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Full text of "La vita e le opere di Giambattista Marino; studio biografico-critico"

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LA  VITA  E  LE  OPERE 


GIAMBATTISTA    MARINO 


y 


"^  LA  VITA  E  LE  OPERE 


GIAMBATTISTA  MARINO 


STUDIO  BIOGRAFICO-CRITICO 


MARIO  MENGHINI 


ROMA 

LIBRERIA    A.    MANZONI 

DI  E.  MOLINO  -  Corso  264 

1888 


;KAi 


(/      WAn2l''974 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


UoMA,    1888  —  Tip.   Mefasfasio 


A  FRANCESCO  TORRACA 


PREFAZIONE 


Non  m' illudo,  ne  meno  lontanamente.  Questo  mio 
studio,  condotto  su  materiale  nuovo  od  inesplorato., 
contiene  tutti  i  vizi  e  tutte  le  imperizie  dì  un  libro, 
per  il  quale  l'aiuto  di  lavori  anteriori  è  stato  quasi 
nidlo,  se  non  affatto  inidile  ;  e  ciò  per  molte  ra- 
gioni, non  ultima  delle  quali  la  figura  stessa  del 
poeta,  che,  pter  indole  propria,  e  per  mala  piega  de- 
gli altri,  è  stata  completamente  svisata. 

Nella  preparazione  poi  di  questo  studio  è  venuta 
fuori  la  necessità  di  una  storia  sidla  poesia  pasto- 
rale italiana  ;  perche  ipiii  cìie  mai,  ne'  secoli  XVI  e 
XVII j  le  letterature  straniere  si  foggiarono  sulla 
nostra,  ed  un  alito  di  vita  pastorale  si  sparse  per 
tutta  V  Europa,  così  potentemente,  da  inaridire  quasi 
ogni  fonte  poetica,  nella  quale  non  entrasse  il  senti- 
mento bucolico.  B  Weinberg,  il  (1)  ffiihle  (2)  ed  idti- 

(1)  Gr.  'Weinberg,  Das  franzosische  Schiìferspiel  in  der  Hiilfte  des 
XVII  Jaìiì-hundet-ls,  Frankfurt,   1884. 

(2)  Fr.  Rùhle,  Das  dentsche  Schiìferspiel  des  XVIII  Jahrhiinderts, 
Halle,  1883. 


—  vili  — 
mamente  il  Korting  (1)  di  Germania  ;  il  Bonafons  (2) 
ed  il  Bernard  di  Francia  intrapresero  uno  studio 
serio  e  minuto  sidla  jjastorale  francese  e  tedesca  ;  noi 
in  Italia  ahhiam  fatto,  è  vero,  qualcosa^  ma  gli  studi 
fatti  non  corrispondono  all'  importanza  dell'argo- 
mento ;  (3)  limitandoci  ad  un  breve  studio  sulla  buco- 
lica de'  nostri  sommi  poeti,  sema  legar  insieme  questi 
studi,  che  dovrebbero  poi  condurre  ad  una  Storia 
completa  della  poesia  pastorale  ;  dall'  autore  della 
Divina  Commedia^  a  Giambattista  Marino.  E  reca 
veramente  meravìglia,  che  in  un'  epoca  di  grandi 
ricerche,  quaV  è  la  nostra,  manchi  questa  storia  ; 
perchè  la  pastorale  è  emanazione  puramente  nazio- 
nale ;  ptercM  Jacopo  Sannazaro  dà  al  mondo  civile 
mi  romanzo  prototipo  di  tanti  altri  spagnoli,  fran- 
cesi, inglesi  e  tedeschi  ;  mentre  Agostino  Beccavi  e 
subito  dopjo  Torquato  Tasso  ci  dònno  l'esempio  di 
un  dramma  pastorale  che  noi  riteniamo  come  supe- 
riore al  romanzo  pastorale,  il  quale  è  coltivato  quasi 
esclusivamente  dalle  altre  nazioni. 


(1)  H.  Korting,  Geschichte  des  franzosischen  Romans  ini  XVII  Jahr- 
htoidert,  Leipzig,  1885-87. 

(2)  N.  Bonafous,  Étucles  sur  VAstrée,  Paris,  Firmin  —  Didot,  1846. 

(3)  Fauno  adunque  eccezione  F.  Torraca,  che  studiò  e  studia  ancora 
con  amore  il  Sannazaro.  (Cfr.  F.  Sannazaro,  nella  Cronnra  del  Liceo 
V.  Emanuele  dì  Napoli,  1879;  —  Imitatori  stranieri  dei  Sannazaro,  Roma, 
Loescber,  18S2  ;  —  La  materia  dell'Arcadia,  Città  di  Castello,  Lapi,  1887). 
Vittorio  Rossi,  (Cfr.  G.  Guarini  ed  il  Pastur  Fido,  Torino,  Loescher,  1887). 

,B.  Zumbini,  che,  nel  suo  studio  sul  Petrarca,  toccò  anche  le  egloghe  la- 
tine del  poeta.  A.  Hortis,  (Cfr.  Studi  sulle  opere  latine  del  Boccaccio, 
Trieste,  1880.)  Come  vediamo  è  poca  cosa,  per  una  letteratura,  nella 
quale  la  poesia  pastorale  ebbe  si  lungo  ed  importante  dominio. 


—  IX  — 

Ed  io  m'unisco  sinceramente  al  signor  Vittorio 
Rossi  che  nel  suo  pregevole  libro  sul  Pastor  Fido^ 
invoca  una  storia  della  imesia  pastorale  ;  compiuta 
la  quale,  son  fermamente  convinto^  saranno  risolute 
molte  ed  importantisshm  questioni  letterarie,  fra  le 
quali  primeggia,  e  questo  lo  dico  fin  d'ora,  la  causa 
dell'origine  della  maniera  di  poetare,  che  venne  chia- 
mata il  Seicentismo. 

Roma,  aprile  1888. 

Mario  Menghini. 


INDICE 


Prefazione. 


PARTE  I. 


Capitolo  I.  —  La  critica  e  la  letteratura  del  secolo  XYII  — 
Condizioni  della  letteratura  italiana  alla  fine  del  secolo  XVI 

—  Milton  in  Italia   —   La    Chiesa,  l'Inquisizione  ed  i  filo- 
sofi del  Seicento Pag.       3 

Capitolo  II.  —  Torquato  Tasso  e  la  fine  del  Cinquecento  —  Fonti 
epica,  cattolica  e  lirica  —  Loro  decadenza  :—  £agioni  di 
qnestar-decàdehza »       11 

Capitolo  III.  —  La  società  del  Seicento  —  Sue  aspirazioni  — 
Indole  del  Marino  —  Carlo  Emanuele  I  di  Savoia  —  Sguardo 
generale  sulla  storia  italiana  nel  secolo  XVII  —  Carlo  Ema- 
nuele e  i  poeti  del  Seicento »       17 

Capitolo  IV.  —  Indirizzo  della  poesia  del  secolo  XVII  —  Tra- 
iano Boccalini,  la  «  Pietra  del  paragone  politico  »  e  i  poeti 
spagnoli  —  Desiderio  di  novità  nelle  fonti  poetiche  —  Il 
Marino  ne  è  creduto  l'innovatore  —  Evidente  falsità  di  que- 
sto giudizio »       28 

Capitolo  V.  —  Giovanni  Battista  Marino  e  i  suoi  biografi 
sincroni  —  Primi  anni  d'età  —  Suoi  dispiaceri  in  famiglia 

—  Sua  prigionia  —   Fuga  da  Napoli »      41 

Capitolo  VI.  —  Il  Marino  a  Roma  —  È  accolto  da  Melchior 
Crescenzio  —  Suoi  viaggi  per  l'Italia  —  Prima  edizione 
delle  sue  rime  —  Analisi  di  queste  —  Concetto  dell'amore 
nel  Marino    —    È    famigliare   del    cardinale  Aldobrandino.         »       51 


XII    — 

Capitolo  VII.  —  Il  Marino  alla  corte  di  Carlo  Kmanuele  di 
Savoia  —  Il  Marino  e  il  Murtola  —  La  Marinatele  e  la 
MurfoleUle  —  Panegirico  del  Marino  al  duca  di  Savoia  — 
Tentato  assassinio  del  Marino  e  sua  prigionia  —  L'Italia  si 
commuove  per  questo  fatto  —  Liberazione  del  Marino  — 
La  "  Fera  tnagnanima  di  Lenin  „  e  le  guerre  letterarie  del 
Seicento  —  La  terza  parte  della  Lira  del  Marino  ....    Pag.  102 

Capitolo  Vili.  —  Il  Marino  alla  Corte  di  Francia  —  È  accolto 
festeggiatissimo  da  Maria  de'  Medici  e  dal  Concini  —  Tur- 
bolenze in  Francia  e  timori  del  Marino  —  La  Galleria 
—  Lope  de  Vega  e  il  Marino  —  Analisi  della  Galleria  — 
Fama  immensa  del  Marino  —  Suoi  imitatori  e  traduttori  in 
Francia   —  Il  Malherbe    gli    è    nemico  —  La  Sampogna  —  v^ 

Valore    della   poesia  pastorale  del   Marino »    129 

Capitolo  IX.  Il  Marino  e  1'  Hotel  rie  Tiarnhouill et  —  Ij  Adone  — 

II  Marino  e  lo  Chapelain  —  Valore  letterario  e  morale  del  ^ 
poema  —  Il  Marino  poeta  epico  e  lirico  —  Venus  and 
Adonis  di  Shaìkéspeare  —  Valore  lirico  del  poema  shakespea- 
riano —  Vénus  et  Adonis  del  La  Fontaine,  e  gli  altri 
poemi  sul  mito  adontano  —  La  favola  di  Amore  e  Psiche  — 
Marino,  La  Fontaine  e  Molière  —  Importanza  del  mito  di 
Psiche »     192 

Capitolo  X.  —  Il  Marino  torna  in  Italia  —  Accoglienze  che 
riceve  in  patria  —  Sua  morte  —  Esequie  del  Marino  — 
Ritratto  del  poeta  —  Indole  generale  della  sua  lirica  — 
Lc(  Strage  degli  Innocenti »     264 

Capitolo  XI.  —  Tommaso  Stigliani  contro  il  Marino  —  Com- 
batte l'^rfo^e  anche  dopo  la  morte  dell'autore  —  Apologisti 
del    Marino  —  Angelico  Aprosio   da  VentimigUa »    282 

PARTE  IL 

Capitolo  XIL  —  Il  seicentismo  in  Europa  —  Una  polemica 
letteraria  alla  fine  del  secolo  XVIII  —  Opinione  del  D'O- 
vidio sul  seicentismo  —  Gongora  e  i  gongoristi  —  Quevedo 
e  1  culteranisti  —  La  PU'iade  e  i  poeti  crottés  —  Lilly  e 
gli  eufuisti  —  Hofifraannsvaldau  e   la   scuola   della   Slesia.        »     315 

Capitolo  XIII.  —  Il  seicentismo  e  la  poesia  pastorale     ...        »    347 

Documenti w    355 


t; 


PARTE  PRIMA 


Capitolo  I. 


l<a  critica  e  la  letteratura  del  secolo  XVII  —  Condizioni  della  letteratura 
italiana  alla  fine  del  secolo  XVI  —  Milton  in  Italia  —  La  Cliiesa, 
l'Inquisizione  ed  i  filosofi  del  Seicento. 


Purtroppo  è  vero  die  sulla  nostra  storia  lette- 
raria vi  è  ancora  molto  da  studiare  ;  il  Seicento  poi 
è  affatto  inesplorato.  Sembra  clie  i  critici  italiani 
arrivati  al  Tasso,  che  chiude  si  gloriosamente  il 
secolo  XVI,  ed  anzi  è,  come  dice  il  Carducci, 
«  il  poeta  dell'età  di  transizione,  »  abbiano  sde- 
gnato di  studiare  quella  letteratura  mezzo  imba- 
stardita ;  la  letteratura  seicentista,  che,  per  varie 
cause,  tanto  risente  delle  letterature  straniere  con- 
temporanee, della  spagnola  in  ispecie.  Sarebbe 
qui  inutile  ricordare  che  della  nostra  letteratura  si 
sono  studiate,  e  si  studiano  ancora  con  amore  le  ori- 
gini; poi  le  monografìe  e  gli  studi  critici  si  sono  ag- 
gruppati attorno  a  quattro  o  cinque  delle  maggiori 
glorie  italiane:  Dante,  il  Boccaccio,  il  Petrarca, 
l'Ariosto  e  forse  il  Tasso;  ma  delle  minori,  una 
delle  quali  illustrerebbe  degnamente  una  lettera- 
tura che  non  fosse  l'italiana,  la  quale  ne  ha  prò- 


—  4  — 

dotte  in  copia  si  grande,  poco  si  è  fatto,  perchè 
sieno  poste  sopra  quel  piedistallo  che  meritano. 
L'Alamanni,  l' Aretino,  il  Franco,  il  Tansillo,  il 
Bembo,  e  tutta  quella  mirabile  schiera  d'umanisti, 
che  furono  di  saldo  puntello  a'  moti  progressivi 
del  E-inascimento,  giacciono  nell'oblio. 

Il  Seicento  poi,  come  abbiamo  detto,  è  un  de- 
serto per  la  critica  letteraria  ;  e,  se  si  volesse  ar- 
gomentare dalla  ripugnanza  che  hanno  avuto  i 
letterati  di  occuparsi  di  quel  periodo,  parrebbe 
che  la  letteratura  italiana  al  secolo  XVII  fosse 
una  macchia  vergognosa  per  la  nazione. 

Ed  infatti  sin  dai  primordi  del  secolo  XVIII, 
o  per  meglio  dire  sin  da  quando  Cristina  di  Svezia, 
coadiuvata  dal  Crescimbeni,  fondava  in  Roma 
YAì'cadia,  che  era  nata,  come  tutti  sanno,  «  per 
porre  un  riparo  ai  deliri  ed  alle  stranezze  del  Sei- 
cento, »  cominciarono  le  invettive  contro  la  lette- 
ratura seicentista.  «  Eccoci  a  un  argomento,  scrive 
il  Tiraboschi,  di  cui  par  che  l'Italia  debba  anzi 
andar  vergognosa,  che  lieta  e  superba.  Se  alcuni 
degli  scrittori  da  noi  in  addietro  accennati  usano 
d'uno  stile  tronfio  e  vizioso,  essi  almeno  c'istrui- 
scono co'  lumi  che  spargono  o  sul  Regno  della 
Natura  o  sulle  vicende  de'  secoli.  » 

E  non  è  solamente  l'eruditissimo  abate  mode- 
nese, che  abbia  questo  pregiudizio:  il  Quadrio,  il 
Corniani,  il  Salfi  e  giù  giù  sino  al  Settembrini, 
pel  quale  ultimo  il  seicentismo  non  è  altro  che 
il  «  Gesuitesimo  nell'Arte,  »  tutti  gli  storici  della 
letteratura  non  possono    astenersi    dal    deplorare 


—  5  — 
quell'epoca;  la   quale   cancellerebbero    con    gioia 
dalla  storia  letteraria,  se  ciò  fosse  in  loro  potere. 

Eppure  il  Galilei  inventa  il  cannocchiale  e  con 
quel  jDrimitivo  istrumento  ottico  indaga  le  vie  del 
cielo,  mentre  che,  come  -filosofo,  pianta  le  basi 
solide  della  scienza  moderna  ;  eppure  Giordano 
Bruno  e  Lucilio  Vanini  corrono  l'Europa  predi- 
cando la  libertà  di  coscienza  ed  il  libero  esame; 
e  «  Carlo  Sigonio,  con  le  Storie  del  Regno  d'Italia^ 
apre  insignemente  all'Europa  l'età  critica  degli 
studi  su  l'anticliità  e  su  '1  medio  evo;  »  (1)  eppure 
Alessandro  Tassoni,  Fulvio  Testi,  Gabriello  Cliia- 
brera  sono  i  continuatori  della  gloriosa  letteratura 
del  Cinquecento,  mentre  Giovanni  Battista  Marino, 
Tommaso  Stigliani,  e  con  loro  la  schiera  degli 
imitatori,  se  non  hanno  un  vero  e  puro  concetto 
dell'arte,  segnano  nondimeno  l'era  d'una  nuova 
poesia. 

L'Italia  aveva  terminato  l'opera  sua  del  E<ina- 
scimento,  da  lei  intrapresa  con  incredibile  sforzo 
e  fortuna.  Per  circa  due  secoli,  noncurante,  con 
singolare  disprezzo,  che  eserciti  stranieri  la  per- 
corrano e  l'opprimano;  soffrendo  che  i  due  grandi 
mastini  del  Cinquecento,  Francia  e  Spagna,  se  la 
litighino  e  se  la  strappino  a  brandelli  a  vicenda  ; 
l'Italia,  tranquillamente,  dopo  di  aver  compiuta 
la  grand'opera  d'illuminare  il  mondo,  sulla  fine 
del  secolo  XVI,  si  riposava  dall'  aver  terminato 
un  lavoro  cosi  grandioso. 

(I)  G.  Carducci,  S:icrli  letterari,  Livorno,   1880. 


—  6  — 
I  popoli,  potentemeiLte  spinti  dal  pensiero 
italiano  e  dalla  Riforma,  eh'  è  un  frutto  di  quello, 
nel  progresso  della  civiltà,  cominciavano  ad  operar 
da  se.  E  qui  per  l'Europa  comincia  il  grande  pe- 
riodo del  libero  scambio  delle  idee;  e,  come  s'  è 
detto,  Bruno  e  Yanini  percorrono  la  Francia,  l'In- 
gliilterra  e  la  Germania;  dappertutto  essi  sono 
l'alito  della  vita  scientifica,  e  attorno  ad  essi, 
nelle  Università  di  Francia  e  d'Inghilterra,  s'ag- 
gruppano valenti  discepoli  ;  di  qui  datano  le  più 
perfette  traduzioni  de'  capolavori  italiani,  ed  i 
carteggi  de'  grandi  letterati  che  s'interrogano  a 
vicenda  e  si  comunicano  le  idee  che  ricevono 
dalle  letture  de'  classici  ;  Giovanni  Milton  viene 
in  Italia,  e,  non  ostante  i  suoi  istinti  e  la  sua  re- 
ligione puritana,  è  acclamato  in  tutte  le  corti 
italiane;  né  fu  meno  graziosa  l'accoglienza  tro- 
vata a  E,oma,  e  presso  un  porporato  com'  era  il 
colto  nipote  d'Urbano  Vili,  Francesco  Barberino  ; 
ed  il  puritano  pranzò  fin  nel  Collegio  di  sua  na- 
zione, a  S.  Tommaso  di  Cantorberi.  (i) 

L'iUustre  autore  del  «  Paradiso  perduto  »  che 
aveva  intrapreso  quel  viaggio  con  le  prevenzioni 
del  Watton,  il  quale  l' ammoniva  a  guardarsi 
dalle  corti  italiane,  viene  festeggiato  in  tutte  le 
accademie  di  quel  tempo,  ed  in  quella  degli  Svo- 
gliaii  legge  una  poesia  latina  in  versi  esametri 
molto  erudita;  a  Xapoli  è  ospitato  dal  Manso,  il 
grande  amico  e  protettore  del  Tasso  e  del  Marino, 

(1)  A.  Reumont,  Milton  e  Galileo   (uel    volume.    Storia  e   letteratura^ 
Barbèra,  1880,  pag.  408). 


—  7  — 
e  lasciando  l'Italia,  dedica  all'ospite  la  bellissima 
poesia  latina  «  Mansus  ;  »  nella  quale  dice  di  lui 
«  vir  ingenii  laude,  tum  literarum  studio,  neo 
non  et  bellica  virtute,  apud  Italos  clarus  in  primis 
est:  »  più  in  là: 

Te  pridem  magno  felix,  concordia  Tasso 

Funxit,  et  aeternis  incripsit  nomina  chartis. 
Mox  tibi  dolciloquum  non  inscia  Musa  Marinum 
Tvadidit  ; 

e  chiude  l'elegia  con  questi  versi: 

Fortunate  Senex  !  ergo  quacunque  per  orbera 
Torquati  decus  et  nomen  celebrabitur  ingens 
claraque  perpetui  succrescet  fama  Marini,.... 

Il  nuovo  metodo  critico-sperimentale  applicato 
allo  studio  dello  scibile  umano,  accoppiato  allo 
spirito  di  novità,  caratterizza  la  coltura  seicen- 
tista.  In  Europa,  e  specialmente  in  Ispagna  ed 
in  Italia,  l'Inquisizione  tenta  reprimere  il  novello 
impulso  che  riceve  l'arte  e  la  scienza  con  le  per- 
secuzioni e  colle  torture,  bruciando  uomini  e  libri  ; 
e  tentando,  nella  sua  bestiale  aberrazione,  di  far 
riconquistare  alla  Chiesa  quel  primato  ch'avea 
perduto  per  sempre.  Ma  i  pensatori  guardano 
tranquillamente  quegl'istrumenti  di  tortura  che 
la  Chiesa  loro  prepara,  e  i  libri  si  moltiplicano 
con  grande  rapidità. 

Tommaso  Campanella,  novatore  e  investigatore 


—  8  — 
in  ogni  ordine  di  cose:  in  filosofìa,  in  politica;  (1) 
cospiratore  e  capo  di  partito,  e  clie  dal  fondo  di 
un'orrida  galera  tracciava  e  pensava  la  sua  «  Città 
del  Sole,  »  Tommaso  Campanella  «  il  martire  delle 
novelle  speculazioni  »  (2)  è  torturato  sette  volte  e 
rimane  sepolto  in  carcere  27  anni;  (3)  e  Lucilio  Va- 
nini  e  Giordano  Bruno  precorrono  il  Vico  e  il  Gian- 
none.  Ma  che  importano  a  loro  le  torture  orribili 
e  le  persecuzioni  incessanti?  Che  importa  al  Ga- 
lilei della  relegazione  perpetua  in  Arcetri?  A 
quei  grandi  sarà  tolto  tutto  fuorché  pensare; 
è  questo  accentramento  di  tutte  le  facoltà  del 
pensiero  sopra  i  fenomeni  e  le  opere  della  na- 
tura che  bisogna  valutare  nella  cultura  seicen- 
tista. 

«  Il  pensiero  d'allora  mirava  ad  una  riforma 
profonda  e  radicale.  A  lato  delle  vecchie  uni- 
versità si  vedono  sorgere  società  libere,  consacrate 
ed  inspirate  al  pensiero  nuovo;  il  quale  penetra 
sin  nei  conventi,  antichi  asili  della  scolastica,  ed 
i  più  ardenti  apostoli  della  nuova  filosofìa  nascono 
dal  seno  degli  ordini  religiosi;  non  v'è  lembo  di 
terra  italiana  che  non    dia    il    suo    contributo  a 

(1)  Opere  di  Tommaso  Campanella,  ordinate  ed  annotate  da  Alessandro 
D'Ancona  e  precedute  da  un  discorso  del  medesimo  sulla  vita  eie  dottrine 
dell'autore,  Torino,  Pomba,  1853,  pag.  CXLIX. 

(2)  Gabriele  Naudè,  che  venne  in  Italia  per  comperar  libri  per  i! 
cardinale  Mazarino,  e  che  conobbe  il  Campanella,  nel  suo  libro  «  Coupn 
d'K.'at  »  cap.  IV  dice:  «  Et  lorsque  Campanella  eut  desseia  de  se  faire 
roi  de  la  Ilaute-Calabre, u 

(3)  Cinquanta  prigion,  sette  tormenti 

Passai 

cantava  il  povero  prigioniero. 


—  9  — 

questa  nobilissima  milizia;  però  nei  filosofi,  spe- 
zialmente meridionali,  domina  l'immaginazione  ; 
la  loro  ragione  non  è  abbastanza  matura  per  con- 
tenerla; e  perciò  corron  dietro  a  sistemi  non  suffi- 
cientemente studiati,  e  die  essi  non  ancora  com- 
prendono. Bruno,  spirito  pitagorico  e  platonico,  più 
pitagorico  cbe  platonico,  commosso  e  quasi  ine- 
briato dal  sentimento  dell'armonia  universale,  si 
slancia  dapprima  a  traverso  le  speculazioni  più 
sublimi,  ove  l'analisi  non  l'ha  ancora  condotto. 
Camminando  su  principi  che  egli  non  ha  ancor 
loene  esaminati  si  perde  nell'abisso  di  una  unità 
-assoluta,  destituita  dei  caratteri  intellettuali  e 
morali  della  divinità  e  inferiore  all'umanità  stessa. 
Spinoza  è  il  geometra  del  sistema.  Bruno  ne  è 
il  poeta.  Rendiamogli  almeno  questa  giustizia, 
che  prima  del  Galilei  amò  l'astronomia  di  Co- 
pernico. Il  grande  e  sventurato  filosofo  entrò  gio- 
vanissimo in  un  convento  di  domenicani  ;  un  giorno 
si  svegliò  con  uno  spirito  opposto  a  quello  del 
suo  ordine,  e  fuggi  dal  convento.  Andò  a  sedere, 
talvolta  come  scolaro,  talvolta  come  maestro,  nelle 
scuole  di  Parigi  e  di  Wittemberg,  seminando  per 
'via  scritti  ingegnosi  e  chimerici,  i  quali  gli  frut- 
tarono ]a  tortura  e  la  morte.  »  (1) 

Perchè  coloro  che  avevano  la  fregola  di  criti- 
care Aristotile  erano  torturati  od  arsi;  cosi  i  pe- 
ripatetici crearono  ad  arte  la  congiura  del  Cam- 
panella, per  perderlo  come    antiaristotelico;   cosi 

(l)  Victor  Cousin,  Vanini,  sa  vìe,  ses  écrits  et  sa  mori,  Revue  des 
X>eux  Mondes,  1843. 


—  10  — 

Torquato  Tasso  s'impazziva,  perchè  l'accusaTano- 
di  essere  tro]3po  platonico. 

E  noi  veramente  non  sappiamo  comprendere,, 
davanti  alle  nobili  figure  del  Bruno,  del  Vanini, 
del  Campanella  e  del  Galilei,  quello  che  dice  il  pro- 
fessor De  Castro,  facendo  un  rapido  riassunto 
delle  condizioni  politiche  dell'Italia  nel  Seicento  : 
«  Xon  solo  era  morta  ogni  libertà  fra  noi,  non  solo 
l'indipendenza  era  perduta,  si  perduta  che  anche 
il  desiderio  di  essa  taceva  nel  petto  dei  più;  ma 
la  stessa  coscienza  umana  sonnecchia  e  poltrisce; 
ed  era  venuta  meno  perfino  la  protesta  delle  virtù 
personali  e  solitarie.  »   (1) 

Questo,  diciamo,  è  ingiustificabile,  quando  s'os- 
servi la  fermezza  d'animo  del  Vanini,  che  vittima 
d'una  vendetta  privata,  davanti  al  rogo  a  lui  desti- 
nato, risjDonde,  raccogliendo  un  fuscello  di  paglia, 
a  chi  lo  accusa  di  ateismo  :  «  Questo  solo  basta 
per  provare  l'esistenza  di  Dio;  »  quando  è  suf- 
ficiente che  il  duca  di  Savoia  mostri  ambiziosi 
desideri,  perchè  negl'italiani  nascano  nobili  spe- 
ranze, e  una  miriade  di  poeti  lo  acclami  liberatore 
d'Italia,  e  del  giogo  obbrobrioso  degli  Spagnoli. 

(•i)  De  Castro,  Fulvio  Tfsti  e  le  Corti  italiane,  Milano,  1875.  Ques  *>• 
libi'o  del  resto,  è  stato  giudicato  con  severità. 


—  11 


Capitolo  II. 


Torquato  Tasso  e  la  fine  del  Cinquecento  —  Fonti  epica,  cattolica   e  li- 
rica —  Loro  decadenza  —  Ragioni  di  questa  decadenza. 


Il  secolo  XVI  è  precisamente  quello  del  pas- 
saggio del  Rinascimento  dall'Italia  alle  altre  na- 
zioni. L'Italia,  come  una  madre  affettuosa,  vigila 
sul  passaggio  della  coltura  latina  nelle  altre  na- 
zioni europee,  le  quali  in  cambio  di  questo  inap- 
prezzabile patrimonio  devastano  le  belle  terre  ita- 
liane, le  ubertose  pianure  lombarde  e  napolitano, 
e  mettono  a  ferro  e  a  fuoco  città  e  castella.  Con- 
temporaneamente deperiscono,  per  effetto  forse  di 
troppa  maturità,  i  principali  elementi  che  aveano 
cooperato  alla  grande  formazione  della  letteratura^ 
italiana. 

L'elemento  cavalleresco  muore  col  Tasso  e  forse 
prima.  Il  grande  e  gentile  cavaliere  del  cattoli- 
cesimo  s'accorge  che  il  mondo  lo  deride,  perchè 
tenta,  anche  rivestendo  a  nuovo  il  mito  cavalle- 
resco, dare  nuova  vita  al  grande  quadro  che  aveva 
fatto  palpitare  l'umanità  per  oltre  quattro  secoli, 
e  impazzisce  dal  dolore.  Povero  Torquato  !  Tentò 
generosamente  ridestare  un  passato  ormai  morto, 
anzi  sepolto,  e  la  sua  fede  si  volta  indietro  men- 
tre  i  tempi   camminano;    e   però,  uscito   appena 


—  12  — 

•dal  mondo    ideale    del    poema,  ei    s'accorge   con 
terrore  che  nessuno  lo  segue.  (1) 

Egli,  glorioso  e  pio  cavaliere,  s'affanna  attorno 
al  grande  ideale  cavalleresco,  cercando  rialzarlo 
a  più  gloriosa  vita,  ringiovinendone  e,  in  certo 
qual  modo,  rinvigorendone  gl'intendimenti  e  le 
origini  :  in  questo  suo  pensiero  il  povero  Tasso 
fu  veramente  generoso.  «  L'elemento  cristiano, 
che  egli  introduce  nella  Gerusalemme^  è  introdu- 
zione nuova,  sua  e  originale.  »  Figlio  di  poeta, 
anima  eletta  d'artista,  che  in  gioventù  s'era  beato 
della  lettura  de'  romanzi  di  cavalleria,  non  può 
assistere  indifferente  allo  sfacelo  di  tanta  parte 
della  sua  vita  di  poeta.  Ma  il  mondo  era  entrato 
in  una  nuova  fase;  Cervantes  era  sorto  in  Ispa- 
gna,  la  culla  dell'elemento  cavalleresco,  il  Betlemme 
dei  romanzi  di  cavalleria,  e  nella  stessa  sua  pa- 
tria inenava  legnate  di  santa  ragione  sul  dorso 
di  questo  maraviglioso  ischeletrito,  che  tentava 
ancora  abbarbicarsi  alla  fantasia  umana,  dive- 
nuta scettica;  alni,  quasi  inconsciamente,  s'univa 
l'artista  forse  più  finemente  complesso  che  avesse 
l'Italia  al  secolo  XVIII,  Alessandro  Tassoni,  il 
quale  nella  Secchia  Rapita  ride  bonariamente  e 
deride  tutto  e  tutti,  principalmente  l'epopea  del 
Tasso  ;  nei  pensieri  afferma  che  le  rifritture  pe- 
trarchesche sono  diventate  troppo  uggiose  ;  e 
per  supremo  disprezzo  d'ogni  sentimento  caval- 
leresco, fa  sognare  ad    Enzo,    l'infelice    figlio  di 

(1)  Tulio  Massaraui,  Slmìi  di  letteratura  e  d'arte,  Firenze,  Le    Mon- 
nier,  1873.    pag.  114, 


—  13  — 
Federico  II,  le  imprese  più  eroiche  ;  Enzo  all'alba^ 
si    sveglia,   ed    ancor    pieno    delle    visioni    delia- 
notte, 

tratta  fuore 

La  spada  di'  avea  dietro  al  capezzale 
Menò  un  colpo,  e  ferì  sull'orinale. 

Ora,  come  ben  dice  il  Carducci,  se  anche  l'A- 
riosto s'avvale  del  comico,  «  ciò  gli  serve  per  ac- 
cidente secondario  e  non  come  condizione  essen- 
ziale. Mentre  che  la  Secchia  Bapita  è  un  esempio 
di  quella  epopea  che  solo  avanzò  all'Europa  oc- 
cidentale, dopo  che  il  gran  mutamento  di  cre- 
denze e  pensieri  avvenuto  nel  secolo  XVII  ebbe 
chiuso  il  medio  evo.  »  (1) 

Quasi  contemporaneamente  s'assottigliava  l'ele- 
mento cattolico,  e  quaranta  milioni  di  uomini, 
dopo  aver  gustato  il  miele  di  quell'umanesimo 
che  la  Chiesa  avea  tanto  favorito,  s'opponevano 
fieramente  ad  essa,  impugnando  gli  stessi  libri, 
le  stesse  dottrine,  ch'erano  state  la  delizia  dei 
pontefici,  da  Martino  V  a  Leone  X. 

S'osservi  finalmente  che  la  poesia,  quella  vera^ 
vergine,  che  parte  dal  cuore  ed  esce  dal  conven- 
zionale, non  esisteva  più. 

È  accettato  da  tutti  il  concetto  che  la  poesia 
lirica,  per  sua  natura  intima  e  subiettiva,  s'espone 
a  perdere  la  maggior  parte  delle    sue   attrattive 

(1)  Gr.  Carducci;  Prefazione  alla  Secchia  Rapita  di  Aless.  Tassoni,  Fi- 
renze, Barbèra,  1868,   pag.  XXXIX. 


—  14  — 

e  del  suo  valore,  accettando  un  impulso  dal  di 
fuori.  E  fin  da  quando,  col  Petrarca  cioè,  fin  da 
quando,  abbattuti  i  comuni,  sorsero  sopra  di  questi 
le  signorie  italiane,  alle  quali  tenne  dietro  il  pe- 
riodo della  dominazione  straniera,  cessò  in  Italia  la 
poesia  lirica,  vera,  che  fa  palpitare,  originale. 

L'ispirazione  comandata,  di  qualunque  forma 
sia  rivestita,  sarà  sempre  un  prodotto  bastardo. 
E  qui,  una  volta  tanto,  osserveremo  che  per  ren- 
dere alla  poesia  lirica  del  secolo  XVII  la  vita  e 
la  freschezza  che  le  mancavano,  sarebbe  stata 
necessaria  tutta  una  rivoluzione  nel  campo  delle 
idee  e  dei  costumi  ;  il  che  fu  per  allora  un'utopia, 
la  quale  però  divenne  realtà  quando  sullo  scorcio 
del  secolo  XVII  questa  rivoluzione  ebbe  campo 
di  svilupparsi  ;  ed  il  risultato  di  essa,  ormai  com- 
piuta, fu  in  Italia  Giuseppe  Parini. 

Si  trovi,  nello  spazio  di  centocinquant'anni,  un 
poeta  lirico  italiano  che  non  sia  lo  schiavo  ser- 
vile del  Petrarca.  Questi  era  per  i  lirici  ciò  che 
Virgilio  appariva  ai  poeti  epici;  ognuno  si  affa- 
ticava di  rivestire  le  forme  petrarchesche  di  forme 
novelle;  questo  della  poesia  lirica  era  come  un 
esercizio  ginnastico  dell'ingegno,  tanto  era  iuA^also 
l'uso  dell'imitazione;  ma  l'innumerevole  schiera 
di  poeti  lirici,  composta  in  maggior  numero  di 
abati  e  di  vescovi,  non  riusciva  ad  essere  che  la 
fredda  e  malsana  parodia  del  cigno  d'Arezzo.  (1) 

(1)  Cfr.  A.  Graf,  Petntrchismo  ed  Antipetrarchismo,  Nuova  Anto, 
logia,  1836.  Lavoro  questo,  che  è  un  ealutare  indirizzo  della  critica  verso 
un  campo  Inesplorato  e  ricco  oltremodo.  Perchè  è  notevole  la  quasi  asso- 


—  15  — 

In  ogni  paese,  scrive  il  Ticknor,  che  abbia  fin 
qui  tenuto  un  posto  fra  le  nazioni  aventi  un'ele- 
vata coltura  intellettuale,  il  periodo  ove  s'è  pro- 
dotto l'insieme  durevole  della  sua  letteratura  è 
stato  quello  della  sua  gloria  come  Stato. 

La  ragione  è  evidente.  È  allorquando  regnano 
tra  gli  elementi  costitutivi  del  carattere  nazio- 
nale viva  ammirazione  ed  attività  per  la  prospe- 
rità della  patria,  che  si  esplicano  naturalmente 
esse  stesse  con  la  poesia  e  con  l'eloquenza. 

Ora  questa  poesia  e  quest'eloquenza,  risultato 
della  condizione  d'effervescenza  del  popolo  e  ri- 
sultato della  sua  impressione,  divengono,  per  gli 
sforzi  futuri,  il  modello  o  il  tipo,  il  quale  può 
solamente  mutare  quando  il  sentimento  popolare 
è  di  nuovo  sovreccitato  da  un  entusiasmo  di 
pari  forza  verso  novelli  ideali.  (1) 

E  questo  è  vero.  La  Francia  ebbe  il  culmine 
della  cultura  nazionale  quando,  sotto  Luigi  XIV, 
era  a  capo  di  tutte  le  nazioni  europee;  la  Spagna 
ebbe  i  suoi  maggiori  poeti  e  prosatori  regnando 
Cario  V;  per  l'Italia  poi  il  fenomeno,  sebbene 
sotto  altre  forme,  non  fu  dissimile  ;  perchè  quando 
l'Italia  ne'  secoli  XIV,  XV  e  XVI  si  mostra  im- 
potente a  costituirsi  a  nazione,  non  solo,  ma  in 
lei  vien  meno  fìnanco  quell'elemento  religioso, 
che  per  tanti  secoli  le  avea  dato  un'incontestato 

lata  mancanza,  nella  poesia  del  Seicento,  di  quella  forma  petrarchesca, 
«  malattia  cronica  della  letteratura  italiana  »  come  osserva  giustamente 
il  Graf.  Noi,  in  seguito,  parlando  della  lirica  del  Marino,  vedremo  quanto 
questo  poeta  si  scosta  dal  Petrarca. 

(1)  Ticknor,  Bistory  of  Spaniah  Uterature,  London,  1863,  Voi.  II. 


—  16  — 
splendore  ed  il  potere  sulle  coscienze  delle  genti, 
europee,  essa  fu  invasa  dalla  coltura  classica^ 
obiettivo  pel  quale  i  maggiori  ingegni  vivevano; 
e  venendo  a  mancare  questa  grande  sorgente^ 
quando  appunto  spariva  anche  l'elemento  reli' 
gioso,  la  coltura  italiana  ne  ricevette  un  grand» 
colpo. 

Dileguatisi  gli  elementi  cattolico  e  cavalleresco^, 
ch'erano  i  principali  autori  ed  attori  della  lette- 
ratura italiana,  e  cessato  di  vivere  da  molto  tempo 
l'elemento  lirico,  doveva  sorgere  in  Italia  mx 
nuovo  genere  di  poesia. 

L'incivilimento,  ha  detto  il  Romagnosi,  scatur 
risce  da  un  completo  circolo  d'azione  e  di  rea- 
zione; e,  cessando  d'esistere  una  forza,  subito  ne 
subentra  un'altra. 

Questo  lavoro  di  formazione  e  di  trasformazione 
produce  sempre  una  manifezione,  che  se  è  antica 
nella  materia  prima,  assume  sempre  aspetto  dif- 
ferente. 


—  17 


Capitolo  III. 


I/a  società  del  Seicento  —  Sue  aspirazioni  —  Indole  del  Marino  —  Carlo 
Emanuele  I  di  Savoia  —  Sguardo  generale  sulla  storia  italiana  nel  se- 
colo XVI[  —  Carlo  Emanuele  e  i  poeti  del  Seicento. 


Durante  il  secolo  XYII  la  società  italiana  si 
riposava  e  guardava  quetamente  e  bonariamente 
i  suoi  conquistatori.  Qua  e  là  qualche  coscienza 
indipendente  cercava  ribellarsi,  ma  la  generosa 
ribellione  era  soffocata  nel  sangue.  Lo  provò  Tra- 
iano Boccalini,  cbe  tanto  scrisse  contro  gli  spa- 
gnoli, e  la  morte  del  quale  è  ancora  avvolta  nel 
mistero. 

È  certo  però  che  in  mezzo  alla  società  scet- 
tica e  leggera  del  Seicento,  doveva  sorgere  la 
poesia  leggera  e  ipocritamente  licenziosa,  e  per 
contrapposto  a  questa,  la  satira  :  dapprima  bo- 
naria e  sorridente  col  Caporali  e  col  Tassoni,  poi 
alta,  mordente  con  Salvator  Rosa  e  con  Bene- 
detto Menzini.  Quest'epoca,  ove  le  grandi  passioni 
cercano  di  nascondersi  sotto  il  manto  dell'ipocrisia, 
mentre  la  satira  scosta  il  manto  e  punge  ineso- 
rabilmente vizi  e  passioni,  se  pure  da  un  lato 
non  è  una  delle  più  belle  della  nostra  storia  let- 
teraria, segna  nondimeno  una  linea  di  divisione 
tra  gli  ultimi  aneliti  del  medio  evo  e  i  principi 
dell'età  moderna. 


ci*;:':* 


-  18  — 

Il  Marino,  clie  illustra  cosi  degnamente  la  poesia 
seicentista,  e  ne  è  il  più  segnalato  campione,  si 
trova  appunto  a  vivere  in  mezzo  a  questa  società, 
la  quale,  appropriandosi  le  ridicole  esigenze  della 
vita  aristocratica  spagnola,  ne  esagerava  i  difetti. 
Il  nostro  poeta  poi  è  un  carattere  curioso,  spe- 
cialmente se  si  avvicina  ai  personaggi  gravi, 
riflessivi  e  studiosamente  commedianti  del  tempo. 
Egli  è  napolitano,  troppo  napolitano,  e  per  con- 
seguenza ha  un  fondo  morale  mobilissimo,  non  e 
capace  di  grandi  passioni  ed  è  incKnato  at  pia- 
cere. Bisogna  poi  pur  riconoscere  che  nella  società 
d'allora  avea  davanti  agli  occhi  esempi  non  trojjpo 
edificanti.  A  Napoli,  dove  il  Marino  visse  sino 
all'età  di  trent'anni,  ciascuno  pensava  a  divertirsi 
ed  a  null'altro.  La  vita  pubblica  era  preclusa  al 
napolitano,  perchè  totalmente  in  mano  allo  spa- 
gnolo, che  del  resto  non  era  contrariato  in  questa 
sua  esclusiva  padronanza. 

Egli  vive  in  un'epoca  in  cui  le  novità  fìioso- 
iiche  portavano  il  discredito  più  che  di  Aristotile, 
le  dottrine  del  quale  sin  dal  secolo  XVI  anda- 
vano perdendo  terreno  negli  animi  dei  più,  all'ap- 
pressarsi dei  nuovi  tempi,  de'  monarchi  e  de'  frati  , 
nutriti  allora  quasi  tutti  dall'infanzia  degli  errori 
del  peripato.  Un  nuovo  filosofo  era  per  essi  un  ere- 
tico :  un  libro  che  insegnava  a  disprezzare  tutto 
ciò  che  faceva  il  loro  orgoglio  meritava,  come 
scandaloso  ed  empio,  di  esser  gettato  alle  fiamme. 
I  processi  occulti,  fabbricati  dalla  prepotenza  e 
dal  rigore,  le  conseguenze  di  essi,  le  abiure  for- 


I 


—  Ì9  — 
zate,  non  di  un  domma  erroneo,  ma  di  qualche 
ruoA^o  plàcito  filosofico,  provocavano  le  ire,  subito 
represse  nel  sangue,  d'ogni  animo  indipendente. 
Quindi  ne  veniva  clie  il  divieto  messo  sopra 
un  libro  o  sopra  l'esplicazione  di  qualche  jjen- 
siero  filosofico,  ne  procurasse  altri  che,  perchè 
appunto  non  concepiti  con  serenità  d'animo,  non 
riuscivano  all'intento. 

