spectateur, belvedére); frali n, fratine, frère, 
soeur, donde forse f r a n g i n, -gì ne, id. (sp. f r a y l e, monaco, 
frate).— AH' incontro, veggonsi presso il Pott (ZÀgeuntr, IL 
15 ) parole francesi che la germanla ai è appropriate ; alla 
quali potrebbe aggiungersi il b o 1 a d o r ( leggi totador ), che, 
insieme al boiata e al boia toro del linguaggio popo- 
lare spagnolo, riviene al voler dei francesi. Ma osta Ieri a, 
ostalero, gargote, gargotier, in cui il Francisque - Mi- 
chel vede P hótelier e l' hdtellerie, vanno schierati per certo 
collo spagnolo ostala gè, ce qn'onpaye dans une hòtel- 
lerie; tatti, direi, provenzalismi. Di Germania dev'essere 
capitato nella germanla: pasca pistola, che è il paéka 
(facile) del ròthwelsch, voce slava; e per la stessa via il 
nexo no, tedesco nichts, niente (pure il gergo inglese 
ha nix niente). U godo, riche, chef, all'incontro, non av- 
vicinerei, come fanno il Francisque - Michel ed il Pott, al gnt 
tedesco (gol. godi), ma ci vedrei il Godo, Goto, ossia una 
miniscensa della signoria de 9 Goti sulle Spagne. Braci o, 
gamba, non sono italianismi, ma antiche voci romanie, 
smesse dallo spagnuolo comune. Osteria parrebbe venuto 
d T Italia. 

Voci italiane, insieme ad altre straniere, naturalmente 
non mancano in certi gerghi che ci offre la Zagoria (Epi- 
ro) ; e, finalmente, fra le espressioni attribuite al gergo d' In- 
ghilterra, che il dotto francese più volte lodato ci ha es- 
tratte dalle opere di Shakspeare, aweae alcune d'italiane. 
Non son tali però, pur quest'ultime, che possano dar vigore alla 
ipotesi del Borrow, cui disopra ribattemmo (p. 104; ; ma solo 
provano, che la lingua italiana, in cui si rifletteva la ci- 
viltà maggiore, era siffattamente in voga, che riusciva ad 
infiltrarsi da per tutto. Sono dunque: capocchia, imbe- 
cille (capocchio); cornuto, nel noto senso figurato; via, 
andiamo !; za ni, buffone ; bona roba, femina da conio. A s- 
sinego, asino, basta (il suffit), e labr a s, labbra, pos- 
sono essere provenuti sì di Spagna che d'Italia; fico, figo, 



1 



lì? STODJ CRITICI. 

termine di spregi©, parrebbe all' incontro decisamente italiano. 
Di Spagna sono manifestamente, sempre presso Shakspea- 
re, cavaleroes, libertini ; s e s s a , tranquillo ! ( cesa, ces- 
sa); p ala b ras, spicciamoci ( interjettivo spagnolo per: 
una parola!); ed equivalenti a quest'ultimo termine V auto- 
re dell' Amleto ci offre ancora : paucas pallabris, pan- 
ca verba, pauca, ibrida, ossia ispano - latina la prima 
espressione, e prettamente latine (del pari che leno, pro- 
cacciator di fanciulle) le altre due, come son latine o 
sentono di latino le seguenti, che il Francisque - Michel es- 
trasse da una commedia di Brome (1641): r uff in il 
diavolo (cfr. ruffo del furbesco: fuoco), e pannum (in 
pronuncia inglese panem, quindi, direi, ritenuto dalla ora- 
zione dominicale latina, ossia deli 9 epoca cattolica), pane, 
cui, da altra fonte, l'erudito francese ci fa aggiungere toge- 
mans, vesta (robe), cassan, cacio (caseu$, spagn. que- 
so)) e, da libro moderno, quids, danaro. In Brome in- 
contriamo altresì: la gè, acqua, bien bowse, buona 
bevanda, due francesismi (f aigue, V aige, come annota il 
Francisque • Michel, nelP antico francese f acqua ; e boiuon 
con bien). Anco il chawdron, interiora, di Shakspeare, 
che non è rifiutato dai vricnbolarj della lingua comune, repu- 
terei voce francese: chaudron, caldajo 1 . 