In  mezzo  a  quell'immenso  desiderio  di  novità, 
che  poi  s'esplicò  nella  ricerca  del  piacere  il  più 
raffinato,  il  Marino  gettò  il  suo  poema  e  le  sue 
canzoni.  Le  creazioni  di  questo  poeta,  ispirate 
ingenuamente  dalla  voluttà,  furono  accolte  da 
tutti  con  un  coro  di  adulazioni  e  di  lodi,  con  un 
fremito  di  piacere.  I  suoi  accenti  erano  cosi  vo- 
luttuosi, e  cosi  conformi  alle  passioni  del  cuore, 
avea  ne'  suoi  canti  tanto  godimento  sensuale,  una 
incuria  si  j^rofonda  dell'avvenire  e  della  vita  bat  - 
taglierà,  che  il  suo  maggior  poema,  VAclone^  fu 
per  tutti  il  libro  che  più  si  conformava  a'  gusti 
effeminati  e,  sotto  certi  riguardi,  velati,  per  non 
dire  ipocriti,  del  tempo. 

E  se  il  Marino  ottenne  tanta  popolarità  ed  am- 
mirazione, quanta  mai  ne  ebbe  poeta,  lo  deve  non 
solo  alle  qualità  della  sua  poesia,  ma  anche  al 
suo  carattere  ed  alla  padronanza  che  aveva  sopra 
le  passioni  dell'animo  suo.  Il  Marino  non  s'anno- 
iava punto,  a  quel  che  sembra,  giacché  visse  sino 
all'età  di  trent'anni  senza  impensierirsi  di  nulla, 
badando  solamente  a  divertirsi  in  allegre  società 
di  nobili  e  di  buontemponi.    Giuocava,    gli   pia- 


—  20  — 

ceva  mangiar  bene  e  bere  meglio,  faceva  dei  versi 
che  gli  fruttavano  pranzi  e  regali,  avea  dello 
amanti  anche  nella  nobiltà  napolitana,  perchè 
era  di  una  discretezza  a  tutta  prova. 

E  le  altere  aristocratiche  non  isdegnavano  ac- 
cogliere persino  nelle  loro  carrozze  l'uomo  plebeo, 
ma  poeta  alla  moda,  all'ora  del  passeggio.  (1)  Fgli 
del  resto  ama  tutto  e  tutti,  ma  leggermente. 
S'infiamma  al  vedere  ura  mano  bianca,  come 
scrive  diecine  di  sonetti  sopra  un  guanto,  sopra 
un  ventaglio  «  regalatogli  dalla  sua  donna;  » 
ma  ne  fa  altrettanti  e  forse  più  in  morte  di  lei. 

Come  osserveremo  più  avanti,  i  personaggi  de- 
scritti dal  Marino  non  compiono  mai  un'azione 
gloriosa,  che  li  renda  simpatici  sotto  il  punto  di 
vista  umano.  Anzi  vedremo  Adone  spaventarsi 
all'ombra  più  lieve  d'un  pericolo;  dalle  labbra  e 
dai  gesti  dell'eroe  non  traspare  che  un  sol  senso, 
ed  è  la  voluttà.  Questa  fa  dimenticare  al  Marino 
tutto:  patria,  libertà,  umanità;  perchè  il  poeta 
erotico  (della  specie  però  del  Marino)  è  quello 
che  trasporta  la  patria,  la  libertà,  l'umanità  nel- 
l'amore che  consacra  i  tormenti  e  i  desideri  della 
voluttà  coi  dolori  e  le  esperienze  altramente  virili  ; 
è  lui  che  ci  conduce    il    pensiero   per   altre  vie, 

(1)  Uu  giorno  che  il  Marino  andava  «  a  diporto  in  carrozza  per  il 
molo  di  Napoli  con  la  principessa  di  Castelvetrano,  cou  la  duchessa  di 
Huvino  e  con  la  marchesa  di  Oerchiaro,  i  cavalli  della  carrozza  si  adom- 
brarono e  correndo  strabocchevolmente  verso  il  mare,  lo  misero  in 
grande  pericolo.  »  Veggasi  il  sonetto  : 

Il  fren  regge  del  carro  aureo  paterno 

«  Lira,  parte  I,   pag.  1G3.  » 


—  21  — 
quando  noi  dolorosamente  pensiamo  che  patria 
non  è  per  noi,  che  l'umanità  è  distrutta,  che  la 
libertà  è  un  sogno.  (1)  È  il  poeta  erotico,  nel  senso 
più  sincero  ed  estetico  della  parola,  che  disperde 
i  tristi  ricordi  del  passato,  e  ci  turba  la  mente 
di  pensieri  voluttuosi.  E  purtroppo  i  tempi  nei 
quali  si  trovò  a  vivere  il  Marino  furono  certa- 
mente tra  i  più  infelici  della  storia  italiana.  Il 
Piemonte  si  trovava  fra  due  rrastini  terribili: 
Francia  e  Spagna;  Venezia  decadeva;  la  gloriosa 
repubblica  perdeva  man  mano  terreno  in  Oriente, 
dopo  che  l'avea  perduto  affatto  in  Italia.  Il  Regno 
di  Napoli  e  il  Milanese  dissanguati  non  potevano 
g-ridare  per  l'inedia,  mentre  il  monarca  spagnolo 
•chiuso  nel  proprio  gabinetto  non  vedeva  le  pub- 
bliche sventure  se  non  per  gli  occhi  dei  favoriti; 
ed  il  papa  s'adoprava  a  rubar  domini  a  piò  dei 
suoi  nipoti,  oppure  cercava  d'aiutar  le  potenze 
-europee  a  danno  dell'Italia.  (2) 

Gli  altri  staterelli  si  barcamenavano  tra  Francia 
•e  Spagna  per  restare  in  vita. 

Il  carattere  poi  de'  nobili  di  quei  dì,  special- 
mente dei  nuovi  titolati,  era  un  misto  d'orgoglio 
e  di  schiavitù,  di  alterigia  e  di  viltà,  di  umilia- 
zione col  potente  e  di  tirannia  col  debole.  La 
X3atena  ch'essi  mordevano  e  trascinavano  in  corte, 


(l)  Sainte-Beuve,  Poi-frtats  ìlttémires,  Paris,  Garnier,  1862,  Voi.  IV. 

(L')  Infat.i  nel  1598  Clemente  VIH  toglie  al  duca  Cesare  d'Este  la 
•città,  di  Ferrara,  aiutato  iu  ciò  dalla  duchessa  d'Urbino,  intromessasi 
come  paciera  nella  lite.  E  la  ragione  di  questo  rubaraento  era,  secondo 
■i  Camerali  Romani,  che  don  Cesare  d'Este  doveva  esser  figlio  spurio  di 
Alfonso  lì'Eite, 


^  22  — 
li  faceva  feroci  e  spietati  ne'  loro  feudi.  Per- 
seguitati coi  processi  nei  tribunali  delle  città, 
apprendevano  a  perseguitare  e  ad  avvolger© 
di  simili  lacciuoli  i  loro  vassalli  nelle  piccole 
corti,  ripagandosi  con  usura  sugl'innocenti  dell© 
sofferenze  che  i  più  potenti  loro  facevano  pa- 
tire. 

Ed  il  popolo,  ignorante  della  sua  forza,  era  il 
più  angariato.  Balzelli  e  bastone  erano  i  premi 
che  riceveva  da  un'autorità  esosa  e  straniera,  in 
contraccambio  del  sangue  ch'esso  si  faceva  togliere, 
o  toglievasi  inconscientemente,  quasi  per  dovere. 
Esso  non  era  padrone  di  vivere  tranquillo,  perchè 
in  balia  del  capriccioso  suo  signore  ;  e  la  massima 
parte  del  frutto  de'  suoi  sudori  andava  ad  arricT 
chire  le  casse  senza  fondo  de'  viceré  spagnoli,  avidi 
d'oro  e  di  piaceri. 

Solo  in  mezzo  a  questa  vergognosa  apatia  dello 
spirito,  si  muoveva  in  modo  singolare  il  duca 
Emanuele  di  Savoia,  bizzarro,  furbo  ed  astuto 
quanto  mai.  «  Nessun  principe,  dice  il  Muratori, 
che  vivesse  allora,  si  poteva  agguagliare  nella 
perspicacia  dell'ingegno  e  nella  vivacità  dello 
spirito  a  Carlo  Emanuele.  »  E  il  Malherbe  ; 
«  Il  duca  è  un  gran  principe  ;  ma  quand'  anco 
io  non  avessi  che  vent'  anni,  non  lo  servirei 
punto.  » 

Egli  si  trova  sempre  in  mezzo  a  tutte  le  guerre 
che  per  lo  spazio  di  cinquant'anni,  quanti  pre- 
cisamente ne  regnò,  s'agitano  in  Europa.  Ed  in 
tutte  sa  così  bene  maneggiarsi,  che  n'esce,  se  non 


—  23  — 
sempre  vittorioso,  almeno   senza  perdere  mai  un 
palmo  di  terreno.   (1) 

Sin  dal  1582  cominciò  a  scoprire  le  sue  idee 
bellicose  col  segreto  disegno  di  sorprendere  Gi- 
nevra. Il  re  di  Spagna  e  Grregorio  XV  non  ne 
avrebbero  mosse  osservazioni  ;  n  a  Enrico  III  vi 
si  oppose  allegando  essere  Ginevra  sotto  la  pro- 
tezione della  sua  corona.  A  Carlo  Emanuele  con- 
venne desistere;  ma  concepì  un  odio  contro  i  fran- 
cesi clie  non  depose  mai  più. 

Infatti  nel  1588  approfittando  delle  discordie 
civili  elle  devastavano  la  Francia,  avendo  appunto 
in  quell'anno  Enrico  III  fatto  uccidere  il  duca 
di  Guise  e  il  cardinale  suo  fratello,  s'impadronì 
del  marchesato  di  Saluzzo.  Aiutato  poscia  dal 
Governatore  di  Milano,  il  celebre  Fuentes,  sog- 
giogò Cental  e  E-evel,  entrando  poscia  a  Castel 
Delfino,  occupato  dal  Lesdiguières  francese.  La 
Francia  si  commosse  per  questo  fatto  e  ne  mosse 
lagnanze  a  Carlo  Emanuele,  clie  tenne  duro. 
In  questo  mentre  Enrico  III  si  alleava  e  rappa- 
cificava con  Enrico  di  Navarra  e  poco  dopo  mo- 
riva per  mano  del  frate  Clément  (1589).  Enrico 
di  Navarra  veniva  creato  re  di  Francia.  Il  duca 
di  Savoia  intanto  si  univa  con  Filippo  II,  il  quale 
insieme  ai  cattolici   francesi    avea    formato    una 

(1)  II  Claretti,  in  uua  prefaz.ione  alla  Lira  del  Marino,  scrive: 
«  Scrisse  (il  Marino)  nell'interregno  dell'anno  1612,  seguito  per  la  morte 
dell'  Imperatore  Rodolfo  d'Austria,  alcune  ragioni  per  le  quali  esortava 
gli  elettori  dell'Impero  a  creare  re  dei  Romani  il  Serenissimo  Duca  di 
Savoia.  Scrittura  certo  non  meno  eloquente,  che  piena  di  buona  erudi- 
zione politica;  ma  perchè  tocca  alcuni  interessi  di  Stato  particolare  per- 
tinenti a  Principi  moderni,  non  è  cosa  da  commettersi  alle  stampe  ». 


—  24  — 

lega,  detta  santa,  per  combattere  Enrico  IV,  cke 
era  ugonotto.  I  ginevrini  e  i  bernesi  mossero 
guerra  alla  Savoia.  Nel  1590  moriva  Sisto  V,  il 
gran  nemico  della  Francia  ugonotta,  clie  allora 
prevaleva,  e  le  cose  di  Francia  cambiarono  di 
faccia;  il  giorno  26  di  luglio  (1589)  il  re  Enrico 
IV,  nella  chiesa  del  monastero  di  S.  Dionigi  presso 
Parigi,  abiurava  completamente  l'eresia  divenendo 
cattolico.  (1)  Addi  27  marzo  1594  egli  veniva  con- 
sacrato re  di  Francia  nella  cattedrale  di  Cbartres; 
tutte  le  città  francesi  si  assoggettavano  a  lui,  e 
la  lega  santa  cessava  d'esistere.  La  controversia 
sopra  il  marchesato  di  Saluzzo  era  stata  rimessa 
al  pontefice,  il  quale  disse  che  si  deponesse  nelle 
sue  mani  ogni  diritto  sul  marchesato;  Enrico  IV 
accettò  ;  non  cosi  l'accorto  duca  di  Savoia,  che 
stimò  esser  meglio  trattar  direttamente  col  re  di 
Francia  senza  l'intervento  del  pontefice.  A  tal 
uopo  il  duca  corse  a  Parigi  :  quasi  solo,  di  notte, 
viaggiando  in  posta,  si  abboccò  col  re,  che  lo  ri- 
cevette con  le  più  vive  dimostrazioni  di  stima. 
Fu  deciso  che  Enrico  avrebbe  ricevuto  un  com- 
penso di  terre,  invece  di  Saluzzo,  cioè  il  princi- 
pato di  Bressa  e  Pinerolo.  Il  duca  chiese  tre  mesi 
di  tempo  per  risolvere;  mentre  era  in  Parigi  tramò 
insieme  col  maresciallo  di  Biron,  che  poi  mori 
decapitato,  contro  la  vita  del  re.  Tornato  a  To- 
rino lasciò  spirare  i  tre  mesi  convenuti  :  Enrico 
allora  mandò  contro  di  lui  un  esercito  comandato 
dalLesdiguières,  il  quale  s'impadronì  di  quasi  tutta 

(I)  «  Paris  vault  bien  une  messe  »    diceva    ironicamente  Enrico  IV. 


—  25  — 
la  Savoia;  s'intromise  nella  faccenda  il  papa,  che 
mandò  a  Lione,  legato,  il  cardinale  Aldobrandino- 
A  Lione  si  conchiuse  la  pace  (1601),  nella  quale 
la  Francia  lasciava  al  duca  il  marchesato  di  Sa- 
luzzo  ed  altri  luoghi,  e  si  prendeva  Bugey,  Val- 
vomony  e  Grex,  colle  Rive  del  Rodano  da  Ginevra 
sino  a  Lione.  Carlo  Emanuele  avea  raggiunto  il 
suo  scopo,  d'avere  cioè  in  sue  mani  le  chiavi 
d'Italia;  ma  il  curioso  di  questa  pace  è  che  l'au- 
dace ed  astutissimo  duca  si  pretese  gravemente 
danneggiato,  perchè  diceva  che  il  paese  da  lui 
ceduto  rendeva  molto  di  più  di  quello  acquistato. 
In  verità  però,  tutti  i  francesi,  e  massimamente 
il  cardinal  d'Ossat  non  sapevano  digerire  che  il  re 
avesse  perduto  cosi  importanti  posizioni,  che  schiu- 
de vangli  l'adito  in  Italia.  Il  cardinale  anzi  aggiun- 
geva che  il  re  avea  fatto  una  pace  da  duca  e  il 
duca  una  pace  da  re. 

Queste  ed  altre  guerre  che  sostenne  il  duca 
Emanuele,  quale  quella  del  1613  contro  la  Spagna 
per  certe  sue  ragioni  sull'eredità  del  Monferrato, 
e  per  la  quale  rimandò  in  Ispagna  il  Toson  di  oro 
di  cui  era  insignito,  e  solo,  abbandonato  da  tutti 
gli  stati  italiani,  dava  un  colpo  formidabile  alla  po- 
tenza spagnola,  il  che  lo  rese  caro  e  simpatico  a 
tutti  gl'italiani.  Per  lui  il  Tassoni  scrisse  le  Filip- 
jnche  contro  gli  spagnoli^  ed  i  poeti  plaudivano  al 
suo  grande  ardimento.  Il  Marino  lo  chiamava  il 
liberatore  d'Italia,  e  la  canzone  intitolata  «  Italia 
parla  a   Venezia  »  è  veramente  patriottica.  (1) 

(1)  Più  avanti,  esaminando  il  Marìao  come  poeta  della  patria,  par- 
leremo della  canzone  «  Il  pianto  d'Italia  »  a  lui  contrastata. 


—  26  — 

...  L'Unicorno  de  l'Alpi  or  pugna  ai'dito 

Per  difesa  del  nido,  e  contro  il  Tago 

Cozza  costante  ancor  per  lo  mio  bene  ; 

Quasi  a'  suoi  danni  ha  mezzo  un  mondo  armato, 

E  dei  miei  figli  un  più  dell'altro  è  vago 

De  le  perdite  sue  de  le  mie  pene, 


Né  solamente  gl'italiani  applaudivano  a  questo 
coraggiosissimo  guerriero.  Onorato  d'Urfé,  discen- 
dente da  un  Carignano,  gli  dedicava  un  poema, 
che  giace  inedito  nella  biblioteca  universitaria  di 
Torino,  intitolato  la  Savosiade^  (1)  in  cui  l'autore 
del  celebre  romanzo  pastorale,  YAstrée^  cantava 

Les  éfforts  généreux,  la  fortune,  les  armes 
Les  combats,  les  desseins,  qui  firent  par  le  ter 
Du  rebelle  ennemi  ce  Prince  ti'iompheur, 
Quand  poussé  du  destin  dont  il  se  fit  la  voye 
Aus  Alpes  il  pianta  le  sceptre  de  So  voye. 

E  Lodovico  De  Porcelet,  altro  poeta  francese,, 
componeva  il  poema  «  La  Béroldide,  >  che  dedi- 
cava anche  lui  al  duca  di  Savoia. 

Erano  insomma  le  speranze  d'Italia  che  canta- 
vano i  poeti  ;  condendo  i  loro  versi  di  molta  re- 
torica e  rivolgendo  gli  occhi  all'antica  grandezza 
latina,  spronando,  e  fra  questi  Gabriello  Chia- 
brera  occupa  il  primo  posto,  il  popolo  italiano 
all'uso  dell'armi,  perchè  un  giorno,  non  lontano, 
queste  venissero  adoperate  contro  lo  straniero;  e 

(1)  Codex  CXIX,  1,  V,  29,  (GaUici)  ;  La  Saiosiade  d'Houorè  d'Urfè, 
Poema  Carlo  Emanueli  Primo. 


—  27  — 
Carlo  Emanuele  non  era  al  disotto,  com'abbiam 
visto,  delle  sjDeranze  italiane,  percliè  seppe  far 
guerra  all'Europa  per  quasi  mezzo  secolo,  sco- 
prendo per  il  primo  i  tarli  che  rodevano  la  mo- 
narchia spagnola.  E  se  l'Italia  non  si  costituì  a 
nazione  sin  d'allora,  non  fu  per  colpa  ne  degli 
italiani,  né  di  Carlo  Emanuele.  L'ora  della  riscossa 
non  era  ancora  suonata;  la  Chiesa  teneva  ancora 
troppo  sotto  di  se  le  coscienze  umane,  perchè 
queste  si  potessero  ribellare  a  lei,  paurose  come 
erano  della  vita  futura;  ed  i  potentati  italiani 
occupavano  il  popolo  in  troppe  feste,  perchè  que- 
sto potesse  pensare  all'unità  della  patria. 


—  28  — 


Capitolo  IV. 


liiUrizzo  della  poesia  del  secolo  XVII  —  Traiano  Boccalini,  la  «  Pietra  del 
jiaragonc  politico  »  e  i  poeti  spagnoli  —  Desiderio  di  novità  nelle  fonti 
].oeticlie  — Il  Marino  ne  è  creduto  l'innovatore  —  Evidente  falsità  di  que- 
sto giudizio. 


Questi  sono  i  tempi  ne'  quali  vive  il  Marino  ; 
:assiste,  giovane,  alle  accuse  di  pagano  e  d'irre- 
ligioso che  tutti  muovono  al  poeta  della  Gernsa- 
lemme  e  ne  riceve  ammaestramento  per  l'avvenire. 
Sorge  appunto  in  un  periodo  quando  la  lettera- 
tura italiana  faceva  una  sosta  penosa  ;  e  poi  cam- 
minava insieme  alle  letterature  straniere,  anzi, 
j)er  effetto  di  debolezza  vitale,  subiva  l' influenza 
di  alcune  di  esse. 

Già  il  Morsolin  ha  indicato  che  i  poeti  del 
Seicento  non  si  ispirano  più  a  quei  classici  latini 
che  avevano  formato  la  delizia  de' grandi  del 
[Rinascimento.  Al  sereno  e  castigato  gusto  vir- 
giliano si  preferisce  quello  di  Claudiano,  di  Mar- 
ziale, di  Lucano,  nella  lirica  dei  quali  il  piacere 
e  l'amore  s'accoppiano  all'osceno  ed  al  triviale; 
e  noi  vedremo  più  innanzi  che  il  Marino  sceglie 
neW Adone^  per  sua  guida,  il  poeta  che  a  lui  più 
«'accosta  per  immensa  facilità  d' ingegno  e  nel 
•descrivere  la  sensualità  del  piacere  e  dell'amore. 
I  libri  delle  Metamorfosi^  saranno  pel  Marino  ciò 


—  29  — 
clie  Virgilio  fu   per  i  poeti    precedenti;    noi  ve- 
dremo il  Marino-,-iieilo"''SCfivere  V Adone,  intessere 
gii  episodi  mitologici-  che  sono  le  principali  azioni 
delle  Metamorfosi  di  Ovidio.  (1) 

Questo  poeta,  clie  condusse  in  gioventù  una 
vita  molto  disordinata,  compose  appena  ventenne 
la  «  canzone  dei  baci  »  che  subito  circolò  mano- 
scritta, prima  per  Napoli  poi  per  l' Italia  ;  un 
fremito  di  piacere  e  di  adulazione  accompagnò 
la  poesia  e  il  poeta  ;  oramai  la  parte  colta  del 
popolo  italiano,  fin  da  quel  jjiccolo  componimento,, 
comprese  che  il  Marino  sarebbe  stato  il  suo  poeta 
avvenire.  «  Il  Marino  insomma,  a  mio  parere, 
scrive  il  grande  amico  del  Tasso,  padre  Angela 
G-rillo,  a  Giannettino  Spinola,  che  gli  richiese 
un  suo  giudizio  sul  Marino,  ha  colpito  nel  gusto 
di  questi  tempi  ;  amatori  altrettanto  della  novità 
e  del  capriccio  delle  poesie,  quanto  per  avven- 
tura i  passati  della  candidezza  e  della  coltura.  » 
E  lo  stesso  Marino  dice:  «  Questo  è  appunto  il 
modo  di  poetare  che  piace  oggidì  al  secolo  vivente, 
si  come  quello  che  falsamente  titilla  le  orecchie 
de' lettori  colla  bizzarria  della  novità,  tutto  che 
alquanto  pericoloso,  e  questo  è  parimenti  lo  stile 
eh'  io  non  diniego  essere  secondo  il  mio  naturai 
genio  ed  a  me  altrettanto  aggradire,  quanto  a 
Vossignoria  (lo  Stigliani)  dar  noia.  »  (2) 

Ed  in  un'altra    lettera    aggiunge  :  «  Il  mondo 

(1)  Cfr.  su  questo  punto  quanto  dice  il  Carducci  nella  prefaziine  alle- 
opere  volgari  del  Poliziano  (Barbèra,  1863),  pag.  L. 

(2)  Lettere  del  Cav.  Marino,    Venezia,  1672,    pag.  225. 


—  30  — 

è  oggimai  stufo  di  cantilene  secche,  e  non  intende 
di  approvare  il  muffo  rito  delle  calze  e  brache. 
Se  a  Vossignoria  pare  che  quel  che  s'usa  adesso 
nella  poesia  sia  trito,  e  quel  che  s'usò  in  altre 
età  sia  buono,  e  se  di  più  come  lo  crede  in  teoria, 
cosi  l'esercita  in  pratica,  gran  torto  Le  ha  fatto 
la  natura  a  farla  nascere  a'  nostri  giorni,  e  non 
piuttosto  a  tempo  antico.  Gran  stranezza  è  al 
parer  mio  il  volersi  mirar  dietro  alle  chiappe, 
come  faceva  Giano,  e  riprender  poi  uno,  che  si 
miri  dinanzi  come  fanno  coloro  che  orinano. 
Hora  insomma  chi  vuol  piacere  ai  morti,  che  non 
sentono,  piacciasi.  Io  per  me  so  far  piacere  ai 
vivi,  che  sentono.  »  (1) 

E  difatti  questa  misera  patria  invasa  da  Milano 
a  Palermo  dallo  spagnolo  che  la  «  inzaffardò  di 
morchia  e  di  vernice,  chiamandola  »  chiarissima 
ed  illustrissima;  ma  che 

di  sottecchi  adoperò  la  lima 
E  mi  lasciò  più  sbrendoli  di  prima. 

la  misera  patria  non  poteva  cercare  altro  rifugio, 
per  isvagarsi  in  quell'ozio  forzato  ed  obbrobrioso, 
che  nel  piacere. 

Il  solo  Boccalini  tentò  di  far  argine  a  que- 
st'  immenso  disastro  che  colpiva  l' Italia,  e  non 
vi  riusci.  Nella  «  Pietra  del  paragone  politico  » 
si  vede  l'ansia  di  un  uomo  che,  simile  in  certi 
punti  al  Machiavelli,  s'adopera  a  risvegliare  lo 
spirito  italiano;  ma  questo  gli    rise  in  faccia,  e 

(1)  Lettere  del  Cav.  Marino,  pag.  226. 


—  si- 
gli stranieri,  fra  cui  Lope  de  Vega  e  Qiievedo,  lo 
presero  di  mira  colle  loro  satire.  Lope  de  Vega 
esclamava  : 

Seìiores  espaìioles  ?  Qué  le  hicistes 
Al  Bocalino  ó  boca  del  infierno, 
Que  con  la  spada  y  militar  gobierno, 
Tanta  ocasion  de  murmurar  le  distes  i 

El  alba,  con  que  siempre  amanecistes, 
Noche  quiere  volver  de  escuro  invierno, 
y  aquel  Gonzalo  y  su  laurei  eterno, 
Con  quien  à  Italia  y  Grecia  escurecistes. 

Està  frialdad  de  Apolo  y  la  estafeta 
Non  sé  que  tenga  tanta  valentia, 
Por  mas  que  el  decir  mai  se  la  prometa; 

Pero  sé  que  un  vecino  que  tenia. 
De  cierta  enfermedad  sano  secreta, 
Poniéndose  un  raguallo  cada  dia.  (1) 

Ed  in  una  sua  novella,  «  El  desdichado  de  la 
honra  »  dice;  «  Si  bien  un  escritor  moderno,  mas 
invidioso  que  elocuente  y  docto,  presumió  que 
podia  su  poca  autoridad  en  un  libro  que  escri- 
bió,  llamando:  «  Ragiiallos  del  Parnaso  »  escu- 
recer  el  nombre  que  no  le  pudieron  negar  basta 
las  naciones  bàrbaras.  » 

Quevedo  poi,  cbe  tanto  conobbe  l'Italia  e 
gì'  italiani,  pel  lungo  soggiorno  che  fece  nella 
penisola,  per  le  importantissime  cariche  che  occupò 

(1)  Lope  de  Vega,  Ohras  no  dramaticas,  Voi.  38  dell'  edizione  Ri- 
vadeneyra  "  Biblioteca  de  autores  espaìioles.  „  Questo  sonetto  è  compreso 
nelle  Eimas  humanas  y  divinas  de  BurguiUos,  pubblicate  nel  1631. 


—  32  — 

ne'  vicereanii  di  Milano  e  di  Napoli,  e  per  le  sin 
golari  e  pericolose  avventure  che  ebbe  ad  incon- 
trare, cosi  parla  del  valoroso  duca  Carlo  Emanuele, 
del  grande  loretano  e  del  suo  libro  «  La  Pietra 
del  paragone  politico:  » 

«  El  duque  de  Saboya  ha  tornado  por  si  la 
exhortacion  lisonjera  que  Nicolas  Maquiavelo  hace 
al  fin  del  libro  del  tirano  (sic),  que  él  llama 
Principe  :  (1)  para  librar  a  Italia  de  los  bàrba- 
ros,  hàse  dado  por  entendido  de  las  sutilezas 
del  Bocalino,  j  de  las  malicias  y  suposiciones 
de  la  Pietra  del  Paragone;  y  determinò  edifi- 
carse  lihertador  de  Italia,  titillo  dificil  cuanto 
magnifico.  » 

Ed  il  politico  loretano  cercò  colpire  quello 
scetticismo  che  avea  messo  si  profonde  radici 
nell'arte  e  nel  sentimento  italiano,  ne'  celebri 
«  Eagguagli  di  Parnaso ^  »  come  avevano  fatto, 
per  beffeggiare  i  poeti  però,  Cesare  Caporali^ 
perugino,  e,  dopo  questi,  Cervantes;  e  questi 
Eagguagli  trovarono  tanti  imitatori,  che  non  v'è 
scrittore  seicentista  il  quale  non  parli  de'  poeti 
italiani  nel  regno  apollineo. 

Aifoghiamoci  nel  piacere,  è  il  grido  che  parte 
da  tultl  1  cuori  italiani,  dalTTtlpi  al  Lilibeo.'E 
TST^miòvà  poesia 'escB~~xiéflr''cervelIò  if aliano  dopo 
un  lungo  e  faticoso  lavorio  della  fantasia  ;  si 
cercano    frasi    e  vocaboli    nuovi,   per   adulare    il 

(1)  Biblioteca  de  atitores  expaTìile.t,  Voi.  48,  Lince  de  Italia.  Qiievedo 
allude  a  quella  magnifica  chiusa  del  7^)v'»ir(jjf',  dove  esorta  gì' italiani  a  cac- 
ciare i  barbari  dall'Italia.  Questa  stessa  osservazione  del  Quevedo  ù  anche 
notata  dal  Mestica  nel  suo  lavoro  sul  Boccalini.  (G.  Mestica  ;  Traiano  lìncea- 
lini  e  la  letteratura  critica  e  politica  nel  Seicento;  l'''ironzo,  Barbèra,  1878). 


—  33  — 
nuovo  dio;  si  dà  la  palma  a  chiunque  saprà  tro- 
vare un  pensiero  nuovo,  originale,  ridicolo,  ch'esca^ 
dal  convenzionale  amore  petrarchesco.  Qui  noni 
è  più  lavoro  della  sola  mente;  i  fervidi  voli  della 
fantasia  ariostesca  sono  rancidumi  ;  Dante  non 
si  trova  ricordato  che  qualche  volta  dal  solo  Ga- 
lilei; anzi  un  prete  cerca  denigrarlo.  Il  conte 
Ludovico  Tesauro,  uno  dei  vessilliferi  del  Marino, 
in  uno  sfoggio  di  ridicola  prosa,  viene  a  dire: 
«  Al  Marino  anzi_deYe_  molto   la  _xolgar  poesia, 

che  per   l'addietro    rozza,    e    tra'confìni_an^sti 

ligorosamente  ristfétta,  è  stata__da  lui_.alìbaUita_^ 
dilatata^  e  in,  piò-  cajpace^uogo  ripostaj^  essendo 
egli  stato  (per  vero  dire}_  il  primo__ch^_ne__alibia 
date  le  forme  del  moderno  e  spiritoso  componi- 
meiìto  quanto  alla  lirica.  Taccio  poi  l'aver  intro-^ 
dotti  nella  nostra  lingua  nuovi  generi  di  poemi, 
che  prima  non  vi  erano.  Parlo  s^^ecialmente  del 
sonetto,  poiché  nel  formarlo  e  nel  chiuderlo  ha 
inventato  una  maniera  cosi  leggiadra  e  piccante,  \WJ) 
e  occupato  uno  stile  cosi  dolce  e  fiorito,  che  di 
gran  lunga  si  ha  lasciati  addietro  tutti  quanti  i 
lirici  antichi  (sic)  nelle  cui  poesie  oltre  il  candor 
della  lingua  e  la  politezza  dello  stile  puro,  can- 
dido, schivo  d'ogni  barbarie  e  veramente  toscano, 
due  cose  ho  semj)re  notabilmente  notate:  la  venustà 
e  la  vivacità;...  Hanno  fin  qui,  come  si  sa,  cam- 
minato ordinariamente  i  poeti  sopra  una  strada 
trita  e  battuta  da  tutta  la  superstiziosa  e  stitica 
turba  degli  scrittori  rancidi  e  freddi.  Ma  il  ca- 
valier  Marino  ripieno  di  quell^audacia  felice  che 


J 


—  34  — 
si  desidera  iu  molti,  e  si  ritrova  in  pochi,  quando 
pareva  che  nulla  si  potesse  più  tentare  di  nuovo, 
ci  ha  aperto  un  altro  sentiero  inaspettato,  il  quale 
senza  dubbio  è  piacevole,  ma    non    tanto  facile, 
quanto  altri  per  avventura  si  persuade.  » 
/      Questo  spirito  di  novità    che    assume    l'arte  e 
\  la  letteratura  seicentista,  si  sposa  a  ciascuna  ma- 
/  nifostazione  estetica. 

\^  È  vero  che  fin  dai  primi  anni  del  secolo  XVI 
s'era  manifestata  in  Italia  una  corrente  ostile 
alla  poesia  petrarchesca,  la  quale  emigrava  dalla 
patria  sua  ed  andava  a  dettar  norme  liriche  in 
altri  paesi,  in  Francia  per  formar  la  delizia 
de'poeti  della  Pleiade  a  capo  Eonsard,  in  Ispagna 
ed  in  Inghilterra  ;  «  ma  i  petrarchisti  erano  falange, 
gli  antipetrarchisti  manipolo,  e  per  giunta,  quelli 
si  coprivano  dell'autorità  di  un  gran  nome,  cosa 
che  in  ogni  tempo  bastò  a  dar  credito,  e  spesso 
vittoria,  alle  opinioni,  alle  fazioni,  alle  scuole; 
mentre  gli  altri  si  facevan  forti  della  ragione, 
del  buon  senso,  di  certi  diritti  dell'umano  intel- 
letto, non  troppo  chiaramente  enunciati,  ma  pur 
sentiti,  o  piuttosto  presentiti.  »    (1) 

Questi,  però  eran  tentativi  dirò  cosi  sterili  ed 
evirati;  il  cardinale  Pietro  Bembo  avea  dato  un 
troppo  grande  impulso  al  petrarchismo,  perchè 
questo  dovesse  morire  per  opera  della  critica, 
condita  di  molta  satira,  di  qualche  poeta  che 
non  sapeva  far  buoni  versi  ;  di  maniera  che  si 
giunge  sino  alle  porte  del  secolo  XVI  ed  il  con- 

(1)  A.  Graf,  l'eira rt/iismo  e  Antipetrarcliismo,  op.  eit. 


—  35  — 
trasto  s'accentua  sempre  più;  ma  quando  nascono 
Alessandro    Tassoni    e    Qiarabattista_Marino^_il_ 
primo  il  regolatore  e  l'altro    un    potente  fattore 
dellar  nuova    poesia,    l' antipetrarchismo    ;^revale 
seiisTBoImente.  Il  Tassoni  abbatte  non  il  Petrarca, 
ma  i  petrarchisti,  «  superstiziosa  e  stitica  turba 
degli  scrittori    rancidi  e  freddi  »;    Giambattista 
Marino,  che  ha  davanti  a  se  la  natura  fresca  ed~ 
esuberante,  la  vede  senza  che  prima   passi  sott"o~ 
il  crogiuolo  del  Canzoniere^    e    cosi    la  descrive. 
Ed  il  jpojDolo    che  le^geva^  i^&uoi  versi,    non  sjv- 
yezzo    a    quell^armonia    e    viyacità__dMmmagini, 
s' impressionò^  subito    ed    accarezzò  j^  ;^oeta,  jl 
quale  rispondeva  come  abbiam  visto  alle  critiche 
degF  invidiosi. — - 

Uno  dei  grandi  meriti  dunque,  che  si  attribui- 
v^no  al  Marino,  era  d'aver  egli  introdotto  nella 
nostra  letteratura  nuovi  generi  di  poesia:  quali^ 
gFldUli  favolosi  e  pastorali  imitando  Claudiano 
e  Teocrito,  le  Epistole  eroiche  imitando—Ovidio, 
gl'inni  E-onsard  e  i  panegirici  Stazio  e  Clau- 
diano. 

Di  questo  straordinario    abuso    di    metafore  e 
d'antitesi,  che  anche  allora  venivano  chiamati  con- 
cetti^ era  dalla  maggior  parte  degli  scrittori   del  ^ 
tempo  chiamato  autore    il    Marino;    ed    a    torto,  \ 
perchè  egli,  che  era  di  fervidissima  fantasia,  non    j.  ^^i   ; 
l'avea  inventati,  bensì  li  usava  più  spesso  e  più    .^^ 
arditamente  e  più  felicemente  di  altri. 

«  Quando  pareva  che  nulla  più  si  potesse  ten- 
tare di  nuovo,  scrive  il  Campeggi,  ci  ha  aperto 


—  Be- 
lili altro  sentiero,  il  quale  senza  dubbio  è  pia- 
cevole. »  Questo  nuovo  genere  di  poetare  poi  era 
considerato  da  tutti  estremamente  dilBficile.  Olii 
poi  combatteva  la  nuoDa poesia  era  considerato  un 
retrogrado.  (1)  «  Non  contenti  di  camminar  la  me- 
desima via  del  Petrarca,  hanno  voluto  mettere  i 
piedi  a  punto  dove  esso,  e  calcar  que'  medesimi 
vestigi  e  perciò  di  poca  lezione  e  di  manco  nome. 
Queste  parti,  dove  ha  si  poca  parte  la  natura, 
soii  parti  assai  languidi,  assai  privi  di  moto  o 
di  lume  ;  perchè  sono  senza  fuoco  e  senza  sangue  : 
a  guisa  di  certi  fanciulli  savietti  si,  ma  sofisti- 
chetti,  tisichetti  e  di  poca  vita.  » 

Questa  strana,  diremo  cosi  neomania^  è  l'ema- 
~nazione  della  vita  seicentista.  Le  società  corrotte 
e  noi  abbiam  provato  di  dare  un  pallido  quadro 
della  società  nel  secolo  XVII,  non  restano  sod- 
disfatte del  solo  stile  naturale  e  dolce;  percht; 
la  letteratura  in  tutte  le  età  è  stata  sempre  la 
storia  morale  di  un  popolo;  Poliziano,  e  più  di 
lui,  l'Aretino,  annunzia  un  secolo  prima  le  stra- 
nezze del  Seicento  :  in  Ispagna  la  pompa  ecces-" 
siva  di  Herrera  annunzia  già  le  stravaganze  di 
Gongora  ; .  la  Plèiade  francese  è  l'antesignana  di 
Saint  Amant,  di  Dubartas,  di  Cottin  ecc. 

(1)  Vedasi  ne\V Ado)ie  (iiiesti  due  versi  : 

L'uso  de'vezzi  e  'I  vaneggiar  de  l'Arte 
È  lieve  colpa  o  pur  la  colpa  é  breve. 
E  nella  J\Iurtoleide  «  Fischiata  XXXIII  » 

È  del  Poeta  il  fiu  la  meraviglia 
Parlo  dell'eccellente,  non  del  Koff"» 
C!ii  non  sa  f^;r  stupir  vada  alla  striglia. 
Questo  egli  lo  ripete  anche  wcWAlone, 


—  37  — 

Giovanni  Battista  Marin^_^egna_J^]j^imo   pe-  A-'  '3 
riodo  alla  poesia-   pastorale.    Egli,    nella   lettera- 
tura bucolica,  compi  lo  stesso  ufficio  del    Tasso. 
Questi  chiuse  gloriosamente    l'epico    cavallerescq_ 
iiT  Italia j^_g[uegli  il  dramma  pastorale. 

L'epico  cavalleresco  però  ebbe  vita  lunga  e 
gloriosa:  il  dramma  pastorale  invece  ebbe  il  suo 
capolavoro  quasi  appena  nato  ;  col  Pastor  Fido 
già  il  sentimento  ideale  è  innalzato  all'esagera- 
zione, e  dopo  un  periodo  relativamente  breve  si 
spegne,  accasciato  forse  sotto  l'immane  peso  dello 
sfarzo  seicentista.  Infatti  weW Adone  il  mondo 
naturale  è  ritornato  al  piùsfrenato  lusso;  Venere 
e  Adone  vivono  in  superbi  castelli,  circondati 
da  tutto  il  benessere,  da  tutti  i  vantaggi  della 
moderna  coltura,  dalle  opere  d'arte  e  d'architet- 
tura più  raffinate.  Cosi  il  corso  della  poesia  pa- 
storale era  compiuto,  e  dopiO^_3re:KS__.guerra^.fìì;a 
stataanche  abbattuta  questa  parvenzaji'idealità 
per  godere  il  piacere  senza  similuzion^_ed_orpelli 
sentimentali.  Sarebbe  forse  utile  e  curioso  inda- 
gare perchè  nacque  in  Italia  il  dramma  pasto- 
rale, cosi  semplice  e  naturale  nei  suoi  primordi, 
in  mezzo  al  lusso  sfrenato  ed  alla  corruzione  dei 
costumi  del  secolo  XVI;  allora  quando,  come 
specchio  della  vita  contemporanea  v'era  la  satira 
del  Berni  e  del  Caporali,  e  le  scollacciate  com- 
medie dell'Ariosto  e  dell'Aretino.  Fu  forse  un\  v' ,-  ;x 
rifugio  dell'umana  coscienza  che  cercava  un  adito  '  ^^ 
dove  nascondere  un  sentimento  ideale  ?  Nel  Tasso  \ 
certo  che  fu  ;  l'immensa  dolcezza  di   quell'elegia 


—  38  — 
ritrae  l'anima  sua  nobilissima  ed  incompresa  per 
quel  tempo;  e  può  essere  che  la  novità  dell'idea 
abbia  invogliato  altri  a  seguire    il    cammino  da 
lui  tracciato. 

Un'accusa  la  quale  immeritamente  si  dà  al 
Marino,  è  ch'egli  sia  stato  il  depravatore  del 
gusto  nell'  arte.  Vedemmo  già  che  il  Marino, 
quando  sorse,  trovò  il  gustò"~già; — depravato  in 
Italia.  Giovanni  Battista  Garaldi,~nèl  suo~1Bellis- 
simo  discorso  intorno  «  al  modo  di  comporre  dei 
romanzi  »  accenna  già  come  a  un  fatto  doloroso 
e  compiuto  nella  letteratura  l'uso  del  linguaggio 
metaforico.  «  La  voce  trallata,  dice  egli,  vuole 
avere  similitudine  col  linguaggio  di  quella,  in 
luogo  della  quale  ella  è  messa  a  significare  que- 
sta o  quella  cosa,  come  dicono  le  vele  ali  delle 
navi  e  l'ali  degli  augelli  esser  li  remi  loro,  e 
cosi  se  diremo  sonnacchioso  jDcr  negligente,  i 
fuochi  celesti  per  le  stelle  (le  quali  sconvenevo- 
lissimamente  chiamò  colui  teste  dei  chiodi  del 
cielo);  ed  altri  simili  modi  di  dire.  »  E  più  lungi 
parlando  dell'affettazione  di  linguaggio  viene  a 
dire  esplicitamente:  «  Mi  ricordo  io  di  aver  udito 
un  frate  predicatore,  il  quale  essendosi  su  il  ri- 
prendere le  cosa  della  libidine,  disse  (volendo 
pigliare  attenzione)  ferma  qui  il  pie  dell'intelletto 
nel  campo  della  morte  ecc..  »  Questo  il  Giraldi 
scriveva  nel  1549,  quando  ancora  la  coltura  del 
Rinascimento  era  all'apice  dello  sviluppo;  quando 
cioè  durava  ancora  la  memoria  del  Machiavelli, 
del  Guicciardini,  del  Berni,  del'  Cardinal   Pietro 


—  39  — 
Bembo;  epoca  nella  quale  Francesco  Rabelais  e 
Montaigne  venivano  in  Italia  e  si    nutrivano   di 
quella  coltura  profonda    e    multilaterale   clie  poi 
profondevano  a  piene  mani  ne'  loro  scritti. 