1 Mentre si stampano queste ultime pagine, mi riesce dì avere: The ©•/- 
gar fonane, comprising two glossaries of slang, cani and fask 
word» and phrases, principali^ used in London ai the preseni dag y 
bg Dueange Anglicus, London, i857 y e il Diciionarg of modem siang, 
cani, and vulgar tcords, ecc. ecc., bg a London AnUqnarg, London, 
1859. Lavoro di scarso conto è il primo, ma il secondo merita bel 
posto fra i saggi lessicali di questo genere, ed ansi, per ciò che ri- 
guarda la cronologia delle parole, lo non saprei citarne alcuno dì mi- 
gliore. Dei vocaboli stranieri che di sopra vedemmo proprj al gergo 
inglese dei tempi di Shakspeare e di Brome, non ritrovo nel Dictio- 
narg, in uso attuale senza alterazione alcuna, se non p a n n a m, cibo, 
pane (panum, pane, nel The eulgar tongué). Per il bowse al 
bien bowse oggi si ha b o o s e, botando e bere. Io rimango nelP o- 
pioione che il bowse o booze venga di Francia, malgrado il vocabo- 
lo consonante che il Dictionary ci dà per zingarico; tanto più che 
nel boozing and beUg-cheere di Harman (compilatore, ai tempi di 8- 



GERGHI * l33 

Di elaboromenti che i gerghi abbiano fatto subire a voca- 
boli stranieri, già ne occorse vedere qualche esempio, e qualche 

lisabetta, di un glossario gergale, il primo che si desse; da Fran- 
eiaque-Mtchel, p. 455, parrebbe altrimenti, ma vedi il Diclionarg ap. 
160) par la seconda parte mi sa di francese, ossia mi pare va ri- 
facimento inglese di bona* chère e forse bette chère. Togata n è 
in Uarman per vesto (coste), e il Dictionarg ha, sema particolari an- 
notazioni, quindi per gergo attuale, tog, vestire, fornire di armamen- 
to (equip with an oatfit), e toggery, veatiments, arnesi, aggiun- 
gendo: ioggs vestimenta; i un day foggi (abiti domenicali) i mi- 
gliori abili. Una delle pia) antiche espressioni gergali (cant), tu uso 
e? tempi di Enrico VI IL Herman ha pure eassan, cacio (il Dictio- 
aary: cassoni, oon annotarci andent canf)% e lag, acqua, lage, la- 
vare, ai quali unisco, dal Dictionmrg, lag, orinare, che pur sarebbe 
del cani antico. 11 ruffin, diavolo, di Brome,ènel ruffian di Her- 
man: to the ruffian, al diavolo, the ruffian cly thee, il dia- 
volo ti pigli; e il ruffo, fuoco (il rosso), del furbesco, è ancora più 
notevolmente ricordato dal ruffmans (Harman), boschi o cespugli, cioè 
oomiai-del-fuoco; e fuoco vale probabilmente il ruff di ruff-peok 
(Herman), certa specie di pane. P a 1 a v e r ò del linguaggio popolare nel 
nesso di ciancia e di parlare ingannevolmente \ nel gergo de" vagabondi 
(tramps) direbbe semplicemente: domandare, volgere il discorso. Sul- 
le espressioni di gergo inglese che più addietro mi accadde riportare, 
vedi la presente nota in sulla fine. — Nel gergo odierno rinveogo 
vocaboli italiani, che mi maraviglia non veder riconosciuti per tali dal 
sagace autore del Diclionarg: Madia, half, cioò metto, me**o\ 
saltee, penny, cioè soldo, quindi madaa s altee, a halfpenng, 
cioè metto soldo \ ed è italiana tutta la numerasione che trovasi a p. 
85 del Dictionarg, ritenuta dall' autore quasi meticcia, predominandoti 
forse il francese. Sì leggano dunque secondo pronuncia inglese: ooey 
saltee; dooe saltee; e cosi tray (leggi tre), quarterer, 
chinker, say (foggi**), setter, otter, nobbs, dacha (dece) 
saltee; finalmente oney beong, uno scellino, cioè un bian co, trat- 
tandosi di moneta d'argento (e il furbesco ha biancume per ar- 
genio). Documenti questi, per avventura, deir importa usa commerciale 
degli Italiani in Inghilterra, della qusl fa fede il Lombard-Street. N a n t e e, 
niente, è italiano; e tale è forse Finterò nantee dinarly, non ho 
danaro. B il nostro scrivere è probabilmente nello sere e ve, lettera, 
■applica per elemosina; sor neve, scrivere, progettare; to screeve 
a fakement, maturare o scrivere una lettera chiedente limosina, od 
altro documento da impostori ; soreever, finalmente, il nomen agen- 
ti* per indicare un certo artista disegnatore ; — ma non va dimen- 
ticato lo seri fan anglosaassone, schryven olandese, skrive da- 
nese, scrivere. C a t e v e r , strano affare, qualcosa di misero, d* assai cat- 
tivo, è per certo il nostro cattivo. Il fakement (fioimento), che or ora 
sentiamo, ha la sua radice gergale in fake, ingannare, rubare, sgiro, 
'7 