Questo  vizio  di  forma  si  trova  spessissimo  tra 
i  contorcimenti  tenebrosi  di  Licofrone,  il  Marino 
della  corte  tolemaica;  tra  le  affettate  metafore 
de'  poeti  bizantini  che  coltivano  gli  acrostici  ed 
altri  ridicoli  giuochi  di  forma,  che  hanno  figu- 
rato degnamente  nella  poetica  di  Bengiso;  nel 
linguaggio  lambiccato  di  Marziale;  nelle  decla- 
mazioni di  Giovenale;  nell'apparato  ostentato  di 
immagini  di  Lucano;  ed  il  maggior  contributo 
di  quelle  metafore,  le  quali  sono  il  distintivo  del 
linguaggio,  che  falsamente  prese  il  nome  dal  se- 
colo XVII,  lo  danno  le  letterature  o  troppo  gio- 
vani o  troppo  vecchie;  le  une  per  difetto  di 
composizione,  di  finezza  e  d'esperienza;  le  altre 
per  manco  di  energia.  Del  resto  noi  vedremo  in 
seguito  che  quando  in  Italia  sorse  il  Marino,  lei 
letterature  straniere  non  erano  indietro  alla  nostra  \ 
nell'abuso  d'immagini  metaforiche.  (1) 

E  per  sempre  più  discolpare  il  Marino,  baste- 
rebbe osservare  le  produzioni  dell'arte  in  quel 
secolo;  nella  pittura,  scultura  ed  architettura.  Il 
B smini,  e  con  esso    la    ridicola    sua    scuola,    dà 

(1)  Sarebbe  però  ingiusto  il  non  riconoscere  nella  letteratura  sci- 
centista  un  gusto  tutto  suo,  quale  per  esempio,  l'abuso  della  mitologia, 
che  è  la  caratteristica  di  quel  secolo.  Questo  argomento  noi  però  tratte- 
remo dopo  aver  esaminato  quale  letteratura  sia  stata  la  prima,  in  quel 
secolo,  a  tracciar  la  via  del  cattivo  gusto  letterario,  sulla  quale  cammi- 
narono le  altre. 


—  40  — 
fuori  le  più  strane  manifestazioni  che  artista  abbia 
mai  create.  Nell'arte  è  il  delirio  della  curva,  come 
nella  letteratura  è  il  delirio  della  fantasia.  Bi- 
sogna osservare  i  compassionevoli  atteggiamenti 
delle  figure  in  scultura  ed  in  pittura  della  scuola 
del  Bernini,  del  Maratta  e  di  Luca  Giordano, 
per  convincersi  quanto  la  smania  di  crear  cose 
nuove,  non  pur  uscendo  dai  limiti  dell'arte,  ma 
entrando  altresì  in  quelli  della  più  strana  aber- 
razione, fosse  il  pensiero  di  allora. 

Il  Marino,  colla  sua  potente  immaginazione, 
accumulò  ed  accrebbe  questi  difetti;  ma  è  un 
fatto  provato  dalle  leggi  più  costanti  della  storia, 
cbe  i  grandi  poeti  e  i  grandi  artisti  non  sono 
stati  nel  loro  tempo  dei  casi  fortuiti,  dei  feno- 
meni isolati;  essi,  al  contrario,  sono  il  prodotto 
di  una  lunga  elaborazione,  e  sono,  quasi  senza 
eccezione,  gli  operai  dell' ultim'ora;  essi  s'impa- 
droniscono dell'argomento  die  più  si  confà  allo 
spirito  del  temjDO,  e  su  questo  lavorano.  S'adat- 
tano facilmente  alle  tendenze  della  società  in  cui 
.  vivono;  e  questa  società  li  ammira,  li  ama  e  li 
protegge,  perchè  sono  appunto  il  filo  conduttore 
fra  essa  e  l'indirizzo  del  pensiero,  comprenden- 
dosi e  compenetrandosi  a  vicenda. 


41     - 


Capitolo  V. 


Giovanni  Battista  Marino  e  i  suoi  biografi  sincroni  —   Primi   anni    d'età 
—  Suoi  dispiaceri  in  famiglia  —  Prigionia  —  Fuga  da  Napoli. 


Giovanni  Battista  Marino  nacque  in  Napoli  il 
18  ottobre  dell'anno  1569.  (1)  Suo  padre  chiamossi 

(1)  Senza  dubbio  è  cosa  difficile  ricostruire  la  vita  di  questo  poeta; 
seguirlo  passo  passo  nelle  sue  fortunate  o  perigliose  peregriuazioui;  poter 
sceverare  il  vero  dal  falso  dalle  memorie  e  dalle  biografie  sincrone  ;  in- 
dagare più  accuratamente  che  sia  possibile  la  verità  di  quanto  dicono 
adulatori  e  detrattori  del  poeta,  il  quale  delle  volte  esce  in  alcune  spa- 
gnolate che  fauno  ridere.  Ad  ogni  modo  però  ecco  l'elenco  delle  biografie 
e  degli  scritti  sul  Marino,  nessuna  delle  quali  completa  e  quasi  tutte 
fatte  con  grande  leggerezza. 

Vita  del  Cavalier  Marino,  di,  Francesco  Baiacea,  Venezia,  presso 
Giacomo  Scaglia,  1625.  È  la  prima  biografia  del  poeta,  la  quale  si  trova 
inserita,  in  compendio  però,  anche  nell'  edizione  della  u  Strage  degli 
Innocenti  »  curata  da  Giacomo  Scaglia  nel  1633.  Quella  poi  del  Lo- 
redano,  eh'  è  citata  qui  sotto,  è  quasi  una  riproduzione  di  quella  del 
Baiacea. 

Vita  del  Cavalier  Marino  di  Gio:  Francesco  Loredano,  nobile  veneto, 
in  Venetia,  M.DC.XXIX,  presso  Giacomo  Sarzina. 

Nella  prefazione  il  Loredano  assicura  che  «  a 'primi  avvisi  della 
morte  di  Alarino  diede  la  prima  mano  a  questa  vita.  Differì  di  termi- 
narla haveudo  intentione  d'aggiungerla  in  un  volume  con  alcune  altre 
abbozzate  de'  primi  poeti  del  secolo.  »  Ma  poi  avendo  visto  le  biografie 
che  del  poeta  aveano  scritto  il  Baiacea  e  il  Del  Chiaro,  decise  di  pubbli- 
care la  sua  vita  «Vita  del  Marino  »  a  parte,  e  questa  è  l'edizione  da  noi 
citata. 

Vita  del  Cavalier  Marino,  del  Can.  Francesco  Del  Chiaro,  Napoli,  1633 
È  unita  ad  un'edizione  della  n  Strage  degli  Innocenti  ».  L'autore,  nipote 
del  poeta,  si  lamenta  fortemente  perchè  il  Baiacea,  approfittando  deila  sua 
buona  fede,  leggendo  e  in  parte  copiando  il  manoscritto,  lo  diede  poi  alle 
stampe  sotto  il  suo  nome. 


—  42  — 
Giovanni  Francesco  e  fu  giureconsulto  napolitano 
«  con  facoltà  eccedenti  la  sua  condizione.  (1)  »  Di 
sua  madre  niente  abbiamo  potuto  rintracciare  ; 
sembra  però  che  il  Marino  la  perdesse  ancor  gio- 
vine, perchè  nell'edizione  della  Lira  del  1602  v'è 
una  bellissima  canzone,  che  il  poeta  scrisse  in 
morte  di  lei.  Comincia 

Torno  piangendo  a  riverir  quel  sasso, 
Ove  chi  nove  lune  in  sen  mi  chiuse, 
Chiuse  lasciò  l'incenerite  spoglie. 
Pace  a  te  prego,  a  te  dolente,  e  lasso 
M'inchino  o  madre,  e  con  l'afilitte  Muse 
L'essequie  tue  rinnovo,  e  le  mie  doglie.  (2) 

Che  il  padre  poi  gli  morisse  poco  tempo  prima 
della  madre,  noi  lo  rileviamo  pure  da  questa 
canzone : 

Madre  tu  giaci  ?  è  dunque  ver,  che  tinto 
D'atro  pallor,  de  le  tue  luci  il   lume 
Eternamente  a  gli  occhi  miei  s'ammorza? 
Piansi,  non  è  gran  tempo,  il  padre  estinto, 
Hor,  perchè  doppio  strazio  il  cor  consume, 
A  par  col  genitor,  lacera  scorza 
Pianger  la  genitrice  il  ciel  mi  sforza  : 
Né  ben  saldata  ancor  la  prima  piaga^ 
Di  novo  colpo  un  nuovo  strai  m'impiaga. 

Seguono  poi  le  biografie  composte  dal  Camola  e  dal  Ferrari,  insi^ui- 
ficantissime  e  che  ripetono  quello  già  esposto  nelle  precedenti.  Sono  unite 
la  prima  all'edizione  della  Strage  curata  in  Roma  dal  Manelfi  «  1<Ì33  »  ; 
la  seconda,  anch'essa  unita  allo  stesso  poema,  nel!'  edizione  del  Sar- 
ziua  dello  stesso  anno. 

(1)  Loredano,  Vita  del  cav.  Marino,  1629,  pag.  4. 

(2)  Marino,  Lira,  Rime  del  cavalier  Marino,  in  Venetia,  M.DC.LIII 
per  Francesco  Babà,  pag.  356. 


—  43  — 

Il  Marino  poi  non  fu  solo  figlio  di  Giovanni 
Francesco,  perchè  nella  stessa  canzone  dice: 

Ben  mi  sovvien,  quando  spedite,  e  lievi 
Spiegò  pi-imier  da  queste  valli  oscure 
Al  Ciel  lo  spirto  tuo  l'ale  volanti. 
Cli'  al  dolce  letto  intorno,  ove  giacevi, 
Con  sei  conforti  miei,  con  sei  fatture 
De  le  viscere  tue,  pegni  tremanti. 
Turba  inferma  mendica,  e  nata  a  i  pianti, 
r  t'era  a  pie. 

Tra  quelle  «  sei  fatture  delle  viscere  materne  » 
v'era  una  sorella  per  nome  Camilla,  che  andò 
moglie  a  certo  Cesare  Del  Chiaro,  il  quale  divenne 
canonico  e  fu,  come  abbiam  visto,  uno  de'  bio- 
grafi del  Marino.  Questa  sorella  a  volte  calmava 
gii  sdegni  del  padre  «  in  cui  d'oro  boUian  de- 
siri ardenti,  »  e  che,  piuttosto  d'un  poeta,  volea 
far  del  figlio  un  legista,  e,  «  desideroso  di  ridurre 
la  sua  condizione  con  maggiori  ricchezze  e  mag- 
gior grado  di  onori,  appena  uscito  dalla  gram- 
matica, che  fu  appunto  in  su  li  tredici  anni,  » 
applicò  il  figliuolo  allo  studio  delle  leggi,  presso 
don  Alfonso  Galeota,  piegando,  dice  il  Marino 
iieìV  Adone, 

Talto  pensiero 

A  vender  fole  à  garruli  clienti. 
Dettando  a  questi  supplicanti  e  quelli 
Nel  rauco  foro  i  queruli  libelli. 

Però  il  Marino  invece  che  coi  libri  di  Bartolo 


—  44  — 
e  di  Baldo,  a  que'  tempi  celebratissimi,  tanto 
che  in  tutta  Europa  si  tenevano  cattedre  ove  si 
commentavano,  amava  intrattenersi  col  Furioso, 
coW Orlando  Innamorato,  e  colla  Gerusalemme.  E 
fu  talmente  preso  dall'amore  per  la  poesia,  che, 
a  poco  a  poco  e  di  nascosto,  per  timore  che  aveva 
del  padre,  vendeva  i  libri  legali,  «  convertendo 
quel  poco  danaro  che  ne  ritraeva  in  libri  di 
poesia  e  d'umanità.  »  La  casa  del  padre  poi  era 
frequentata  da  molti  nobili  e  gente  danarosa;  ed 
in  quei  trattenimenti  recitavansi  egloghe  e  com- 
medie nelle,  quali  Gian  Francesco  e  suo  figlio 
«  e  questi  con  maraviglia  d'ognuno  per  la  viva- 
cità sua,  »  erano  i  principali  attori.  (1)  IL  Marino 
in  queste  occasioni  prese  a  conoscere  il  poeta 
Oiulio  Cortese,  in    quel    tempo   famosissimo.    (2) 

(1)  Baiacca,  Vita  del  cav.  Marino. 

(2)  In  uua  raccolta  di  rime  di  Giulio  Cortese  {/{ime  et  prose  del 
s!ff.  Giulio  ("ovtese  detto  l'Attoiiilo  dell'Accademia  degli  Svcfrliati  dì  Ka- 
poli.  In  Napoli  appresso  Giuseppe  Cacchi  M.D.XCII)  troviamo  il  seguente 
som  tto  del  Marino,  detto  l'Accorto  Accademico  Svegliato. 

Cortese,  Amor  t'accende,  Amor  la  cetra 

Dolce  accompagna  con  la  tromba  d'oro. 

Che  ti  die  Febo,  e  '1  crin  non  pur  d'alloro. 

Che  di  mirto  fregiar  da  te  s'impetra. 
E  doppia  fiamma  il  cor,  doppia  faretra 

.Ti  preme  il  fianco;  onde  '1  tuo  stil  canoro 

Hor  de  le  Muse,  or  de  le  Grazie  il  coro 

Illustra,  e  '1  terzo,  e  '1  quarto  ciel  penetra. 
Si,  che  'n  Cipro,  e  'n  Parnaso,  in  fra  duo  Soli, 

Qui  co'  cigni  Minerva,  e  tal'  hor  quivi 

Citerà  con  gli  amori  appregi,  e  coli. 
Hor' i  pensieri  con  la  penna  scrivi, 

Hor  con  le  penne  del  pensier  le  'uvolì, 

E  versi  accolti  in  pianto  i  sacri  rivi. 

Questi  sono  i  primi  versi  del  poeta  nsciti  alla  luce  e  che  non  furono 
più  stampati  nelle  raccolte  delle  sue  rime. 


—  45  — 

Intanto  il  poeta  menava  vita  leggiera  e  dan- 
nosa per  lui  e  pel  padre.  Contraeva  debiti,  i  quali 
poi  non  erano  pagati  ;  e  Gian  Francesco,  «  per 
condurre  il  giovane  sulla  buona  via,  »  adoperò 
preghiere,  minacce,  ma  tutto  inutilmente.  Alla 
fine,  dopo  avergli  tolta  ogni  comodità,  lo  cacciò 
di  casa,  ne  più  voleva  rivederlo.  E  solamente  i 
pianti  e  le  preghiere  della  figlia  Camilla  pote- 
rono rabbonirlo.  In  questo  stato  di  cose,  il  Ma- 
rino ebbe  un  grande  protettore  nel  Manso,  a  cui 
spesso  ricorreva  quando  più  inveiva  la  collera 
paterna.  «  Saprà  Vossignoria,  scriveva  il  Marino 
al  Manso,  eh'  io  per  mia  disgrazia  mi  trovo  troppo 
fieramente  agitato  da  moltissimi  e  gravissimi  tra- 
vagli, per  essere  in  rotta  con  mio  padre,  le  ti- 
rannie del  quale  io  mi  risolvo  a  non  poter  più 
tollerare.  Per  la  qual  cosa  dovendo  io  soddisfare 
ad  alcune  mie  estreme  necessità,  mi  favorisca 
imprestarmi  per  lo  spazio  di  quindici  giorni 
quattro  ducati...;  »  ed  in  un'altra  lettera:  «  Son 
debitore  a  Vossignoria  Illustrissima  di  molti  da- 
nari, ma  molto  più  d'infinite  grazie  che  di  con- 
tinuo mi  fa  ;  a  queste  non  posso  soddisfare  ; 
a  quelli  credeva  averlo  fatto  a  quest'ora;  ma 
quella  stessa  fortuna  che  mi  ha  impedito  a 
complir  a  quanto  doveva  mi  forza  a  supplicarla 
di  favorirmi  di  altri  trenta  ducati....  »  (1) 

Intanto  avea  composto  la  canzone  dei  Baci 
che  corse  subito    per    Napoli    applauditissima,  e 

(1)  Lettere  del  Cav.  Marino,  paj.  51. 


—  46  — 
«  per  la  quale  meritò  d'essere  infinitamente  lo- 
dato. (1)  »  Il  Marino  aveva  in  questo  tempo  non 
ancora  compiuti  i  venti  anni  ;  e  piuttosto  che 
soffrire  le  avversità  della  fortuna  e  del  padre 
che  gli  contendeva  la  casa,  decise  di  allogarsi 
presso  qualche  nobile  napolitano.  La  conoscenza 
da  lui  contratta  con  Ascanio  Pignatelli,  duca  di 
Bisacci,  con  Inico  di  Guevara,  duca  di  Bovino, 
nella  casa  del  quale  dimorò  circa  tre  anni,  fa- 
vori questa  sua  determinazione.  Il  principe  di 
Conca,  Grande  Ammiraglio  di  Napoli,  se  lo  prese 
con  se  in  qualità  di  segretario.  Quivi  il  Marino 
coltivò  l'amicizia  di  Torquato  Tasso,  il  quale  era 
ospitato  dal  principe  di  Conca;  e  l'autore  della 
Gerusalemme  conobbe  nel  giovine  un  grande 
poeta,  e  lo  stimolò  a  continuare  gli  studi  intra- 
presi. Avea  tanta  buona  amicizia  e  tanta  bene- 
volenza pel  giovine  poeta  che  lo  pregò  di  curare 
la  stampa  de'  suoi  Diaìoghi.  In  una  lettera  al 
Manso  il  Marino  scrive  :  «  Honne  parlato  con  lo 
stesso  signor  Torquato  a  cui  dicendo  eh'  io  era 
per  mandar  fuori  questa  sua  opera  per  ordine  di 
Vossignoria  Illustrissima,  mostrò  d'averne  molto 
piacere,  promettendo  di  risolversi  quanto  prima; 
e  mi  disse  che  desiderava  la  stampa  del  libro, 
non  in  dodicesimo  come  noi  avevamo  designato, 
ma  in  quarto  foglio,  conforme  ad  alcune  altre 
sue  cose.  » 

Nella  casa  dell'Ammiraglio  il  Marino  ebbe  agio 

(1)  Il  Loretlano  dice  clie  «  le  voci   della  fama  le  portarono  all'orecchi»! 
del  padre,  che  ne  ricevè  sentimento  non  ordinario.  » 


—  47  — 
di  applicarsi  agli  studi  poetici  e  forse  in  questi 
tempi  compose  una  poesia  intitolata  il  Corallo 
«  alla  buona  memoria  del  signor  Pietro  Ferrari,  » 
ed  un'altra  intitolata  la  SUifa,  a  cui,  dice  il  Ma- 
rino in  una  sua  lettera,  «  è  oramai  data  1'  ultima 
mano,  e  nella  quale  s'averà  di  che  ridere.  » 

Nel  1598  però,  cinque  o  sei  anni  dopo  la  sua 
nomina  a  Segretario  del  Principe,  il  Marino  fu 
cacciato  in  prigione  per  aver  aiutato  un  suo  a- 
mico,  certo  Marc'  Antonio  d'Alessandro,  a  rapire 
una  fanciulla  forse  spagnola;  il  carcere,  a  dire 
del  Marino,  fu  durissimo.  (1)  Gettato  in  un'orrida 
prigionia  detta  il  Cammerone,  vi  stette  per  molti 

(1)  Prigionia  del  cav.  Marino  nel  Cammerotie  prigione  di  Napoli.  Non 
ho  visto  il  capitolo  stampato,  bensì  una  copia  manoscritta,  che  si  conserva 
alla  biblioteca  Casanatense  di  Roma. 

Il  compianto  Minieri  Riccio  nel  suo  libro  Biografia  degli  sci-ittovi 
nripolitani,  alla  parola  Marino  dice:  «  Preso  d'amore  (il  Marino)  per  una 
bella  donzella  detta  Antonella  Testa  la  domandò  in  moglie  e  gli  fu  negata 
dal  padre  che  ricco  negoziante  era,  allora  gli  amanti  per  costringere  il 
genitore  a  condiscendervi  suo  malgrado  si  unirono  in  clandestine  nozze 
ed  Antonella  sendo  del  marito  gravida  nel  sesto  mese  si  sconciò  e  ne 
mori.  D'immensa  ira  arse  l'infelice  padre  e  ricorse  ai  tribunali  ed  il 
Marino  cacciato  nelle  prigioni  di  Castel  Capuano  vi  languì  lunga  pezz.i, 
alla  fine  non  provatosi  il  suo  delitto  riacquistò  la  libertà.  »  Per  quante 
ricerche  abbiam  fatte  negli  archivi  napolitani,  non  abbiamo  potuto  rin- 
tracciare la  benché  minima  particolarità  su  questo  tragico  episodio  della 
TÌta  del  poeta.  Forse  il  Marino,  quando  sotto  ben  altra  veste  fece  ritorno 
In  Napoli,  si  sarà  affrettato  a  cancellare  ogni  memoria  del  suo  vergognoso 
passato;  anche  perchè  i  suoi  biografi  non  fanno  accenno  del  fatto.  Sa- 
rebbe però  curioso  sapere  dove  il  Minieri  Riccio  potè  trovare  quelle  par- 
ticplarità  sulla  vita  del  poeta.  È  però  una  calunnia  quanto  dice  il  Mur- 
lola  (Marineide,  Risata  II). 

Et  a  la  sodomia 
Dato,  ond'  al  fin  di  Napoli  scappare 
Mi  bisognò  con  furia,  e  a  Roma  andare, 

Cfr.  la  canzone  Contro  il  Vitio  Nefando,  della  quale  avremo  occa- 
sione di  parlare. 


—  43  — 
mesi,  dopo  i  quali,  per  opera  specialmente  del 
Manso,  fu  liberato;  appena  uscito  dal  carcere 
fece  di  tutto  per  liberare  l'amico  ;  giunse  fino  a 
falsificare  una  carta,  la  quale  doveva  attestare 
essere  l'amico  suo  prete^  e  per  tal  modo  non  po- 
tersi carcerare;  scoperto  il  suo  disegno  fu  ricacciato 
in  carcere,  dal  quale  non  potè  uscire  che  colla 
fuga.  E  fu  ben  fortunato  a  poter  fuggire,  perchè 
l'amico  suo  lasciò  la  testa  sul  palco.  (1) 

A  Roma,  per  commemorare  l'amico,  il  Marino 
componeva  questo  sonetto,  che  a  noi  sembra  bel- 
lissimo: 

Quel  feiTO.  oiruè,  che  dal  tuo  corpo  tolse 
La  nobil'alma,  e  1  capo  tuo  recise. 
De  la  mia  speme  a  un  colpo  il  fil  recise, 
De  la  mia  vita  a  un  punto  il  nodo  sciolse, 

Che  non  fèV  che  non  disse?  ò  quai  non  volse 
Del  tuo  scampo  tentar  sagaci  guise 
Il  tuo  caro  fedel  ?  ma  noi  pei'mise 
Il  eie],  che  del  tuo  duol  poscia  si  dolse. 

Usai  per  altrui  man  froda  pietosa, 
Ma  vidi  Astrea,  che  "u  me  la  spada  strinse. 
E  minacciommi  rigida,  e  crucciosa. 

Timor  di  me,  pietà  di  te  mi  vinse 
Si  ch'io  piansi  fuggendo.  Ella  sdegnosa 
Due  vite  amiche  in  una  morte  estinse.    (2) 

(1)  Il  Murtola  dice  {Mariiieide,  Risata  III)  che  la  seconda  prigion-ia 
del  Marino  fu  causata  dall'arer  falsificata  una  scrittura  servendo  il  San 
Severo. 

Che  servendo  il  Signor  di  San  Severo 
Una  scrittura  di  tua  man  fu  vista 
Falsificata  in  fin  dal  capo  al  fondo. 

(2)  Marino,  Lira,  pag.  163. 


_  49  — 

Solo,  povero,  sul  finire  del  1599,  senza  salu- 
tare gli  amici  e  i  protettori,  lacero  e  smunto  pei 
patimenti  sofferti,  il  Marino  lasciava  di  notte 
tempo  la  terra  ove  era  nato,  e  dove  aveva  pas- 
sati gli  anni  della  sua  gioventù. 

Fuggendo  da  Napoli,  il  Marino  cantava  in  un 
sonetto,  eh'  è  tra  i  più  belli  da  lui  composti,  e 
che  deve  aver  scritto  nel  cammino  da  Napoli  a 
Roma: 

Fuggo  i  paterni  tetti,  e  i  patrii  lidi 
(Ma  con  tremante  pie)  mi  lascio  a  tergo 
Passo,  e  con  questi,  che  di  pianto  aspergo, 
Per  voi  rimiro  amati  colli,  e  fidi. 

I  tuoi  (si  vuole  il  Ciel)  vezzi  omicidi 
Sirena  disleal,  dal  cor  dispergo; 
E  caro  men,  ma  più  securo  albergo 
Pellegrino  ricerco,  ov'  io  m'annidi. 

Ma  che  rileva,  oimè,  girne  si  lunga, 
Se  fuggitivo,  e  misero,  e  lontano 
Me  mai  non  lascio,  e  l'odio  altrui  mi  giunge? 

E  s'un  bel  viso,  una  leggiadia  mano 
L'anima,  ovunque  io  vò  persegue,  e  punge? 
Fortuna  empia,  empì  Amor,  vi  fuggo  invano.  (1) 

A  Napoli  il  Marino  lasciava,  come  abbiam 
detto,  tutti  i  suoi  scritti;  fra  i  quali  un'opera 
sua  non  ancor  terminata,  la  quale  sembra  gli 
premesse  moltissimo  di  riavere.  Questo  rilevasi 
da  un  sonetto  che  comincia: 

Tolto  alle  fiamme  il  pargoletto   amato, 

(1)  Marino,  Lira,  pag.  197. 


—  50  — 
e  nel  quale,    sempre   riferendosi   al    manoscritto, 
dice  : 

Parto  de  l'alma  mia,  prole  infelice, 
Ond'a  speme  m'alzai  d'eterno  onore, 
Rimanti  in  preda  a  rigida  nodrice.    (1) 

(1)  Marino,  Lira,  pag.  Ì'^S. 


I 


I 


51 


Capitolo  YI. 


II  Marino  a  Roma  —  È  accolto  da  Melchior  Crescenzio  —  Suoi  viaggi 
per  l'Italia  —  Prima  edizione  delle  sue  rime  —  Analisi  di  queste  — 
Concetto  dell'amore  nel  Marino  —  È  famigliare  del  Cardinale  Aldo- 
brandino. 


A  Roma  il  Marino  giungeva  nel  1800,  in  ma- 
niera da  far  pietà.  Lacero,  scalzo,  colla  morte 
nell'anima,  davanti  alle  maestose  rovine  della  ca- 
pitale del  mondo  romano,  trovava  la  forza  di 
salutare  la  città  illustre,  che  doveva  ospitarlo: 

Felici  colli,  simulacro  vero 
Del  valor  de  le  chiare  alme  Latine, 
In  cui  serpe  fra  l'edre,  e  le  ruine 
La  maestà  del  già  caduto  impero.    (1) 

Però,  appena  arrivato,  cadeva  gravemente  ma- 
lato. Riconosciuto  a  caso  da  Gasparo  Salviani, 
l'amico  di  Alessandrio  Tassoni,  ed  il  commenta- 
tore della  Secchia  Rapita^  questi  l'accoglieva  in 
casa  sua.  Il  Salviani  era  vecchio  amico  del  Marino, 
il  quale  era  venuto  a  Roma,  anni  addietro,  per 
breve  tempo  col  seguito  del  cardinale  Ascanio 
Colonna.  (2) 

RaccomandoUo  il  Salviani  a  Monsignor  Mel- 
chiorre Crescenzio  Chierico  di  Camera  del    papa 

(1)  Marino,  Lira,  pag.  175. 

(2)  Appena  giunto  a  Roma,  il  Marino  a  detto  del  Murtola  fu  costretto 


—  52  — 
Clemente  Vili,  e  facendogli  sapere  come  quel 
giovine  lacero  e  macilento  fosse  l'autore  della 
canzone  dei  Baci,  gli  presentò  un  sonetto  fatto 
dal  Marino  in  lode  di  lui,  nel  quale  il  poeta  s'au- 
gurava che  il  Crescenzio  avesse  voluto  proteggere 

La  bassa  vela  de  lo  stanco  inffeofno 

e  anzi  cominciava  il  sonetto: 

Da  che  si  fido,  e  si  tranquillo  ha  mostro 
Porto  soave  al  mio  sdrucito  legno 
Fortuna  amica,  e  placa  ornai  lo  sdegno 
Dei  Ciel,  del  mar,  con  cui  combatto,  e  giostro  : 

Il  generoso  amico  informò  poi  il  Crescenzio 
delle  cause  della  venuta  in  Roma  del  poeta,  e 
del  suo  stato  ;  e  soggiunse  «  che  avendo  il  Ma- 
rino fatta  una  lezione  nella  toscana  favella  nel- 
l'Accademia, che  allora  fioriva  di  Onorio  Santa- 
croce, avea  dato  tal  saggio  delle  sue  virtù,  che 
da  alcuni  signori  veniva  ricercato,  e  con  istanze 
pregato  a  stare  in  casa  loro.  (1)  »  Il  Crescenzio  che 

dare  in  pegno  il  ferraiuolo  ad  un  ebreo,  e  non  potè  riaverlo  se  non  con 
l'aiuto  di  Onofrio  Santacroce.  Cfr.  Marineide,  Risata  VI: 

Ti  rinfaecierà  quando 
Il  Falconio,  il  Cresceulio  huomo  assai  pio 
Mangiar  ti  davan  per  l'amor  di  Dio; 

Quando  liavevi  al  giudio 
Il  ferraiolo  in  pegno,  et  uscir   fuore 
Xon  potevi  di  casa,  se  il  Signore 

Honofrio  al  tuo  dolore 
Non  porgeva  rimedio,  e  qualche  aita 
Glie  ti  ridiè  poi  col  Mautel  la  vita. 

(1)  Baiacca,  Vita  dtl  cav.  Marino. 


—  53  — 
era  grande  amico  de'  letterati,  s'offerse  subito  di 
riceverlo  in  sua  casa.  «  Volle  visitarlo  a  letto  dove 
era  inchiodato  per  malattia  ;  né  contento  di  questa 
dimostrazione,  gli  offri  stanza  nel  suo  palazzo,  lo 
dichiarò  suo  famigliare,  e  gli  assegnò  subito  prov- 
visione tale,  che  a  poter  con  decoro  mantenersi  fosse 
bastevole.  »  Il  Marino  accettò  con  gioia  l'offerta 
ed  entrò  in  quella  casa  con  titolo  di  gentiluomo, 
«  ne  con  altra  suggezione  che  dei  propri  studi.  » 
Colà  ebbe  mezzi  e  tempo  di  coltivare  gli  studi 
poetici  e  preparò  per  le  stampe  la  prima  e  la 
seconda  parte  delle  sue  rime,  dedicando  la  prima 
a  Melchior  Crescenzio,  suo  protettore,  la  seconda 
a  Tommaso  Melchiori.  (1)  Per  preparare  la  stampa 
di  queste  sue  poesie,  il  Marino  s'era  trasferito  a 
Venezia,  dove  stette  sino  al  1603.  Prima  di  giun- 
gere a  Venezia  si  fermò  a  Firenze,  a  Siena  e  a 
Bologna  e  scrivendo  al  Salviani  dicevagli  che 
sperava  di  trovare  a  Venezia  il  Guarini.  Griun- 
gendo  a  Firenze,  il  Marino  salutava  la  Toscana 
ov'eran  nati  Dante,  Boccaccio  e  Petrarca: 

Pace  a  voi  liete  piagge,  aure  ridenti 
D'Etriiria  bella:  I'  ti  saluto,  o  cai'O 
Arno  gentil,  cui  d'ogni  grazia  ornaro 
Tutte  a  prova  le  stelle  e  gli  elementi. 

(1)  Kime  di  Giovanni  Battista  Marino,  Parte  Prima,  all'  IHustrissimo 
et  Reverendissimo  Monsig.  Melchior  Crescentio  Chierico  di  Camera,  con 
privilegio,  in  Venetia,  presso  Gio.  Bat.  Ciotti,  M.DC.II.  Questa  è  la 
prima  parte  ;  la  seconda  :  ^Rime  del  Marino,  Parte  seconda,  Madriali  e 
Canzoni,  airilluBtrìssimo  sig.  Tommaso  Melchiori,  con  privilegi  et  licenza 
de' superiori,  in  Venetia,  presso  Gio.  Batt.  Ciotti,  1602. 


—  ST- 
ECCO pur  di  te  gli  occhi  a  far  contenti 
Mi  guida  il  Ciel  dopo  tanti  anni  avaro 
Di  te,  pe  si  cliiar  alme  assai  più  chiaro, 
Che  per  le  tue  si  pure  acque  lucenti. 

Da  te  nacque  quel  buon,  ch'arse  Fenice 
Di  nobil  Fiamma,  e  dal  tuo  sen  fecondo 
L'un"  e  l'altro  Cantor  di  Laura,  e  Bice. 

Fiume  già  non  dirò,  ch'ai  mar  fecondo 
Non  sei,  ma  più  del  mar  degno,  e  felice: 
Quel  solo  un  Sol,  tu  tre  n'apristi  al  mondo.  (1) 

A  Siena  Tommaso  Pecci,  musico  eccellentissimo^ 
gli  metteva  in  musica  la  canzone  dei  Baci,  ed  il 
poeta  encomiava 

Quelle,  de'  miei  piacer  dolci,  e  lascivi 
Ma  di  piacer,  ma  di  dolcezza  vote 
E  di  baci  vitali  impresse  note. 
Baci  però  di  vita  indegni,  e  privi.  (2) 

Durante  il  suo  soggiorno  a  Venezia  strinse  ami- 
cizia con  Guido  Casoni,  poeta  allora  celebratis- 
simo.  Un  giorno,  in  casa  del  Casoni,  mentre  il 
Marino,  dai  più  sconosciuto,  era  in  mezzo  ad  un 
crocchio  di  letterati,  recita  loro  il  sonetto  clie 
tratta  della  miserie  umane,  sonetto  abbastanza 
conosciuto,  e  che  comincia 

Apre  l'uomo  felice  allor,  che  nasce  (3) 
e  termina 

Da  la  cura  a  la  tomba  è  un  breve  passo.  (4) 

(1)  Marino,  Lira,  pag.  198. 

(2)  Marino,  Lira,  pag.  199. 

(3)  Marino,  Lira,  pag    170. 

(4)  Questo  sonetto  è  tra  quelli  che  il  Foscolo  stimava  tra  i  migliori 
del  Marino  (Cfr.  Saggi  di  critica-storica  letteraria  di  Ugo  Foscolo,  Fi- 
renze, Le  Monnier,  1859,  Voi,  I.) 


--  65  — 

Recitato  il  sonetto,  subito  esce  dalla  sala,  e  parte 
la  sera  stessa  da  Venezia,  lasciando  gli  astanti 
maravigliati  della  stranezza  del  poeta  napolitano. 

Ed  ora  veniamo  alle  sue  poesie  giudicate  dal- 
l'autore  molto  imperfette  e  «  mai  stimate  degne 
d'ogni  altra  luce  se  non  quella  del  fuoco.  »  Egli 
eraisi  indotto  a  pubblicarle  «  per  ie  iusingiie  e  le 
violenze  degli  amici,  che  tutto  di  lo  persuadevano 
a  darle  fuori,  e  per  le  molte  trascritte,  che  sparse 
ne  ivano  attorno  assai  diverse  da'  primi  esemplari 
e  venivano  anche  tradotte  in  ispagnolo  e  in  fran- 
cese. »  Queste  rime,  e  specialmente  la  prima  parte 
della  Lira  erano  state  composte  «  nel  verde  aprile 
della  sua  giovinezza,  »  anzi  «  nello  inverno  tor- 
bido e  tempestoso  delle  sue  continue  sciagure.  » 
Confessava  a  chi  le  dedicava,  ossia  al  suo  be- 
nefattore, Melchiorre  Crescenzio,  com'esse  «  ve- 
nissero alla  luce  intempestivamente,  e  non  ben 
cresciute  a  quel  colmo  di  perfezione,  che  in  qual- 
che spazio  di  tempo  potevano  per  avventura  ri- 
cevere ;  »  ma  assicurava  che  «  sarebbe  venuta  sta- 
gione, che  dalla  pianta  del  suo  intelletto,  ancorché 
sterile,  e  da  patrio  suo  nativo  terreno  svelta, 
sarebbe  nato  quelche  fratto  maturo  di  poema  più 
grave,  che  è  quello  a  cui  d'intorno  lavorando 
andava  tuttavia,  fondato  sopra  la  ve  adetta  della 
morte  di  Cristo,  eseguita  per  divina  volontà  di 
Tito  Imperatore  nella  città  di  Gerusalemme.  »  (1) 

(1)  Il  Marino  Intende  qui  di  parlare  della  Gerusalemme  Distrutta, 
del  qual  poema  fu  stampato  solamente  il  settimo  canto,  pubblicato  dopo 
la  morte  dell'Autore. 


—  56  — 
La  prima  parte  della  Lira  è  composta  esclu- 
sivamente di  sonetti,  i  quali  vengono  divisi  dal- 
l'autore in  gruppi  aistinti,  a  seconda  del  soggetto 
ch'egli  tratta  ;  amorosi,  marittimi,  boscherecci, 
eroici,  lugubri,  morali,  sacri,  vari,  e  sonetti  di 
proposte  e  risposte,  i  quali  aitimi  sono  scritti  per 
ringraziare  molti  poeti  amici  dell'autore,  e  che 
l'hanno  lodato. 
^  La  rime,  che  cosi  le  chiama  il  Marino,  amorose, 
marittime  e  boscherecce  sono  le  migliori  per  com- 
^  posizione  e  per  soggetto.  Il  nostro  è  poeta  d'im- 
/  pressione,  e  non  ha  bisogno  di  torturarsi  il  cervello 
per  descrivere  cose  sensuali,  e  piene  di  calda  pas- 
sione; il  che  fa  per  le  rime  eroiche  dove  diviene  con- 
venzionale, e  per  le  lugubri  in  cui  è  ridicolo.  Il 
Marino  invece  è  un  poeta  che  s'impressiona  di 
ogni  minima  cosa;  perchè  di  fantasia  mobilissima 
e  svariata,  sa  ideare  azioni  e  soggetti  amorosi  di 
una  delicatezza  estrema,  e  d'una  fioritura  sma- 
gliante. Le  rime  amorose  sono  precedute  da  un 
sonetto  proemio,  che  noi  chiameremo  sonetto  pro- 
gramma. 

Altri  canti  di  Marte,  e  di  sua  schiera, 
Gli  arditi  assalti,  e  l'onorate  imprese, 
Le  sanguigne  vittorie,  e  le  contese, 
I  trionfi  di  Morte  orrida,  e  fera. 

I'  canto  Amor,  da  questa  tua  Guerrera 
Qur,nt'ebbi  a  sostener  mortali  offese, 
Come  un  guardo  mi  vinse,  un  cria  mi  prese 
Historia  miserabile,  ma  vera. 

Duo  begli  occhi  fur  l'armi,  onde  trafitta 


—  67  — 

Giacque,  e  di  sangue  invece  amai'O  pianto 
Sparge  lunga  stagion  l'anima  afflitta. 

Tu  per  lo  cui  valor  la  palma,  e  '1  vanto 
Ebbe  di  me  la  mia  nemica  invitta. 
Se  desti  morte  al  cor,  dà  vita  al  canto,   d) 

E  cosi  il  poeta  amoroso  canta  e  lungamente. 
Per  lui  amore  è  crudele  e  lo  mette  a  dure  prove. 
E  la  donna  sua,  bella  come  Ven^re^  iìon~'corrf- 
sponde  sempre  alle  sue  proteste  d'amore,  il  poeta 
allora  prorompe  in  infuocati  rimproveri,  dicen^ 
dole  clie  non  cura  che  la    sua   superba    bellezza. 

Crudel  Donna,  e  superba,  a  cui  sol  cale 
Nel  lusinghiero  adulator  fallace 
La  tua  propria  ammirar  forma  mortale, 

ma  la  sua  donna  è  insensibile  anche  a  questi 
rimproveri,  che  respinge  insieme  alle  proteste  di 
amore. 

Seguo,  prego,  lusingo,  amo,  ed  adoro 
Di  gioia  in  bando,  anzi  di  vita  in  forse  : 
Ma  da  che  l'empia  in  preda  al  duol  mi  scorse, 
Sorda  a  la  piaga  mia  nega  ristoro. 

Altre  volte  dubita  che  la  sua  donna  l'ami,  ed 
allora  le  domanda  : 

Fu  di  sdegno,  o  d'amor,  fiamma,  che  t'arse 
Quella,  che  Donna  si  repente  uscio 
Su  la  tua  guancia?  e  '1  dolce  ostro  natio 
Di  peregrina  porpora  ti  sparse  ? 

(1)  Marino,  Lira,  pag.  1. 


—  58  — 

e  nel  dubbio  lo  lusinga 

un  pensier:  forse  l'accende 

Amorosa  vergogna,  e  nel  bel  volto 
La  sua  vermiglia  insegna  apre  e  distende, 
ma  una  voce  interna  gli  dice 

0  stolto, 
Tutto  quel,  che  si  bel  rosseggia,  e  splende 
Sangue  colà,  da  le  tue  piaghe  è  tolto. 

E  il  poeta  si  ribella  contro  questa  sorte  che  lo 
costringe  ad  amare  una  donna  senza  speranza 
d'esser  contraccambiato;  la  quale 

se  di  mia  vaghezza  ella  s'avvede, 

Volge  i  guardi  in  saette,  in  ira  il  riso  ; 

e  paragonandola  al  sole,  si  domanda 

Deh,  se  cortese  altrui,  mentr'arde,  e  splende, 
Si  mostra  il  Sol,  perchè  costei  la  pura 
Luce  a  me  di  due  stelle  empia  contende? 

Però  il  poeta  è  stanco  della  crudeltà  della  sua 
donna;  l'amore  ardentissimo  ch'egli  nutre  per  lei, 
s'è  raffreddato  a  contatto  con  quel  cuore  di 
ghiaccio;  oramai  il  poeta  è  ritornato  in  se,  e 
scioglie  un'inno  di  grazia  per  la  ricuperata  libertà: 

La  spezzata  catena,  e  '1  rotto  giogo. 
Che '1  pie  sì  forte,  e'I  cor  m'avvolse,  e' strinse, 
Di  cui  mai  non  sperai,  che  tempo,  o  luogo 
Scior  mi  dovesse,  ed  hor  tua  man  mi  scinse: 


—  59  — 

Sacro  al  tuo  tempio:  e  già  cantando  sfogo 
Il  grave  duol,  che  si  m'oppresse,  e  vinse, 
Col  pie  spargendo  il  cenere  del  rogo, 
Che  pria  m'accese,  e  poi  giust'ira  estinse. 

Invitto  Sdegno,  i' ti  ringrazio,  e  lodo, 
È  sciolto  il  laccio,  onde  d'Amor  fui  stretto. 
De  l'antica  prigion  libero  godo. 

Or' a  te,  fin  ch'io  viva,  aver  prometto 
Si  com'  ei  fece  adamantino  il  nodo, 
Contro  i  suoi  colici  adamantino  il  petto. 

Se  qualche  volta  rammenta  le  sue  pene  e  gii 
affanni  spenti  nel  cuore  da  lungo  tempo,  non  è 
più  amore  ch'egli  sente  in  petto;  d'ora  in  poi 
vivrà  solamente  d'odio  eterno.  Ora  per  il  poeta 
l'amore  e 

Vipera  in  vasel  d'or,  ciarda,  e  vorace. 
Nel  più  tranquillo  mar  scoglio  pungente, 
Nel  più  sereno  Ciel  nembo  stridente. 
Tosco  tra' fior,  tra 'cibi  Arpìa  rapace: 

Sogno   vano  d'uom  desto  :  oscuro  velo 
Agli  occhi  di  ragion,  peste  d'Avei'no, 
Che  la  terra  aveneni,  e  turbi  il  Cielo  :... 

il  quale  Amore  non  ha  più  alcuna  attrattiva  per 
lui;  e  se  qualche  volta  la  donna  sua  verso  il 
poeta 

la  bella  man  distese 

e  volse  de'  begli  occhi  i  rai, 

Destossi,  e  foi'te  oltre  l'usanza  assai 
Il  dolce  antico  foco 


—  60  — 

tanto  che  bastò  la  sola 

virtù  d'una  man  bianca 

Quando  fra  le  sue  nevi  ella  mi  strinse. 

Lasso,  che  sembrò  neve,  ed  era  ardore, 
Mostrò  prender  la  man,  ma  l'alma  avvinse, 

questo    sentimento    è   però  fugace.  Ed  infine    il 

poeta  chiude  la  corona    de'  sonetti  amorosi   con 

questo  bellissimo,    che  è  come    un  congedo  alle 
sue  rime: 

Itene  avante  a  que'  begli  occhi  rei. 
Onde  mi  strugge  Amor,  rime   amorose  : 
Portate  voi,  di  duol  nunzie  pietose. 
Vive  le  fiamme  lor  ne'  pianti  miei. 

Ma,  se  pietà  \ì  negherà  colei, 
Cui  natura  di  ghiaccio  il  cor  compose, 
Meco  vi  state  in  chiusa  parte  ascose, 
Del  suo  rigor,  del  mio  dolor  trofei. 

Forse  (e  fora  il  miglior)  quel  che  risplende 
In  voi,  benché  di  stil  povere,  e  d'arte. 
Possente  ardor,  che  l'anima  ni'  incende-, 

Potrà  (se  pur  di  tante  in  lor  co nsp ai-te 
Lagrime  il  vivo  umor  non  gliel  contende) 
Come  già  '1  petto,  incenerir  le  carte. 

Anche  le  rime  marittime  sono  precedute  .da 
un  proemio  in  forma  di  sonetto,  nel  quale  il 
Marino  chiede  al 

Possente  Dio,  e'  hai  de  l'ondoso  regno 
Quasi  Giove  secondo,  il  sommo  impei'o; 


—  61  — 
di  poter  anche  lui  accordare  i  suoi    canti   sopra 
la  nobil  cetra 

Ond' apprese  i  concenti  han  le  Sirene, 

e  già  altre  volte  toccata  dal  gran  Sincero,  Iacopo 
Sannazaro. 

Le  rime  marittime  sono  anch'  esse  amorose, 
interpolate  da  alcune  descrizioni  che  il  poeta  fa 
dello  spuntar  dell'aurora,  dell'  apparizione  del 
sole  ecc.,  e  d'un  affettuoso  ricordo  del  poeta  sopra 
la  tomba  d'un  suo  concittadino,  Sannazaro: 

Ecco  il  monte,  ecco  il  sasso,  ecco  lo  speco, 
Che  '1  Pescator,  che  già  solea  nel  canto 
G-irsen  si  presso  al  gran  Pastor  di  Manto, 
Presso  ancor  ne  la  tomba  accoglie  seco. 

Or  l'urna  sacra  adora,  e  spargi  meco 
Craton  fior  da  la  man,  da  gli  occhi  pianto, 
Che  del  Tebro,  e  de  l'Arno  il  pregio,  il  Acanto 
In  quest'antro  risplende  oscuro,  e  cieco. 

Pon  mente,  come  (hai  stelle  avare,  e  crude) 
Piange  pietoso  il  mar,  l'aura  sospira. 
Là,  dove  il  marmo  avventuroso  il  chiude: 

Fan  nido  i  Cigni  entro  la  dolce  lira, 
E  intorno  al  cener  muto,  a  l'ossa  ignude 
Stuol  di  meste  Sirene  ancor  s'aggira. 

Però  nelle  rime  marittime  il  sentimento_  amo- 
roso  è  placido  è~~S6rén67~"Koiìr~Y^  è  che  rara- 
mente contrastodl  passione;  quasi  mai  crudeltà 
di  donna,  la  quale  invece  è  gentile  e  contrac- 
cambia le  proteste  amorose  di  Fileno,  sotto  cui 
è  sempre  adombrato  il  Marino. 


—  62  — 

/      In  questi  sonetti    si    respira   l'acre    odore    del 

f    mare;  leggendoli  si  pensa  al  bellissimo  cielo  na- 

\  politane,  al    golfo    di    Margellina   incantevole    e 

/  2^i®^o  di  seduzioni;  e  questo  clie  descrive  il  poeta 

I   è  un  pezzo  di  Napoli,  misterioso  e  pieno  di  dolci 

languori,  dove  si  vorrebbe   sempre    vivere.  Ecco 

\^  come  il  jDoeta  descrive  una  ninfa  cbe,  sul  punto 

•di  bagnarsi,  sparge  i  capelli  al  vento. 

Avea,  su  per  lo  mar,  del  biondo  crine 
La  Pescatrice  mia  sciolto  il  tesoro 
Quasi  nova  Fortuna,    e  Noto,  e  Coro 
Preziose  ne  t'ean  dolci  rapine. 

Ondeggiavan  per  l'onde  in  onde  d"oro 
Sparse  ie  fila  rilucenti^  e  fine, 
Ed  invide  scorgean  l'onde  marine 
Più  bella  dea  d'Amor  sorger  fra  loro. 

Corsero  a  gli  ami  in  quei  bei  lacci  tesi 
Guizzando  i  pesci  amorosetti^  e  lieti, 
D'un  dolce  foco  in  mezzo  l'acque  accesi. 

E  disser  prigionieri  a  Dori,  a  Teti 
Con  la  lingua  d'amor,  ch'io  solo  intesi 
Dolce  è  morir  fra  sì  pompose  reti. 

Davanti  alla  natura  bella  e  superba,  sopra  a 
rive  incantevoli,  e  sul  mare  placido  e  tranquillo, 
egli  non  desidera  die  pace  ed  amore;  da  queste 
delizie  accumulate  dalla  natura,  egli  vuol  discac- 
ciare quanto  può  turbare  la  sua  felicità.  Il  poeta 
vorrebbe  vivere  sempre  cosi,  accanto  alla  sua 
ninfa ,  esercitandosi  nel  mestiere  della  pesca,  che 
egli  adora;  e  pieno  d'entusiasmo,  scioglie  un  inno 


I 


—  63  — 
al  Dio  del  mare,  ringraziandolo    di    tanta  beati- 
tudine. 

Dio,  che  de  l'ampio  in  tre  diviso  impero- 
II  gran  mondo  de  l'acque  avesti  in  sorte 
Padre  Nettuno,  al  cui  scettro  severo, 
Tutta  ubbidisce  la  cerulea  Corte: 

r  canterò  del  tuo  tridente  altero 
Le  glorie,  e  i  pregi  del  tuo  braccio  forte  : 
Com'  a  una  scossa  sua  nacque  il  destriero, 
E  di  Troia  per  lui  cadder  le  porte  : 

Se  la  mia  frale,  e  combattuta  barca 
Trarrai  del  golfo  periglioso  infido 
Mentr'  oggi  si  crudel  pelago  varca. 

E  se  da  scogli,  e  Sirti  a  miglior  nido 
Volta,  e  di  ricche  merci  ornata,  e  carca  : 
Eia  da  la  destra  lua  sospinta  al  lido. 

Il  poeta,  che,  come  abbiam  visto,  a  Na^Doli  nou 
faceva  la  vita  dell'anacoreta,  ed  anzi  era  sempre 
in  mezzo  a  nobili  ed  allegre  brigate,  lia  anche  il 
tempo  di  descrivere  le  grandi  bellezze  del  golfo  in- 
cantevole. Ed  è  cosi  che  «  per  la  signora  principessa 
di  Stigliano,  mentre  andava  in  barca  per  la  riviera 
di  Posilippo  »  egli,  oltre  ad  averla  paragonata  a 
Venere,  descrive  il  viaggio  di  lei  «  per  la  riviera.  » 

Non  così  bella  mai  per  l'onda  Egea 
Con  le  Grazie,  e  gli  Amori  in  schiera  accolta 
Lungo  il  lido  di  Cipro  uscìa  talvolta 
La  sua  conca  rotanda  Citerea  : 

Come  vid'  io,  non  so  se  ninfa,  o  Dea 
In  ricca  poppa  assisa^  e  bionda,  e  folta 
La  chioma  a'  lievi  ZeflBri  disciolta 
Su  1  legno  d'Argo  il  vello  d'or  parea. 


—  64  — 

Sospiravano  i  venti,  e  l'acque  stesse 
Al  folgorar  de  la  novella  Aurora 
D'amorose  faville  erano  impresse. 

E  curvandosi  il  mar  sotto  la  prora 
Con  rauco  mormorio  parea  dicesse, 
Ed  io  m' inchino  a  riverirla  ancora. 

A  due  di  duo  begli  occhi  Orse  fatali, 
E  'n  ver  la  Tramontana  d'un  bel  volto 
Su  la  materna  conca  Amor  rivolto 
Spargea  per  tutto  il  mar  fiamme  immortali. 

Egli  l'arco  timon,  l'emi  gli  strali 
Fatto,  e  '1  candido  lino  a  gli  occhi  tolto, 
E  'n  sembianza  di  vela  a  l'aria  sciolto, 
L'aure  movea  col  ventilar  de  l'ali. 

Ed,  arda  pur  felice  a  i  fuochi  miei 
(Dicea  l'acque  solcando)  il  vostro  core 
Freddi  del  salso  mondo  umidi  Dei; 

Poiché  'nvaghito  di  sì  chiaro  ardore, 
Per  dar'  al  corso  suo  porto  in  costei, 
Fatto  è  nocchiero,  e  navigante  Amore. 

Di  questi  due  sonetti  forse  il  Tassoni,  die  avea 
un  buon  concetto  del  Marino,  ed  anzi  era  con  lui 
in  amicizia,  (1)  se  ne  ricordò  quando  al  Canto  X 

(1)  ((  Il  Tassoni  ammirava  VJdoiie  e  il  Pastor  Fido,  e  dalla  mito- 
logia tolse  la  figura  e  le  tinte  del  viasrgio  di  Venere  »  dice  il  Carducci 
(Prefazione  alla  Secchia  Rapita,  pag.  XLIII)  ;  e  lo  stesso  Tassoni  rispon- 
dendo ad  un  amico  intorno  a  certi  versi  della  Secchia:  «  V.  S.  dice  clic 
le  spiacciono,  percliù  hanno  del  marinismo.   Ella  vuol   la  burla.   Piacesse 

a  Dio  eh'  io  facessi  i  versi  cosi  belli  come  fa    il    Marino »  Cfr.    ancUc 

uno  studio  del  signor  Orazio  Baccì  (Le  considerazioni  sopra  Je  rime  del 
Petrarca  diAlessandroTassoni,  Firenze,  Locscher,  1887).  In  questo  la- 
voro l'autore  si  occupa  sovente  del  Marino,  ed  accenna  alle  relazioni  del 
poeta  napolitano  con  quello  modenese,  affermando  che  contatti  ve  uè 
furono  ed  oltremodo  amichevoli. 


—  66  — 
della  Secchia  Kapita  racconta  il  viaggio    di   Ve_ 
nere  a  Napoli. 

Spiega  la  vela  un  miglio  o  due  da  terra. 
Siede  in  poppa  la  Dea,  chiusa  d'un  velo 
Azzurro  e  d'oro  a  gli  uomini  ed  al  cielo. 

Tremolavano  i  rai  del  sol  nascente 

Sovra  l'onde  del  mar  purpuree  e  d'oro  ; 
E  in  veste  di  zaffiro  il  ciel  ridente 
Specchiar  parea  le  sue  bellezze  in  loro. 

Al  trapassar  de  la  beltà  divina 

La  fortuna  d'amor  passa  e  s'asconde. 
L'ondeggiar  de  la  placida  marina 
Baciando  va  l'inargentate  sponde. 
Ardon  d'amore  i  pesci;  e  la  vicina 
Spiaggia  languisce  invidiando  a  l'onde  ; 
E  stanno  gì'  amoretti  ignudi  intenti 
Alla  vela,  al  soverco,  ai  remi,  ai  venti. 

Quinci  e  quindi  i  delfìni  a  schiere  a  schiere 
Fanno  la  scorta  al  bel  legnetto  adorno  ; 
E  le  ninfe  del  mar  pronte  e  leggere 
Corron  danzando  e  festeggiando  intorno. 

I  sonetti  boscherecci  sono  in  tutto   ottantotto. 


Anche  questi  sono  di  soggetto  amoroso  e  qualche 
volta  mitologico,  come  i  ventiquattro  che  espon- 
goncmr'mÌtò~di  (ralàtea'e'dl  PolifemOj  e  qualche 
altro  sugli  amori  di  Dafne  e  "d'Apollo.  Qui  pure 
l'amore  è  tutto  (idOIiacò^ perchè  la  vita  reale  nei 
sonetti  boscherecci  sparisce  interamente,  per  dar 
campoTaTguella  pastorale.  Le  ninfe    ed  i  loro  a- 


—  66  — 

manti  cantano  naturalmente  un  amore  tutto  pri- 
mitivo e  gentile,  cosa  che  non  avviene  nella  prima 
parte  di  questi  sonetti;  anche  il  canto  dolcissimo 
degli  uccelli  si  mischia  agli  altri  incanti  della 
natura  per  rendere  più  gradito  il  soggiorno  di 
questo  paese  verdeggiante. 

I'  sento  il  Rossignuol,  che  sovra  un  facrgio 
Il  canto  accorda  al  mormorar  dell'onde  : 
E  Progne,  che  lo  sfida,  e  gli  risponde, 
Né  più  si  lagna  dell'antico  oltraggio. 

Odo  dappresso  il  Calderin  selvaggio, 
Che  saluta  l'aurora,  e  poi  s'asconde  : 
E  '1  vago  Tortorel,  che  fra  le  fronde 
Par  dica  in  suo  tenor,  Già  torna  Maggio. 
Non  lunge  il  Solitario  ascolto  poi 

Chiuso  rimproverar  fra  gli  arboscelli 

Al  rozzo  cacciator  gl'inganni  suoi. 

Dolci  a  voi  l'esche  ognor,  puri  i  ruscelli 

Serbi  la  Terra  a  voi.  Ben  siete  voi 

Angeli  de  la  selva,  e  non  Augelli. 

Queste  rime  boscherecce  sembrano  esser  state 
composte  dal  Marino  durante  il  suo  soggiorno  in 
E,oma  ;  od  almeno,  sebbene  il  poeta  dica  il  con- 
trario, molta  parte  di  esse  risentono  di  quella 
gravità  e  maestà  della  campagna  romana,  e  del- 
l'austera bellezza  delle  immense  ville  de'  signori 
romani.  Il  Tevere  poi  biondeggiante,  colle  sue 

....  tranquille  acque  adorate, 

serpeggia  per  l'incantevole  paesaggio.  Per  il  vec- 
chio padre  Tebro,  eh'  è  stato  testimonio  di  tante 


—  67  — 
virtuose  grandezze  e  d'orribili  iniquità,  il  poeta 
ha  un  affetto  entusiastico. 

E  tu  felice,  e  glorioso  fiume 
Esci  a  le  rive  al  par  del  Ciel  beate, 
E  si  vedrai  qual  Sol  d'alta  beltate 
Fa  de'  cristalli  tuoi  specchio  al  suo  lume. 
Ma  se  vincer  pur  brami  il  Gange,  e  '1  Tago 
Di  ricchezza,  e  d'onor 

E  nella  seconda  parte  della  Lira^  lia  accenti 
veramente  generosi  per  questo  fiume:  nella  can- 
zone la  «  Ninfa  del  Tehro^  »  Donna  Agnola  Vi- 
telli Sederini,  una  simpatia  del  nostro  poeta,  egli 
evoca  la  grandezza  di  Roma,  della  quale  il  Te- 
vere è  stato  spettatore.  Il  nome  di  Roma,  dice 
il  poeta,  è  morto  ;  della  grandezza  della  città  latina 
non  parlano  solamente  i  «  saldi  marmi  »  ove 
giace;  nell'onde  sue  correnti  e  fuggitive  esso  ri- 
vive e  si  eterna  glorioso.  L'invocazione  poi  è  bel- 
lissima. 

Figlio  del  l'Appennino, 
Che  la  più  nobil  parte 
Bagni  d'Italia,  e  per  l'amene  sponde 
Ancor  volgi  fra  1'  onde 
Tinte  del  chiaro  già  sangue  Latino 
Dal  buon  popol  di  Marte 
Le  barbare  corone  in  te  consparte. 

Sono  i  tuoi  tanti  pregi 
Felici,  e  i  tuoi  splendori 
Vie  più,  che  l'onde  tue,  più.  che  l'arene  : 
E  s'è  ver,  che  sostene 


—  68  — 
Parte  la  fama  de'  tuoi  primi  fregi, 
Più  di  palme,  e  d'allori, 
Che  di  canne,  e  di  giunchi,  il  crin  t'onori. 

Mentre  die  ripensando  alle  gloriose  imprese 
«  del  gentil  sangue  latino,  »  esclama 

Ciò,  ch'eterno  sembrava,  al  fin  pur  vinto 
Dagli  anni  si  disface, 
E  cosa  dura  più,  eh'  è  più  fugace. 

Per  il  vivo  sentimento  della  natura  il  Marino 
prova  una  commozione  profonda.  Egli  davanti  ad 
un'edera  sosta  ad  osservare  i  mille  e  strani  attor- 
cimenti di  essa  ;  all'avvicinarsi  della  primavera 
non  può  astenersi  dal  cantare  anche  lui  un  inno 
di  gioia,  e  pensa  al  godimento  clie  ne  avranno 
gii  animali  e  le  piante. 

Verran  pompose  schiere  a  comprar  fiori 
D'illustri  amanti, 


Ecco  le  Pastorelle  il  mirto,  e  '1  faggio 
Spoglian  d'ogni  lor  fregio,  e  l'elee,  e  l'orno 

Mentre  che  l'inverno  mette  nell'animo  del  poeta 
dolore  e  sconforto. 

Ascolta,  come  freme,  e  quai  minaccia 
Pruine,  o  Tii-si,  il  ciel  turbato,  e  "1   vento; 
Stringimi  oimè,  ch'io  tremo,  e  '1  mio  spavento 
Refugio  altro  non  ha,  che  le  tue  braccia. 

Z'  Il  poeta  ama  la  vita  tranquilla  e  pacata  dei 
V  boschi,  senza  essere  tormentato  da  alcuna  pena 
che  possa  turbargli  la  felicità. 


l 


—  69  — 
Noi  de  l'acque  al  sussurro,  e  de  le  fronde 
Tempriam  fra  dolci  risse,  e  care  paci 
Più  tranquille  tempeste,  e  più  gioconde. 

Vibri  invece  di  lampi  Amor  le  faci, 
Pioggia  d'altra  dolcezza  a  i  cori  abonde, 

Qui  è  insomma_an  inno  caiitakLÓIi  locle_jlel- 
l'amore  e  della  natura.  La  sua  donna  è  una  ninfa 
ISeilare  gentiIe~cEè~non  lia  contrasti  col  suo  pa- 
store; e  la  descrizione  dell'ambiente,  un  luogo 
incantevole  solcato  da  acque  limpidissime,  ed  esa- 
lante d'aria  balsamica  e  vivificante,  addolcisce 
questo  quadro  incantevole.  L'annunzio  della  pri- 
mavera è  una  macchietta  bellissima,  dove  il  poeta 
riassume  brevemente  ed  efficacemente  tutte  le 
attrattive  e  gl'incanti  di  quella  stagione. 

Già  parte  il  Verno,  e  la  stagion  senile 
Cede  al  nov'anno;  già  di  fior  novelli 
Smalta  Flora  le  piagge,  e  gli   arboscelli, 
Verdeggia  il  bosco,  e  fa  ritorno  Aprile. 

Esca,  Siringo,  ornai  dal  chiuso   ovile 
La  greggia  a  i  paschi,  a  i  tepidi  ruscelli. 
Là  dove  l'acque  ognor  l'aure,  e  gli  augelli 
Armonia  fan  d'Amor  dolce,  e  gentile. 

Rieda  l'usato  canto,  il  gioco,  il  riso. 
Ecco  il  vecchio  Silvan  l'antico  pelo 
Di  fior  s'ingemma  in  su  l'erbetta  assiso. 

Mira,  ch'ancor  lassù,  lo  Dio  di  Delo 
Fatto  pastor,  qual  già  mirollo  Anfriso 
Infra  '1  Tauro,  e  '1  Monton  si  spazia  in  Cielo. 

I  ventiquattro  sonetti  su  Poli  fermo  e  Galatea, 
da  cui  forse  Don  Luis  de  Gongora  trasse  il  suo 


—  70  — 
Poìifemo^  rappresentano  ognuno  un  quadretto  ove 
il  f)oeta  descrive  ciascuna  diversa  azione  del 
dramma.  E  notevole  quello  dove  narra  gli  amori 
di  Galatea  con  Aci,  che  ha  una  qualche  somi- 
glianza con  la  celebre  canzone  de'  baci  del  me- 
desimo poeta; 

Bacianne,  e  i  nostri  baci  avidi,  e  spessi 
Vincan  le  conche  tenere,  e  tenaci: 
Giungano  i  baci  a  i  cor,  e  sien  de'  baci 
Padri  insieme^  ed  eredi  i  baci  stessi. 

Sien  de'  baci  profondi,  e  de'  sommessi 
Precursori  i  più  lievi,  e  i  più  fugaci  : 
Restin  de  gli  umidetti,  e  de'  mordaci 
Ne  le  baciate  labbra  i  segni  impressi. 

Geli  d'invidia,  ed  arda  di  dispetto 
Il  fier  Gigante,  il  mostro  empio  e  villano 
Eterno  turbator  del  mio  diletto. 

In  braccio  a  Tldol  suo  caro,  e  sovrano 
Sì  disse  Galatea.  Con  torvo  aspetto 
L'invido  udilla,  e  sospironne  invano. 

Però  il  mito  è  tratto  in  massima  parte  da 
Ovidio,  fatta  eccezione  ad  alcune  situazioni,  ne- 
cessarie per  racchiudere  un'azione  in  un  sonetto, 
e  dove  il  poeta  ricama  di  sua  immaginazione. 
Certamente  due  sonetti 

In  grembo  al  grande  Alfeo  vidi  pur'ora 
L'immagin  mia  nel  verde  ombroso  chiostro, 
Ed  a  se  stesso  ha  il  suo  splendor  dimostro 
Il  vivo  Sol,  che  la  mia  fi'onte  onora. 


—  71  — 

E  se  non  mi  dipinge,  e  non  m'infiora 
Rosa,  e  giglio  la  guancia,  avorio,  ed  ostro, 
Già  non  son'io  però  fera,  né  mostro 
0  delle  notti  mie  novella  Aurora. 

Pur,  qual  da  Sole  oscura  nube,  e  vile, 
Da  te  rozza  sembianza,  e  boschereccia 
Prender  può  qualità  bella,  e  gentile. 

Cosi  non  aspra,  e  rustica  corteccia 
Pettinandosi  il  crin  presso  l'ovile 
Parla  il  Ciclope,  e  poi  di  fior  lo  'ntreccia. 

Perch'io  difforme  sia,  perchè  pungente 
Abbia  d'ispide  sete  il  mento,  e  '1  volto, 
Perchè  di  negre  lane  irsuto,  e  folto 
Il  petto,  e  '1  tergo,  e  '1  crin  porti  cadente, 
Bella  non  mi  sprezzar:  l'affetto  ardente 
Gradisci  almeno  in  rozza  forma  accolto: 
Sotto  ruvida  scorza  anco  sepolto 
Frutto  pregiato  il  mar  serba  sovente. 
Ah  del  mio  forte  e  smisurato  busto 
Non  rider  no  :  Conviensi,  o  vaga  mia, 
A  te  l'esser  gentile,  a  me  robusto. 

Dolente  in  atto  in  cotal  suon  languìa 
L'aspro  Ciclope:  e  lungo  il  lido  adusto 
La  fuggitiva  Galatea  seguì  a. 

e  le  due  terzine  di  un  altro 

Or  non  sai  tu,  ch'ignuda  arida  pianta, 
Cui  di  fronde,  di  fior,  di  ramoscelli 
Pompa  non  copra,  o  si  recide,  o  schianta? 

Non  sai,  che  son  de  le  setose  pelli. 
Onde  capro,  o  lion  Natura  ammanta. 
Fregio  le  lane,  ed  ornamento  i  velli? 


—  72  — 

ricordano  Ovidio  Metamor2Dlioscoii  : 

Certe  ego  me  novi,  liquidaeque  in  imagine  vidi 
Nuper  aquae,    placuitque  mihi  mea  forma  videnti. 
Aspice  sim  quantus.  Non  est  hoc  corpore  maior 
luppiter  in  caelo  :  nam  vos  narrare  soletis 
Nescio  quem  regnare  lovem.  Coma  plurima  torvos 
Prominet  in  vultus,  humerosque   ut  lucus,  obumbrat. 
Nec  mea  quod  rigidis  horrent  densissima  setis 
Corpora,  turpe  puta.  Turpis  sine  frondibus  arbor, 
Turpis  equus,  nisi  colla  iubae  flaventia  velent, 
Piuma  tegit  volucres:  ovibus  sua  lana  decori  est: 
Barba  viros  birtaeque  decent  in  corpore  setae. 
Unum  est  in  media  lumen  mihi  fronte,  sed  instar 
Ingentis  clipei. 

ma  si  vede  benissimo  che  il  Marino  qua  e  là  ha 
tolto  od  aggiunto  ed  anche  immaginato  di  suo. 
Pure  la  favola  narrata  dal  poeta  napolitano  co- 
mincia e  finisce  con  le  stesse  situazioni  ovidiane. 
In  Ovidio  Polifemo  scopre  gli  amori  di  Aci  e 
di  Galatea  ;  ode  il  sussurro  de'  baci,  vede  rabbri- 
videndo i  caldi  amplessi  degl'innamorati,  dà  un 
urlo  tremendo  e, 

"   Videoque,  exclamat  et  ista 

Ultima  sit,  faciam,  Veneris  concordia  vestrae. 
Tantaque  vox,   quantam  Cyclops  iratus  habere 
Debuit,  illa  fuit:  clamore  perhorruit  Aetne. 
Ast  ego  vicino  pavefacta  sub  aequore  mergor. 
Terga  fugae  dederat  conversa  Symaethius  heros. 
Adfer  opem,  Galatea,  precor,  mihi!  ferte,  parentes, 
Dixerat,  et  vestris  periturum  admittite  regnis  ! 
Insequitur  Cyclops  partemque  e  monte  revulsam 


—  73  — 
Mittit  ;  et  extremus  quamvis  pervenit  ad  illuni 
Angulus  e  saxo,  totum  tamen  obruit  Acin. 
At  nos,  quod  fieri  solum  per  fata  licebat, 
Fecimus,   ut  vires  adsumeret  Acis  avitas. 
Puniceus  de  mole  cruor  manabat,   et  intra 
Temporis  exiguum  rubor  evanescere  coepit, 
Fitque  color  primo  turbati  fluminis  imbre, 
Purgaturque  mora. 

Nel  Marino  il  Ciclope  ruggisce: 

Ab  che  ben  ti  vegg' io,  ti  veggio,  ahi  lasso. 
Coppia  impudica,  e  più  mirar  non  voglio 
Ne'  tuoi  piacer  furtivi  il  mio  cordoglio 
Ove  eh'  io  volga  sconsolato  il  passo. 

Con  questo  grido  una  gran  rupe  al  basso 
Spinse  il  fero  Ciclope  ebro  d'orgoglio  ; 
E  'n  avventar  lo  smisurato  scoglio 
Parve  la  voce  tuon,  fulmine  il  sasso. 

Sasso  crudel,  eh'  al  bel  garzon  tremante 
Nel  più  dolce  morir  la  vita  tolse, 
Ne  la  felicità  misero  amante. 

Pianse  la  bella  ninfa,  e'  nvan  si  dolse, 
E  gli  occhi  appo  l'amato  almo  sembiante. 
Che  già  sciolto  era  in  acqua,  in  acqua  sciolse. 

Le  rime  eroiche,  come  abbiamo  già  detto,  non 
valgono  un  gran  che.  Il_Marinp^  sa,  meglio  d'ogni 
alSx),  ^i  vivere  in  un  secolo  nel  quale  bisogna 
lodare  tutto  e  tutti  ;  e  questo  continuo  fissare  il 
"pensiero  in  una  determinata  idea,  fa  si  che  il 
poeta  adotti  un  linguaggio  iperbolico  e  pieno 
di  falsità.  Qui  noi  non  potremmo  davvero  rico- 
noscere lo  spirito  politico  o  patriottico  del  Marino, 


—  74  - 
percliè  accanto  ad  un  sonetto  in  cui  ckiama 
Enrico  IV  «  il  vincitor  de  l'universo  intero  » 
ve  n'  è  un  altro  in  lode  del  nemico  giurato  del 
re  di  Francia,  cioè  di  Filippo  II.  Ma  di  questo 
noi  non  sappiamo,  ne  dobbiamo  farne  accusa  al 
Marino,  costretto  ad  esser  cortigiano  più  clie 
poeta.  Egli  del  resto  uscendo  da  quest'ipocrite 
e  mal  sentite  adulazioni  sa  essere  artista.  E  quando 
s'ispira  alla  natura,  davvero  che  non  è  costretto 
a  lasciar  per  via  i  brandelli  dell'inesauribile  sua 
fantasia  ;  non  esistono  confini  dove  l'arte  deve 
arrestarsi  ;  perchè  se  v'  è  la  natura  con  tutto  il  suo 
suo  splendore,  se  v'è  un  sole  che  tutti  godono  e 
salutano,  quando  sorge  e  quando  parte  da  noi,  il 
poeta,  che  si  sente  commuovere  davanti  a  questo 
quadro  maraviglioso,  non  ascolta  che  la  viva  voce 
del  suo  cuore,  il  quale  gli  è  di  guida  nelle  crea- 
zioni della  fantasia. 

La  medesima  cosa  che  nei  sonetti  di  lode  noi 
dobbiamo  osservare  in  quelli  lugubri,  scritti  in 
morte  o  di  illustri  personaggi  o  della  sua  donna. 
Anche  qui  il  poeta  sfoggia  un  sentimento  che 
non  è  quello  che  s'adatta  a  lui;  e  questi  sonetti 
fanno  ridere  in  luogo  di  far  piangere,  perchè, 
specialmente  quelli  in  morte  della  sua  donna,, 
risentono  leggermente  dell'amore  petrarchesco,  pla- 
cido e  senza  grandi  accenti  di  vera  passione. 
Migliori  invece  sono  i  sonetti  che  il  ^^oeta  chiama 
morali.  In  questi  v'è  serenità  di  composizione  e 
sono  tratteggiati  abilmente.  Accanto  a  quello  da 
noi  già  accennato  dove  tratta  delle  miserie  umane, 


—  75  — 
spicca  quest'altro  bellissimo  in  cui  narra  della 
instabilità  del  tempo.  Il  poeta  per  far  ciò  de- 
scrive brevemente  e  con  eiìicacia  tutte  le  gioie 
e  le  pene  che  accompagnano  l'uomo  nella  sua 
vita. 

Fanciulla  in  prima  inghirlandò  di  fiori 
Le  tue  chiome  la  Terra,  e  verdeggiante 
Piena  d'odor,  d'amor  l'erbe,  e  le  piante 
Spiegò  superba  i  suoi  novelli  onori. 

Giovinetta  poi  bionda,  i  gravi  ardori 
Sfogò  col  Ciel,  suo  non  ingrato  amante  : 
E  da  l'accese  viscere  anelante 
In  vece  di  sospir,  trasse  vapori. 

Indi  matura,  al  Sol  dolce,  e  sereno 
Fu  que'  parti  feconda  espor  veduta, 
Onde  gravido  avea  pur  dianzi  il  seno. 

Or  giunta  la  stagiou  fredda,  e  canuta 
Di  rughe  il  volto,  il  crin  di  neve  ha  pieno. 
Così  stato,  ed  età  quaggiìi  si  muta. 

Nei  sonetti  morali  il  poeta  biasima  coloro  cbe 
edilicano  superbi  palazzi,  in  cui,  dice,  non  alberga 
cbe  la  vanità  del  mondo;  mentre  loda  la  vita 
solitaria  senza  la  turba  adulatrice  e  stolta  che  vi 
m  commettere  errori  d'ogni  sorta  ;  inveisce  contro 
coÌui^K6__^ 

da  le  scerete,  e  basse 

Vene  dei  monti,  o  dal  Tartareo  fondo 

Sprigionò  l'oro  scellerato  immondo, 

E  chi  trattoUo,  e  chi  l'accolse  in  masse. 


—  76  — 
Seco  l'inganno  allor,  seco  allor  trasse 

Da  morte,  e  '1  morbo  universa!  del  mondo, 

Che  di  Saturno  "il  secolo  giocondo 

Lieto  menò,  quantunque  ignudo  errasse. 
Ebbe  di  ferro  il  cor  chi  da  l'ascose 

Viscere  della  terra  il  ferro  tolse, 

Ma  nemico  men  fero  almen  n'espose. 
Quegli  i  corpi  a  ferir  l'ingegno  volse. 

Questi  dal  chiuso,  in  cui  Natura  il  pose, 

Omicida  de  l'anime  disciolse. 

e  ricorda  Tibullo,  il  quale,  costretto  a  partire 
per  la  guerra,  inveisce  contro  l'avarizia,  cli'è,  se- 
condo lui,  la  principale  causa  delle  guerre.  Per 
il  Marino  colui  che  «  da  l'ascose  viscere  della 
terra  il  ferro  tolse,  »  è  meno  colpevole  del  ri- 
trovatore dell'oro;  per  Tibullo  sono  ambedue  o- 
diosi. 

Quid  fuit,  horredus  primus  qui  protulit  enses  ? 
Quam  ferus  et  vere  ferrens  ille  fuit  ! 
Tunc  caedes  hominum  generi,  tunc  praelia  nata; 
Tunc  brevior  dirae  raortis  aperta  via  est. 

Poi  il  Marino,  pieno  di  caldo  entusiasmo,  in 
quattro  sonetti  riverisce  la  città  eterna,  che  gli 
è  stata  di  sicuro'  rifugio  alle  sue  persecuzioni. 
Egli,  che  tutti  hanno  calunniato  come  uomo  in- 
sensibile ad  una  passione  che  non  sia  l'amor 
sensuale,  deve  aver  ricevuto  grandissima  impres- 
sione, quando,  venuto  a  Roma,  ebbe  ad  ammirare 
le  rovine  di  questa  città.  Il  suo  pensiero  corse  sicu- 
ramente agli  antichi  tempi,  quando  il  gran  nome 


—  77  — 
romano  incuteva  timoroso  rispetto  al  mondo.  Egli 
mira  ed  ammira 

Tante  reliquie  tue  cadute,  e  sparte 
0  degna  altrice  di  famosi  eroi, 
Tante  macchine  eccelse,  e  tanti  tuoi 
Fregi  supei-bi  di  Natura,  e  d'Arte. 

ma  poi  alla  maraviglia  succede  un  dolore  pro- 
fondo; il  poeta  colle  lagrime  agli  occhi  s'avvede 
che  l'antica  virtù 

Già  del  prisco  valor  fatta  mendica  : 

non  è  seguita  da'  moderni  suoi  figli  e 

Questa,  eh'  a  terra  cadde,  e  più  non  sorge 

produce  in  fondo  in  fondo  nell'animo  del  poeta 
più  dolore  che  ammirazione. 

E  si  che  il  Marino,  arrivando  in  Roma,  salutava 
la  città  con  animo  grato  e  riconoscente;  egli  sa- 
lutava quei 

Felici  colli,  simulacro  vero 
Del  valor  de  le  chiare  alme  Latine. 
In  cui  serpe  fra  l'edre,  e  le  ruine, 
Le  maestà  del  già  caduto  impero. 

Veniva  in  Roma 

Non  per  veder  nel  Campidoglio  altero 
Statue,  0  colonne  incenerite  alfine. 
Né  quanto  de  l'antiche  opre  divine 
Contra  '1  Tempio,  e  l'Oblio  si  serba  intero. 

Ma  per  baciar  de  la  salute  il  segno 
Su  '1  pie  del  gran  Pastor 


—  78  — 
E  le  mine  d'una  città  che  s'era  imposta  colla 
sua  forza    a    tutto    il    mondo,  eccitavano    dolore 
nell'animo  del  Marino;  il  quale  domandava   alla 
«  vincitrice  del  mondo  » 

bai  chi  t"ha  scossa 

Dal  seggio,  ove  Fortuna  alto  t'assise? 

Chi  del  tuo  gran  cadavere  divise 

Per  l'arena  le  membra,  e  sparse  ha  l'ossa! 

come  Leopardi    domandava    all'Italia,    in  mezzo 
alle  memorie  degli  avi  suoi, 

Chi  ti  tradì  ?  Qual  arte  o  qaal  fatica 

0  qual  tanta  possanza 

Valse  a  spogliarti  il  manto  e  l'auree  bende? 

Come  cadesti  o  quando 

Da  tanta  altezza  in  così  basso  loco? 

Nessun  pugna  per  te?  non  ti  difende 

Nessun  de'  tuoi? 

Ma  il  Marino  s'ispirava  naturalmente  ai  versi 
nobilissimi  del  Guidiccioni,  che  lamentava  non 
solo  la  caduta  di  Roma,  ma  la  servitù  in  cui  era 
la  patria. 

-%  Il  Marino  chiama  Roma  «  degna  altrice  de'  fa- 
mosi eroi,  »  come  il  Guidiccioni;  e  da  questi  egli 

^ imita  il  sonetto,  ormai  celebre. 

Superbi  colli,  e  voi  sacre  ruine; 
Che  '1  nome  sol  di  Roma  ancor  tenete, 
Ahi  che  reliquie  miserande  avete 
Di  tante  anime  eccelse  e  pellegrine  ! 


—  79  — 

Colossi  archi,  teatri,  opre  divine, 
Trionfai  pompe,  gloriose  e  liete, 
In  poca  cener  pur  converte  siete, 
E  fatta  al  vulgo  vii  favola  al  fine. 

Così  se  in  alcun  tempo  al  tempo  guerra 
Fanno  l'opre  famose,  a  passo  lento, 
Il  nome  e  l'opre  loro  il  tempo  atterra. 

Vivrò  dunque  fra'  miei  martir  contento; 
Che  se  '1  tempo  dà  fine  a  ciò  eh'  è  in  terra, 
Darà  forse  ancor  fine  al  mio  tormento. 

E  credo  che  non  sarà  cosa  inutile  osservare  che 
anche  Jacopo  Sannazaro  rivestiva  di  questi  stessi 
concetti  un  suo  sonetto  mirabile. 

Famosi  colli,  alteramente  nati. 
Archi  superbi  de'  superbi  cori, 
Ruine  ascose  fra  tant'erbe,  e  fiori, 
Teatri  eccelsi,  e  simulacri  ornati: 

Antiqui  Patri,  Cavalieri  armati, 
Consul,  Tribuni,  Regi,  e  Imperatori, 
U'  son  le  vostre  gloi'ie,  u'  son  gli  onori. 
Le  ricche  spoglie,  e  li  trofei  portati? 

Con  arme,  e  con  virtute  a  parte  a  parte 
Già  feste  il  mondo  tribvrtario,  e  servo, 
E  del  barbaro  sangue  il  terren  tinto. 

Tutte  l'antiche,  e  le  moderne  carte 
Dicon  di  voi;  ma  per  destin  protervo 
Del  vero  vincitor  si  gloria  il  vinto. 

'  ,  La  seconda  parte  della  Lira  è  composta  di  ma- 
drigali e  di  canzoni,  "  ' 
~  i  primi  sono  piccolissime    composizioni    piene 
di  brio  e  di  grazia,    usciti  dalla  penna  del  poeta 


—  80  — 

in  momenti  d'impressione;  perciò  sono  fiori  pic- 
colissimi, ma  freschi  e  smaglianti  di  colori,  molti 
dei  quali,  come  il  Marino  stesso  ci  avverte, 
«  furono  composti  dall'autore  per  le  molte  opere 
di  eccellenti  maestri,  ragunate  nella  galleria  del 
signor  Principe  di  Conca,  grande  ammiraglio  del 
Regno  di  Napoli.  »  Dunque  in  massima  parte 
queste  composizioni  risentono  della  vita  allegra 
e  sollazzevole  che  il  poeta  conduceva  in  patria;  e 
l'amenità  di  quei  luoghi  contribuiva  a  dare  un 
colore  freschissimo  ai  suoi  versi. 

I  madrigali  sono    centosessantatrè    e    trattano 
soggetti  per  lo  più  amorosi,  pastorali   e   sacri.  (1) 

^Le  canzoni  sono  venti  anch'esse  amorose,  pastorali 
e  sacre.  Le  composizioni  di  soggetto  amoroso  sono 

\  d'un  colorito  più  caldo  che  i  sonetti  amorosi  della 
prima  parte  della  Lira  e  in  alcune  la  voluttà  s' im- 
padronisce del  poeta,  specialmente  nelle  canzoni, 
in  cui  spira  un  soffio  di  sensualità,  schietta  però 

^-ed  artistica.  In  questa  seconda  parte  è  inserita  la- 
celebre  canzone  dei  Baci,  della  quale  si  è  parlato 
tanto  ed  inutilmente;  a  questa  fanno  corona  una 
mÌTiade  di  madrigali,  che  completano  questa  pit- 

(1)  Nell'edizione  del  1602  i  madrigali  sono  duecentosei.  Centosessan- 
tatrè souo  compresi  nell'  edizione  accuratissima  del  1653.  (La  Lira,  Kime 
del  Cavalier  Marino,  Amorose,  Sfarittime,  Boschcrecce,  Heroichc,  florali, 
Sacre  e  Varie,  in  Venezia,  MDCLIII,  per  Francesco  Babà).  La  ragione 
sta  nell'avere  il  Marino  introdotti  quei  Madrigali  nella  GaJIefia,  come 
pure  la  stessa  cosa  egli  fece  per  le  bellissime  stanze  composte  sopra  la 
Maddalena  del  Tiziano  scritte  in  Napoli,  conservandosi  quel  capolavoro 
a  Capodimonte.  Noi  perciò  per  questo  studio  sulla  Lira  avremo  sott'occhio 
l'edizione  del  Babà,  alla  quale  sono  pure  aggiunte  quattro  canzoni,  due 
di  soggetto  amoroso,  la  terza  in  lode  delle  stelle  e  l'ultima  che  porta  il 
titolo  n   Invettiva  contro  il    Vitio  nefando.  » 


—  al- 
tura appassionatissima  ed  efficace.  Il  tredicesimo 
madrigale,  che  apre  la  serie  di  questa  bella  estrin- 
secazione di  un  desiderio  sensuale  ed  universale,  è 
una  domanda  di  bacio  furtivo  ;  poi  viene  la  brama 
del  bacio,  nel  quale  il  poeta  chiede  a  Filli 

Un  bacio,  un  bacio  solo. 

il  doni  ?  0  l'involo  ? 

Se  'I  doni,  e'  fia  gradito, 

Che  dolce  bacio  è  quel,  che  porge,  e  scocca 

Il  cor  più,  che  la  bocca. 

Se  '1  furo,  amante  ardito, 

Fia  dolce  ancor,  che  non  men  dolci  sono 

Furto  i  baci,  che  dono. 

Un  sol  bacio,  un  sol  bacio 

Quindi  vengono  «  i  baci  chiesti  con  arguzia, 
quelli  chiesti  con  scherzo,  quelli  involati,  quelli, 
pubblicati  con  arguzia  »  e  poi  la  canzone  prin- 
cipale, dove  il  poeta  esplica  in  mille  modi  questa 
dolcissima  espressione  d'amore.  La  canzone  deve 
essere  stata  composta  verso  il  1590,  ossia  quando 
il  Tasso  era  a  Napoli,  perchè  i  biografi  sincroni 
ci  avvertono  che  la  canzone  fu  scritta  dal  Ma- 
rino appena  ventenne.  E  questa  forse  non  è  che 
l'espressione  di  quella  vita  tutt'altro  che  da  ere- 
mita che  il  poeta  menava  in  Napoli.  È  una  can- 
zone calda  ed  appassionata,  che  ci  mostra  fin  dove 
j^ossaTarrivare  la  immagihazione  deF  ll^rarino,  e 
nèno_stesso  tempo  ci  fa  conoscere  l'indole  sua  ed 
il  suo  morale.  Tutto  il  prestigio  di  una  gioventù 
sana    e    senza    pensieri,    tutto    l'abbandono  d'un 


-  82  — 
senso  vigoroso  è  racchiuso  nella  canzone  dei  baci; 
i  quali  sono  dal  poeta  considerati  sotto  il  punto 
di  vista  il  più  esteticamente    bello    che  si  possa 
immaginare. 