/ 



l54 «TUDJ CMTICL 

altro ne considereremo adesso. Dalgiadeesco sebo ter per 
birre (v. p. 123), il rothwelsch si è fatto burlescameale 

fare, donde faker, facitore, il latinismo medesimo che incontrammo 
nel gergo di Danimarca (p.129). Ogles, occhi, del cani antico, è 
altro latinismo; al gergo moderno rimane ogle, guardare, riconoscere. 
Harman ha, probabilmente dal latino, bene, tradotto per good, buono 
o bene che sia, col comparativo alla inglese, cioè benar (bet- 
ter, migliore o meglio). Sono voci romanze, nel Dietionary, ma 
di qual contrada romanza venissero mal saprebbesi precisare: Tar- 
do, guardare, cassey, casa (v. sub vardo e cfr. casa)-, men- 
tre vamos (letteralmente andiamo), andare, farsi in là, e carnea a 

caneza, camicia, vengono evidentemente di Spagna. Un curioso 
ibridismo italo-spano è nantee pala ver (niente parole), tacete t. 
Voker, discorrere, forse non è voce romanza, ma ungarica, onde 
avrebbe conferma il vakéraf zinganico io parlo, vakéribea, 
linguaggio, del Pnehmayer (v. Poti, Zig., I. 436-, II. 77); e quindi 
sarebbero unite due parole zingariche nella frase addotta dal Dietio- 
nary: Can you voker romany sapete parlar gorgone?, ro- 
many, rommenes significando a' Zingani il loro parlare (v. Polt, 
II. 276; Dietionary, XII). Ed eccoci ricondotti a queir importante 
elemento neosanscritico di varj gerghi europei che è lo zinganico; 
elemento che l'Inghilterra ci manifesta in discreta abbondanza nel suo 
furbesco, e che, per il tramite di quest'ultimo, osa immischiarsi anco 
nella favella comune dell'Albione superba (v. DicL, p. XUI, XIV). 

1 Zingani, nel porgere a' malandrini inglesi buoni materiali crittolalid, 
si sono fatti proprj alla lor volta, giusta quanto ne insegna il Dietio- 
nary p. (XI e XVII), tutti i vocaboli del cant antico, e ciò sia be- 
ne; ma non ammetteremo col Dietionary (p. Vili) che, appena do- 
po la comparsa delli Zingani, la società furfantina della Gran Bret- 
tagna siasi addata della utilità d'una lingua secreta e quindi si pones- 
se a procacciarsela. — Vediamo ora un pajo di incontestrbìli singarismi, 
aasunti alla cittadinanza inglese. Quando i malandrini di Londra dicono 
mooe (mai) per bocca, ripetono il moj bocca della nomade tribà 
indiana, che è il m ù n h dell' indostano, rauca del sanscrito ; e nello 
j i b b lingua del gergo inglese, onde probabilissimamente trassero origine 
gibber e jabber cinguettare che aon del linguaggio comune, è lo ginn 
zinganico lingua, gift delTindostano, del maltratti e del sindhi, gin vi 
sanscrito (il persiano zabàn però, che il Poit vorrebbe mandare con 
questi, riviene a gap galp sanscrito, come spero dimostrare al- 
trove). E dell'altro elemento orientale de' gerghi settentrionali, ossia del 
giudeesco, oon è già Punico rappresentante in Inghilterra ilgonnof 
di cui toccammo a pag. 124 (il Dietionary: gonnof o gun, ladro, 
dilettante-borsajuolo, senza riconoscervi voce ebrea). Il e oc um che 
il Dictionary, senza darne alcuna etimologia, traduce per vantaggio, 
ventura; astuto, scaltrito, soggiungendo la frase to fight co cubi 
(battersi da cocum) essere furbo e circospello (nel The vulgar Um- 



GERGHI. 1 55 

* c h n 3 1 6 r {calzolajo nel tedesco), birro ugualmente ; e da k e- 
far Cvp,^) villaggio, non senza un che di allusivo, ge- 