0  baci  avventurosi, 
Kistoro  de'  miei  mali, 
Che  di  nettare  al  cor  cibo  porgete: 
Spiriti  rugiadosi. 
Sensi  d'Amor  vitali, 

Che  'n  bi-eve  giro  il  viver  mio  chiudete  : 
la  voi  le  piìi  Beerete 
Dolcezze,  e  più  profonde 
Provo  talor,  che  con  sommessi  accenti 
Interrotti  lamenti, 
Lascivetti  desiri, 
Languidetti  sospiri 

Tra  rubino,  e  rubino  Amor  confonde, 
E  più  d'  un'  alma  in  una  bocca  asconde. 

Egli  analizza  il  bacio  e  vi  dice  quale  sia  quello 
che  scende  più  voluttuoso  al  cuore. 

L'asciutto  è  caro  al  core, 
Il  molle  è  più  soave, 
Man  dolce  è  quel,  che  mormorando  fugge. 

Ed  è  tutta  una  corsa  nel  campo  della  voluttà  ; 
dove  il  poeta,  da  artista,  sceglie  quello  che  più 
gli  piace,  e  dopo  averne  narrate  tutte  le  dol- 
cezze e  tutti  i  piaceri,  una  voce  gli  grida: 

Deh  taci,  o  lingua  sciocca, 
Senti  la  dolce  bocca. 
Che  ti  rappella,  e  dice,  or  godi,  e  taci, 
E  per  farti  tacer,  raddoppia  i  baci. 


—  83  — 

E  qui  la  canzone  finisce,  mentre  che  altri  ma- 
drigali, simili  ad  un'eco  dolcissima,  fan  seguito 
ad  essa  ;  ed  abbiamo  i  baci  cari,  dubbiosi,  mor- 
daci, dolci,  affettuosi,  scambievoli,  amari  ecc.  È 
uno  stemperamento  continuo,  cbe  qualche  volta 
accascia,  e  vi  fa  pensare  alla  strana  maniera  di 
questo  poeta  incantevole  e  d'una  vena  inesauri- 
bile. È  un  sensualismo  ridotto  in  polvere,  ma  in 
polvere  smagliante;  ne  v'è  corruzione  o  lubricità, 
perchè  il  Marino  descrive  il  piacere  ingenua- 
mente e  senza  secondi  od  iniqui  fini,  come  pur- 
troppo da  alcuni  è  stato  travisato. 

Accanto  a  questa  canzone  de'  baci  noi  potremmo 
contrapporre  quella  del  Desportes,  pur'  essa  bel- 
lissima, nella  quale  v'  è  un  desiderio  di  godi- 
jnento  e  di  vita. 

Fay  qae  je  vi^'e^  ò  ma  seule  déesse  I 
Fay  que  je  vive  et  change  ma  tristesse 

En  plaisir  gracieux; 
Change  ma  mort  en  immortelle  vie, 
Et  fay,  mon  coeur,  que  mon  ame  ravie 

S'envole  entre  les  dieux. 
Fay  que  je  vive  et  fay  qu'  à  la  mesme  heure, 
Baissant  les  yeux,  entre  tes  bras  je  meure, 

Languissant  doucement:  (1) 

Ed  all'epigramma  del  Marino,  «  bacio  chiesto  con 
.arguzia  » 

Io  moro,  ecco,  ch'io  moro  ; 
Bella  nemica  mia,  t'offesi  assai, 

(i;  Oeuvres  de  Philippe  Desportes,  Paris,  A.  Delahays,  1858,  pag.  440. 


—  81  — 
Levar  tvopp'alto  i  miei  pensieri  osai. 
Perdon  ti  chieggo,  in  pegno 
Bramo  di  pace  un  segno  : 
]n  questa  estrema  mia  dura  partita 
Non  vò  senza  il  tuo  bacio  uscir  di  vita. 

fa  riscontro  il  sonetto  di  Desportes: 

Ah  !  mon  Dieu,  je  me  meurs  !  il  ne  faut  plus  attendre 
De  remede  à  ma  mort,  si  tout  soudainement, 
Phylis,  je  ne  te  vole  un  baiser  seulement, 
Un  baiser  qui  pourra  de  la  moi't  me  defendre. 

Certes,  je  n'en  puis  plus,  mon  coeur;  je  le  vay  prendreJ 
Non  feray,  car  je  crains  ton  courroux  vehement. 
Quoy?  me  faudra-t-il  donc  mourir  cruellement, 
Près  de  ma  guarison  qu'  un  baiser  me  peut  rendre  ?  (2) 

Oltre  al  Marino  molti  descrissero  l'estetica  del 
bacio. 

Il  teorico  della  Plèiade,  Joachim  Du  Bellay 
chiede  alla  sua  mignonne  clie  gli  dia  dei  baci. 

Sus,  ma  petite  Columbelle 
Ma  petite  belle  rebelle 
Qu'  on  me  paye  ce  qu' on  me  doit: 
Qu'  autant  de  baysers  on  me  donne, 
Que  le  poeté  de  Veronne 
A  sa  Lesbie  en  demandoit. 

Ma  egli  non  li  vuole  alla  francese,   ne    come    li 
dà  Diana  cacciatrice  a  suo  fratello; 

le  les  veulx  à  l'Italienne 
Et  telz  que  1'  Alcidienne 
Les  donnes  à  Mars  son  amoureux; 

(2)  Ihid.,  pag.  442. 


—  85  — 
Lors  sera  contente  de  ma  vie, 
Et  n'auray  sur  les  Dieux  envie, 
Ni   sur  leur  nectar  savoureux. 

E  pel  Ronsard,  i  baci  sono 

....  fiis  de  deux  levres  closes, 
Fils  de  deux  boutons  de  roses, 
Qui  serrent  et  ouvrent  le  ris 
Qui  deride  les  plus  marris  ;  (1) 

Della  canzone  Gli  amori  notturni  qui  non  è  le- 
■ciio  dire  qualcosa.  Il  fatto  è  che  un  giovine  ot- 
tiene i  favori  estremi  della  sua  amante,  ma  è 
impotente  a  soddisfare  il  godimento  dei  sensi. 
Questa  canzone  è  nel  fine  una  parafrasi  della 
elegia  VII  (libro  III)  degli  Amoriim  di    Ovidio. 

Aut  non  formosa  est,  aut  non  bene  eulta  puella 

At  puto  non  voti  saepes  petita  meis; 

Hanc  tameu  in  nullos  tenui  male  languidus  usus 

Sed  iacui  pigro  mmen  onusque  toro. 

Nec  potui  cupiens  pariter  cupient  puella 

Inguinis  eifoeti  parte  invante  frui. 

■Tanto  cbe  il  Marino  licenziando  la  canzone  esclama  : 

Canzon  notturna  sei 
Notturni  i  furti  miei; 
Non  uscir  (prego)  al  Sol,  fuggi  la  luce: 

(1)  Avrei  avuto  desiderio  vivissimo  di  leggere  le  elegie  latine  di  Jean 
Second.  sul  bacìo;  ma  è  stato  impossibile  poterle  rintracciare  nelle  biblio- 
teche italiane,  tanta  è  la  povertà  in  esse  di  opere  straniere  de'  secoli  XVI 
e  XVII,  nelle  quali  l'influejza  della  letteratura  italiana  è  ancora  molto 
.da  studiar^. 


—  86  — 
Oblìo  più  tosto  eterno,  ombra  profonda 
Le  mie  vergogne,  e  i  tuoi  di  tetti  asconda. 

Bellissimi  sono  invece  i  madrigali  e  le  canzoni 
d' indole  pastorale,  dove  il  poeta  stempera  il  sen- 
timento bucolico  in  mille  guise.  Qualche  volta 
sono  i  lamenti  di  un  pastore  per  la  crudeltà  della 
ninfa,  tal'altra  è  un  invito  a  decantare  le  mera- 
viglie della  natura.  E  in  quell'argomento  su  cui 
lavorarono  lungamente  e  indefessamente  i  poeti 
seicentisti,  e  che  fu  causa  principale  de'  difetti 
di  quell'età,  il  Marino  è  inesauribile.  La  canzone 
«  i  Numeri  Amorosi  »  è  un  idillio  freschissimo  e 
delicato 

Presso  un  fiume  tranquillo 
Disse  a  Filena  Eurillo. 
Quante  son  queste  arene, 
Tante  son  le  mie  pene  ; 
E  quante  son  quell'onde, 
Tante  ho  per  te  nel  cor  piaghe  profonde. 

Rispose  d'amor  piena 
Ad  Eurillo  Filena: 
Quante  la  terx'a  ha  foglie, 
Tante  son  le  mie  doglie  : 
E  quante  il  cielo  ha  stelle, 
Tante  ho  per  te  nel  cor  vive  fiammelle. 

Dunque  (con  lieto  core 
Soggiunse  indi  il  pastore) 
Quanti  ha  l'aria  augelletti 
Sieno  i  nostri  diletti  : 
E  quante  hai  tu  bellezze. 
Tante  in  noi  versi  Amor  care  dolcezze^ 


—  87  — 
Si  si  (con  voglie  accese 
La  Ninfa  ali  or  riprese) 
Facciam  concordi  amanti 
Pari  le  gioie  e  i  pianti, 
A  le  guerre  le  paci  ; 
Se  fur  mille  i  martir,  sien  mille  i  baci. 

In  queste  piccole  egloghe  pastorali  il  Marino 
si  avvicina  sensibilmente  all'egloga  greca  di  Teo- 
crito; i  grandi  contrasti  della  passione  amorosa, 
che  sono  la  caratteristica  della  pastorale  italiana, 
ed  in  ispecie  del  dramma  pastorale,  non  s' in- 
contrano in  queste  composizioni  del  Marino.  È  un 
soave  godimento  della  natura,  sempre  ridente 
nella  sua  semplicità;  è  il  saluto  dell'artista,  che 
s'inchina  reverente  a  tanta   magnificenza,   e  che 

/^  Del  giovinetto  Aprile 
]     Canta  con  dolce  stile 
y/\     Di  tutti  i  fiori  il  fiore, 
/     De  la  stagion  più  bella  eterno  onore. 

Ed  a  volte  il  poeta,  davanti  alla  serenità  della  vita 
pastorale,  volge  tristamente  il  pensiero  al  tu- 
multuoso vortice  della  vita  reale;  un  senso  di 
mestizia  s'impadronisce  di  lui,  quando  pensa  che 
tutte  quelle  grandi  bellezze  dovranno  soggiacere 
all'azione  inesorabile  e  distruttrice  del  tempo.  E 
volgendosi  alla  gioventù  l'ammonisce: 

Di  che  dunque  ti  gonfi 
0  giovenile  etade? 
Di  che  tanto  trionfi 
0  terrena  beltade  ? 


—  88  — 
Non  sì  rapido  cade 
Precipitoso  fiume, 
Come  di  duo  begli  occhi  il  vivo  lume. 

Folle  chi  pon  sua  spene 
In  pompa  di  Natura, 
Lo  cui  caduco  bene 
Aure  leve  ne  fura. 
Passa  passa,  e  non  dura 
Quaggiù  felice  stato, 
E  'n  mostrarsi  presente,  è  già  passato. 

E  con  frasi  che  ricordano  il  Leopardi,  riflette 
tristamente  che 

Fugge  fugge  il  soave 
Amoroso  diletto, 
E  con  pie  lento,  e  grave 
Segue  noia,  e  dispetto. 
Oggi  è  pur  giovinetto, 
Diman  l'anno  si  muta, 
E  la  chioma,  e'  ha  verde,  avrà  canuta. 

Oli  come  diversamente  cantava  Lorenzo  de'  Medici  ! 

Ciascun  apra  ben  gli  orecchi: 
Di  doman  nessun  si  paschi  ; 
Oggi  sian  giovani  e  vecchi 
Lieti  '  ognun,  femmine  e  maschi  ; 
Ogni  tristo  pensier  caschi  : 
Facciam  festa  tuttavia. 
Chi  vuol  esser  lieto,  sia  : 
Di  doman  non  e'  è  certezza.  (1) 

Questo  è  adunque  il  Marino  come  poeta  lirico: 

(1)  Poesie  di  Lorenzo  de'  Medici,  con  prof,  di  G.  Carducci,  Firenze, 
Barbèra,  1859,  pag.  421. 


—  89  — 
egli  è  il  cantore  della  voluttà.  L'amore  che  egli 
canta  ha  un'  estensione  di  sentimento  grandis- 
sima; dall'amore  platonico,  puro  e  semplicissimo, 
egli  arriva  sino  alla  sensualità  spiccata  e  vi- 
brante. È  tutta  la  scala  dell'amore  eh'  egli  narra, 
da  quando, 

del  volto  a  pena  i  campi  sparsi 
D' intempestivo  fior  l'età  novella, 

ebbe,  ad  incontrare  una  «  donna  oltre  le  belle 
bella,  »  e  le  promise  perpetuo  amore,  sino  al  con- 
vincimento che  la  donna  sua  non  l'ama,  oppure 
lo  tradisce;  perchè  la  donna  del  Marino  non  è 
da  vero,  per  aspirazioni  e  per  sentimento,  quella 
de'  petrarchisti  ;  anche  quando  egli  diviene  pla- 
tonico in  amore,  tanto  che  noi  non  possiamo,  a 
colpo  sicuro,  conoscere  quelle  che  sono  state  amate^- 
dal  poeta,  egli  è  espressivo  al  massimo  grado.  Il 
Marino  sveste  la  donna  d'ogni  ideale  che  svia 
l'umana  concezione,  e  fa  comparire  l'amata  come 
un  feticismo;  il  Marino  ha  davanti  a  se  la  donna 
che  lo  ama,  che  lo  deride,  che  l'insulta,  che  l'odia 
e  lo  tradisce.  Quindi  nelle  sue  liriche  amorose 
scatti  bellissimi  di  passione,  antitesi  efficacissime, 
note  di  dolore,  quand'avviene  che  la  donna  amata 
da  lui  ride  delle  sue  sventure;  e  a  volte  scene  di 
gelosia.  Il  Marino  è  capacissimo  d'insultare  la  sua 
donna,  di  rinfacciarle  il  suo  amore,  e  in  un  eccesso 
di  sdegno,  dopo  aver  «  lodato  e  ringraziato  lo 
sdegno,  che  ha  sciolto  il  nodo  d'amore,  »  giurarle 
di  aver  fino  alla  morte 


—  90  — 

Si  com'  ei  fece  adamantino  il  nodo 
Contro  i  suoi  colpi  adamantino  il  petto. 

Nel  Petrarca  questo  non  avviene;  perciò  l'idea- 
lità mancando,  il  vero  nel  cuore  della  donna, 
prende  il  sopravvento,  ed  il  poeta  descrive  tutti 
i  pregi  e  tutti  i  difetti  di  lei.  Il  Petrarca,  pel 
quale  Laura  non  è  suscettibile  di  perfezionamento, 
tanto  è  perfetta,  non  rimprovera  mai  alla  sua 
donna  di  esser  vana;  il  Marino  invece  non  ri- 
sparmia recriminazione  allorquando  ve  ne  sia  il 
bisogno. 

Amor,  non  dissi  il  ver,  quando  talora 
Ebbi  a  dir,  che  costei  non  era  amante, 
E  che  '1  suo  cor  di  rigido  diamante 
Punto  non  avea  mai  tuo  strale  ancora. 

Ecco  (ma  per  mio  peggio)  or  s'innamora 
Di  se  medesma  al  chiaro  specchio  avante  ; 
E  fatta  mia  rivai,  quel  bel  sembiante. 
Ch'io  solo  amo,  ed  adoro,  ama,  ed  adora. 

Crudel  Donna,  e  superba,  a  cui  sol  cale 
Del  lusinghiero  adulator  fallace 
La  tua  propria  ammirar  forma  mortale, 

Sappi,  che  '1  bel,  ch'or  sì  t'alletta,  e  piace, 
Non  men,  che  '1  vetro,  in  cui  si  specchia,  è  frale 
Né  men,  che  l'ombra  sua,  lieve,  e  fugace. 

Altre  volte  la  gelosia  rode  il  cuore  del  poeta. 
Di  questa  brutale  passione  il  Petrarca  n'è  esente, 
perchè  la  donna  sua,  perfettissima  di  mente,  di 
cuore  e  di  persona,  è  lungi  dall'ingannarlo.  Ma 
pel  Marino  no  ;  perchè  egli    oltre   ad   amarla  ar- 


—  91  — 

dentemente,  come  un  torello,  crede  in  ognuno 
un  rivale.  Ribellatosi  al  grande  ascendente  mo- 
rale clie  la  donna  esercitava  sugli  artisti  del  Ri- 
nascimento, e  trovatosi  faccia  a  faccia  con  questo 
essere,  davanti  al  quale  il  Petrarca  tremava  e 
s'umiliava,  e  i  «  suoi  rai  si  scoloravano,  »  il 
poeta  napolitano  non  esita  a  ritrarla  qual  ve- 
ramente è:  piuttosto  propensa  a  farsi  ammirare, 
in  ispecie  dagli  uomini,  e  a  farsi  corteggiare.  Ed 
alla  gelosia  il  Marino  ha  due  sonetti  bellissimi  : 

Tarlo,  e  lima  d'amor,  cura  mordace. 
Che  mi  rodi  a  tutt'ore  il  cor  dolente. 
Stimolo  di  sospetto  a  l'altrui  mente. 
Sferza  de  l'alme,  ond'io  non  ho  mai  pace  : 

Vipera  in  vasel  d'or  cruda,  e  vorace, 
Nel  pili  traquillo  mar  scoglio  pungente, 
Nel  più  sereno  Ciel  nembo  stridente, 
Tosco  tra'  fior,  tra'  cibi  Arpia  rapace: 

Sogno  vano  d'uom  desto:  oscuro  velo 
Agli  occhi  di  ragion,  peste  d'Averno, 
Che  la  terra  avveneni,  e  turbi  il  Cielo: 

Or'  Amor  no  ;  ma  sol  viv'  odio  eterno 
Vanne  a  l'ombre  d'Abisso  ombra  di  gelo  : 
Ma  temo  non  t'aborra  anco  l'inferno. 

Questa  di  cieco  padre  occhiuta  figlia, 
Figlia  del  genitor  fiero  omicida. 
Che  'n  anima  gentil  spesso  s'annida, 
E  'n  generoso  cor  ratto  s'appiglia; 

Da  che  rigida,  e  cruda  a  meraviglia 
Si  fé  de'  miei  pensier  compagna  infida, 
Altro,  lasso,  che  pianti,  altro,  che  strida 
Dal  petto  unqua  non  trassi,  e  da  le  ciglia. 


—  92  — 

E  quando  tregua  i  miei  tormenti  avranno 
0  ministra  del  mal,  nemica  al  bene, 
0  maestra  d'error,  maga  d'inganno  ? 

0  come  nel  mio  cor,  ne  le  mie  vene, 
S'egli  sol  s'è  di  me  fatto  Tiranno, 
Tra  '1  suo  fuoco  il  tuo  ghiaccio  Amor  sostiene? 

<^uesti  due  sonetti  però  risentono  fortemente  d'un 
sonetto  sulla  'gelosia  del  Tansillo,  poeta  che  tanto 
il  Marino  segui  da  vicino  nella  composizione  delle 
liriclie  amorose. 

0  d'Invidia,  e  d'Amor  figlia  si  ria. 
Che  le  gioie  del  padre  volgi  in  pene; 
Caiito  Argo  al  male,  e  cieca  talpa  al  bene, 
Ministra  di  tormento,  Gelosia  ; 

Tesifone  inferii  al,  fetida  Arpia, 
Che  l'altrui  dolce  rapi,  ed  avvelene. 
Austro  crudel,  per  cui  languir  conviene 
Il  più  bel  fior  de  la  speranza  mia. 

Fiera,  da  te  medesma  disamata, 
Angel,  di  duol  non  d'altro  mai  presago, 
Tema,  ch'entri  in  un  cor  per  mille  porte; 

Se  si  potesse  a  te  chiuder  l'intrata, 
Tanto  il  regno  d'Amor  saria  più  vago, 
Quanto  il  mondo  senza  odio,  e  senza  morte.  (1) 

Ed  è  questa  forse  una  delle  cause  per  le  quali 
il  poeta  fece  fortuna.  Egli  sdegna  di  descrivere 
il  solito  amore  petrarchesco,  dove  non  v'è  pas- 
sione,   dove    manca    l'alito    vero  e  potente   della 

(l)  Poesie  liriche  edite  etl  iiieiiitc  di  Luigi  Tansillo,  con  prefazione 
e  note  di   F.  Fiorentino,  Napoli,  Morano,  18S2  ;  pag.  17. 


—  93  — 
vita  mondana;  il  Marino  perciò  seppe  colpire  nel 
vivo  delle  passioni.  Comprese  benissimo  che  per 
farsi  intendere  dalla  maggior  parte  della  gente, 
doveva  commuoverla,  e  per  questo  scopo  si  servi 
d'una  frase  infuocata  e  maravigliosamente  ar- 
monizzante ;  egli  trasforma  quel  dialogo  con- 
tinuo, lento,  monotono  e  noioso  de'  petrarcliisti  in 
tanti  scatti,  a  volta  anche  violenti,  perchè  la  pas- 
sione essendo  di  corta  durata  nel  poeta,  nasce  natu- 
ralmente con  grande  rapidità,  ma  colpisce  con  più 
intensità;  quindi,  di  conseguenza,  l'interesse  del  pub- 
blico nel  leggere  le  poesie  di  questo  poeta,  le  quali 
sapevano  cosi  bene  addentrarsi  nelle  coscienze, 
specialmente  femminili,  e  lasciarvi  l'orma  loro. 
Abbiam  detto  più  innanzi  che  il  Marino  è  uni- 
versalmente conosciuto  come  il  poeta  della  voluttà. 
Ma  non  è  questo  il  solo  punto  della  lirica  mari- 
nesca,  e  noi  già  abbiam  visto  che  alcuni  canti 
sono  informati  ad  un  grande  patriottismo.  Vero 
è  però  ch'egli  li  scriveva  alla  corte  di  Torino,  o 
meglio  dopo  la  sua  partenza  da  Napoli;  ma  in 
patria,  mentre  il  poeta  trascorreva  lussuriosa  la 
vita,  e,  lungi  dal  letto  paterno,  cercava  in  occa- 
sioni poco  lodevoli  di  esercitare  la  sua  portentosa 
vena  poetica,  i  turchi  pirateggiavano  pel  Medi- 
terrano;  anzi  i  corsari  sbarcavano  a  Taranto,  met- 
tendo a  ferro  e  a  fuoco  le  ridenti  spiagge  ionie. 
Il  Marino  non  restò  insensibile  alle  lacrime  ver- 
sate dalle  popolazioni,  che  atterrite  dalla  ferocia 
turchesca  si  riversavano  nel  napoletano,  facendo 
descrizioni  orribili  delle  stragi  commesse. 


—  94  — 

Lascian  le  eulte  rive,  e  i  cari  pegni 
Stretti  nel  sen,  con  dolorose  strida 
Portau  le  madri  a  più  securi  regni. 

Ed  il  poeta  eccitava  tutti  i  cristiani  alla  vendetta  : 
Ite  schiere  animose,  e  '1  duro  orgoglio 
Rompete  voi  del  Barbaro  Tiranno, 
Troppo  di  furti  ornai  vago,  e  di  sangue. 

Egli  si  rivolge  ai  Veneziani,  perchè  ne  Francia 
ne  Spagna,  in  guerra  tra  loro,  si  commuovono  a 
tanto  dolore. 

Ma  tu  Lion,  mentre,  che  '1  Gallo  altero, 
E  de  l'Aquila  Ispana  il  real  figlio, 
Fan  tra  se  stessi  aspro  contrasto,  e  fero  : 

Perchè  non  tenti,  il  valoroso  artiglio 
De'  danni  tuoi  vendicator  sereno, 
Far  nel  Barbaro  sangue  ornai  vermiglio? 

Ne  contento  di  ciò,  vorrebbe  che  il  principe 
Doria,  emulando  le  virtù  del  padre,  andasse  pur 
egli  a  combattere,  e  quando  il  principe  di  Conca, 
grande  Ammiraglio  del  Regno  di  Napoli,  allestì 
una  flotta  per  dar  la  caccia  ai  corsari,  il  poeta 
infiammato  alla  vista  dei  preparativi,  vuol  andar 
anche  lui  a  combattere,  e  rivolgendosi  al  grande 
Ammiraglio,  lo  prega  di  condurlo  sopra  l'armata; 
perchè,  se  non  saprà  menar  le  mani  come  gli  altri, 
illustrerà  nondimeno  degnamente  la  nobile  spe- 
dizione. 

Hor,  che  per  riportar  nobil  trofeo, 
E  per  l'Asia  spogliar  de'  fregi  suoi, 


—  95  — 
Quasi  nov'Argo  di  famosi  eroi, 
S'arma  più  d'un  Alcide,  e  d'un  Teseo: 

Me,  fra  si  degno  stuol  per  l'ampio  Egeo, 
Signor,  menate  :  e  mi  vedrete  voi 
(Se  s'udran  fra  le  trombe  i  versi  poi) 
Fatto  a  novo  lason  novello  Orfeo. 

Saprò  di  schermo  in  vece,  usar  quell'arte. 
Che  ferir  sa  la  Morte;  e  potrò  l'armi 
Trattar  d'Apollo  almen,  se  non  di  Marte. 

Vosco  vedrete  al  Ciel  volando  alzarmi, 
Spiegherem,  voi  le  'nsegne,  ed  io  le  carte, 
Fabro  voi  di  vittorie,  ed  io  carmi. 

Dunque  per  il  Marino,  all'infuori  dell'amore,  non 
è  tutto  indifferente;  superficialmente  osservato, 
dall'esame  di  quei  canti  voluttuosi  parrebbe  che 
dovesse  uscir  fuori  tutta  una  storia  d'amori  bassi  o 
triviali,  senz'altro  istinto  che  quello  del  senso  il 
più  depravato  e  corrotto  ;  ma  a  fianco  di  essi,  ispi- 
rati al  desiderio  del  godimento,  ve  ne  sono  altri 
notevolissimi,  perchè  nati  appunto  in  un  secolo 
di  grande  corruzione  morale.  Egli,  il  cantore  della 
voluttà,  in  una  canzone  nobilissima  e  piena  di 
santo  sdegno,  si  scaglia  contro  coloro,  che  pur- 
troppo dimenticano  d'esser  uomini,  e  fanno  l'uf- 
ficio di  donna  ;  egli  maledice 

Chi  pria  le  leggi  immaculate^  e  sante 
Del  Monarca  immortai  ruppe,  e  disciolse, 
E  morbo  al  Mondo,  e  vituperio  accrebbe, 
Quando  del  sesso  suo  perfido  amante 
In  uso  reo  l'armi  d'amor  rivolse  ; 
E  di  tradir  natura  orror  non  ebbe, 


—  96  — 
Fera  dirsi  non  debbe, 
Benché  in  atto  ferino  il  Cielo  offese. 
Gli  ordini  a  lor  prescritti   entro  a  le  selve, 
Serbano  ancor  le  belve, 
Né  di  fiamma  sì  brutta  han  l'alme  accese. 
Fera  non  fu,  ma  furia  empia  d'Averno, 
Il  trasgressor  del  gran  decreto  etei'no. 

Il  quale,  dice  il  poeta,  sarà  benissimo  che  abiti 

'n  quell'albergo  forse,  ove  pendenti 

Stanno  immagini  sante,  e  saci'e  cere, 
Vergognose  lusinghe,  infami  vezzi 

Qui  il  poeta  è  veramente  eloquente  ;  contro  questi 
esseri  immondi,  egli  s'avventa  senza  pietà,  e  apo- 
strofandoli duramente, 

Macchiasti  tu  de  l'innocenza  antica 
Il  semplice  candor  sozza  inventrice. 
Sol  di  vizio,  e  d'error  novella  etade, 
Quindi  a  l'altrui  libidine  impudica 
L'empia  delizia  d'ogni  mal  nudrice 
Strade  insolite  aperse,  e  non  usate. 

si  meraviglia  cbe  leggi  umane  o  divine  non  col- 
piscono questi  esseri  immondi. 

Leggi,  e  voi  non -v'armate"? 

Fiamme,  e  voi  non  ardete?  incendio,  e  peste, 

E  non  piovi,  e  non  struggi:  e  tu  guerriera 

Spada  d'Astrea  severa 

Non  uccidi,  e  non  sveni?  Ira  celeste, 

Tanto  rigida  più  quanto  più  lenta, 

Ne  la  tua  destra  ancor  fulmini  avventa? 


—  97  — 
Poicliè  il  poeta  ama,  ma  sanamente;  egli  dice 

Chiunque  in  grembo  a  giovinetta  amata 
Talor  si  stringe,  e  'n  coinpagnia  s'accoppia 
Quegli  il  piacer  veracemente  abbraccia, 
Ella,  come  colei,  che  a  questo  è  nata, 
Emula  nel  diletto  i  nodi  addoppia, 
E  di  piacerti  sol  par  che  le  piaccia; 
Teco  lieto  s'allaccia, 
Se  la  baci,  ribacia,  arde,  e  si  strugge  ; 
Fertile  poi  di  dolce  prole,  e  bella 
In  lei  si  ri  no  veli  a, 

Né  temer  puoi,  che  qual  balen,  che  fugge; 
0  come  a  mezzo  Aprii  torbida  bruma 
Il  tuo  tesor  t'  involi  invida  piuma.  (1) 

Le  poesie  del  Marino  ebbero  mi  successo  gran- 
dissimo tra  i  letterati  italiani,  e  le  edizioni  si 
moltiplicarono  in  pochi  anni,  acquistandogli  nome 
di  cliiaro  poeta.  (2)  Ma  la  gloria  non  guastava  punto 
quel  carattere  poco  soggetto  a  ricevere  emozioni, 
perchè,  partito  da  Venezia,  il  Marino  correva  per 

(1)  È  inutile  far  osservare  la  grande  Importanza  di  questa  canzone 
sai  VUio  Nefando,  in  un'epoca  di  cosi  grande  corruzione  morale;  in 
un'epoca    in    cui    il   Franco    chiamava   l'Aretino   flagello    dei  principi    e 

dei ;  il  quale  ultimo,  nel  Marescalco,  fa  sfoggio  di  questo  vivere  grae- 

catim.  Il  Bruno  poi  se  ne  ricordò  anche  lui  nel  Candelaio  di  questo  uso 
so7,zo,  perchè  il  protagonista  della  commedia,  Messer  Bonifacio,  confessa 
di  essere  arrivato  sino  a  quaranta  e  non  so  che  anni,  senz'essersi  coinqui- 
mto  cum  nmlieribìi.s.  (Cfr.  A.  Graf,  Sludi  draiiimatici,  Torino,  Loescher, 
1878).  Cfr.  anche  il  Boccaccio,  (Decamerone,  Giorc.  I,  Nov.  II.)  il  quale 
mrra  che  Abraam  Giudeo,  venuto  a  Roma,  trovò  il  papa  e  i  cardinali 
«  generalmente  tutti  disonestissimamente  peccare  in  lussuria,  e  non  solo 
nella  naturale,  ma  ancora  nella  soddomitica.  » 

(2)  Nel  1304  il  Ciotti  pubblicava  la  quinta  edizione  della  iirima  e 
Cella  seconda  parte  della  Lira  ;  nel  1G12  le  edizioni  fatte  dal  Ciotti  erano 
dieci. 


—  98  — 
tutta  Italia  seiiza  tralasciare-  gli  studi  poetici, 
Ritornato  a  Roma,  «  acclamato  e  desiderato,  »  il 
cardinale  Pietro  Aldobrandino,  nipote  di  Clemente 
Vili  lo  ricevette  come  suo  famigliare,  «  e  gli 
assegnò  un'eccedente  pensione.  »  Durante  questo 
tempo  il  j)oeta  frequentava  le  principali  acca- 
demie romane,  in  tutte  festeggiatissimo  (1).  Morto 
Clemente  Vili,  nel  1605  gli  succedeva  per  bre- 
vissimo tempo  Leone  XI,  per  il  quale  il  Marino 
componeva  un  panegirico  che  intitolava  il  Tehro 
Festante.  Il  panegirico  si  compone  di  ventotto 
ottave,  e  rammenta  le  glorie  (?)  degli  altri  due 
pontefici  di  casa  Medici,  Leone  X  e  Clemente  VII. 
Il  poeta  è  adombrato  al  solito  in  Fileno,  pastore, 
il  quale,  forse  non  contento  della  servitù  che 
aveva  in  casa  dell'Aldobrandino,  ba  parole  di 
rimprovero  per  questa. 

Fileno  umil  Pastor,  Filen,  che  nacque 
Del  bel  Sebeto  in  su  le  sponde  erbose, 
Cui  poscia  a  pie  de'  colli,  e  lungo  l'acque 
Del  gran  fiume  latin  sventura  espose. 
Dove  in  sti),  ch'a  gentil  cor  non  spiacque 
Sotto  stelle  cantò  poco  2iielose, 

(1)  Rilevo  fla  alcune  annotazioni  manoscritte,  che  lo  Stigliani  fico  al 
6U0  libro  AeW Occhiale,  questo  curioso  annedoto: 

((  Il  colonnello  Celio  Parisiauo  d'Ascoli  fece  in  Roma  dinanzi  all'osteria 
dell'Orso  bastonare  il  Marino  iu  sua  presenza  per  mano  d'un  Tiberio  suo 
servitore.  Dì  qui  è  che  poi  il  Marino,  facendo  una  vendetta  fiuse  nel- 
V Adone  Melante  Ascolano  esser  gomorreo,  ed  appunto  per  avere  il  Marino 
tentato  il  figliuolo  d'esso  Celio  in  lussuria  fu  bastonato.  »  Non  sappiamo 
quanto  può  esservi  di  vero  in  questa  grossolana  accusa  dell'invidiosissimo 
poeta.  Noi  del  resto  conosciamo  quanto  efficacemente  il  Marino  si  difen- 
desse dalle  accuse  che  gli  facevano  di  lubricità  nei  suoi  versi. 


—  99  — 
Sospirando  sedea  tra  verdi  faggi, 
De  l'avaro  destino  i  gravi  oltraggi. 

Mentre  adunque  il  poeta,  sulla  sponda  del  Te- 
Tere,  pensava  di 

Voler  dolente  abbandonar  la  riva, 

ecco  che  il  gran  fiume  latino,  commosso  ed  im- 
pensierito delle  sventure  e  dei  proponimenti 
di  lui 

fuor  de  la  profonda 

Spelonca  ombrosa,  ond'ha  principio,  e  fonte 
Scosse  trecciata  di  palustre  fronda 
La  verde  chioma,  e  la  cerulea  fronte, 
Indi  con  mano  al  sussui-rar  de  l'onda 
Posto  silenzio,  e  volti  gli  occhi  al  monte 
Dove  Roma  sedea  con  questi  accenti 
Tolse  la  voce  al  petto,  e  diella  a'  venti. 

Il  padre  Tebro  allora  parla  al  poeta.  Gli  annuncia 
l'elezione  del  nuovo  papa  apportatore  di  pace  e 
di  prosperità,  e  fa  l'apologia  de'  tre  papi  medicei. 

Ciò  disse  il  Tebro,  e  poi  tacque  confuso 
Scosso  da  repentino  alto  rimbombo, 

e  Fileno 

in  cui  affetto  ardente 

Quel  celeste  parlar  gran  fiamma  accolse, 
Di  leggiadri  pensier  colma  la  mente 
A  lodar  lieto  il  Ciel  la  lingua  sciolse; 
Indi  da  l'erba  sorto  immantinente 
Per  la  reggia  di  Pietro  i  passi  volse, 


—  100  — 
Dove  giunto  a  baciar  corse  veloce, 
Nel  santo  pie  la  riverita  Croce. 

Ma,  non  ostante  i  lieti  auspici  del  Marino,  Ales- 
sandro Ottaviano  de' Medici  portò  per  poco  il 
nome  di  Leone  XI;  ed  a  lui  successe  il  car- 
dinale Camillo  Borghese,  o  che  dir  si  voglia 
Paolo  V.  Il  Marino  intanto  seguitava  la  fortuna 
dell'Aldobrandino,  che  fu  mandato  cardinale  le- 
gato a  Ravenna.  Vi  giungeva  però  molto  scon- 
tento di  lasciar  Roma.  «  Questa  è  una  città, 
scriveva,  anzi  un  deserto  che  non  l'abiterebhono 
gii  zingari.  Aria  pestifera.  Penuria  di  vitto.  Vini 
pessimi.  Acque  calde  e  insane.  Gente  poca  e  sel- 
vatica senza  manichi.  O  bella  Roma,  io  ti  so- 
spiro. »  (1)  Colà  si  tratteneva  alcuni  anni  e  con- 
traeva amicizia  coi  più  celebri  poeti,  quali  erano 
lo  Stigliani,  che  in  quel  tempo  serviva  il  duca 
di  Parma  Ranuccio  Farnese,  il  Preti,  l'Achillini, 
ecc.  Secondo  il  Loredano,  quivi  il  Marino  com- 
pose V Adone,  la  Strage  degV Innocenti  e  parte  delle 
Dicerie  Sacre.  Però  rileviamo  da  una  lettera  di- 
retta a  Bernardo  Castello,  pittore,  il  quale  de- 
vette la  sua  celebrità  al  Marino,  che  il  poeta  in 
Roma  avea  già  composti  tre  canti  dell'^c?one, 
«  il  primo  dei  quali,  dice  il  Marino,  contiene  l'ori- 
gine dell'  innamoramento  fra  la  Dea  e  il  giovane. 
(2)  Nel  secondo  si  raccontano  gli  amori  e  i  godi- 


(1)  Lettera  a  Carlo  Rondinelli. 

(2)  Questo  cauto  il  Marino  lo  ampliò  e  lo  divise  in  tre. 


—  101  — 

menti  dell'uno  e  dell'altro.  (1)  Nell'ultimo  si  narra 
la  caccia  dell'infelice  giovane  e  la  sua  morte, 
col  pianto  clie  fa  la  Dea,  sopra  il  corpo  del- 
l'amato   Seguita  poi    la    Strage  degl'Innocenti^ 

divisa  in  due  libri » 

Ma  ad  ogni  modo,  e  questo  lo  abbiamo  racco- 
mandato più  avanti,  bisogna  star  molto  guardin- 
ghi nel  credere  a  quanto  dicono  questi  benedetti 
personaggi  del  Seicento.  Il  Marino  poi,  per  sua 
natura  mobilissimo  negli  affetti  e  nella  fantasia, 
li  supera  tutti,  perchè  l'indomani  smentisce  quanto 
ha  detto  il  giorno  avanti.  Il  poema  ^qW Adone 
fu  concepito  a  Roma  ;  forse  a  Ravenna  lo  avrà 
abbozzato  ;  ma  fu  certamente  ne'  soggiorni  che  il 
poeta  fece  a  Torino  ed  a  Parigi  che  si  mise  se- 
riamente a  fabbricarvi  sopra  con  la  sua  poten- 
tissima fantasia,  perchè  molti  canti  del  j)oeta  ri- 
sentono l'impressione  ricevuta  dal  Marino  alle 
corti  di  Carlo  Emanuele  e  di  Luigi  XIII. 


(1)  Questo  secondo  canto  fu  dal  Marino  diviso  in  moltissimi  e  per 
ampliarlo  contribuì  moltissimo  il  personaggio  della  Falsirena,  che  sem- 
bra essere  stato  concepito  dal  Marino  dopo  la  sua  partenza  da  Koma. 


102  — 


Capitolo  VII. 

Il  Marino  alla  corte  di  Carlo  Emanuele  di  Savoia  —  11  Marino  e  il  Murtol» 
—  La  Marineide  e  ìa  Miirtoleide  —  Panegirico  del  Marino  al  duca  di 
Savoia  —  Tentato  assassinio  del  Marino  e  sua  prigionia.  —  L'Italia  si 
commuove  per  questo  fatto  —  Liberazione  del  Marino  —  La  "  Fera 
titagiianima  di  Lenta  „  e  le  guerre  letterarie  del  Seicento  —  La  terza- 
parte  della  Lira  del  Marino. 


Oramai  il  Marino  erasi  acquistata  fama  di 
grande  poeta.  Nel  1608  il  cardinale  Aldobrandino 
si  trasferi  da  Ravenna  a  Torino,  per  acquietare, 
a  nome  del  pontefice,  i  malumori  clie  s'  eran 
desti  a  cagione  del  marchesato  di  Saluzzo  fra 
Carlo  Emanuele  ed  Enrico  IV.  Il  Marino  segui 
il  cardinale  anche  in  questo  viaggio,  e  la  sera 
del  24  gennaio  del  1608  entrava  in  Torino.  (1) 
Colà  stringeva  subito  amicizia  co'  primi  scrittori, 
che  allora  vivevano  alla  corte  del  Duca,  tra  i 
quali  il  Boterò,  il  conte  di  San  Secondo,  Ono- 
rato Claretti,  l'abate  Lorenzo  Scoto,  il  quale  poi 
scrisse  allegorie  àeW Adone^  il  conte  Ludovica 
Tesauro  e  tanti  altri. 

In  questo  tempo  immaginò  la  ^Galleria  e  fini 
di  comporre  le  Dicerie  Sao'e,  cominciate  nel  suo 
soggiorno  in  Havenna.  Era  sul  punto  di  darle 
alla  luce,  quando  soprav^'enne  quell'accidente  che 

(1)  T.  Vallauri,  1  Cai:  Atarino  in  Piemonte,  Torino,  Staniperìa^ 
Reale,  1847. 


—  103  — 

tutti  conoscono  e  clie  determinò  l'uscita  del  Ma- 
rino dall'  Italia  e  la  sua  andata  in  Francia  ;  in- 
tendiamo la  lite  lunga  e  rovinosa  ch'ebbe  col 
Murtola. 

Gaspare  Murtola,  genovese,  segretario  di  Carlo 
Emanuele  di  Savoia,  era  gelosissimo  della  grazia 
che  il  Marino  andava  sempre  più  acquistando 
nell'animo  del  duca;  anzi  il  Marino  dice:  «  Avendo 
il  Murtola  alcuni  giorni  prima  ch'io  venissi  a 
Torino,  presentito  eh'  insieme  cogl'  Illustrissimi 
Cardinali  Aldobrandino  e  San  Cesareo  doveva 
esservi  di  corto ,  senza  nemistà  alcuna  prece- 
dente, incominciò  (non  so  perchè)  a  seminare 
di  me  in  molti  gentiluomini  cattiva  opinione, 
ne  pensando  forse  che  costoro  dovessero  poi  strin- 
gersi in  amicizia  meco,  si  come  fecero,  si  sforzò 
d'imprimere  concetto  nella  lor  mente,  ch'io  fossi 
non  solo  nelle-  lettere  ignorante,  ma  ne'  costumi 
intrattabile.  I  quali,  si  come  poi  praticandomi, 
accortisi  della  prova  della  sua  iniquità,  me  l'hanno 
referto  cosi  parimente  ne  renderanno  a  Vostra 
Altezza  piena  e  indubitata  fede  ogni  volta,  ch'ella 
lo  chiegga.  Giunsi  finalmente,  e  come,  ch'egli  ve- 
nisse spesse  volte  a  visitarmi,  io  nondimeno,  per  la 
contezza,  che  delle  sue  qualità  io  avea,  fuggiva 
l'occasione,  e  volentieri  da  tal  conversazione  mi 
allontanava.  » 

Il  Murtola  nondimeno  faceva  del  tutto  per  ali- 
mentare l'antipatia  che  l'uno  professava  per  l'al- 
tro. Un  giorno  egli  presentò  al  Marino  una  can- 
zone, perchè  ne  desse  il  suo  parere.  Questi  fran- 


—  104  — 

camente  gli  disse  clie  non  gii  piaceva.  La  cosa 
irritò  grandemente  il  Murtola  e  risolse  di  pren- 
dersi la  rivincita. 