gue: co cara, aetvtlssimo e scaltrito), altro non è che il giudeesco 
chocbum (ebreo q^ ^ a * am «avio), adottato dal rothweUch col 
valore di accorto, prudente. Per schow-fnll o schofol (The xml- 
gar tongue: shofel), moneta falsa, cattiva (bad money), il Dictio- 
nary pensa a ?9$ Sep el ebreo, umilità, bassura, tocche non mi sembra 
soddisfare. Io ci vedo un diminutivo rotvelscico (sul gusto del tede- 
sco volgare model per mddchen, ragazza, e simiglienti) di W$ iav 
{sciof secondo pronuncia ebreo-alemanna) che vale falso di giuramenti, 
testimonianze, e simili, e può bene essersi trasportato aUe monete. — Chi 
immise nel gergo d'Inghilterra simili vocaboli giudeeschi, vi ha immesso 
secondo ogni probabilità anco vocaboli alemanni, ed eziandio per altre 
vie ci saranno venuti rinforzi dalla Germania. Ma tal vocabolo che 
sembri recente importazione tedesca può essere air incontro un* antica- 
glia indigena (v. sopra, p. 1 1 9-20), dacché i ladri di Londra, come scrisse 
il Dr. Latham (DicHonaru, XXXIV) sono i conservatori delle dizioni 
anglosassoni (the conservators of anglo-saxonisms). Si sentano: frow, 
. ragazza, moglie (ted. frau; frawo de ir antico tedesco, e dev'esse- 
re comune nella Scozia; Meidinger); muns, bocca (cant antico ; 
ted. m u n d , danese mund); nimming, ruberìa (ted. n e h m e n ; 
anglosass. ni man). Celtismi è naturale che non si cerchino indarno 
nel campo ove sismo ; nel ci i ck - h a n d e d , p. e., mancino, è sen- 
za dubbio il eli fatue gaelico (y.Diefenbach, Celtica, I. 140), 
o il consuonante vocabolo d'altro parlare celtico; ed è gaelico, se- 
condo il Dictionaru, il dudes vestimento che sta nel glossario del 
vecchio Harman. — Toccata cosi, brevemente, la parte etera- 

glossa del lessico gergale d'Inghilterra, ora ci volgeremo, per po- 
chi istanti, alle trasformazioni foniche ed ai trasponimene di signifi- 
cato, che, sempre in analogia coi furbeschi di altri paesi, esso ci 
porge. II Dictionary dedica varie pagine (119-131) al back-slang 
ossia al gergo-rovescio, proprio dei costermongers, ossia di quei 
30,000 e più individui che vendono per le strade di Londra pesce, 
frutta, pollame, e simiglienti. L' artificio principalissimo di codesto par- 
ticolare furbesco sta nel rovesciare la parola : k o o 1 , ad esempio, vi 
si dirà per look guardare, occabot per tobacco tabacco; ma spes- 
so T siterazione non si limita al semplice invertimento, ed avremo 
fi-heath, a mo d'esempio, per thief ladro, fiat eh per half mezzo, 
metà, kennetseeno per stinking puzzolente. Namous o namus, 
invertimento di some one qualcheduno, per dire vattene, qualcu- 
no viene, è espressione che appartiene al gergo generale ; nel quale 
troviamo per apocope : physóg o phiz faccia (physiognomie), e per 
aferesi: nation molto, eccessivamente (damnation), e similmente al- 
tri. Una nuova specie di trasponimenti ideologici dalla base fonetica 
(v. p. 112) ci porge il rkyming -slang, ossia il gergo per rima, di 
coi si servono i cantambanchi e quelli che vanno cantando o vocife- 



l36 tTITDJ cunei. 

fahr (ted. pericolo), ugualmente villaggio; da boss or o 
botser (ip}) carne, si venne net gergo stesso a boss- 
fa a r t ( id. ), in cui par di sentire il h a r t duro dell' alemanno ; 
da barsel (Vp) ferro* si Tenne al bartel (bartbeUfior- 
tolomeo) dello schoberbartel ferro coneui si praticati 