In  questo  tempo  il  Marino  dovette,  per  co- 
mandamento del  Duca,  recarsi  alle  feste  di  Man- 
tova, «  celebratesi  per  cagione  del  recente  ma- 
trimonio di  quel  serenissimo  principe;  e  per 
viag-o-io  invitato  una  sera  dal  Conte  d'Arò  nella 
sua  barca,  vi  ritrovò  il  Murtola,  il  quale  a  bello 
studio,  e  gonfio  di  bile  e  di  odio  per  le  tene- 
rezze che  tutti  prodigavano  al  Marino,  cercava  a 
bella    posta  occasione  di  attaccar  briga  con  esso.  » 

Per  una  questione  letteraria  il  Murtola  ebbe 
a  far  osservare  al  Marino  d'  aver  torto.  (1)  Il 
Marino  gli  rispose  insolentemente  e  sconciamente. 
Però  i  due  rivali  furono  rappacificati  e  la  que- 
stione fini  li.  Quindi  il  Murtola  andò  a  Venezia 
a  stampare  il  suo  poema  della  Creazione  del 
Mondo;  ed  il  Marino  raggiunse  la  corte  a  Torino. 

Appena  uscito  il  poema  del  Murtola,  il  Ma- 
rino die  a  leggere  agli  amici  un  sonetto  satirico 
in  cui  metteva  in  ridicolo  il  Murtola,  il  quale 
aveva  descritta  minutamente  la  creazione  di  erbe 
come  rape,  piselli  e  simili.  Si  noti  poi  che  lo 
stesso  Marino  aveva  sconsigliato  il  Ciotti,  libraio 
veneziano,  di  stampare  il  poema  del  Murtola,  di 

(1)    Io  non  so  dove  il  Vallauri  abbia  potuto   rintracciare  che    la    que- 
stiono fosse  sorta  sopra  la  poesia  maccheronica,  e    sul    primo    de'    poeti 
maccheronici.  Veggasi  piuttosto  nella  Marineide  del  Murtola  «  iìi«af a  I.a  » 

Bisognava  rispondermi  in  latino 
Nel  viaggio  di  Mantoa,  e  non  restare 
Stupido,  e  muto,  come  Fra  Stuppino. 


—  105  — 
modo  che  la  Creazione  del  Mondo  dovette  uscire 
pe'tipi  del  Deuschino. 

■  Il  sonetto,  passando  di  bocca  in  bocca,  giunse 
alle  orecchie  del  Murtola,  che  in  quei  giorni  era 
ritornato  a  Torino,  ed  il  «poeta  della  Creazione^  » 
come  lo  chiamava  ironicamente  il  Marino,  pieno 
di  bile  e  d'odio  giurò  di  vendicarsi.  Rifiutando 
i  consigli  di  amici  di  ambe  le  parti,  i  quali 
s'erano  intromessi  per  la  pace,  die  alle  stampe 
un  opuscolo  che  intitolò:  Epilogo  della  vita  del 
Marino.  «  Qui  la  satira  fece  pompa  di  tutte  le 
sue  malignità,  né  tralasciò  invenzioni  per  far 
conoscere  se  stessa.  »  (1) 

Il  Marino  allora  andò  in  collera  anche  lui. 
Colpito  ne'  suoi  affetti  più  cari  e  fatto  segno  ai 
colpi  d'una  penna  che  s'era  valsa  delle  infamie 
più  abiette  per  A^endicarsi,  compose  ottantun  so- 
netti che  chiamò  Fischiate^  ed  ai  quali  pose  il 
titolo  di  Murtoleide. 

Ecco  il  primo  sonetto  che  serve  d'introduzione: 

Stiglian,  che  vai  da  questo  polo  a  quello 
Spargendo  del  tuo  nome  alto  rimbombo, 
Mentre  celebri  in  versi  il  gran  Colombo 
Kitrovatore  di  un  mondo  novello; 

Perchè  non  volgi  al  Murtola  il  cervello, 
Ch'  io  per  lodar  mi  sfegato  e  dislombo  ; 
Il  qual,  quanto  e  più  fin  l'oro  dal  piombo, 
Tanto  n'  ha  ritrovato  uno  più  bello. 

Ma  poiché  te  con  stil  degno  d'alloro 

(1)  Loredano,   Vita  del  Marino. 


—  106  — 

Ti  sei  messo  a  compor  la  Colomheide 
Forse  perchè  quel  mondo  ha  più  tesoro, 
Io  eh'  ingegno  non  ho  da  far  Eucide, 
Perchè  quest'altro  ha  merda  in  cambio  d'oro, 
Mi  son  messo  a  compor  la  Murtoleide. 

Questi  sonetti  circolavano  per  Torino  mano- 
scritti, ed  eccitavano  la  generale  ilarità  pel  modo 
veramente  satirico  ond'erano  composti. 

Il  Murtola  non  rimase  anch' egli  inoperoso.  Alle 
Fischiate  rispose  con  trentun  sonetti,  cui  diede  il 
titolo  di  Risate.  La  questione  prendeva  una  brutta, 
piega.  Uscita  dal  campo  letterario,  era  per  en- 
trare in  quello  della  più  abietta  diffamazione  ;  ed 
osili  sonetto  o  sonettessa  clie  veniva  man  mano 
a  comporsi,  era  un  libello  infamante.  S'intromisero 
molti  amici  specialmente  il  conte  di  Passano,  fa- 
migliare del  duca  e  la  pace  fu  fatta  «  con  pro- 
messa che  tutte  le  querele  anticlie  s'intendessero 
soppresse,  ne  si  dovesse  per  l'avvenire  produrre 
alcuna  novità.  » 

Intanto  il  Marino  dava  alle  stampe  il  «  Ritratto 
del  serenissimo  Don  Carlo  Enianuello  Duca  di 
Savoia.  Panegirico  del  cav.  Clarino  al  Pigino.  » 
Immaginava  di  fare  in  versi  il  ritratto  del  prin- 
cipe e  lo  dirigeva  ad  Ambrogio  Figino,  famoso 
pittore  ch'era  allora  alla  corte  del  duca  di  Sa- 
voia. (1) 

Carlo  Emanuele  gradi  molto  il  poemetto  e  no- 
minò il  Marino  Cavaliere  dell'Ordine  dei  Santi 
Maurizio  e  Lazzaro.  Nella  dedicatoria  che  fece  il 

(1)  Marino,  Lettere,  pag.  205. 


—  107  — 
conte  di  Eovigliasco  al  duca,  era  accennato  molto 
apertamente  alle  armi  vili,  di  cui  s'era  servito  il 
Murtola  nel  ferire  il  suo  rivale.  Il  disgraziato  poi, 
e  forse  ad  istanza  del  Marino,  era  stato  licenziato 
dal  duca  dal  posto  che  occupava  di  segretario; 
perdette  allora  la  testa.  Una  domenica,  e  fu  il 
primo  del  febbraio  dell'anno  1609,  aspettò  allo 
sbocco  di  una  via  il  suo  rivale  e  gli  tirò  un  colpo 
di  pistola  ;  ecco  come  racconta  1>  cosa  il  Marino  : 

«  Domenica  passata,  che  fu  il  primo  di  feb- 
braio, vigilia  della  Purificazione  della  Santissima 
Vergine,  giorno  per  me  sempre  memorabile,  su  la, 
strada  maestra,  presso  la  piazza  pubblica,  poco 
innanzi  alle  24  ore,  mentre  che  io  di  lui  non  mi 
guardava,  mi  appostò  con  una  pistoletta  carica 
di  cinque  palle  ben  grosse,  e  di  sua  propria  mano 
molto  da  vicino  mi  tirò  alla  volta  della  vita. 
Delle  palle  tre  ne  andarono  a  colpire  la  porta 
di  una  bottega,  eh'  ancora  se  ne  vede  segnata, 
l'altre  due  mi  passarono  strisciando  su  per  lo 
braccio  sinistro,  e  giunsero  a  ferire  il  Braida  nel 
fianco,  giovane  virtuoso,  ben  nato  e  mio  parziale 
amico,  il  quale  m'era  allora  allato,  e  veniva  meco 
passeggiando.  »  (1) 

D  Murtola,  commesso  il  misfatto,  fuggi  via,  & 
lasciò  il  Marino  cosi  stordito  della  vampa  che  lo 
feri  sul  viso  e  del  colpo  che  gli  percosse  sul  capo, 
che  non  pensò  ad  inseguirlo.  Appena  però  il  Mur- 
tola giunse  in  piazza,  sempre  fuggendo,  urtò  negli 
sbirri  che  andavano  perlustrando;    gli    sbirri    lo- 

(1)  Lettere  del  Cav.  Marino,  pag.  30. 


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fermarono,  anche  perchè  s'  era  radunata  molta 
gente,  la  quale  voleva  far  giustizia  sommaria  del 
l'assassino.  Condotto  in  prigione  confessò  subito  il 
misfatto,  ed  aggiunse  anche  che  era  suo  desiderio 
uccidere  l'odiato  rivale. 

Il  delitto  del  Murtola,  e  per  le  circostanze  con 
le  quali  l'aveva  commesso,  e  per  il  fatto  che  aveva 
tentato  d'uccidere  un  cavaliere  della  religione 
del  duca  e  servitore  d'un  cardinale  ospite  del 
duca  stesso,  era  della  più  grande  gravità.  Il  Ma- 
rino però  fece  di  tutto  per  salvare  dal  capestro 
il  poeta  genovese  e  vi  riusci.  Gasparo  Murtola 
usciva  cosi  dagli  stati  del  duca  di  Savoia,  rifu- 
giandosi alla  corte  di  Homa,  dove  occupò  molte 
cariche  onorifiche,  essendo  entrato  nelle  grazie  di 
Paolo  V,  il  quale  lo  mandò  governatore  a  Mon- 
tefiascone. 

Il  Marino  intanto  riceveva  dimostrazioni  di 
affetto  dai  principi  e  dai  letterati  italiani  per  lo 
scamj)ato  pericolo;  ed  il  duca  di  Savoia  che  an- 
cora non  lo  aveva  fregiato  cavaliere  dell'  ordine 
dei  SS.  Maurizio  e  Lazzaro,  facendolo  segno  d'in- 
finite cortesie  e  carezze,  lo  insigniva  finalmente 
della  croce,  dandogli  Sjjeranza  altresì  d'  una  com- 
menda ;  e  il  poeta  tutto  lieto  scriveva  al  Barbazza; 
«  Di  me  poi  non  so  altro  che  dirle,  se  non  eh'  io 
spero  dopo  le  feste,  o  almeno  a  Carnevale  ritor- 
nare a  cotesta  volta,  poiché  questi  paesi  m'inco- 
minciano a  fastidire  et  s'io  vi  sono  stato  fermo 
infino  a  quest'  ora  l' ho  fatto  per  condurre  a  fine 
alcuni  miei  interessi,  e  per   l'infinite  cortesie,    e 


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carezze  ricevute  da  questo  Serenissimo  Principe^, 
dalla  cui  mano  appunto  dimane  sono  in  procinti 
di  ricever  1'  habito  di  San  Mauritio,  et  Lazzaro 
con  le  cerimonie  solenni,  et  se  bene  me  l'haveva 
già  conceduto  un  pezzo  fa,  l'effetto  però  della 
sollennità  si  è  ritardato  iniino  al  presente  per 
farmi  maggiore  onore,  poiché  spero  subito  dopo 
la  Croce  ottenere  nova  Commenda,  della  quale 
Sua  Altezza  mi  ka  data  intentione.  »  (1) 

Ne  la  prigionia  sofferta,  ne  il  passato  pericolo 
di  far  la  conoscenza  di  alcune  braccia  di  corda, 
impedirono  al  Murtola  di  seguitare  nelle  sue  dia- 
tribe contro  il  Marino. 

Uscito  di  prigione,  ed  ancor  tutto  pien  di  paura, 
torna  di  nuovo  ad  impugnar  la  sua  penna  vele- 
nosissima e  compone  ventinove  sonetti  e  sonet- 
tesse, cbe  chiama  Bastonate  ;  dando  a  tutto  quanto 
il  componimento  pieno  di  basse  ingiurie  e  di  ge- 
suitesca rabbia,  il  titolo:  «  U  Lasagnolo^  di  Monna 
Betta,  o  vero  bastonatura  del  Cavalier  Marino, 
datali  da  Tuff.  Tiff.  Taff.  in  Turino  alti  23  di 
febbraio  dell'anno  1608.  (2) 

La  bastonatura  prima  è  una  specie  di  proemio 
e  merita  la  pena  di  esser  trascritta  : 

(1)  I.ettere  del  Cav.  Marino,  (Ed.  1C27),  pag.  35. 

1,2)  È  un  niauoscritto  cartaceo  giacente  nella  biblioteca  Vittorio  Ema- 
nuele del  fondo  di  S.  Pantaleo  in  Urbis  lìló.  22).  È,  crediamo,  runico  ma- 
noscritto di  quest'importante  componimento  poetico,  posseduto  antica- 
mente da  padri  delle  Scuole  Pie.  L'opera  però  non  ebbe  forse  1'  onore 
dt-lla  stampa,  avendo  a  ciò  contribuito  la  corrente  di  simpatia  che  si  ma- 
nifestò pel  Marino,  quando  impetrò  la  grazia  presso  il  duca  di  Savoia,  a 
favore  dell'aggressore,  e  per  le  grandi  aderenze  che  mise  in  moto  il 
poeta  napolitano,  perchè  il  libello  non  fosse  pubblicato. 


—  110  — 

De  riiasta  sua,  che  in  punta  il  ferro  porta 
Se  ne  vada  Marin  Pallade  armata, 
De  l'arco  suo,  de  la  feretra  usata 
Per  via  Diana  montuosa,  e  torta. 

La  falce  babbi  Saturno,  in  man  la  storta 
Marte  crudel,  e  in  testa  la  celata, 
Porti  il  folgore  Giove,  e  fulminata 
Sia  da  quello  ogni  torre,  et  ogni  porta. 

Di  serpi  cinto  il  suo  bastone  alato 
Alzi  Mercurio,  il  Tirso  babbi,  e  il  bordone 
D'bedere  Bacco,  e  viti  circondato. 

La  clava  Hercole  adopri,  un  grosso  Eapo 
Da  trapiantar  in  e  .  . .  .  a  le  persone 
Il  reverendo  ognor  padre  Priapo. 

Ch'io  per  romperti  il  capo 
Non  altro  voglio  sotto  il  fei'raiolo 
Che  di  Madonna  Betta  il  Lasagnolo.  (1) 

Il  Marino  era  per  miracolo  scampato  dall' ar- 
chibugiata  del  Murtola;  ma  i  suoi  nemici,  e  molti 
ne  avea  alla  corte  di  Torino  per  la  grande  for- 
tuna in  die  era  salito,  visto  andare  a  vuoto  il 
colpo,  cercarono  di  perdere  il  Marino  colla  ca- 
lunnia. (2)  Egli  in  gioventù  avea  scritto  un  poe- 
metto satirico  intitolato  la  Cuccagna,  contro  la 
famiglia  di  certo  Tiberio  Bucca,    nobile    napoli- 


(1)  Tutti  gli  altri  sonetti  sono  su  questo  stampo. 

(2)  Il  Marino,  il  quale  dopo  l'accaduto  del  Murtola  scrisse  una  lunga 
lettura  al  duca  di  Savoia,  desiderava  che  la  stessa  venisse  esaminata  dal- 
l'Inquisitore. Dice  poi  lo  Stigliani  che  Paolo  V,  avendo  im  giorno  do- 
mandato al  Murtola  perchè  avesse  tentato  di  uccidere  il  Marino,  tiran- 
dogli una  pistolettata,  «  Padre  Santo,  disse  il  poeta  genovese,  zelus  do- 
mus  nec  comedit  me.  » 


—  Ili  — 

tano.  (1)  Questo  poema  non  era  stato  mai  stampato; 
Tina  copia  manoscritta  però  pervenne  nelle  mani 
degl'invidiosi  cortigiani  torinesi,  i  quali  perfida- 
mente fecero  intendere  al  duca  come  il  Marino 
avesse  voluto  nel  poemetto  «  detrarre  alla  somma 
virtù,  ed  all'immortal  gloria  di  Sua  Altezza  vo- 
lendo intendere  di  lui,  quello  ch'egli  avea  scritto 
molti  anni  prima  in  Napoli.  »  (2)  Il  duca  ascoltò  le 
calunnie  dei  nemici  del  poeta,  ed  ordinò  la  pri- 
gionia del  Marino. 

Questo  fatto  commosse  l'Italia  più  clie  una  ca- 
lata di  stranieri.  Il  cardinale  d'Este  scrisse  da 
Casale  al  duca,  pregandolo  di  liberare  il  Marino  ; 
il  duca  di  Mantova  passando  per  Torino  chiese 
verbalmente  quanto  avea  impetrato  suo  fratello; 
il  contestabile  di  Castiglia,  il  viceré  di  Napoli, 
duca  di  Lemos,  spedirono  corrieri  a  Carlo  Ema- 
nuele ;  il  cardinale  Aldobrandino  ruppe  quasi  la 
lega  col  duca  per  questo    rispetto,    do]DO    averlo 

(1)  «  Poema  narrativo  ridicolo  in  ottava  rima,  composto  negli  ozii 
-del  carnevale  per  passatempo  a  somiglianza  della  Macheronea  di  Merlino. 
Ma  questo  per  disavventurato  caso  si  è  perduto;  »  dice  il  Claretti,  par- 
lando della  Cuccagna.  (Vedi  pref.  alla  terza  parte  della  Lira.) 

(2)  11  Prof.  Mango,  nostro  egregio  amico,  e  autore  d'  una  monografia 
sulla  poesia  pastorale  del  Marino,  (Il  Marino  poe'.a  lirico,  Ricerche  e 
studi  del  Dott.  Francesco  Mango,  Cagliari,  1887.)  secondo  l'asserzione 
del  Vallauri,  dice  che  una  signora  torinese  «  fu  la  causa  vera  della  pri- 
gionia del  Marino,  dove  la  Cuccagna  ne  fu  il  pretesto.  »  Noi  siamo  in- 
c.inati  a  non  accettare  quest'asserzione.  Il  Marino,  a  Napoli,  era  amicis- 
simo degli  spagnoli,  co'  quali  divideva  la  mensa  e  i  piaceri.  Forse  questo 
poema,  scritto  in  un'epoca  in  cui  Carlo  Emanuele  assaliva  singolarmente 
la  Spagna,  e  quando  il  Tassoni,  il  Boccalini  e  il  Cbiabrera  applaudivano 
il  forte  alpigiano,  avrà  contenuto  ingiurie  contro  di  lui.  S'osservi  infine 
«he  nella  prima  e  nella  seconda  parte  delle  rime  del  Marino,  pubblicate  nel 
1602,  non  si  accenna  affatto  al  duca,  mentre  che  le  tracce  di  lode  per  la 
Spagna  s'osservano  dovunque. 


—  112  — 
con  mille  importunità  infastidito.  (1)  Finalmente^ 
essendosi  a  quelle  nobili  preghiere  aggiunte  quelle 
degli  ambasciatori  di  Francia  e  d' Ingliilterrar 
e  del  Marchese  della  Villa,  duca  di  Manso,  il 
duca  di  Savoia  accordò  la  libertà  al  Marino,  il 
quale,  uscito  dalla  prigione,  dovè  aspettare  un 
pezzo  prima  di  riavere    i    suoi    scritti.    (2)   Però 

(1)  Lettere  del  Cav.  Marino,  pag.  190. 

(2)  Il  Marino,  mentre  era  in  prigione,  scriveva  continuamente  a  no- 
bili amici,  perchè  s'adoprassero  a  liberarlo.  Al  conte  Guido  Villa  in  oc- 
casioni del  capo  d'anno  diceva  : 

Guido,  deh  per  pietà  non  mi  si  tolga, 

Ch'almeno  in  questo  di,  mentre  di  quello 

Viene  a  stringersi  il  nodo,  il  mio  si  sciolga. 
A  Carlo  Emanuele  poi,  scriveva  quattro  sonetti  tutti  belli    ed    eloquenti; 
anche  in  prigione,  costrettovi  dalla  necessità,  il  Marino  lodava  le  alte  virtù 
del  (luca,  ed  in  occasione  dell'anno  nuovo,  gli  mandava  il  sonetto: 
Per  questa  penna  misera  fra  quante 

Signor,  nel  volo  tuo  ne  spieghi,  e  spandi 

Quella,  che  manca  al  portator,  ti  maudi 

Salute,  e  pace,  il  circonciso  Infante. 
E,  liberato,  quando  pregava  il  duca  Carlo  Emanuele  che  gli  venissero 
restituite  le  sue  scritture,  scriveva  al  Barbazza  :  «  Xc  ho  fatte,  e  fatte 
fare  continue,  e  caldissime  istanze,  e  ultimamente  gli  ho  fatto  presentare 
le  lettere  del  vostro  Signor  Cardinale.  Ma  ut  supra,  faremo,  diremo,  oggi, 
dimane,  e  quel  dimane  non  vieu  mai,  le  promesse  son  molte,  le  speranze 
più  grandi,  ma  gli  effetti  son  pochi,  e  tardi,  ed  io  per  me  non  so  quando 
la  mia  fortuna  podagrosa  potrà  arrivare  a  darmi  un  calcio  nel  e....  per 
isbalzarmi  su  la  ruota.  Intanto  io  spendo,  e  spando,  e  l'ore  vanno  a 
staffetta.  Iddio  mi  dia  pazienza,  e  pane.  »  Al  Salviani  poi  scriveva  che 
0  tutte  quelle  misere  fatiche,  egli  le  avea  in  molti  anni  accumulate,  e 
già  teneva  in  procinto  di  pubblicarle  in  breve  alle  stampe  per  corrispon- 
dere a  quella  aspettazione,  che  si  potesse  aver  di  lui.  »  E  «  nella  ferraggine 
di  certi  frammenti,  e  residui  poetici  avanzatigli  nella  memoria,  cavava 
alcuni  sonetti  e  glieli  mandava.  Erano,  diceva,  parti  d'ingegno  torbido,  e 
travagliato,  e  li  gittava  via  a  guisa  di  merci,  che  nelle  tempeste  si  so- 
gliono spargere  per  l'onde,  w  Pregava  il  Salviani  di  farli  vedere  agli  a- 
mici  ;  al  Ouarini  però  glieli  facesse  riredere,  perche  «  egli  solo  (non  eccet- 
tuando alcuno)  per  la  viva  espressione  degli  affetti,  e  delle  tenerezze,  e 
per  la  purità  e  delicatura  dello  stilo,  pareva  a  lui,  che  in  quel  secolo  me- 
ritasse titolo  di  vero  Poeta.  » 


—  113  — 
Però  il  Marino  avea  contratto    nel    carcere    una 
malattia  che  gli  aveva  accasciato    1'  anima    e    il 
corpo.  A  Griuseppe  Fontanella  scriveva: 

Uscita  fuor  de  le  Tartaree  porte 
Superba,  e  preso  in  man  l'arco  fatale, 
A  scoccar  venne  in  me  colpo  mortale 
Intempestiva,  insidiosa  Morte. 

Ma  colse  a  punto,  ov'era  assisa  a  sorte 
Amorosa  saetta  infino  a  l'ale, 
Onde  indietro  tornò  spuntato  un  strale. 
L'altro  nel  cor  si  concentrò^  più  forte. 

Così  campai  Giuseppe,  e  la  ferita. 
Che  mi  fer  duo  begli  occhi  in  mezzo  al  core^ 
Contro  piaga  maggior  mi  porse  aita. 

Ahi,  che  fu  certo  industria,  e  parve  errore, 
Fé  di  Morte  l'ufficio,  e  volse  in  vita 
Per  più  fai'mi  morir,  tenermi  Amore. 

E  indirizzando  una  lettera  a  G-asparo  Salviani, 
che,  come  vedemmo,  fu  suo  amico  carissimo, 
e  che  allora  era  segretario  dell'Accademia  degli 
Umoristi^  gli  diceva  :  «  Dello  stato  mio  non  mi 
diffondo  in  darle  minuto  avviso  ;  basti  sapere, 
che  le  false  accuse  d'amici  traditori  avevano  mac- 
chinato il  precipizio  delle  mie  fortune,  se  il  di- 
vino aiuto  non  avesse  dato  adito  alla  mia  giu- 
stificazione, e  all'  altrui  disinganno.  Cosi  son 
fatto  ormai  bersaglio  delle  calunnie,  e  delle  per- 
secuzioni. Il  che  mi  dà  quasi  a  persuadere,  ch'io 
davvero  vaglia  qualche  cosa,  e  mi  fa  pregiare 
assai  più,  ch'io  non  faceva,  sapendo  che  l'Invidia 


—  114  - 
è  avversaria  della  Virtù,  e  che  per  ordinario, 
dove  abbonda  ingegno  manca  ventura.  Ma  la  Ve- 
rità è  figlinola  del  Tempo,  e  se  bene  dalle  pro- 
celle della  fraude  pare  alle  volte  sommersa,  alla 
fine  risorge  a  galla.  Io  non  ebbi  mai  denti  da 
mordere,  ne  se  avuti  li  avessi,  gli  avrei  rivolti 
contro  chi  mi  ha  onorato,  e  beneficato  :  Così  cre- 
dess'io  punita  la  malvagità  di  clii  mi  ba  insi- 
diato a  torto,  come  la  mia  penna  fu  sempre  in- 
nocente dalle  punture  satiriche,  e  massime  di 
quelle,  che  vanno  a  trafìggere  i  Grandi.  Già  la 
mia  innocenza  è  provata,  e  l'altrui  perfidia  è  ma- 
nifesta, e  spero  assai  tosto  uscir  di  travagli  non 
solo  libero,  ma  glorioso  ;  se  non  che  questo  Sere- 
nissimo Signore  pretende  da  me  alcune  sodisfa- 
zioni,  le  quali  io  son  prontissimo  a  dargli.  Suc- 
cedendo l'effetto  (coni'  è  da  credere)  di  questa 
mia  liberazione,  il  mio  pensiero  è  di  ritornarmene 
subito  in  Roma  a  riveder  gli  amici  antichi.  »  (1) 
Questo  avveniva  nel  1612.  (2)  Due  anni   dopo 


(1)  Lettere  del  Cav.  Marino,  Ed.  1627,  pag.  295. 

(2)  Rilevo  da  una  lettera  del  Marino  ad  Andrea  Barbazza,  segretario 
del  duca  di  Mantova,  che  il  poeta  ora  scontentissimo  di  Carlo  Emanuele 
e  che  desiderava  cambiar  padrone.  «  Questo  Prìncipe  mi  dà  ogni  di  delle 
pappolate  e  delle  canzoni,  delle    quali    sono    oggimaì    sazio    e    stanco    in 

guisa,  che  mi  vien  voglia  a  guisa  dtl  castoro  di  lasciare  i  e in  preda 

del  cacciatore  e  restar  castrato  per  iscampar  via.  Voglio  dire  ch'alia  fine 
manderò  iu  bordello  le  scritture  con  quante  fatiche  ho  fatte  al  mondo  per 
uscire  di  queste  miserie.  Partendo  di  qua  io  non  farei  altra  resoUizione 
che  venirmene  da  codesto  Serenissimo  Vostro  Cardinale,  a  cui  mi  ritrovo 
tanto  obbligato,  e  se  vorrà  accettarmi  al  suo  servigio,  sarò  prontissimo  a 
dedicargli  la  vita,  non  che  la  penna.  Delle  condizioni  mi  rimetto  a  voi, 
ma  vi  pongo  in  considerazione,  ch'io  mi  ritrovo  distrutto  pertanto  spese 
che  ho  fatte  qui,  e  fo  tuttavìa,  onda  tton   ho  più    bisoyno    di  fumo.  «Che 


1 


—  115  — 
sfaceva  stampare  a  Torino  in  due  volumi  le  sue 
Dicerie  Sacre,  specie  di  lunghi  discorsi,  in  cui  si 
tratta  di  cose  ascetiche  e  teologiche,  «  frutto,  dice 
lo  stesso  Marino,  di  studi  particolari  ch'egli  fin 
dai  primi  anni  fece  sopra  la  Sacra    Scrittura.   » 

Il  libro  è  diviso  in  tre,  diciamo  cosi,  Dicerie  ; 
la  prima,  della  Pittura,  è  dedicata  a  Carlo  Ema- 
nuele di  Savoia;  la  seconda  della  Musica  al  car- 
dinale Maurizio  ;  1'  ultima  il  Cielo,  al  principe  di 
Piemonte,  figlio  del  duca.   E    tutte    a   Paolo    V. 

La  Pittura  è  a  sua  volta  divisa  in  tre  parti  : 
filosofica,  descrittiva  e  apologetica  ;  cosi  che  nella 
prima  il  Marino  cade  in  quelle  astruse  e  ridicole 
squacquerate,  eh'  erano  la  filosofia  d'allora;  nella  se- 
conda fa  il  parallelo  tra  la  pittura  e  la  poesia  ; 
nella  terza  s'  encomia  il  duca  e  la  casa  di  Savoia 
come  protettore  delle  arti. 

La  Musica  è  divisa  in  quattro  parti,  e  pren- 
dendo argomento  dal  mito  di  Pan,  «  che  venuto 
in  contrasto  con  Amore,  e  da  lui  superato,  è  co- 
stretto ad  innamorarsi  di  Siringa,  ninfa  d' Ar- 
cadia, la  quale  come  ritrosa  e  selvaggia  fugge, 
e  per  liberarsi  dall'  incalzante  nume  si  trasforma 

nou  fossero  altro  che  fumo  i  mille  scudi  d'oro  di  pensione  che  si  diceva 
il  Jlarino  ricevesse  dal  duca  di  Savoia?  Questo  a  prima  vista  non  par 
dubbio  ;  il  Manifesto  del  Tassoni  informi. 

E  la  questione  di  cambiar  servitù  parve  cosi  sicura,  che  il  Marino  scri- 
veva al  Barbazza:  ti  To  mi  struggo  di  desiderio  di  venirmene  costà  e  di 
sofricarmi  con  gli  effetti  in  anima,  e  in  corpo  al  vostro  Keverendissimo  e 
Serenissimo  ;  »  ma  voleva  che  il  Cardinale  l'aiutasse  «  a  distaccarlo  da 
quella  pece.  »  E  sperava  che  l'andata  alla  corte  di  Mantova  del  principe 
di  Piemonte  potesse  giovargli,  «  perchè  si  poteva  trattare  qualcosa  a  suo 
benefizio,  ed  essendosi  mutato  il  giuoco,  e  passando  gl'interessi,  che  pas- 
savano, si  sarebbe  forse  fatto  maggior  conto  delle  intercessioni  e  de'  favori,  u 


—  116  — 
in  carme,  cou  le  quali  il  Dio  forma  la  sampogna  su. 
cui  accorda  i  canti  della  sua  lamentevole  storia,  » 
trae  il  poeta  occasione  di  dimostrare,  si  come  fece 
nel  sesto  secolo  Fulgenzio  vescovo  di  Cartagine, 
clie  nelle  poetiche  finzioni  della  mitologia  si  tro- 
vano ascosi  molti  sacramenti  della  religione  cri- 
stiana. «  E,  dice,  così  si  ritroverà  in  certo  modo 
(quantunque  imperfetto)  figurata  la  Trinità  in 
Gerione,  la  generazione  eterna  in  Minerva,  la^ 
creazione  dell'  uomo  in  Prometeo,  la  rovina  degli 
angeli  nei  Giganti,  Lucifero  in  Fetonte,  Gabriello- 
in  Mercurio,  Noè  in  Deucalione,  la  moglie  di 
Lotk  in  Niobe,  Giosuè  in  Leucothoe,  la  conser- 
vazione del  mondo  in  Atlante,  l'incarnazione  del 
Verbo  in  Danae,  l' amor  di  Cristo  in  Psiche,  la- 
battaglia  col  diavolo  in  Ercole,  la  predicazione 
in  Anfione,  la  risuscitazione  dei  morti  in  Escu- 
lapio,  l'istituzione  del  Sacramento  in  Cerere,  la 
discesa  del  Limbo  in  Orfeo,  la  salita  al  Cielo  iir 
Dedalo,  l'incendio  dello  Spirito  Santo  in  Semele, 
r  Assunzione  della  Vergine  in  Arianna,  il  Giu- 
dizio in  Paride,  »  ecc.  «  Calisi  la  cortina,  conclude- 
il  Marino,  e  rilucerà  la  scena  ;  levisi  la  maschera 
e  comparirà  la  faccia;  picchisi  la  selce  e  sfavil- 
lerà la  fiamma;  rompasi  il  guscio  e  gusterassi  il. 
frutto  ;  spezzisi  la  conchiglia  ed  usciranne  la  por- 
pora; ceda  la  scorza  alla  midolla,  il  corpo  allo 
spirito,  la  nube  al  sole;  traggasi  dall'ombra  la 
luce,  dalla  mentita  la  verità,  dalla  favola  l'alle- 
goria e  dicasi  che  in  questo  Pan  ci  vien  chiara- 
mente dinotato  il  grande  e  vero  Iddio.  »  Quindi  il 


—  117  — 
poeta  fa  l' elogio  della  musica,  come  ispiratrice 
di  grandi  e  nobili  sentimenti,  e  termina  il  di- 
scorso con  l'esaltazione  del  cardinale  di  Savoia. 
L' ultima  diceria,  il  Cielo^  è  una  dissertazione 
sopra  la  religione  dei  Santi  Maurizio  e  Lazzaro. 
Come  introduzione  il  Marino  passa  in  rassegna 
tutti  gli  ordini  cavallereschi,  che,  dice  il  Nostro, 
«  esciti  dal  seno  della  cavalleria,  in  un  colla  re- 
ligione, spiegarono  la  insegna,  i  fondamenti  e  i 
principij  di  questa.  »  Cosi  nacque  «  la  milizia 
•de'  Cavalieri  Gerosolimitani  per  opera  di  Ge- 
rardo, Rettore  dello  spedale  di  San  Giovanni, 
presso  il  sepolcro  del  Redentore  nell'anno  1080; 
incominciò  quella  de'  Teutonici,  da  un  tedesco 
introdotta  nella  città  di  Gerusalemme  nel  1100. 
Germogliò  quella  di  S.  Giacomo  in  Ispagna  con 
la  guida  di  Pietro  Bernardino  nel  1150.  Spun- 
tarono quella  della  Redenzione,  e  quella  di  Mon- 
tesia  insieme  sotto  gli  auspicij  di  Giacomo  re 
d'Aragona  nel  1211;  fu  fondata  quella  di  Cala- 
trava  in  Portogallo  da  Giovanni  XXII  nel  1520; 
fu  stabilita  quella  di  S.  Stefano  da  Cosimo  de' 
Medici,  duca  di  Firenze  nel  1561.  »  E  cosi  pure 
nasceva  la  Tavola  Rotonda  istituita  da  Artù  re 
di  Brettagna;  la  Banda  da  Alfonso  X  re  di  Spagna, 
la  Gartiera  da  Odoardo  re  d'Inghilterra,  il  To- 
sone da  Filippo  il  Buono  conte  di  Fiandra,  la 
Stella  da  Giovanni  re  di  Francia,  lo  Spirito  Santo 
da  Enrico  III,  il  Sangue  di  Cristo  da  Vincenzo 
Gonzaga  duca  di  Mantova  ecc.  .  .  .  Fa  quindi  la 
storia  e  tesse  l'eloo-io  dell'  ordine  dei    SS.    Man- 


—  118  ~ 
rizio  e  Lazzaro,  il  quale  órdine,  dice  il  Marino,  passa 
sotto  la  giurisdizione  di  casa  Savoia  nel  1572.  » 
E  il  discorso  termina  colla  lode  del  principe    di- 
Piemonte. 

Le  Dicerie  Sacre,  zeppe  di  citazioni,  sono  uno- 
sfoggio  d' erudizione  sacra  e  profana,  sotto  la 
quale  egli  nasconde  malamente  una  grande  adu- 
lazione per  la  casa  di  Savoia.  Il  lettore  si  perde^ 
in  mezzo  ad  un  discorso  dove  le  frasi  vuote  ed 
ampollose  eie  citazioni  di  libri  sacri,  d'astrologia 
e  di  magia  incalzano  sempre  più  e  inutilmente; 
dove  r  ascetismo  teologico  e  la  fede  per  la  reli- 
gione, clie  non  erano  qualità  principali  dell'  animo 
del  poeta,  servon  di  esempio  per  dimostrar  cose 
che  ad  esse  non  si  connettono  che  lontanamente. 
Non  di  meno  il  libro  fece  chiasso,  e  in  breve  se 
ne  fecero  molte  edizioni.  Li  questo  mentre,  e 
quando  appunto  il  poeta  si  godeva  un  poco  di 
tranquillità,  una  fiera  contesa  letteraria  s'accen- 
deva  tra  i  letterati  italiani  e  causa  n'era,  come 
sempre,  lo  sfortunato  poeta.  Certo  Raffaele  Rabbia 
avea  composto  un  poema  sopra  la  vita  di  Santa 
Maria  Egiziaca.  Il  Marino,  suo  amico,  scrisse  in 
lode  di  quésto  componimento  il  sonetto,  che  co- 
mincia 

Obelischi  pomposi  all'ossa  alzai'o, 

nella  cui  prima  terzina  volendo  indicare  il  leone- 
ucciso  da  Ercole,  lo  chiama 

La  fera  magnanima  di  Leriia. 


—  119  — 

Un  errore  cosi  manifesto  non  doveva  passare 
inosservato  i]i  un  tempo  di  fervori  di  furori 
mitologici.  Ferrante  Carli,  parmigiano,  nascon- 
dendosi sotto  uno  pseudonimo,  pubblicò  nel  1614 
in  Bologna,  dove  dimorava,  una  censura  di  quel 
verso.  Il  conte  Ludovico  Tesauro,  figlio  dell'au- 
tore della  Sereide,  prese  a  difendere  il  Marino, 
e  stampò  un  libercolo  a  Venezia,  per  sostenere 
che  il  Marino  in  quel  sonetto  non  aveva  errato.  (1) 

Il  Carli  rispose  al  Tesauro  in  modo  alquanto 
insolente;  (2)  il  secondo  voleva  andare  a  Bologna 
per  vendicarsi  ;  poi  si  contentò  di  dare  alle 
stampe  in  Torino  una  replica.  (3)  Allora  la  con- 
tesa prese  proporzioni  più  vaste:  Francesco  Dolci 
da  Spoleto,  (4)  Giovanni  CapjDoni,  sotto  il  nome  di 
Girolamo  Chivigieì'o,  (5)  il  bolognese  Gian  Luigi 
Valesio  sotto  quello  di  Instahile  Accademico  Incam- 
minato  (6)  e  Sebastiano   Forteguerri  da   Pistoia, 

(1)  Ragioni  del  conte  Liudovico  Tesauro,  in  difesa  d'un  sonetto  del  ca\u- 
lier  Marino,  Venezia,  presso  Giambattista  Ciotti,  1614,  in  12". 

(2)  Esamina  del  conte  Andrea  Dell'Arca,  intorno  alle  Ragioni  del  conte 
Ludovico  Tesauro,  in  difesa  d'un  sonetto  del  cav.  Marino,  In  Bologna,  per 
Vittorio  Beuacci,   1614,  in-12". 

(3)  Annotazioni  di  Ludovico  Tesauro,  intorno  all'Esamina  di  Ferranle 
Carli,  pubblicata  sotto  nome  del  conte  Andrea  Dell'  Arca,  in  Torino, 
1614,  iu-12. 

(4)  Giudizio  di  Francesco  Dolci  da  Spoleto,  intorno  alle  Ragioni  del 
conte  Ludovico  Tesauro,  in  difesa  d'un  sonetto  del  càvalier  Marino,  e  in- 
torno all'Esamina  del  conte  Andrea  Dell'Arca,  in  risposta  di  quelle.  In 
Bologna,  per  il  Benacci,  1611,  in  12. 

(5)  Lettera  del  Signor  Girolamo  Clavigero,  scritta  ad  un  suo  amico  a 
Bologna,  in  materia  dell'  Esamina  del  Conte  Andrea  Dell'  Arca,  in  Bologna, 
per  il  Benacci,  ltìl4,  in-12. 

(6)  Parore  dell'Instabile  Accademico  Incamminato,  intorno  ad  nna 
postilla  del  conte  Andrea  Dell'Area  contro  ad  una  particella,  che  tratta 
della  Pittura,  nelle  Ragioni  del  conte  Ludovico  Tesauro,  in  difesa  di  un 
sonetto  del  cavalier  Marino,  In  Bologna,  per  il  Benacci,  1614,  in-12. 


—  120  — 
trasformato  in  Sidpizio  Tenaglia^  (1)  s'avventarono 
contro  il  finto    conte    Dell'Arca,   il  quale   pensò 
bene  di  non  rispondere  a  nessuno. 

Il  curioso  poi  è  che  il  Marino  non  curò  di 
difendersi  da  se.  Troviamo  solamente  un  brano 
di  una  sua  lettera,  diretta  al  conte  Fortuniano 
Sanvitali,  clie  dice:  «  In  Bologna  un  certo 
Parmigiano  promosse  una  controversia  sopra  mi 
mio  sonetto,  e  in  questa  disputa  sono  uscite 
molte  scritture.  Ha  egli  questi  giorni  pubblicata 
un'esamina  contro  alcune  ragioni  scritte  dal  conte 
Ludovico  Tesauro  in  mia  difesa.  Ma  si  assicuri, 
che  non  andrà  a  Roma  per  penitenza,  perchè  in 
breve  manderò  a  Vossignoria  una  replica  di  pepe 
che  gli  renderà  pan  per  focaccia;  e  se  non  si 
va  questa  volta  a  cacciar  dentro  un  forno,  o  in 
un  cesso  bisogna  credere  che  non  abbia  conosci- 
mento d'onore,  ne  di  vituperio.  »  (2)  Eppure  il 
Marino  aveva  torto  ;  e  solamente  la  grande  am- 
mirazione de'  letterati  piemontesi  per  lui,  giustifica 
1'  accanita  polemica  che  fu  fatta  soj)ra  un  punto 
della  mitologia  niente  affatto  controverso,  perchè 
tutti  noi  sappiamo,  e  gli  stessi  sostenitori  non 
l'ignoravano,  che  il  leone  nemeo  non  è  l'idra  di 
Lerna. 


(1)  Lettera  del  conte  Sulpizìo  Tenaglia,  in  materia  dell'esamina  del 
conte  Andrea  Dell'Arca,  intorno  ecc.,  In  Bologna,  per  il  Benacci,  1614,  iu-12. 

(2)  Lettere  del  Cav.  Marino,  Pag.  45.  Altre  liti  ebbe  poi  il  Marino  con 
una  poetessa,  Margherita  Sarocchi,  autore  della  Scandet-henìe  e  grande 
«mica  del  Galilei,  e  con  Giambattista  Vitale,  detto  il  Poetino,  Per  queste 
rimandiamo  il  lettore  allo  studio  del  Vallauri  (lì  Car.  Marino  in  Pie- 
monti^ già  citato. 


I 


—  121  — 

In  questo  modo  la  corte  di  Torino  era  pel  Ma- 
rino divenuta  insopportabile.  Abbiamo  visto  ohe 
^ià  da  tempo  aveva  manifestato  il  desiderio  di 
cercare  in  altra  terra  pace  e  tranquillità,  che 
a  Torino  gli  mancavano.  Ma  sembra  che  l'af- 
fare di  Mantova  avesse  avuto  esito  infelice  per 
lui,  perchè  non  ne  parla  più,  nelle  lettere  se- 
guenti, al  Barbazza.  In  quel  mentre  fece  stam- 
23are  a  Verona  VEpistole  Eroiche,  episodi  stac- 
cati da'  romanzi  di  cavalleria,  specialmente  àal- 
V  Orlando  Furioso  e  dalla  Gerusalemme,  esempio 
eloquentissimo  di  quanto  i  seicentisti  facessero 
per  sminuzzare  l'arte.  Contemporaneamente  al- 
V Epistole  Eroiche,  pubblicava  la  terza  parte  delle 
sue  rime,  dedicandola  al  cardinal  Doria,  arci- 
vescovo di  Palermo.  Onorato  Claretti,  letterato 
piemontese  e  grande  amico  suo,  ne  curava  la 
stampa,  dicendo  nella  prefazione  che  il  Marino, 
«  non  poteva  intervenire  di  persona  a  Venezia, 
per  curar  l'edizione  delle  sue  rime,  occujDato  co- 
m'era alla  corte  di  Carlo  Emanuele;  »  ma  che 
ne  avea  dato  a  lui  l'incarico. 

In  queste  rime  si  conserva  la  stessa  disposizione 
della  prima  parte  della  Lira.  Sono  cioè  divise 
in  amorose,  lodative,  lugubri,  sacre  e  capricciose. 

Le  rime  amorose  sono  qui  in  maggior  numero, 
che  non  nella  prima  parte  della  Lira,  anche 
perchè  il  poeta  comprende  sotto  questo  nome 
i  madrigali  e  le  canzone  pastorali.  Il  proemio 
è  una  nuova  prova  dell'  indole  poetica  del  Ma- 
rino,   il   quale   è  nato  per   cantar  l'amore  essen- 


—  122  — 
zialmente:  è  un  pentimento,  un  ritorno  verso  quel 
sentimento  oli' egli   lia  lasciato  di   coltivare,    per 
dedicarsi  esclusivamente  alla  narrazione  d'imprese 
guerresclie  ed  eroiche.  (1) 

Tempro  la  cetra,  e  per  cantar  gli  onori 
Di  Marte,  alzo  talor  lo  stile,  e  i  carmi, 
Ma  invan  la  tento,  ed  impossibil  parmi, 
Ch'ella  giammai  risoni  altro  ch'Amori, 

Così  pur  tra  l'arene,  e  pur  tra'  fiori 
Note  amoi'ose  Amor  torna  a  dettarmi. 
Né  vuol  ch'io  prenda  ancora  a  cantar  d'armi, 
Se  non  di  quelle,  ond'egli  impiaga  i  cori. 

Or  l'umil  plettro  a  i  rozzi  accenti  indegni 
Musa,  c^ual  dianzi,  accorda,  altìn  ch'ai  vanto 
De  la  tromba  sublime  il  Ciel  si  degni. 

Riedi  a  i  teneri  scherzi;  e  dolce  intanto 
Lo  Dio  guerrier,  temprando  i  fieri  sdegni 
In  gi'embo  a  Citerea  dorma  al  tuo  canto. 

E  cosi  il  poeta  ha  nuovamente  cangiato  «  »la- 
tromba  in  plettro,  »  per  dirla  con  una  frase  seicen- 
tista,  e  cominciano  di  nuovo  le  imprese  amorose  ; 
però,  a  prima  vista,  non  si  scorge  più  in  queste 
ultime  rime  il  poeta  di  qualche  anno  indietro. 
Egli  ora  ha  tornito  la  frase,  facendola  più  chiara  e 
il  verso  corre  più  facile  e  spedito  ;  non  v'  è 
più  il  folle  trasporto  per    l'oggetto    amato.    Ora 

(1)  Il  panegirico,  gli  epitalammi,  il  tempio,  dal  poeta  già  composto  iu 
queir  epoca,  ed  altre  composizioni  d'occasione.  «  Non  voglio  però  lasciar 
di  dire,  aflferma  il  Clareiti  nella  prefazione,  ch'egli  ha  più  d'uu  altro 
poema  grande  per  le  mani,  in  cui  molto  più  si  compiace,  opera  sua  favo- 
rita e  diletta,  e  nuovo  genere  non  più  tentato  da'  volgari,  dove  impiega 
tutto  il  suo  studio,  e  da  cui  spera  tutta  la  gloria  sua.  » 


—  123  — 
il  Marino  è  nomo;  ha  sofferto  lungamente,  e  i 
dispiaceri  gli  hanno  lasciato  nel  cuore  una  dose 
di  sostenutezza  e  di  dolce  mestizia,  che  lo  rende 
più  gradito  al  lettore.  Egli  ha  poi  educato  sempre 
più  il  gusto  estetico,  che  gli  fa  sceverare  con  si- 
curezza il  bello  dal  brutto.  Sentitelo  come  ragio- 
na davanti  al  ritratto  della  sua  donna: 

E  labbra  ha  di  rubino, 

Ed  occhi  ha  di  zaffiro 

La  bella,  e  crudel  Donna,  ond' io  sospiro. 

Ha  d'alabastro  fino 

La  man  che  volge  del  tuo  carro  il  freno. 

Di  marmo  il  seno,  e  di  diamante  il  core. 

Qual  meraviglia  Amore, 

S' a' tuoi  strali,  a' miei  pianti  ella  è  si  dura? 

Tutta  di  pietre  la  formò  Natura.  (1) 

Ha  poi  acquistato  una  certa  audacia  che  gli 
permette  di  ragionare  anche  quando  è  in  preda 
alla  passione  amorosa: 

Io  dissi  al  cor.  Perchè  '1  tuo  chiuso  affetto 
Non  osi  (ahi  vile)  a  la  tua  Donna  aprire? 
Ei  si  dispose  a  l'opre,  e  prese  ardire 
Appressando  le  note  al  gran  concetto. 

sicché  non  ha  timore  di  dichiarare  alla  sua  donna 
che  calpesterà  l' idolo  amoroso,  avendo  imparato 
alla  scuola  dell'onore  di  non  esser  più  deriso  da 
una  donna  crudele  e  ingannatrice. 

(l)  Questo,  insieme  ad  altri  cinque  madrigali  del  Marino,  sono  stati 
posti  in  musica,  iu  quest'anno  (1888)  da  un  valente  maestro. 


—  124  - 
Più  non  avrai  mal'adorato  oggetto, 
D'ingrata  Deità  profana  stampa, 
Nel  tempio  mai  del  mio  pensier  ricetto- 
Ma,  com'  abbiam  detto,    difficilmente  la  donna 
si  mostra  crudele  con  lui;    anzi    al  vederlo  par- 
tire dà  in  ismanie,  ed    il  poeta  è  pronto  a  con- 
solarla con  amorevoli  parole. 

Lungo  da  le  due  luci  oneste,  e  sante. 
Là  dove  dolce  lia  la  mia  vita  albergo, 
Pur  com'uom,  che  si  lasci  il  Sole  a  tergo, 
Altro  non  mi  vegg'  io,   ch'ombre  davante. 

Solo  il  leggiadro  angelico  sembiante, 
A  cui  sempre  il  pensier  sollevo,  ed  ergo, 
Per  cui  spesso  di  pianto  i  lumi  aspergo, 
Sostien  d'anima  invece,  il  cor  tremante. 

Tolsemi  Amor  gli  amati  almi  splendori 
Ma  che?  S'ei  muta  Ciel,  non  cangia  fede, 
E  se  disgiunge  i  corpi,  unisce  i  cori. 

Per  questi  boschi,  ovunqu'io  volga  il  piede, 
Sappi  Donna,  ch'ognor  tra  l'erbe,  e  i  fiori 
A  dispetto  degli  occhi  il  cor  ti  vede. 

Ciò  non  ostante  il  poeta  non  può  vivere  lungi 
dalla  donna  amata;  è  un  inferno  ch'egli  lia  nel 
cuore,  percbè  il  ricordo  delle  gioie  passate  gli 
brucia  le  vene  : 

Gire,  e  restarsi,  e  nel  restar  partire. 
Partir  senz'alma,  e  gir  con  l'alma  altrui, 
Languir,  dolersi,  e  non  saper  di  cui, 
E  morir  di  dolor  senza  morire. 


—  125  — 
Struggersi  di  speranza,  e  di  desire, 
Pascer  sol  di  memoria  i  pensier  sui. 
Avere  un  core,  e  dipartirlo  in  dui, 
Cader  dal  Ciel  nel  fondo  del  martire. 

Prender  le  solitudini  a  diletto, 
Narrai'e  a  i  sordi  boschi  il  duolo  interno. 
Negare  il  vero,  e  credere  al  sospetto: 

Chiamar  de  l'ore  ogni  momento  eterno, 
Questo  è  quel  mal,  che  Lontananza  è  detto, 
Morte  de  l'alme,  e  de  la  vita  inferno.  (1) 

Le  rime  che  il  poeta  cliiama  lodative,  segnano 
tm  gran  passo  dato  da  lui  verso  l'amor  della 
patria.  Anch'egli  lia  imparato  ad  odiare  il  feroce 
spagnolo,  personificato  negli  avidissimi  viceré, 
mentre  che,  per  contrario,  non  finisce  mai  dal- 
l'encomiare  le  valorose  imprese  del  duca  di  Sa- 
voia. Il  Marino  agguaglia    il    duca  all'arcangelo 

(i)  È  questo  sonetto  una  imitazione  spiccatissima  di  un  altro,  scritto 
da  Lope  de  Vega.  Noi  avremo  campo  di  osservare  più  innanzi,  quanto  il 
Marino  e  il  Lope  de  Vega  fossero  in  relazione  tra  loro.  Riportiamo  del 
resto  il  sonetto  : 

Yr  y  quedarse,  y  con  quedar  partirse, 
Patir  sin  alma,  y  yr  con  alma  agena, 
Oyr  la  dulce  voz  de  una  Sirena, 
Y  no  poder  del  arbol  desasirse.  , 

Arder  comò  la  vela,  y  consumirse, 
Hazieudo  torres  sobre  tierna  arena, 
Caer  de  un  cielo,  y  ser  demonio  en  pena, 

Y  de  serio  jamas  arrepentirse. 
Hablar  entre  las  mudas  soledades, 

Fedir  prestada  sobre  fé  paciencia, 

Y  lo  que  es  temperai  Uamar  eterno. 
Creer  sospechas,  y  negar  verdades, 

Es  lo  que  llaman  en  el  mundo  ausencia, 
Fuego  en  el  alma,  y  en  la  vida  inSerno. 


—  126  — 

Michele,  ed  i  mostri,  clie  Carlo    Emanuele    deve 
scacciar  d'Italia,  sono  gli  spagnoli, 

Né  questa  è  la  sola  imitazione  che  il  Marino  fa  de'  poeti  spagnoli;  cos' 
il  sonetto  intitolato  «  ci  Mcnìoiuui  n,  dove  descrive  le  bellezze  della  sua 
donna  : 

Simulacro  divino,  unica  stampa 
Di  bellezza  immortai,  pompa  del  Cielo, 
Etna  d'Amor,  che  dal  tuo  vivo  gelo 
Scoti  faville,  ond'  ogni  core  avvampa. 

Chiara  face  d'onor,  lucida  lampa, 
Ch'  oscuri  il  Faro  a  Mentì,  il  Sole  a  Delo, 
Anima  pura  in  cristallino  velo. 
In  cui  d'alte  virtù  schiera  s'accampa. 

Opra  maggior  del  gran  peunel  di  Dio, 
Lavoro  di  Natura  il  più  perfetto, 
Maraviglia  del  Mondo,  Idolo  mio. 

Beltà,  neve  al  candor,  foco  all'effetto. 
Pace  degli  occhi,  e  guerra  del  desio. 
Dammi  a  cantar,  com'a  languir  sospetto. 
è  pure  imitato  dal  Lope 

Belleza  singular,    ingenio  raro, 
Fuera  del  naturai  curso  del  cielo, 
Ethna  de  amor,  que  de  tu  mismo  yelo 
Despides  llamas  entra  marmol  Paro. 

Sol  de  hermosura,  euteudimeuto  claro, 
Alma  dischosa  eu  cristalino  velo, 
Norte  del  mar,  admiracion  del  suelo, 
Emula  el  Sol,  comò  a  la  Luna  el  Faro. 

Milagro  del  autor  del  cielo,  y  tierra, 
Bien  de  naturaleza  el  mas  secreto, 
Luciada  hermosa,  en  quien  mi  luz  se  encierra. 

Nieve  en  blancura,  y  fuego  en  el  efeto, 
Paz  de  los  ojos,  y  del  alma  guerra, 
Dame  a  escrivir,  comò  a  penar  sujeto. 
Quello  intitolato  «  Donna  che  fila  »,  e  che  comincia 

Parca  d'Amor,  che  tra  le  man  gentili 
Hai  la  rocca,  ov'attorcì  i  miei  tormenti, 
è  anch'esso  imitazione  di  quello  di  Lope  de  Vega  che    comincia 

Hermosa  Parca,  blandamente  fiera, 
Dueiio  del  hilo  de  mi  corta  vida, 
En  cuya  bella  mano  vive  asida 
La  rueca  de  oro,  y  la  mortai  tixera. 
Di  queste  imitazioni  noi  ne  potremmo  citare  moltissime. 


—  127  — 

Sci-iverò  pur,  duo  gran  Campioni  in  guerra 
Da  l'Aquilon  precipitaro  i  mostri: 
Michele  in  cielo,  e  Manuello  in  terra. 

Lo  cliiama  iu  guerra  «  fuoco  e  fulmine  di 
Marte  »;  ed  in  pace  «  il  signor  de  le  contrade  al- 
pine, »  saprà 

con  lo  scettro  a'  popoli  guerrieri 

Dar  leggi  in  capo 

augurandogli  clie 

Da  le  ricche  del  Tago  arene  aurate, 
saprà 

D'  aurate  spoglie  a  dispogliai'e  i  regni 
di  Bisanzio,  e  d'Algier 

facendo  «  di  frutti  d'or  preda  onorate.  » 

Da  questo  momento  insomma,  il  Marino  lia  an- 
clie  lui  un  obiettivo  politico,  il  quale  lo  porta 
ad  amar  la  patria.  In  quel  piccolo  stato  italiano, 
che  l'ambizione  e  lo  spirito  guerresco  del  suo 
capo  tenevano  sempre  in  armi,  la  fibra  del  poeta, 
portato  per  sua  natura  ad  amar  cose  belle  e  gran- 
diose, si  sarà  sentita  scuotere  da  un  caldo  amor 
per  la  patria,  ch'egli  avrà  intraveduta  felice  e 
libera  dal  giogo  straniero,  come  libera  e  felice 
r  intravidero  il  Tassoni,  il  Boccalini  e  tanti  altri, 
per  opera  del  duca  sabaudo.  Egli  non  avrà  vo- 
luto restare  indietro  agli  altri  scrittori  e  poeti 
della  splendida  corte  di  Torino,  tutti  pieni  di 
lodi    pel    duca  ;    e    divenne    tanto    nemico    degli 


—  128  — 
spagnoli,  che,  dice  il  Loredano,  «  quando  il  duca- 
di  Savoia  faceva  la  guerra  con  la  Spagna,  es- 
sendo il  Marino  al  sole,  ed  egli  all'ombra,  fu 
richiesto  da  quell'Altezza  che  gli  paresse  di  lui; 
risjDOse,  che  gli  pareva,  ch'egli  fosse  cotanto  ini- 
mico degli  spagnoli,  che  non  voleva  ne  anche 
riscaldarsi  al  loro  fuoco.  »  (1) 

(1)  Loredano,   Vita  del  Cai:  Marino,  op.  clt.,  pag.  34. 


—  129  — 


Capitolo  Vili. 


Il  Marino  alla  Corte  di  Francia  —  È  accolto  festeggiatissimo  da  Maria 
de'  Medici  e  dal  Concini  —  Turbolenze  in  Francia  e  timori  del  Ma- 
rino —  La  Galleria  —  Lope  de  Vaga  e  il  Marino  —  Analisi  della 
Galleria  —  Fama  immensa  del  Marino  —  Suoi  imitatori  e  traduttori  in 
Francia  —  Il  Malherbe  gli  è  nemico  —  La  Sampogiia  —  Valore  della 
poesia   pastorale  del  Marino. 


Intanto  da  Parigi  la  ripudiata  sj^osa  di  Enrico 
IV,  Margherita  di  Valois,  aveva  invitato  più  volte 
il  Marino  alla  sua  corte.  A  questa  bellissima 
e  viziosa  donna,  il  Marino  dirigeva  un  sonetto, 
in  cui  la  paragonava  a  Cleopatra. 

La  bella,  che  lo  scettro  ebbe  in  destino 
De  Tantiche  Piramidi  famose, 
Coppia  di  Perle  elette,  e  preziose 
Mise  a  stemprar  dentro  odorato  vino. 

Per  onorar  de  l'Idol  suo  divino 
Le  magnifiche  mense,  e  generose, 
A  gustar  l'una  volentier  si  pose 
L' innamorato  Principe  Latino  : 

Ma  disfar  l'altra  ancor  veggendo  poi. 
Parto  maggior  de  l'Eritreo  fecondo. 
Mostruoso  splendor  de'  lidi  Eoi. 

Serbò  de'  duo  miracoli    il  secondo, 
Ch'egual  mai  non  trovò,  tanto  che  voi 
Margherita  real  nasceste  al  mondo. 

In  quei  giorni  poi  l'ambasciatore    inglese,   do- 


—  130  — 
vendo  ritornare  in  patria,  lo    esortava  a  non  la- 
sciarsi sfuggire    cosi   bella    occasione,    offrendosi 
d'accompagnarlo  sino  a  Parigi. 

Il  Marino  allora,    lusingato    dall'offerta    a    lui 
fatta,  e  dalle   esortazioni  degli  amici,    sui   primi 
giorni  dell'anno  1615  s'incamminò    alla  volta  di 
Francia.  La  descrizione  ch'egli  fa  per  lettera,  al- 
l'amico Arrigo  Falconio,  del  viaggio  sino  a  Lione, 
è  amenissima.  Ci)    Giunto    a    Lione    incontrò  la 
corte  della  Regina  Maria   de'    Medici,    la    quale 
dopo  l'assassinio  di  Enrico  IV.  tentava,  colla  sua 
presenza,    far    finire  la  guerra  civile  ancor    viva 
in    Francia.    Colà    il  Marino  stampò    il   Temino, 
panegirico    eh'  egli    intitolò  a  Maria  de'  Medici  e 
dedicò    ad    Eleonora    Galigai,  moglie  di  Concino 
Concini  il  maresciallo  d'Ancre,  ambedue  consiglieri 
della  regina.  (2)  In  quello  stesso  anno,  Lucilio  Va- 
nini,  peregrinando  per  la  Francia,  giungeva  a  Lione 
e  vi  stampava  il  suo  libro:  Amphìtheatrum  aeteniae 
providentiae  divinae  divino-  magicum,  christiano-phy- 
sicum  ecc.,  che  doveva  costargli  tante  sventure. 
Tutto  il  panegirico  comprende  duecentonovanta- 
sette  stanze  ed  è  in  sesta  rima,  come  il  panegirico 
per  il  duca  di  Savoia.  In  esso  il  poeta  invita  le  muse 
ad  aiutarlo  con  l'ingegno  a  fabbricare  un  tempio 
alla  cristianissima  regina  di  Francia.  EgK  ne  di- 
segna rarchitettura,  che  «  vinca    in    misura    ed 
in  giudizio  l'Architettura  Greca  e  Romana.  » 

(1)  Lettere  del  Cai:  Marino,  pag.  381. 

(2)  //  Tempii),  Panegirico  del  Cavalier  Marino  alla  Maestà  Crisfia- 
uìBsirua  di  Maria  de'  Medici  Uegiua  di  Francia  e  di  Navarra,  in  Lione , 
per  Nicolò  JuUeron,  Stampator  del  Re,  M.DC.V  (?) 


—  131  — 

De  la  struttui'a  mia  celeste,  e  sant  a 
Adamautino  il  fondamento  io  voglio, 
Che  '1  peso  appoggi  de  l'immobil  pianta 
Sovra  ben  saldo,  e  non  caduco    scoglio, 
Si  che  le   linee  sue  vadan  per  entro 
L'ultimo  punto  a  terminar  nel  centro. 

Vuole  che  le  mura  siano  di  un  calcinato  di 
-diamante  e  d'oro;  il  legno  non  deve  esser  che 
cedro  e  lauro  ;  per  dipingere  le  pareti  del  tempio 
devono  concorrere  i  più  grandi  pittori  viventi: 

Voi  Giuseppe,  Baglion,  Caracci,  e  Palma, 
Fulminetto,  Bronzin,  Valesio,  e  Paggi, 
C4uido,  Castello,  e  tu  che  senso,  ed  alma 
Infondi  ne"  color,  saggio  tra'  saggi 
Morazzone  immortale,  Apelle  Insubro, 
Comporrete  il  bel  fregio  al  gran  Delubro. 

Sulle  pareti  di  questo  tempio,  ridicolo  per  lo 
sfarzo  di  tesori  e  di  colori  ammucchiati  senza 
^usto  ne  arte,  devono  essere  scolpite  le  imprese 
guerresche  di  Enrico  IV,  ed  il  poeta  rammenta  la 
statua  fusa  in  bronzo  da  Gian  Bologna.  Enrico  IV 
non  ha  nemici  che  possano  stargli  di  fronte,  e 
quando  le  grand  voi  deve  combattere  l'anime  so 
duca    di  Savoia,  il  poeta  esclama  : 

0  chiaro  incontro  in  paragon  di  guerra. 
Quando  Carlo,  ed  Enrico  in  campo  entrare 
Pur  duo  fulmini  in  Ciel,  due  spade  in  terra, 
Onde  balen  di  luce  uscì  sì  chiaro. 
Che  '1  mondo  al  par  del  Sol  trascoi'se  intorno 
Dal  fin  de  l'ombre  a  i  termini  del  giorno. 


—  132  — 

Il  panegirico  seguita  colle  lodi  della  famiglia- 
de' Medici;  fa  l'apoteosi  del  re  morto  e  del  del- 
fino, divenuto  poi  re  Luigi  XIII,  e  termina  con 
le  lodi  delle  bellezze  corporali  di  Maria  de'Medici. 

Pubblicato  il  panegirico,  il  Marino  s'  uni  alla 
corte  di  Maria  de'  Medici,  che  ritornava  in  Pa- 
rigi; d'onde  cominciò  per  lui  una  vita  di  agi 
e  di  felicità.  Da  questo  punto  e  per  lo  spazio 
di  dieci  anni,  riceve  lodi  ed  onori  da  sbalor- 
dire. È  proclamato  il  primo  poeta  passato,  vi- 
vente, e  forse  futuro;  corteggiato  dai  principi 
del  sangue  e  dalle  eleganti  dame  francesi,  egli 
però  non  dimentica  gli  ammiratori  che  ha  in 
Italia,  e  scrive  loro  continuamente  degli  onori 
che  riceve  in  Francia,  e  delle  composizioni  che 
verranno  man  mano  alla  luce. 

Lo  spirito  allegro  e  spensierato,  ch'era  la  nota 
rilevante  dell'  ingegno  suo,  gli  fece  acquistare 
subito  rinomanza  in  Francia.  Giimse  in  Parigi 
senza  conoscere  una  sola  parola  di  francese  : 
e  di  ciò  faceva  le  più  matte  risate  con  gli 
amici  d'  Italia.  (1)  «  Vi  dò  avviso,  scriveva  a 
Lorenzo  Scoto,  che  sono  in  Parigi,  dove  lasciando 
a  voi  altri  Piemontesi  il  Vaire,  il  Kecio  ed  il 
Mideccò,  mi  son  dato  tutto  al  linguaggio  Fran- 
cioso, del  quale  però  altro  fin  qui  non  ho  impa- 
rato che  Qui/  e  Nani;  ma  ne  anco  questo  mi 
par  poco  ;  poiché  quanto  si  può  dire  al  mondo 
consiste    tutto    in    aifirmativa    e    negativa.    »   E 

(1)  Leu.  th!  Marino,  pag.  173 


—  133  — 

questa  sua  ignoranza  del  linguaggio  francese  gli 
giovò  appena  giunto  a  Parigi.  Ricevuto  in  udienza 
pubblica  da  Concino  Concini,  il  famosissimo  ma- 
resciallo d'  Ancre,  il  quale  era  sul  tramonto 
■dalla  sua  fortuna,  questi  ordinò  che  tosse  a  lui  cor- 
risposta una  somma  di  cinquecento  scudi.  Il  Ma- 
rino ringraziando  il  Concini,  se  ne  fece  dare  mille 
dal  tesoriere  del  re.  ■ — •  «  Diavolo,  esclamò  in  ita- 
liano il  maresciallo,  la  prima  volta  che  vide  il  Ma- 
rino, si  vede  bene  che  siete  napolitano,  caro  cava- 
liere. Vi  regalo  cinquecento  scudi,  e  voi  ve  ne  fate 
dare  mille  !  —  Eccellenza,  replicò  il  poeta.  Vostra 
Altezza  può  stimarsi  felice  eh'  io  non  me  ne  sia 
fatti  dare  tremila;  non  capisco  mica  il  francese, 
io!  —  Il  furbo  Concini  rise  di  gran  cuore  a 
questa  risposta.  (1^ 

La  regina  Maria  de' Medici,  che  allora  reggeva 
il  trono  di  Francia  in  luogo  del  figlio  Luigi  XIII 
minorenne,  concesse  al  Marino  una  pensione  an- 
nua di  millecinquecento  scudi  d'oro.  «  Son  vivo 
(la  Dio  mercè)  scrive  al  Sanvitali,  sano  e  (quod 
peius)  ricco  come  un  asino.  Le  mie  fortune  qui 
vanno  assai  bene.  Son  ben  veduto  da  questa 
Maestà,  ed  accarezzato  da  tutti  questi  principi.  » 

Intanto  a  Parigi  accadevano  tali  disordini  che 
il  Marino,  il  quale  godeva  la  protezione  del  ma- 
l'esciallo  d' Ancre  e  della  regina  Maria  de'  Medici, 
(2)  fu  sul  punto  di  ritornarsene  in  Italia.  Il  24 

(1)  Ferrari,    Vila  (Jel  Car.  Marinn,  op.  cit.,  pag.  25. 

(2)  «In  segno  della  stima  ch'ella  faceva  del  Marino,  incontrandolo  per 
la  città,  non  isdi'gnò  ben  tre  fiate  di  comandare  che  la  sua    carrozza    si 


—  134  — 
aprile  1617  Concino  Concini  veniva  barbara- 
mente  ucciso,  per  ordine  di  Luigi  XIII,  dal 
Vitry,  e  poco  dopo  Maria  de'  Medici  doveva- 
cercare  la  via  dell'esilio.  (1)  Luigi  XIII,  che 
in  quel  modo,  uscendo  di  reggenza,  assumeva 
il  titolo  di  re  di  Francia,  protesse  invece  il  Ma- 
rino. Intanto  la  regina  madre,  dopo  essersi  riti- 
rata a  Blois,  rientrava  a  Parigi  alla  morte  del  duca 
di  Luynes,  favorito  del  re.  (1621)  Ed  il  Marino^ 
clie  doveva  pubblicare  VAdone^  era  afflittissimo 
per  questi  torbidi.  «  Il  mio  disgraziato  Adone 
credo  che  sia  nato  sotto  costellazione  pessima, 
poiché  ogni  di  non  mancano  impedimenti  e  di- 
sturbi, che  s'attraversano  alla  sua  pubblicazione. 
Eccoci  ora  un'altra  volta  su  l'armi,  e  già  tutta 
la  Francia  è  in  guerra;  onde  mi  bisogna  per 
buon  rispetto  soprassedere  alquanto,  ed  attendere 
la  riuscita  di  questi  rancori,  perciocché  se  le  cose 
andassero  contrarie  per  alcuni  personaggi  che  al 
presente  sono  in  favore  e  in  grandezza,  sarei  co- 
stretto a  mutar  nel  libro  molte  circostanze  par- 
ticolari. »  Ed  al  Ciotti  scriveva:  «Il mio  Adone 
già  sarebbe  a  quest'ora  stampato,  ma  per  alcuni 
nuovi  accidenti,  sono  stato  costretto  a  mutare 
tutto  un  canto  intiero,  che  mi  ha  dato  un  gran 
travaglio.  » 

Intanto  Luigi  XIII  accresceva  sino  a  duemila 


fermasse,  vaga  di  ragionare  con  esso  lui,  e  dì  onorare  in  lui    nel   mede- 
simo tempo,  con  quello  eccesso  di  cortese  benignità,  la  incomparabile  virtù,  » 
dice  il  Ferrari  (Vita  del  Cai:  Marino,  op.  cit.). 
(1)  Vedere  V  Appendice  (I). 


—  135  — 

scudi  la  pensione  del  Marino,  il  quale  rispondeva 
al  Sanvitali,  ribattendo  alcune  accuse  che  in  Italia 
gli  venivano  mosse:  «  Duemila  scudi  di  pensione, 
oltre  i  donativi,  ed  esser  libero  da  qualsivoglia 
obbligo  di  corteggio,  son  condizioni  molto  ono- 
revoli, e  vi  Ila  in  Homa  cardinali  clie  non  hanno 
tanto.  »  Al  Sanvitali  medesimo  poi,  il  quale  lo 
stimolava  a  cercare  in  Italia  un  altro  padrone, 
diceva:  «  Quanto  alla  mutazione  della  servitù, 
che  mi  accennate,  per  Dio  che  starei  ben  fresco 
a  voler  scendere  dal  cavallo.  Non  dico  eh  3  il 
Personaggio,  di  cui  si  parla,  (1)  non  sia  g]'ande 
e  degno  di  Soggetto  più  eminente  di  me.  Ma 
non  mi  par  che  convenga,  dopo  l'aver  servito  il 
maggior  Re  del  mondo  con  condizioni  tanto  ono- 
revoli, d'impiegar  la  mia  persona  altrove.  » 

Il  Marino,  a  Parigi,  ricco,  corteggiato,  invi- 
diato, non  dimenticava  però,  come  abbiamo  detto, 
i  suoi  amici  d'Italia.  E  scriveva  loro  continue 
lettere,  pregandoli  a  non  dimenticarsi  di  lui  ed 
inviando  loro  libri  e  regali.  Era  poi  venuto  in 
testa  al  nostro  poeta  un'  idea  curiosissima  :  rac- 
cogliere una  galleria  di  quadri  de'  più  celebri 
pittori  antichi  e  moderni,  ed  immortalare  questa 
galleria  per  mezzo  di  un  libro  di  rime,  che  de- 
scrivessero le  opere  d'  arte  comperate  o  ricevute 
in  dono.  Per  questo  suo  lavoro  scrisse  ai  pittori 
più  in  voga  del  tempo,  quali  Pietro  Malombra, 
Pier  Francesco  Morazzoni,  Giovanni  Valesio,  Ber- 

(1)  Sarebbe  stato   Ranuccio  Farnese,  duca  di  Parma,  secondo  quanto 
afferma  lo  Stigliani  in  alcune  note  marginali  alle  lettere  del  Marino. 


—  136  — 
nardo  Castello,  Griacomo  Palma,  Francesco  Maria 
Vanni,  Ventura  Salimbeni,  Lodovico  ed  Agostino 
Caraccl,  Bartolomeo  Schidoni,  Lucilio  Gentiloni, 
Giuseppe  d'Arpino,  Cristoforo  Pomarancio  e  per- 
sino a  Pietro  Paolo  Rubens,  il  quale  in  quel  tempo 
era  stato  cliiamato  da  Maria  de'  Medici  a  dipin- 
gere le  volte  del  Louvre.  Con  altre  lettere  pre- 
gava gli  amici  suoi  letterati  di  mandargli  il  pro- 
prio ritratto,  il  quale  sarebbe  poi  comparso  nella 
Galleria.  Fra  gli  altri  scrisse  anche  a  Lope  de 
Vega,  il  quale  tosto  l'esaudì,  dedicandogli  anche 
una  commedia,  «  Vh'tud,  Probeza  y  Mtijer,  »  che 
accompagnò  con  questa  lettera:  (1) 

«  Autes  que  el  senor  Juan  Jacobo  Pancirolo, 
Auditor  de  Monsenor  Ilustrisimo  Julio  Saccetto, 
Nuncio  de  Su  Santidad  en  estos  Eeinos  de  E- 
spana,  me  dijese  la  merced  y  favor  que  vuesa 
Seiioria  me  bacia,  el  Secretarlo  del  Duque  de 
Monte-Leon  en  la  jornada  de  Francia  me  habia 
dado  estas  nuevas,  y  de  haber  conferido  con  vuesa 
Senoria  en  Paris  algunas  cosas  acerca  de  mi  per- 
sona y  estudios,  de  que  me  confieso  tan  obligado, 
que,  a  no  constar  mi  sentimiento  por  escrito  en 
algunos  mios,  hiciera  particulares  demostraciones 
de  la  esclavitud  y  rendimiento  en  que  me  ha 
puesto;  porque  laudari  a  viri  laudato,  y  ser  esti- 
mado  de  quien  todos  estiman,  es  la  mayor  feli- 
citad  que  puede  adquirir  la  peregrinacion  de  los 

(1)  Pubblichiamo  iuteramente  la  lettera  di  Lope  de  Vega  al  Marino, 
perchè  l'importanza  di  essa  è  troppo  manifesta  per  molti  punti  di  vista 
La  commedia  fu  pubblicata  nel  1618,  insieme  ad  alcune  altre,  ed  il  libro 
fu  cbiaraato  dcUl'autore  :  «   /,7  Pelrgrino  en  su  patria.  » 


—  137  — 
estudios  en  la  opinion  extrana  de  la  patria.  Y 
siendo  vnesa  Seiioria  en  su  profesion  tan  ùnico, 
que  los  bien  nacidos  ingenios  le  conceden  el  pri- 
mero  liigar  en  toda  Italia,  y  nuestros  espanoles 
leen  con  venerable  admiracion  la  mmensa  copia 
de  sus  escritos  en  tanfas  rimas  sacras  y  huma- 
nas,  ^  quien  diida  que  pnede  calificar  su  alabanza, 
graduar  su  estimacion  y  defender  su  juicio? 

«  Debe  a  mi  amor  y  inclinacion  vuesa  Seiioria 
justamente  tanto  favor,  que  liaya  tenido  desco 
de  mi  retrato;  que  puesto  que  la  piuma  lo  es 
del  alma,  despues  de  liaberla  leido  en  el  inten- 
dimiento,  tengo  por  honra  grande  bacer  estima- 
cion de  Iqs  exteriores  instrumentos  ;  y  obediente 
•al  senor  Auditor,  dejé  copiar  a  los  pinceles  de 
Francisco  Yaneti,  florentin,  en  estos  anos  las 
ruinas  de  los  dias  al  declinar  la  tarde,  cuyas  pri- 
meras  flores  aut  morbo  aut  aetate  defior escunt. 
Si  ha  llegado  el  lienzo,  podrà  vuesa  Seiioria  con 
jucio  fisionòmico  reconocer  fàcilmente  si  corre- 
sponde  a  su  voluntad  quien  esas  seiias  tiene. 
Pregunté  al  seilor  Juan  Jacobo  si  me  parecia,  y 
respondióme  con  aquella  naturai  gracia  y  afabi- 
lidad  de  que  el  cielo  dotò  su  claro  entendimiento  : 
En  Roma  os  parecerd  muclio.  Y  pues  en  ella  se 
bacia  tanta  bonra  a  los  libertos,  comò  consta  de 
Ciceron,  que  puso  a  Tiron  su  esciavo  el  de  Marco 
Tulio,  baga  vuesa  Seiioria  que  le  lionren  de  su 
nombre  para  confirmacion  de  la  esclavitud  que 
reconozco,  y  en  satisfacion  de  baber  puesto  el 
de    vuesa  Seiioria   en  mi  jardin  imaginario,  im- 


—  138  — 
preso  eu  la  Filomena,  que  no  por  eso  es  de  mé- 
nos  estimacion,  conio  las  fìguras  astronómicas  en 
al  cielo.  Los  versos  dicen  asi: 

Juan  Bautista  Marino,  que  enamora 
Las  piedras  Anfion,  es  sol  del  Tasso, 
Si  bien  el  Tasso  le  sirvió  de  aurora. 

ISTo  Ile  querido  escribir  à  vuesa  Senoria  sin 
ofrecerle  alguna  parte  de  las  que  este  libro  con- 
tiene, y  asi  le  snplico  por  todo  el  amor  que  me 
ha  mostrado  y  la  veneracion  y  respeto  que  me 
debe,  se  digne  de  acetar  en  su  gracia  està  co- 
media  (humilde  ofrenda  en  el  tempio  de  su  cele- 
brado  ingenio  y  insigne  nombre),  para  que,  Ue- 
vàndole  en  la  frente,  le  alaben  de  bien  empleada 
los  que  la  culparen  de  atrevida. 

En  Espaila  no  se  guarda  el  arte,  ya  no  por 
ignorancia,  pues  su  primeros  inventores  Rueda 
y  Naliarro  le  guardaban,  que  apénas  ha  ochenta 
aùos  que  pasaron,  sino  por  seguir  el  estilo  mal 
introducido  de  los  que  les  sucedieron.  Los  versos 
cortos  son  castellanos  antiguos,  no  usados  en 
Italia,  aunque  he  visto  algunos  en  el  Serafino; 
no  despreciados  de  la  lengua  latina,  comò  se  ve 
en  sus  himiios.  basta  o-uardar  el  rigor  de  los  con- 
soiiantes:  dulce  y  dificultosa  composicion,  que  la 
falta  del  naturai,  que  ha  de  ser  el  primero  fun- 
damento  deste  edificio,  destierra  con  arrogancia, 
introduciendo  eù  Espaiia  la  bàrbara  aspereza  que 
llaman  eulta,  por  quien  la  defensa  de  la  lengua 
(cuya   gramàtica  no   sufre    estas    novedades)  me 


.  —  139  — 
debe  tantas  injuras.  Quid  enim  (escribió  Cortessio 
a  Policiano)  voluptatis  afferre  possnnt  ambiguae 
vocabulorum  significationes ,  verba  transvers  a^ 
abruptae  sententiae,  structura  salebrosa,  audax 
translatio  nec  felix,  ac  intercisi  de  industria  nu- 
meri?; Qué  excelentes  palabras!  Vale,  Antistes 
Musarum  et  Italiae  decus.  » 

E.  libro  usci  a  Venezia  per  i  tipi  del  Ciotti; 
ma  la  Galleria  fu  stampata  malissimo,  e  lo  stesso 
Marino  se  ne  dolse  vivamente  coll'editore:  «  Ho 
veduta  una  parte  della  Galleria  stampata,  nelle 
,mani  di  questo  Eccellentissimo  Signor  Ambascia- 
tore Veneto,  a  cui  è  stata  mandata  di  costà;  e 
vi  giuro  che  leggendola  m'  e  venuta  compassione 
di  me  stesso,  perchè  mai  ne  dalle  vostre,  né  da 
altre  stampe  è  uscito  libro  più  scorretto,  e  più 
sconcanato  di  questo.  Veramente  io  non  credeva 
che  l'opere  mie  dovessero  essere  strapazzate  a 
questo  modo,  e  non  avendo  io  interesse  alcuna 
con  voi,  non  dovevate  voi  averne  tanto  con  esso 
meco,  che  non  si  avesse  riguardo  alla  mia  ripu- 
tazione, più  che  alla  mercanzia,  almeno  nella 
prima  impressione.  Ma  se  voi  non  vi  curate  del- 
l'onor  mio,  ne  io  mi  curerò  del  guadagno  vo- 
stro. (1)  Io  non  mi  lamento  tanto  di  voi,  quanto 

(1)  Ed  infatti  se  ne  vendicò.  Fece  stampare  nel  1620  la  Sampogna  a 
Parigi,  e  vi  premesse  una  lettera  al  Ciotti  stesso,  la  quale  comincia:  «  Io 
avea  pensato  di  mandar  costà  a  Vinegia  molte  dell'altre  opere  mie,  men- 
tre qui  in  Francia  si  stampano  V Adone  e  la  Strage  (ìe'fanciuUi  innocenti. 
Ma  quando  io  era  in  procinto  d'inviarne  alcuna,  mi  è  sopraggiunta  la 
Giiììeria  da  voi  stampata  si  sconciamente,  che  in  leggendola  mi  è  venuta 
pietà  di  me  stesso.  »  Questa  lettera,  corretta  e  mutata  in  alcune  parti, 
noa  è  che  quella  da  noi  citata  poco  fa. 


—  140  — 
di  codesti  correttori  ignoranti  (se  pur  da  alcuno 
sono  stati  riveduti  i  fogli)  che  avendo  il  mio  ori- 
ginale innanzi  chiaro  e  intelligibile,  non  l'hanno 

saputo    ne    leggere  ne  intendere Oggidì  la 

stampa  s'  è  ridotta  a  semplice  mercatura,  e  ne' li- 
brai è  tanta  l'avidità  del  guadagno,  che  pospon- 
gono all'interesse  la  propria  riputazione  e  quella 
dell'autore.  »  Ed  in  un'altra  lettera,  pure  al  Ciotti: 
«  Ho  ricevute  le  quattro  copie  della  Galleria^ 
che  mi  avete  mandate,  e  ve  ne  ringrazio.  Ma  siate 
sicuro,  che  quante  me  ne  capiteranno  in  mano, 
tante  ne  straccierò  in  pezzi,  o  ne  butterò  al  fuoco; 
€  me  ne  farò  prestare  a  posta  dagli  amici  per  ab- 
bruciarle. Io  non  avrei  mai  creduto  che  le  cose 
mie  dovessero  essere  assassinate  con  tanto  vitu- 
perio mio  e  vostro.  » 

Dopo  poi  una  seconda  e  più  accurata  edizione 
della  Galleria^  (1)  il  Marino  si  rabboniva,  e  faceva 
stampare  a  Venezia,  dal  Ciotti  stesso,  la  seconda 
edizione  della  Sampogna,  la  quale,  come  stampa, 
è  una  delle  più  accurate  delle  opere  del  Marino. 

La  Galleria  è  distinta  in  favole,  storie,  ritratti, 

(1)  In  questa  seconda  edizione,  fatta  nel  1620,  v'è  una  dichiarazione 
del  Ciotti,  i-I  q^ale  dice:  «  Non  nego  che  il  sig.  Civaliere  non  abbia  avuto 
<i;ialcho  ragione  di  dolersi,  come  ha  fatto  con  una  lettera,  che  si  vele 
impressa  nella  sua  Smìipugiin;  ma  non  per  certo  di  ascriverne  la  colpa 
alla  poco  premura,  che  io  abbia  in  far  correggere  le  mie  stampe,  «è  al 
risparmio,  che  io  procuri  della  spesa,  che  vi  bisogna;  cs-iendo  ciò  più 
tosto  derivato  dalla  scarsezza  de'biioni  correttori,  dall'esser  stato  anch'io 
defraudato  della  solita  accuratezza  di  chi  sovrasta  all'opera,  et  anco  dal 
non  esser  forse  in  molti  luoghi  ben  aggiustato  a  penna,  et  intelligibile 
esso  originale.  Concedo  però  all'autorità  del  sig.  Marini,  quella  risentita 
maniera,  con  la  quale  mostra  desiderare  l'esquisitezza  nell'  impressione 
delle  sue  opere,  come  quelle,  che  dal  suo  ingegno  hanno  ogni  desiderata 
perfezione » 


—  141  — 
sculture  e  capricci.  (1)  Le  favole  e  le  storie  sono 
piccoli  madrigali,  o  madriali,  come  si  chiama- 
vano allora,  e  descrivono  un  quadro  regalato  al 
Marino  o  da  lui  veduto  in  qualche  gallei'ia  di 
quadri  principesca.  V  è  Meleagro  con  Atalanta  e 
Leandro  morto  tra  le  braccia  delle  Nereidi^  di 
Pietro  Paolo  Rubens.  Il  madrigale  che  descrive 
il  secondo  quadro  dell'  immortale  pittore,  è  bel- 
lissimo: 

Dove,  dove  portate 
Ninfe  del  mar  nella  pietà  spieta'e, 
Il  feretro  funesto 
Del  misero  d'Abido, 
Cbe  l'amoroso  foco,  e '1  vital  lum.e 
Tra  le  torbide  spume  insieme  ha   sp-^nto 
Del  vostro  crudo,  e  barbaro  elemento  '? 
Deh  no,  perchè  di  Sesto 

(1)  La  Galleria  del  Cavaìier  Marino,  Di-itinta  in  Pitture  et  sculture,  in 
Venezia,  dal  Ciotti,  1818.  È  dedicata  a  Carlo  Doria,  il  quale  «  non  solo  con 
munifiche  spese  uè  ha  ^an  (itiantità  accumulata  (d'opere  d'arte)  de'più  ec- 
cellenti maestri  del  mondo,  ma  per  nutrire  questa  bell'arte,  con  la  raccolt.i. 
di  diversi  giovani  studiosi  ne  ha  stabilita  un  Accademia  nella  propria  casa.  « 
Nella  prefazione  poi,  il  Marino  assicura  ch'egli  nou  ha  voluto  «  comporre  ne 
Museo  universale  sopra  tutte  le  materie,  che  possono  essere  rappresentate 
dalla  Pittura  e  dalla  Scultura,  ma  di  scherzare  intorno  ad  alcune  poche, 
secondo  i  motivi  poetici,  che  alla  giornata  gli  son  venuti  in  fantasia;  nò 
di  fare  elogi  distinti  a  tutti  coloro,  che  sono  de^ni  di  lode,  ma  di  cele- 
brare gli  uomiui  più  illustri  dell'età  antica,  o  de'  moderni  solamente  i 
morti,  o  de'vivi  appena  alcuni  Principi  da  lui  domesticamente  conosciuti 
e  alquanto  suoi  cari  e  particolari  amici,  i  quali  per  avere  esposte  le 
1  )ro  fatiche  alla  pubblica  luce,  sono  noti  per  fama,  e  le  cui  immagini  gli 
sono  state  in  effetto  da  essi  medesimi  donate;  et  sebbene  di  queste  pare 
che  molti  ve  ne  manchino,  vuoisi  nondimeno  considerare,  che  parte  di 
essi  ne  sono  stati  da  lui  lodati  in  altre  opere  già  stampate,  et  parte  an- 
cora ne  saranno  aggiunti  in  questa  di  mano  lu  mano  nelle  seguenti  im- 
pressioni, quando  uscirà  poi  istoriata,  et  ornata  di  ficjure,  poiché  non  si 
ò  potuto  al  tutto  supplire  appieno  in  una  volta.  »  Questa  nuova  edizione 
della  Galleria,  istoriata  ed  ornata  di  figure,  non  venne  mai  alla  luce. 