nudo il verso o la prosa che ala ne* fogli da loro offerti in vendita 
(ehaunters and patterers). Codesti vagabondi semi-letterati «oglion dun- 
que sostituire, alle parole che vogliono celute, motti oppur parole che 
per la rima le ricordino. Le allusioni che determinano la scelta delle 
rime mi pajooo ben più frequenti di quel che lasci credere il Diclfo- 
narg (p. 134); e, dove a linaio n sia, questo processo ò abbastanza 
somigliante a quello di cui dicemmo nella seconda metà della p. 110. 
Si sentano: glorious sinner glorioso peccatore per dinner 
pronao; piate of meat (leggi usi/) # tondo del pasto, del cibo 
per Street (leggi stril) strada ; Lord John Russel per bustle 
(il f non si sente nella pronuncia) trambusto, briga, imbroglio; snake 
in the grass biscia neW erba per glsss specchio-, sorrowful 
tale (tei) dolorosa storia per three months in j a il (gel) tre 
mesi in carcere; Cain aud Abel Caino ed Abele per table ie- 
vola-, SirWalter Scott per a pot (of beer) un boccale di 
birra.— Ora qualche espressione puramente metaforica: ivories (s- 
vorj) denti, wssh your ivories (lavate i vostri avorj) bevete; 
forks (forche, forchette) dita; length (lunghezza) ge j Beg ; # pr j_ 
pione; governor (governatore) padre; claret (vino di Bordo, 
claretto, il chiaro o chi a roso vino del furbesco) sangue (gergo 
dei pngillatori) ; H o I y land (terra santa) Seven Disk, quartiere di Lon- 
dra; theatre (teatro) corte di polizia ; dutch conaolation (con* 
solazione olandese) grame al cielo che non è di peggio; Cossack 
(Cosacco) agente di polizia; Jamea (Giacomo, ossia Re Giacomo, 
ctr.Stutf, p. 269) sovrano (moneta d'oro). Un bell'esempio di quegli 
scsmbj cui accennammo a p. 1 14-1 5, è in red-berring (aringa af- 
famata, letteralmente: aringa rossa) par soldato (dall'abito rosso), 
e indi soldier (soldato) per aringa affamata. De' termini di ger- 
go inglese che riportai a p. 1 14 non ritrovo nel DicHonaru che solo 
knowledge-box teste, coir annotazione gergo de* pugilUUori, e suo 
sinonimo, pure tra i pugillatori, sarebbe canister (scatola ecc.). D 
darkmans di pag. 116 è neir Herman, insieme al ano opposito 
lightmans uomini-di-luce ossia giorno, e darkmans è anco nel 
Dictionarg senza osservazione alcuna, quindi por del gergo odierno. 
Similmente sono confermati dal DicHonarg il peter, fagotto, porta- 
mantello, e V Oliver, luna, di p. 118, ma, presso l'ultimo, e V os- 
servazione : disusato quasi. — Tra le curiosità furbeache non voglionai 
dimenticare li jerogUftci dei vagabondi inglesi, ossieno i loro spe- 
danti crittografici, di cui si discorre nelle Introduzione del Dictio- 
naru (p. XXXIX - XLVII). ~ E finalmente, intorno alla dietinniooe fra 



GERGHI. l37 

rotture (schober="Dtf rompere), quasi dicesse Bortolo che 
rompe ; in porarahans ( quasi Qiovan • la* Mela ) si nasco- 
se il pomme francese mela\ in marini pane è il ma- 
ro zinganico (pane), che ricorda, se non erro, colla sua 
uscita, il lechem, lebm, lahim (a$) del rothwelsch i- 
atesso, medesimamente pane; e il pinos dell'argot, dina- 
ro, altro non è, come vide il Francisque- Michel, che un 
anagramma del n i p o s venuto di Spagna* In codesti esempj, 
V artificio gergale non fa ancora alcuna violenza al significato 
del vocabolo straniero ; ma, nei seguenti, vedremo la voce 
forestiera stranamente costretta a far le veci di un supposto 
equivalente indigeno. Quei « de l'Aficion » di Siviglia ■ dicono, 
ad esempio, L i 1 1 a x (quasi ladro) per Tomaso^ 1 i 1 1 a r valendo 
prendere adii Zingani di Spagna, ossia a' Gitani, come tornar 
allo spagnolo; e londilla {saliera ai Gitani) per parla- 
torio^ sala, quasi quest'ultimo venisse da sa/, come lon- 
dilla viene dà lon sale. E gli stessi Gitani ricorrono spes- 
so a simili spedienti, come quando dicono on dinamo per 
lo spagnolo atomo (pioppo), ondila valendo ala nel gi- 
tano. Finalmente, per dir d' un solo esempio fuori di Spagna, 
bonums«-rankert, che è mulo al rothwelsch (ted. maul- 
esel), ha per prima sua parte ponem, bonem giudeesco, 



carni e slang, appellazioni che da molti fi applicano confusamente 
quanto di gergale oe offre la Inghilterra, avvertirono, col Diclionaru (ofr. 
Potty Zeitschr. d. deutsch. morgenl. GeseUsch. VII. 301, 0.), che per 
carni va inteso f antico linguaggio iterato (allegorie e termini par- 
ticolari) de* aingani, de* ladri, dei vagabondi e de 9 me nd i can ti , men- 
tre lo elong è quel linguaggio volgare ed effimero, che tempre ea- 
ria secondo la moda ed il gusto, e che principalmente venne in 
vogo negli ultimi settanta od ottantanni; parlato da persone 0? ogni 
rango, ricche e povere, oneste e disoneste, che si piacciono di mo- 
strarsi spiritose ed allegre e in piena intimità coi motti arguti e 
co* soprannomi che son di giornata in sulle piaste. Ma confini 
precisi, come ognun vede, non possen darsi; e il Dietionarg stesso 
ci porge confasi per gran parte indistinti il cani e lo slang. — 
1 Los de rAficion, ossia quelli dell* affettine, della predilettone^ direbbersi 
nell'Andalusia quei che ai danno ai Giianos ed al loro linguaggio, e 
son monaci in ispeeie. Borrow sp. Pott, Zig. I. IO. 



l38 STUDI CRITICI. 

faccia, volto (n^p), con cui si presame tradurre il mani di 
mauletel \ 

Ci resta, per ultimo, di rivolgere qualche diligenza al- 
le espressioni che appariscono comuni a più d'un gergo, o 
in più d'un gergo conformi. 

Quando siamo in regioni che abbian lingue contane, 
ad esempio Francia e Spagna, gli è chiaro come la comu- 
nanza d' una parola gergale, di stoffa paesana, torni in mol-* 
tissimi casi insufficiente a manifestarcene la patria, e non 
escluda la probabilità di concordanza fortuita. Se V argot ne 
dice chérance per ubbriackeua, e il furbesco cbiarire 
bere, chiarito ubbriaco, chiaro ciao, sarem convinti 
che T espressione è oriunda d'Italia; ma air incontro cer- 
clé (arg.)e cerchiosa (furb.)per botte, o cornant (a.) e 
cornante (f.) per bove (hornickel del rothwelsch), o dar 
(a.) e dar oso (f.) per /ferro, ben possono immaginarsi for- 
tuite coincidenze, Abbiam fon ili e (Jargon) e foglia (f.) 
per tasca, bona; e una certa etimologia latina (folliculus) 
ci lascerebbe affatto incerti sulla patria di questo vocabolo, 
mentre quella, assai più probabile (Francisque - Michel), che 
lo trae da fouiller, cel mostrerebbe nato in Francia. Rif, 
rifle, fuoco, ruffant caldo (abbaye ruffante forno 
caldo), pajon venuti dal furbesco, dove sono: ruffo /fio- 
co, ruf foioso rotto, arroffare cuocere (voci consuonan- 
ti nel gergo d'Inghilterra, v. a p. 133); e così grinchir 
voler (furb. grancire, id.), e a 1 1 u m e r voir, regarder (furb. 
allumare id.) ; ma andrò per (emme che il Francisque-Mi- 
chel dice da landra (donna) del furbesco, potrebb' essere 
una indipendente applicazione dell' andre fille de joie che lo 
stesso erudito mostra proprio del linguaggio popolare di Fran- 
cia sin dal XIV secolo. Cosi potrebbero avere indipenden- 

1 V. Pott,ib. II. 327,41, 42, 71, 14, 18. In quest'ultimo loco, il chia- 
rissimo alemanno avanza l'ipotesi che mnrf del rothweUch (= moiri, 
bocca) aia alterazione di no wnrff (v. ih.); ma, nelle consonante tra* 
▼aij gerghi, vedremo or' ora eerte parentele di mnrf che diaeiade- 
ranno da quella congettura. 



6ERGB1. 1&) 

te dichiarazione dagli idiomi de* rispettivi paesi: trac une 
dee diverte* marnerei de voler, trucher mendier, gueu- 
ter dell'argot, truccante (ladro) del furbesco; a il e (a.) 
e a 1 a (fcf braccio ; p o i v r i è r e (argot; e, con senso alfine, 
poudrière nell'antico francese), polvorosa della ger- 
manla, ambo per strada (polverosa nel furbesco farina 
e campagna, presso il Biondelli farina soltanto); calca (ger- 
manla) strada, calcorros scarpe, calcosa (furbesco) 
terra, scarpa; brune (a.) nuit, bruna ugualmente notte nel 
furbesco; tirant (a. cabra, ed era pur dell'antico linguaggio 
popolare), tirantes (a.) chausses, nel furbesco tiranti cal- 
te calzar i\ trottante {t) cavallo, troton nella germanla 
rossa l (arg. trottante sorcio); anse (propriamente manico 
<f un vaso nel francese, come osa nello spagnolo) dell 9 argot, e 
a sa della germanla, orecchio; e sbasir (a.) assassinare, 
sbasire (f.) morire (sbasire nel vocabolario veneziano ò 
sì morire che uccidere; ant fr. basir it. basire morire); 
tourtouse (a.) corda (cfr.il tourtoise capestro, dei Dizio- 
nari) che ricorda al Francisque- Michel il torta corda del 
furbesco, torto sa presso il Biondelli. H furbesco ba al- 
berto per uovo 2 e albume per argento (cfr. biancume, 
p. 133), la germanla albayre e l'argot avergot am- 
bo per uovo, ed aubert quest' ultimo gergo per argent, 
con l'apocope flac d'ai... (alberi) sacoche en argent; i 
quai vocaboli si aggruppano intorno ad a 1 b a r spagnolo bian- 
co, biancastro, albume e aubin dell' italiano e del fran- 
cese per bianco delV uovo. Il boccone majale del ger- 
go d' Italia non ha dato orìgine air equivalente bacon 
dell'argot, il quale ritrae un termine dell'antico francese e 
di varj antichi dialetti di Francia (v. Francisque-Michel, 25, 
a); ma piuttosto avrebbe a dirsi che il vocabolo furbesco 
è un riflesso del franco-gergale, qualora non voglia am- 
mettersi accidentale omofonia. Dicono queir animale stesso: 



1 Poiiy IL 22: rodo. Il Dis. di Quintana dà troton per t. m. ant. 

chetai, coursier. 
* Biondelli nel Saggio, certo per errore tipografico: ove. 



l4o STUDJ CftlTICT. 

grugnante furbesco, grondili dell'argot, gru n ter dei 
cani, g r u n i k k e 1 del rothwelsch, g r u H e n t e della germa- 
nìa, chrundak degli Àféni; consuona nze che hanno la loro ra- 
gione nel verbo consimile col quale i diversi linguaggi esprimo- 
no per onomatopea lo stridere di codesto quadrupede. Bolla 
è nel farbesoo ctftò, boni e nelT argot fiera ó festa \ l'an- 
tica germanìa aveva b o 1 a per feria (fiera), e Y antico francese, 
come scorgesi dagli esempj che il Francisqu e- Michel rac- 
colse, houle e baule per allegra adunanza o qualcosa di 
simile; dopo i quali ravvicinamenti non saprebbesi conve- 
nire della priorità del bolla furbesco. Rabouin (a,) e ra- 
buino (f.) diavolo, abbiamo veduto di sopra (pag. 22). Pa- 
jon venuti da' gerghi di Spagna nell'argot: Joy e use spada, 
la joyosa che i vocabolari spagnoli registrano come po- 
polare, col significato medesimo ; cigale, sigue pièce <f or, 
cica e cigarra del gergo spagnolo per borsa ; verdou- 
sier fruitier, nella germanìa verdosos fichi (spagn. wr- 
doeo verdastro; furbesco ver do so porro); e delta stessa 
provenienza son forse ventosa del furbesco. Tentarne 
dell' argot, finestra (germanìa ventosa, spagn. venta ma, 
id.). Morfe, pasto, morfier, mangiare, ed altre voci di 
questa famiglia che sono nelP argot, rispondono al morfia, 
bocca, m o r f i r e mangiare, del furbesco (di sopra vedem- 
mo F equivalente murf, morf del rothwelsch) ; ma v'han- 
no anco nell 9 antico francese le forme analoghe. Che le vo- 
ci d'argot mec maitre, rot'(mec dea mecs, Dio), mé- 
quer commander,e simili, derivino, come il Ftancisqne-Mi- 
chel crede, dal maggio furbesco re, signore (cioè mag- 
giore-, primo maggio, Dio), dubiterei. Né mi pare so- 
stenibile Fipqtesi del Pottcbeil marchese furbesco (ar- 
got marqué mese) sia uno sfiguramelo fonetico di mese 
(m-arch-ese), quando si consideri l'ampia famiglia gergale 
marqué marcona marca marquida di cui toccammo 
a p. 130 \ — Niba, niberta ha il furbesco per no, nul- 



1 Ipotesi ifortoaito del caiarisaimo alemanno sodo pur qtetìe (ib. 27, 39) 



roteai. i{t 

r affatto, e l'argot nibergue col significato stesso. Quest'ul- 
timo gergo ha guiiial jwifc grand guinal moni de piò- 
te, guinaliser circoncire\ il furbesco ne dice gnigno per 
ebreo; e ghia al do ho sentito per giudeo che affetta e- 
leganza; voci che ricordano il ghi n a ld, milanese, scaltro, 
onde g h i n a 1 d ì a, del milanese antico, destrezza, ottundine a 
checchessia. Girfle, girofle, gironde è all'argot agréa- 
ble, oònable, e gir onda vale al furbesco Nostra Donna 
(Canssonamento della Gironda, Ave Ilaria). Il furbesco ha 
gualdi e grisaldi per pidocchi \ la germanìa gao pi- 
docchio (anoo nel vocabolario spagnolo, come voce popo- 
lare); l'argot gau, got, id., e bande s grises pidocchi. 
Tartir (a.), tartire (f), scaricare il ventre. Caperai è 
il gallo si nella germanìa che nel rothwelsch (v. Porr, IL 
22). — Non tentammo, presso codest' ultima accolta di vo- 
ci, di scoprir donde prendesse a diffondersi la data espres- 
sione gergale ; né il tenteremmo presso a dizioni della cate- 
goria cai spettano il crea cria per carne di sopra ve- 
duto, che si accompagna al crioja della germanìa, al creu 
di Vulcanio (Porr, 1.3-6, IL 16), kreges del rothwelsoh 
danese, sempre per carne (cfr. il karialo, id», che si dà 
per zinganico), oppure il lime dell' argot, lima del fur- 
besco e della germanìa, camicia, che ricomparisce (se l'ap- 
parenza non inganna) nel limsk camUcia, limes feto, del 
rothwelsch danese, ed è il lima* del basso-latino. La società 
furfantina e ungarica si versa e riversa perpetuamente dal- 
l' un paese in l'altro, e mette in misteriose colleganze le 
forze e le favelle sparte. 

I casi in cni la somiglianza non istà che nel traslato, 
o solo in una speciale conformità d' intendimene», gioverà no- 
tare; ma chi si porrà a sceverarvi l'accidentale dall'imi- 
tativo ? I prQaoroi personali troviamo sfigurati con grande ca- 
ra ne' gerghi d'Italia e di Francia; ed è ragionevole diligen- 

intorao a forgile (a.) e a orna (germanìa antica) chevalgon nolie 
• aon riportale dal Fraacifqae-Mickel a a oro proteuale, utmbre, 

18 



l{l STUDI CRITICI. 

za furbesca il nascondere le persone. Dee pronomi travestiti 
dall'argot già vedemmo a p. 109; ci aggiungeremo:, (me- 
le r e), mésigue, mésigo, moi ; t e s i è r e, t $ $ i g u e, t e - 
sigo, tesi n guard, toi; sésière, sósigu^ sesingard, 
lui, elle, soi-méme. Nel furbesco: il gobbo, monarca, 
montagna, mia madre, tutti per io (me); sua madre, 
egli, eUa; I u i s o, egli \ — Ora semplici concordanze di trasla- 
ti : p r o f o n d e nelP argot tasca (p. 1 1 0) e ugualmente h 1 ub o- 
k a (profonda) tasca nella hantyrka ; reluit, ardents (Sub), 
quinquet, chassis dell'argot, luceros, fanal, que- 
mantes, rayos della germanla, lanterne, balchi (bal- 
coni) del furbesco, g 1 a z i e r s (vetraj), o r y s t a 1 s, day- li ghts 
(lumi del giorno), sky-light (lume del cielo) di furbeschi 
inglesi, per occhio, occhi ; rase, ratichon, dell' argot, 
prétre, cure, g a 1 1 aji (raso, calvo) del giudeesco ; e r e u x 
logis, maison nell'argot, e caverna lo stesso nella ger- 
manla. Cent e Ma (propriamente scintilla, fulmine, lampo) è 
spada in quest' ultimo gergo ; cosi, nelT argot, flambé dice 
spada del pari che flamberge (v. p. 120, n.), e il funke(l) 
tedesco (scintilla) è adoperato con valore consimile nel voca- 
bolo rotvelscico grassfunkel falce, quasi scintùkhaW-erba. 

E qui fo punto. La materia è ben lungi dall' essere 
esaurita; ma io temerei, continuando, di mettere a troppo 
dura prova la pazienza del lettore. E spero, d'altronde, avergli 
ormai offerte sufficienti prove dell' ampiezza e dell' importanza 
linguistica e filosofica di codeste furtive creazioni della in- 
telligenza umana; intorno alle quali troviamo assidei, con 
intenti diversi, i Militi della Scienza e le Autorità di Pub- 
blica Sicurezza. 

1 Vediamo, aecaato a* pronomi, i travestimenti del si e de) no. Nell'argot: 
gy* girolle (coninone lo Cechi delrothw., si, presso V Anton), 
e nel furbesco: siena, sedici, cortesia, per si. Niberta e af- 
fini già vedemmo per no; a cui si uniranno, per il furbesco : amore, 
a b tona, nicolo (nihil o il ted. nichi travestito a nome proprio). 



Nota a pag. 83. 

Errò chi mi fece dubitare delle asserzioni del Bion- 
delti circa la presenta di popolazioni greche nel Napoleta- 
no. Codeste popolazioni vi hanno; e il Signor Domenico 
Comparetti, professore di lettere greche nella Università di 
Pisa, deve aver pubblicato non ha guari qualche saggio di 
loro dialetto. 



Io principio di pag. 35 si legga premendo guif » cA# in luogo di 
puntando suW che i.