—  142  — 
Esporlo  essangue  al  Lido, 
E  l'ai"  che  sia  da  la  sua  Donna  scorto, 
Eia  maggior  crudeltà,  c'haverlo  morto. 

Di  Guido  Reni  il  poeta  rammenta  Calisto^  Apollo 
con  Dafne^  David  con  la  testa  di  Golia,  la  Strage 
degl'  Innocenti]  del  Caracci  la  meravigliosa  Ga- 
latea  nell'atto  di  esser  sorpresa  da  Polifemo. 

Esalava  in  sospir  l'aspro  tormento 
Mongibello  animato.  Isola  viva, 
Polifemo  il  feroce  ;  e  'n  su  la  riva 
A  la  grand'ombra  sua  pascea  l'armento  ; 

Quando  tenendo  il  fiero  lume  intento 
A  la  ninfa  crudele,  e  fuggitiva. 
Quella,  che  '1  gran  Caracci  coloriva. 
Vide  apparir  sovra  '1  tranquillo  ai'gento. 

Onde  di  doppio  foco  acceso  il  petto 
Disse  alternando  a  le  sembianze  sue, 
Quinci,  e  quindi  confuso  il  dubbio  affetto. 

Deh  cessa  Amor  le  maraviglie  tue, 
Poiché  s'occhi  non  ho  per  un  oggetto, 
Cora'esser  può,  ch'io  ne  sostenga  due? 

Notevole  è  pure  il  madrigale  in  lode  del  quadro 
d'Ambrogio  Figinio,  clie  rappresenta  Ercole  con 
Anteo. 

Anteo  svelto  da  terra 

Tra  le  braccia  sospende 

L* invitto  Alcide,  e  con  tal  forza  il  prende, 

Che  de  l'aura  vital  la  via  gli  serra  : 

Fìyin,  con  simil  guerra 

De  l'indomito  senso,  e  ribellante 


—  143  — 

La  superbia  arrogante, 

Ch'ognor  cade,  e  risorge,  e  l'armi   tratta, 

La  Spirto  in  noi  vittorioso  abbatta. 

E  di  Guido  Reni,  che  dipinge  «  La  Strage 
de'  fanciulli  innocenti  »,  il  Marino  dice: 

Che  fai  Guido?  che  fai? 
La  man,  cbe  forme  angeliche  dipigne, 
Tratta  or'  opre  sanguigne? 
Non  vedi  tu,  che  mentre  il  sanguinoso 
Stuol  de' fanciulli  ravvivando  vai. 
Nova  morte  gli  dai? 
E  ne  la  crudeltate  ancor  pietoso 
Fabbro  gentil,  ben  sai, 
Ch'ancor  tragico  caso  è  caro  oggetto, 
E  che  spesso  l'orror  va  col  diletto. 

E  in  questo  madrigale  il  principio,  come  ve- 
diamo, è  rettorico  ;  ma  termina  bene,  perchè  le 
antitesi,  specialmente  dei  due  ultimi  versi,  sono 
vere  ed  eiììcaci. 

I  ritratti,  che  sono  circa  quattrocento,  in  forma 
di  sonetti  ed  ottave,  rappresentano  i  personaggi  ce- 
lebri dell'antichità  e  i  contemporanei.  Vengono  in 
prima  linea  i  Principi,  Capitani  ed  Eroi,  da  Mosè 
a  Don  Virginio  Orsini  duca  di  Bracciano,  e  tra 
questi  v'  è  Artù,  Carlomagno,  Orlando,  Goffredo 
de  Bouillon,  Tancredi,  Giorgio  Scanderbegh,  Carlo 
V,  Francesco  I,  Filippo  II  e  III,  Don  Giovanni 
d'Austria,  Sebastiano  re  di  Portogallo,  Emanuele 
Filiberto,  Cristoforo  Colombo,  il  duca  d' Alba, 
Enrico  IV,  Luigi  XIII,  Francesco  di  Lorena  duca 


—  lu- 
di Guisa,  Anna  di  Montemorency  Grran  Conte- 
stabile di  Francia,  il  vincitore  della  giornata  di 
Ravenna,  il  maresciallo  di  Lesdiguières,  Carlo 
Emanuele  di  Savoia,  Alessandro  Farnese  e  tanti 
altri. 

A  costoro  succedono  i  tiranni,  i  corsari,  gli 
scellerati  d'  ogni  specie  :  Serse^  Oreste,  Nerone, 
Siila,  Mario,  Erode,  Attila,  Totila,  Gano  di  Ma- 
ganza,  (1)  Dragutte  e  Drake  il  celebre  corsaro  in- 
glese. Poi  vengono  i  papi  ed  i  cardinali,  da 
Leone  X  al  Cardinale  Duperron;  i  padri  santi  e 
i  teologi,  da  S.  Basilio  al  beato  Ignazio  Loyola  ; 
(2)  i  negromanti  e  gli  eretici,  da  Simon  Mago  a 
Filippo  Melanchton;  gli  oratori  ed  i  predicatori  da 
Demostene  ad  Innocenzo  Cibo;  i  filosofi  e  gli 
umanisti  da  Esopo  Frigio  a  Giacomo  Mazzoni; 
gli  storici  da  Cornelio  Tacito  a  Francesco  Guic- 
ciardini; i  giureconsulti  ed  i  medici  da  Ulpiano 
ad  Ippocrate;  i  matematici  e  gli  astrologi  da  Ar- 
cliimede  a  Giovanni  Battista  Della  Porta;  i  poeti, 

(1)  Crediamo  utile  riportare  /l  ritratto  di  Gano  di  Maganza,  perchè 
tutto  quanto  si  può  trovare  sul  traditore  di  Carlo  Magno,  può  essere  og- 
getto di  speciale  attenzione  per  gli  ajjpassionati  critici  dell'  epopea.  Il 
Marino  adunque  scrive: 

Traditor  si  fellone, 
Sì  disleale  e  si  spergiuro  io  fui, 
Che  per  tradire  altrui 
Non  pur  fede,  pietà,  legge,  e  ragione; 
Jla  con  gl'inganni  miei, 
Tradito  ancora  il  tradimento  avrei. 
Pensai  perfido  spesso 
Tradire  ajco  me  stesso; 
Ma  non  volsi  poi  farlo 
Per  tradir  Francia,  i  Paladini,  e  Carlo 

(2)  Nel  lt)l8  Don  Ignacio  de  Loyola  non  era  stato  ancora  santificato 


—  145  — 
greci  latini  e  volgari;  i  pittori  e  gli  scultori;  i 
ritratti  burleschi,  nei  quali  il  poeta  raffigura  Teofìlo 
Folengo,  Luigi  Pulci,  Francesco  Berni  e  Cesare 
Caporali  ;  vengono  in  ultimo  le  donne,  divise  in 
beile,  caste,  magnanime,  impudiclie,  scellerate, 
bellicose  e  virtuose.  È  insomma  una  scorsa  clie 
si  fa  nel  campo  della  storia,  della  favola  e 
della  superstizione;  lanterna  magica  curiosissima 
ed  interessantissima,  che  vi  ritrae  fedelmente  il 
pensiero  morale,  religioso  e  politico  dell'  artista. 
Il  Marino  si  serve  della  sua  inesauribile  vena 
poetica  per  ritrarre  personaggi  storici,  alcuni  fe- 
delmente, altri  seguendo  la  corrente  intellettiva 
del  Seicento,  ed  il  resto  infine  per  fare  alcune 
sue  vendette  private.  I  personaggi,  il  più  delle 
volte,  parlano  essi  stessi  ne'  ritratti,  ed  in  modo, 
cbe  si  rendono  subito  riconoscibili.  Enrico  IV, 
quando   vien   pugnalato    dal    Eavaillac,  dice: 

Villana  mano  infame, 

Quand'  io  l'armi  stringea  per  far'  a  Cristo 

Di  novi  mondi   acquisto 

Ruppe  il  mio  regio  stame. 

La  nemica  paura 

Ordì  questa  congiura. 

Chi  per  valor  di  spada 

Cader  non  può,  di  tradimento  cada. 

Degna  di  nota  è  la  parte  religiosa  dei  ritratti, 
dove  Calvino,  Martin  Lutero,  Erasmo  di  Eotter- 
dam,  Teodoro  di  Bèze  e  Filippo  Melancliton  sono 
ritratti  in  modo  veramente  obbrobrioso.  Calvino  è 


—  146  — 
Quel  gran  nemico  del  Romano   impero, 
Ebro.  che  gonfio  di  furor  di  vino, 
Predicando,  e  scrivendo  offese  il  vero  : 

Queir  uom  di  cor  diabolico,  e  ferino, 
Eubello  a  Cristo,  e  contumace  a  Piero  : 

Lutero  è  «  una  volpe  maligna,  un  lupo  fellone, 
un  corvo  immondo,  clie  uscito  dall'arca  si  nutre 
di  putrida  esca,  (1)  una  perfida  iena,  una  iniqua 
aragna,  una  rana  loquace.  »  Ed  al  colmo  della  col- 
lera gli  domanda: 

Pitou  cbe  "1  mondo  ammorbi,  Idi'a  ferace 
Di  mille  avide  teste,  ahi  come  ardisci 
Sotto  aspetto  vezzoso  esser  vorace? 

Erasmo,  pel  quale  il  poeta  lia  un  poco  di  sim- 
patia, la  quale  trova  la  sua  giustificazione  nel 
terzo  idillio  della  Sampogna,  idillio  che  noi  ben 
presto  dovremo  esaminare,  il  Marino  non  sa  come 
cliiamarlo,  dottore  o  seduttore. 

Maestro  rio  d'abominabil'  arte. 
Falso  Profeta,  entro  i  cui  spirti  accensi 

(1)  L'Arca  qui,  pel  poeta,  sarebbe  la  chiesa  cattolica;  ed  allora,  di' 
clamo  noi,  quale  sarà  la  n  putrid'  esca  »  se  non  le  dottrine  dell'umane- 
simo ?  Crediamo  poi  qui  utile  di  trascrivere  un'  ottava  satirica,  da  noi 
trovata  in  un  manoscritto  della  biblioteca  nazionale  Vittorio  Emanuele 
di  Roma,  e  che  crediamo  sia  inedita  : 

Luther,  Viret,  Bèze,  et  Calvin 

Ont  renversé  l'esprit  Divin, 

Hèze,  Calvin,  Luther,  Viret 

Croyent  aultant  Christ  que  Mahomet, 

Calvin,  Luther,  Viret,  et  Bèze, 

Ont  mis  tout  le  monde  à  mal  aise, 

Bèze,  Viret,  Calvin,  et  Luther 

£t  leurs  livres  iront  à  l'eufer* 


—  147  — 

Sol  di  zelo  infernal,  tutto  contiensi, 
Quanto  dal  vero  s'allontana,  e  parte. 

Tu  mostrar'  il  sentier,  eh'  al  Ciel  conduce, 
Guida  fallace  ?  e  tu  per  via  secura 
Scorgere  i  ciechi,  assai  più  cieco  Duce? 

Che  vai  candido  inchiostro,  e  fede  impura? 
Ombra  nel  core,  e  ne  l'ingegno  luce? 
Scienza  chiara,  e  coscienza  oscura  ? 

I  ritratti  de'  poeti  greci,  latini  e  volgari  sono 
-aneli'  essi  della  massima  importanza,  e  studiati 
in  modo  speciale  dall'autore,  perchè  di  una  grande 
verità,  e  fanno  prova  del  come  il  Marino  stu- 
diasse i  classici.  Quelli  di  Tito  Lucrezio  Caro  e 
di  Virgilio,  tra  i  latini,  sono  senza  dubbio  i  mi- 
gliori. Il  primo  parla  per  conto  proprio: 

Gli  effetti  di  Natura, 
E  i  secreti  del  Ciel  seppi,  e  cantai, 
E  la  mia  penna  oscura 
Con  la  luce  del  nome  immortalai. 
Ma  la  vita  futura 
Incredulo  filosofo  negai. 
Tutto  intesi,  e  spiai. 

Ma  piti  scernendo  assai  lunga,  che  presso. 
Tutto  conobbi  al  fin,  fuor  che  me  stesso. 

Del  secondo  il  Marino  dice: 

A  le  selve  il  Pastore, 

A  le  ville  il  Cultore,  a  l'armi  il  Duce 

Ammaestrò;  ma  finalmente  il  fine 

Di  tante  opre  divine 

È  terra,  è  polve,  è  fumo,  è  ombra,  è  nulla. 


—  148  — 

De  l'urna,  e  de  la  culla 

"Fanno  il  Mincio,  e  '1  Sebeto  eterna  fede, 

Mantoa  diello  a  la  luce, 

Partenope  il  possiede. 

E  ben  la  morte  al  suo  natal  conviene, 

Nasce  tra'  Cigni,  e  muor  tra  le  Sirene.  (1) 

Tra  i  poeti  volgari,  sono  delineati  mirabilmente 
i  ritratti  per  Dante,  per  il  Petrarca,  per  l'Ariosto 
e  pel  Tasso.  Il  Marino,  che  fu  amico  del  cantor 
della  Gerusalemme^  dovette  anche  lui  riconoscere 
che  lo  sfortunatissimo  poeta  non  avea  equilibrate 
tutte  le  facoltà  mentali.    Nei  ritratti  gli  fa  dire: 

Forte  destini  Per  imitar  cantando 
L'ingegnoso  Ariosto,  io  venni  a  farmi 
Imitator  del  forsennato  Orlando. 

E  davanti  alla  tomba  negletta  del  poeta,  il 
Marino  non  può  fare  a  meno  di  rimproverare 
agi'  italiani  tanta  ingratitudine  : 

Cosi  ti  giaci  senz"  onor  di  tomba 
In  povero  terren  nudo  di  marmi. 
0  Sonator  de  la  più  chiara  tromba, 
Che  spiegasse  giammai  sublimi  carmi? 

In  cotal  guisa  il  cener  sacro  accoglie? 
Questi  sono  i  trofei?  la  pompa  è  questa, 
Ch'  a  le  tue  degne,  e  gloriose  spoglie 
Roma  superba  ingratamente  appresta? 

E  dove  in  laude  di  sì  nobil'  ossa 

(1)  Cfr.  il  sonetto  di  Torquato  Tasso  «  A  Napoli  e  a  Bergamo  :  » 
Mori  Virgilio  in  grembo  alle  Sirene 
Nacque  tra'  Cigni 


—  149  — 
Son  l'auree  note,  e  le  tabelle  appese  ? 
E  dove  intorno  a  la  famosa  fossa 
Le  ricche  statue,  e  le  facelle  accese? 

Ahi  che  se  valor  tanto  urna  non  serra, 
Ben' è  ragion,  n'era  incapace  un   sasso; 
Poiché  sepolcro  alcun  non  ha  la  terra, 
Che  sia  bastante  a  seppellire  il   Tasso. 

L'Aretino  e  il  Franco  occupano  anch'  essi  il 
loro  posto  nella  Galleria;  il  primo  è  ritratto  dal 
Marino  in  modo  abbastanza  lusinghiero,  essendo 
rappresentato  come  un  «  saettatore  del  vizio,  »  e 
Tin  «  flagello  de'  j^rìncipi,  »  e  come  colui  clie  sco- 
pre altrui 

il  ver  chiaro,  e  distinto: 

De  la  mia  penna  al  moto  il  Vizio  trema, 
Ferite  (o  Grandi)  il   corpo  a  VAreiino, 
Pur  che  viva  la  lingua  il  mondo  tema. 

Del  secondo  il  poeta  lamenta  l'atroce  fine  che 
fece  sul  patibolo  per  lui  innalzato  davanti  a  Ca- 
stel S.  Angelo;  al  Galilei  poi  il  Marino  assegna 
un  posto  notevolissimo  fra  i  ritratti,  paragonan- 
dolo ad  Argo  ed  a  Colombo  ;  poi  gli  dice  : 

Ma  tu  maggior  del  primo,  e  del  secondo,  ' 
I  campi  inaccessibili,  e  remoti 
Gisti  a  spiar  de  lo  stellato  mondo. 

Ed  internato  in  que'  recessi  ignoti, 
Trovar  sapesti  entro  il  suo  sen  profondo 
Novi  orbi,  novi  lumi,  e  novi  moti.  (1) 

(1)  In  que'  tempi  Galileo  Galilei  sapientemente  applicava  all'astrono- 
tnia  la  fortunata  quanto  fortuita  scoperta  del  maestro  d'occhiali  fiammingo. 


_  150  — 

La  parte  dedicata  alle  sculture  segue  lo  stesso 
ordine  di  quella  delle  pitture.  E  divisa  in  statue, 
rilievi,  modelli  e  medaglie,  in  tutto  settantasette 
tra  sonetti  e  madrigali,  dedicati  al  marchese 
Luigi  Centurioni.  Di  importante  però  in  queste 
ultime  rime,  non  si  riscontra  che  un  madrigale 
indirizzato  al  duca  di  Savoia,  in  lode  della  gal- 
leria, da  lui  formata  in  Torino,  d'  opere  d' arte 
antica  pregevolissime. 

Opra  certo  è,  Signor,  di  te  ben  degna 

Uscir  del  secol  prisco  in  chiusa  parte 

Le  reliquie  cadute, 

Le  memorie  perdute  ; 

E  raccolte  dal  suolo 

Kotte  da  gli  anni,  antiche  statue,  e  sparte, 

Sovra  sostegni  alteri 

Rendere  ai  tronchi  busti  i  capi  interi. 

Questo  sol,  questo  solo 

A'  tuoi  fatti  mancava,  ed  a'  miei  carmi  ; 

Esser  largo,  e  pietoso  ancora  ai  marmi. 

La  Galleria  del  Marino  divenne  in  breve  pò-- 
polare  in  Italia,  dove  qualche  scrittore  lo  accu- 
sava di  aver  tradotto  alcuni  epitafìos  di  Lope  de 
Vega  in  versi  italiani,  e  di  averli  fatti  passare 
per  suoi.  Infatti  alcuni  ritratti  eili  copiò  fedelissi-- 
mamente,  salvo  poi  a  non  confessare  che  non  era 
farina  del  suo  sacco.  (1) 


(1)  Il  Jlarino  ebbe  senza  dubbio  presente  l'edizione  dello  rime  di 
Lope  de  Vega  dell'anno  1614  (IMmas  de  Lope  de  Vega  Carpio,  aora  de 
nuevo  auadidas  con  el  nuevo  arte  de  hazer  Comedias  deste  tieinpo,    alio- 


—  161  — 
Il  Marino  cosi  La  fatto    il    ritratto    di    Fran- 
cesco I. 

Ecco  un  Gigante  forte 
Un  Lume  della  guerra, 
Un  Nume  della  terra. 
Un  Encelado  in  morte, 
Un  re  Francesco  in  vita. 
Un  re,  che  '1  mondo  addita 
Emulo  del  gran  Carlo, 
Che  ben  seppe  agguagliarlo 
Ne'  gesti,  e  ne  le  gloi'ie, 
Se  non  nelle  vittorie, 
Però  eh'  ebbe  minore 
Sorte  sì,  non  valore. 

E  Lope  de  Vega: 

Este  funebre  obelisco 

Detiene  un  Gigante  fuerte. 

Un  Encelado  en  la  muerte, 

Y  en  la  vida  un  rey  Francisco. 

Un  emulo  de  las  glorias 

De  Carlos  con  pecho  tal 

Que  fué  à  su  valor  igual 

Si  non  lo  fué  à  sus  victorias. 

Di  Giovanni  d'Austria  il  Marino  dice 

Giovinetto  eh'  altero 
Di  tante  palme,  e  tante 

1614,  Madrid.)  Lope  de  Vega  fu,  a  sua  volta,  fervente  ammiratore  del 
Marino  e  grande  detrattore  della  sua  fama.  Il  Marino  poi  cercò  discol- 
parsi dalle  accuse  di  plagiario,  che  gli  venivan  dirette,  con  la  lettera  che 
premise  alla  Sa»ipogiia. 


—  152  — 

Scopri  in  fronte  superba  umil  sembiante  ; 

Dimmi  quai  Templi  edificò  Ubero? 

Quai  statue  eccelse  a  la  tua  gloria  eresse? 

Dirai,  l'opre  mie  stesse 

Sono  il  mio  Tempio  vero, 

E  Statua  assai  più  stabile,  cbe  sasso 

È  la  fama,  eh'  io  lasso. 

Lope  de  Yega  avea  detto   egualmente 

Tu,  que  con  tan  alta  gloria 
Yace  tan  bùmilde  aqui, 
6  Qué  tempio,  qué  estatua,  di, 
Se  levanta  en  tu  memoria  ? 
Qué  ai'oma  en  humo  derrama 
Espana  al  nombre  que  cobras? 
—  Mi  tempio  fueran  mis  obras, 
Mi  estatua  ha  sido  mi  fama. 

Air  infelice  re  di  Portogallo,   Don   Sebastiano, 
il  Marino  mette  in  bocca  questo  lamento: 

Fu  la  mia  morte  acerba,  ed  immatura 
Del  mio  regno  agitato  eterna  guerra, 
Incerta  pietra,  e  dubbia  sepoltura 
L'ossa,  e '1  cenere  mio  nasconde,  e  serra: 
Ma  Don  nasconde  me  una  morte  oscura. 
Chiaro  son  troppo  a  l'Africana  ten-a. 
Copra  pur  terra,  o  mare  il  corpo  mio, 
Dov'  è  la  fama  mia,  colà  son"  io. 

E  Lope  de  Yega: 

Dudosa  pietra  me  encierra. 
Si  no  es  arena  africana. 


-  153  — 

Siendo  mi  muerte  tempiana 
De  mi  reino  eterna  fama. 
Mi  vida  parece  llama 
Mi  fama  parece  enima  ; 
Pero  tierra  f  mar  me  oprima 
Yo  estoy   donde  està  mi  fama. 

Intanto  la  fama  del  poeta  s'allargava  sensi- 
bilmente, e  i  maggiori  poeti  ed  artisti  d'Europa 
facevano  a  gara  nell'adularlo  ;  Lope  de  Vega, 
come  abbiam  detto,  gli  dedicava  una  sua  com- 
media: «  Virtud  probeza  1/  miijer  »  e  gì' inviava 
il  proprio  ritratto  (1)  ;  il  cardinale  Guido  Benti- 
voglio  gli  scriveva  da  Melun  una  lettera,  congra- 
tulandosi con  lui  per  la  mirabile  fattura  della 
Sampogna.  la  quale  poi  in  tutte  le  principali 
città  d'Italia  era  stata  ricevuta  con  grande  ap- 
plauso  (2). 

(1)  Lope  de  Vega,  morto  il  Marino,  in  un  sonetto  lo  paragonava  a 
Rubens,  il  grande  pittore  olandese,  cbe  allora  era  in  Ispagna  (1626)  e  in 
casa  del  quale,  ad  Anversa,  moriva  la  grande  protettrice  del  Marino, 
Maria  de'Mediei.  Ecco  il  sonetto  : 

Dos  cosas  despertaron  mi^  antnjos, 
Extranjeras  no  al  alma,  a  los  sentido»: 
Marino,  gran  pintor  de  los  oidos, 
Y  Rubens,  gran  poeta  de  los  ojos  ; 

Marino,  féuix  ya  de  bus  despojos, 
Yace  en  Italia,  resistendo  olvidos  ; 
Rubens,  los  héroes  del  pincel  vencidos, 
De  gloria  à  Fiandra  y  a  la  envidia  enojos. 

Mas  ni  de  aquel  la  piuma  ó  la  destreza 
Deste  con  el  pincel  piutar  pudieran 
Un  hombre,  que  pudiendo,  a  nadie  ayada  ; 

Porque  es  tan  desigual  naturaleza, 
Que  mando  à  retratalle  se  atrevieran, 
Ser  hombre  ò  iiera  les  pusiera  eu  duda. 

(2)  Lettere  del  Cai).  Marino,  pag.  61. 


—  154  — 

Il  marchese  d'Urfè,  Fautore  àeìV  Astrée^  Van- 
gelas,  Brussiu,  traducevano  in  gran  parte  le  sue 
composizioni  poetiche;  e  Giulio  Mazarino  «  tor- 
rente d'eloquenza  e  specchio  di  bontà,  nell'ultima 
parte  d'un  suo  miserere,  s'abbassò  a  comprovare 
molte  sue  proposizioni  »  con  le  sentenze  de'  versi 
del  Marino  (i).  Ed  ai  molti  invidiosi  della  sua 
fortuna,  rispondeva  con  la  nobilissima  lettera  di- 
retta a'  suoi  amici  d' Italia,  l'Achillini  ed  il  Preti, 
lettera  che  il  poeta  chiude  cosi: 

«  Il  continuo  corso  de' miei  vari  e  fortunevoli 
accidenti  crederei  oggimai,  che  bastasse  a  farmi 
degno  d'esser  più  compatito,  che  invidiato;  e 
sarebbe  pietà  il  considerare,  che  se  fra  tanti 
moti,  pericoli,  e  travagli  qualche  cosa  ho  pur 
fatta,  ho  fatto  oltre  il  possibile  del  poter  mio. 
Ne  il  vulgo  dei  poeti  correnti  dovrebbe  con  tante 
persecuzioni  calunniarmi,  avendo  più  tosto  occa- 
sione d'amarmi,  se  non  per  altro,  almeno  per  aver 
io  portate  le  Muse  Toscane  di  qua  dall'Alpi,  ed 
introdottele  nelle  camere  reali  ;  e  per  aver  fatto 
oltracciò  al  lauro,  eh' è  pianta  infeconda,  invece 
di  coccole  produrre  scudi  al  sole,  che  ben  del 
sole  meritano  il  nome,  poiché  a  sostentamento 
de' signori  d'Apollo  si  dispensano.  » 

Avea  2)0Ì  acquistato  una  certa  agiatezza,  la 
quale  gli  permetteva  d'inviare  in  Italia  del  da- 
naro, allo  scopo  di  comperare  a  Napoli  una  villa, 
dove  passare  il  resto  de'suoi  giorni. 

(1)  Questo  predicatore  non  deve  coiifondcisi  coH'omonimo  cardinale, 
il  quale,  in  quel  tempo,  appena  diciottenne,  studiava  nel  Collegio  Romano. 


—  155  — 

«  Mi  trovò,  la  Dio  mercè,  scrive  al  Sanvitali, 
quattordicimila  scudi  in  contanti  su  i  bandii  di 
Napoli;  e  qui  n'iio  da  buttar  via  e  da  donarne 
agli  amici.  » 

A  Parigi  godeva  presso  i  Francesi  di  una  fama 
grandissima.  Saint  -  Amant,  1'  autore  dell'  idillio 
eroico  il  «  Moisé  sauvé  »,  Tliéophyle  de  Yiau,  il 
poeta  disgraziato,  ch'ebbe  vita  tanto  avventurosa, 
Vaugelas,  Volture,  Cottin  e  tanti  altri,  seguivano 
con  ardore  la  sua  maniera  di  poetare.  (1)  Però 
il  gran  retore  francese,  il  demolitore  della  Plèiade 
francese^  Francesco  Mallierbe,  era  invidioso  della 
sua  fama  ;  ed  il  poeta  napolitano  se  ne  vendicava 
dicendo:  «  qu'il  n'avoit  jamais  vu  d'bomme  plus 
liumide,  ni  de  poète  plus  sec.  »  (2)  I  librai  pa- 
rigini gli  offrivano  buonissime  occasioni,  ma  il 
Marino  le  rifiutava  tutte.  «  Qui  m'hanno  fatto 
gran  partiti  i  librai,  ma  io  per  grazia  di  Dio 
non  ho  necessità,  né  in  queste  materie  ho  inte- 
resse alcuno  se  non  che  le  impressioni  riescan 
ben  corrette.  (3) 

(1)  Il  Marino,  quando  era  in  Roma,  indirizzava  a  Mathurin  Rógnier  il 
s  onetto  : 

Mentre  ch'a  pie  de  la  famosa  Ardenua 
Ranier,  cantando  in  dolce  stil  ti  stai, 
Ond'ad  Arno,  ed  a  Sorga  invidia  omai 
Più  non  hanno  a  portar  Durenza  e  Senna. 

(2)  Talleraent  des  Réaux,  Histc-leltes,  Voi.  1,  pag.  244.  Del  resto 
Jlalherbe  odiava  iu  generale  gl'italiani.  «  Les  Italiens,  dice  Tallement, 
ne  lui  revenoient  point  ;  il  disoit  que  les  sonnets  de  Pétrarque  étoient  à 
la  grecque  (sic)  aussi  bien  que  les  épigrammes  de  Mademoiselle  de  Gour- 
nay  (figliana  di  Montaigne).  De  lous  leurs  ouvrages  11  ne  pouvait  souf- 
frir  que  VAmhite  dii  Tasse.  »  Questo  annedoto  ci  vien  anche  riportato  dal 
Racan,  discepolo  del  Malherbe. 

(3)  Lettere  del  cav.  Marino,  pag.  131. 


—  156  — 

Insomma  in  questa  pace  ed  agiatezza,  accla- 
mato, lodato  e  udito  religiosamente  dai  letterati 
di  tutte  le  nazioni,  viveva  un  poeta,  che  spessis- 
simo dimenticava  la  sua  professione,  per  esercitare 
quella  del  cortigiano,  più  furbo  che  abbia  esi- 
stito mai.  Non  ostante  le  terribili  agitazioni  civili 
della  Francia,  il  Marino  s'era  saputo  cosi  bene 
equilibrare,  da  cattivarsi  la  benevola  protezione 
di  Luigi  XIII,  divenuto  nemico  acerrimo  della 
madre  Maria  de'Medici.  Questo  re  di  Francia, 
di  carattere  originale  ed  eccentrico,  s'intratte- 
neva volentieri  col  poeta  leggermente  sarcastico  e 
motteggevole  ed  alieno  dalle  grandi  passioni,  e  le 
sue  liriche,  piene  d'ingenua  sensualità,  risveglia- 
vano nell'animo  del  re  sogni  ed  ebbrezze  ignote 
a  quell'arido  cuore  d'asceta. 

Tipo  veramente  curioso  questo  re  di  Francia^ 
sul  quale  si  sono  rivolti  gli  sguardi  di  molti  ed 
illustri  storici,  senza  poter  però  dare  di  lui  un 
giudizio  sicuro.  Luigi  XIII  fu  per  diciassette 
anni  un  fanciullo.  Aifermò  la  sua  volontà  con 
un  atto  arditissimo:  l'assassinio  di  Concino  Con- 
cini. Ma  poi  ricadde  nelle  mani  del  Luynes,  che 
successe  al  maresciallo  d'Ancre,  ed  in  seguito  in 
quelle  del  Richelieu. 

Luigi  XIII  fu  uno  di  quegli  uomini  impene- 
trabili, che  passano  nella  storia  ravvolti  in  un 
manto  di  misterioso  silenzio;  la  freddezza  e  la 
taciturnità,  che  in  un  principe  sono  spesso  qua- 
lità politiche,  non  erano  in  lui  che  condizioni 
naturali  del  carattere  e  dell'umore.  «  Ses  amours 


—  157  — 
dice  mastro  Tallemant  sieur  des  Réaux,  étoient 
d'estranges  aniours  ;  il  n'avoit  rien  d'un  amou- 
reax  que  la  jalousie.  »  Luigi  XIII  insomma  è 
curioso  ad  osservare,  a  ricercare  e  ad  analizzare 
in  tutto.  (1) 

E  certamente  il  nostro  poeta,  che,  vivente  il 
Concini,  godeva  di  tutta  la  sua  fiducia,  fece  sfoggio 
di  molta  abilità  per  entrare  nelle  grazie  del  figlio 
di  Enrico  IV.  Giacché  tutti  i  favoriti  del  morto 
maresciallo,  o  furono  imprigionati,  o  si  salvarono 
colla  fuga.  Il  Marino  invece,  nella  maniera  clie 
presto  conosceremo,  divenne  invece  un  personag- 
gio molto  importante  nella  nuova  corte. 

Ed  ora  diciamo  qualche  cosa  della  Sampogna^ 
composta  di  idilli  e  di  egloghe  ad  imitazione  di 
Virgilio  e  di  Claudiano.  Nella  dedica  assicura 
essere  stato  lui  «  il  ritrovatore  e  l' introduci- 
tore  di  questa  specie  di  componimento  poetico 
nella  nostra  lingua  »  ;  ed  aggiunge  :  «  Mi  son 
lasciato  nondimeno  prevenire  da  molti  peregrini 
ingegni;  i  quali  ne  hanno  poi  ripiene  le  carte;  » 
e  giustifica  che  i  suoi  idilli,  primi  ad  essere 
composti,  sono  stati  poi  gli  ultimi  a  venire  alla 
luce,  perchè  sbalestrato  ora  in  una,  ora  in  altra 
parte  dalla  fortuna,  si  ritrovava  fuori  di  patria.  » 

Dice  il  De  Sanctis,  che  l'ideale  del  Marino  fu  l'i- 
dillio ;   «  una  vita  convenzionale,  mitologica,  amo- 

(1)  Sopra  il  morale  di  questo  re  di  Francia,  non  abbiamo  che  a  ri- 
portare il  lettore  al  libro  di  Armando  Baschet,  benemerito  veramente 
dell'Italia  per  le  sue  accuratissime  ricerche  storiche  e  letterarie,  intitolato: 
Le  Eoi  chez  la  Heine  ou  histoife  secrète  du  mariage  de  Louis  XIII  et 
d'Anne  d'Autriche,  Paris,  1866, 


—  153  — 
rosa,  allegrata  dal  riso  del  cielo  e  della  terra,  » 
ed  infatti  tutte  le  sue  creazioni  sono  inspirate 
al  sentimento  idilliaco,  che  gli  permette  di  estrin- 
secare l'immaginazione  sua  ardente  e  sensuale, 
sia  pure  l'ambiente  pastorale  e  mitologico  ;  quindi 
ne  vien  di  conseguenza  clie  sono  migliori,  per 
composizione  e  per  sentimento,  quegl'  idilli  ove 
la  passione  amorosa  ha  campo  di  estendersi. 

Grl' idilli  composti  dal  Marino  furono  da  lui 
divisi  in  favolosi  ed  in  pastorali.  I  primi  sono 
otto,  Orfeo^  Atteone,  Arianna,  Europa^  Proserpina, 
Dafne^  Siringa,  Pìramo  e  Tisbe.  Il  Marino  man- 
tiene l'idillio  favoloso  secondo  il  concetto  origi- 
nario, e  perciò  alcuni  di  questi  sono  poemetti  lirici, 
come  Piramo  e  Tisbe  ed  Europa,  dei  quali  l'uno  è 
una  specie  di  novella  milesia  sugli  amori  sventurati 
di  Piramo  e  Tisbe,  amori  che  come  sappiamo  ricor- 
dano quelli  di  Giulietta  e  Romeo  ;  e  l'altro  il  rapi- 
mento di  Europa,  che  ispirò,  a  tanti  poeti  da  Orazio 
al  Monti,  versi  lirici  appassionatissimi,  il  poeta 
ampliò  considerevolmente,  ponendo  in  bocca  alla 
rapita  fanciulla  lamenti  strazianti. 

Due  degli  idilli  del  Marino  vennero  alla  luce 
prima  che  il  Marino  pubblicasse  la  Sampogna. 
L'uno  è  il  Rapimento  d'Europa,  che  j^oi  fu  in- 
serito come  quarto  idillio  favoloso  nella  Sampogna 
ed  usci  anche  in  una  raccolta  che  fece  il  Bidelli 
di  Milano  (1)  degli  idilli  di   alcuni  poeti:    quali 

(1)  GV  kìilli  di  (licersi  ingegni  illustri  del  secolo  nostro,  nuovamente 
raccolti  da  Giov.  Balt.  Bidelli,  insieme  aggiuntovi  alcuni  non  piìt  veduti, 
in  Milano,  appresso  Gio.  Batt.  Bidelli,  16X8. 

Alcuni  idilli  favolosi,  come  Priamo  e  Tisbe,  e  parte  dell'  Orfeo,   del- 


—  159  — 
il  Preti,  l'Acliillini  ed  il  Campeggi;  l'altro,  «  Il 
Testamento  Amoroso^  »  è  un  idillio  pastorale  e 
non  lo  troviamo  più  in  nessun  altra  edizione  di 
idilli  marineschi,  neanche  nell'edizione  della  Sam- 
pogna  del  1667,  dove  sono  aggiunte  molte  altre 
composizioni  del  poeta,  e  vengono  ciiiamate  «  Ri- 
me boscherecce  ». 

Il  «  Testamento  Amoroso  »  è  compreso  in  una 
raccolta  di  poesie  del  Marino,  che  usci  in  Mace- 
rata nel  1614,  (1)  cioè  quando  il  Marino  era  sulle 
mosse  per  partire  alla  volta  di  Francia.  Ed  a  noi 
reca  grande  meraviglia  che  questo  idillio  non 
sia  stato  mai  più  stampato,  sebbene  non  manchi 
di  quel  colorito  caldo  e  appassionato  proprio  della 
fantasia  del  nostro  poeta  ;  ha  poi  di  nuovo,  che 
fa  singolare  riscontro  con  gli  altri  idilli  seicentisti, 
nei  quali  chi  soffre  è  sempre  il  pastore,  costretto 
ad  implorare  l'amore  della  ninfa  scettica  ed  avara. 

Lilla,  amante  non  riamata  di  Lidio,  s'apre  la 
vena  del  cuore,  e,  col  sangue  che  esce  dalla  ferita, 
sopra  un  candido  foglio,  fa  il  suo  testamento  amo- 
roso; poi  muore,  benedicendo  il  suo  amante  che 
è  lungi  da  lei.  (2)  Questo  è  brevemente  il  sunto 


V Arianna  e  AéìV Atteonti  hanno  il  verso  che  i  poeti  spagnoli  introdussero 
nel  romancero.  Dice  il  Claretti  che  gì'  idilli  composti  dal  Marino  dove- 
vano essere  quaranta  o  cinquanta. 

(1)  Nuove  Poesie  del  Cavalier  Marino,  in  Macerata,  appresso  Bastiano 
Martellini  M.DC.XIIII.  Questo  volume  di  poesie  contiene  :  Il  ritratto  del 
Sireiiitisimo  Signor  Duca  di  Savoia,  il  Tebro  Festante,  il  Rapimento  d'Eu- 
ropa, il  Testamento  Amoroso,  Lidia  Abbandonata,  i  Sospiri,  L' Amante 
Messaggiero,  ed  un.  epitalamio  per  le  nozze  del  Principe  di  Stigliano. 

(2)  Noi  non  esitiamo  a  riconoscere  qualche  cosa  di  soggettivo  nell'a- 
zione di  quest'idillio. 


—  160  — 
dell'  idillio,  il   quale    è  come  un  testamento    che 
il  Marino  lascia  per  gli  amori  di  lui  contratti  in 
Italia. 

Come  tutte  le  liriche  del  Marino,  anche  la  Sam- 
pogna  canta  1'  amore  ;  qui  anzi  il  poeta  ha  potuto 
fare  sfoggio  della  sua  voluttuosa  fantasia,  la  quale 
«  non  è  il  vivo  sentimento  della  natura  del  Poli- 
ziano, del  Fontano  e  del  Sannazaro,  ma  è  un 
brivido  di  sensualità;  »  è  l'ingenua  espressione 
del  poeta  erotico,  il  quale  vi  ripete  sempre,  con 
strana  insistenza; 

Amor  fu  mio  maestro,  appresi  amando 
A  scriver  poscia  ed  a  cantar  l'Amore. 

E  dico  ingenua  espressione  del  poeta  erotico, 
perchè  di£6cilmente  nella  Sampogna,  e  la  mede- 
sima cosa  diciamo  in  generale  di  tutt.e  le  liriche 
del  Marino,  il  poeta  descrive  cose  lubriche  pen- 
satamente; per  cui  il  lettore  della  Sampogna  non 
stanca  mai,  ne  il  sentimento,  ne  l'attenzione.  Gli 
idilli  del  Marino,  sono,  se  vogliamo,  macchinette 
mitologiche,  come  disse  il  De  Sanctis,  ma  se  sono 
macchinette,  queste  sono  state  fabbricate  da  un 
artista  ingegnoso,  il  quale  si  fa  leggere  e  volen- 
tieri. Perchè  uno  dei  maggiori  meriti  del  Marino 
è,  a  nostro  credere,  quello  di  rendere  nuovo  ciò 
che  è  passato  in  disuso,  assicurando,  il  più  delle 
volte,  essere  di  sua  invenzione  la  materia  jjrima 
di  quanto  dà  a  leggere. 

Questo  è  del  resto  il  giudizio  che  lo  stesso  Ma- 
rino dà  delle  sue  liriche.  «  Per  quel  che  concerne  i 


—  161  — 

particolari,  scrive  all' Achillini, nella  famosa  lettera 
cli'egli  premise  alla  Sampogna,  non  nego  d'aver 
imitato  alle  volte,  anzi  sempre  in  quello  i stesso 
modo  (se  non  erro)  che  hanno  fatto  i  migliori 
antichi,  e  i  più  famosi  moderni,  dando  nuova 
forma  alle  cose  vecchie,  o  vestendo  di  vecchia 
maniera  le  cose  nuove.  » 

E  nella  prefazione  della  Lira  :  «  Non  si  nega, 
che  quasi  tutti  i  Poeti  tanto  anticlii,  quanto  mo- 
derni, eziandio  i  più  eccellenti,  non  abbiano  usato 
di  rubarsi  l'un  l'altro,  e  troppo  sarebbe  chi  vo- 
lesse fame  minuto  racconto.  Ma  chi  ruba,  e  non 
sa  nascondere  il  suo  furto,  merita  il  capestro;  e 
bisogna  saper  ritignere  d'altro  colore  il  dra^Dpo 
della  spoglia  rubata,  acciò  che  non  sia  con  faci- 
lità riconosciuto.  » 

La  Sampogna  poi  è  il  primo  passo  del  poeta 
nel  dramma  pastorale;  ed  egli  spingerà  la  sua 
smania  di  comporre  idilli  favolosi  sino  a  imma- 
ginare quell'insieme  di  azioni  mitologiche,  tessute 
senza  un  ordine  stabilito,  che  poi  sarà  l' Adone. 
Perchè  negl'idilli  che  comporranno  il  poema,  la 
forma  pastorale  di  Teocrito  non  entrerà  affatto, 
essendo  la  materia  ch'egli  tratta  un  mondo  mi- 
tologico nel  solo  argomento,  e  moderno,  se  non 
contemporaneo,  nella  esposizione  dei  fatti  ;  perchè 
la  maggior  parte  delle  descrizioni,  ed  alcuni  degli 
episodi,  sono  ricavati  dalle  vicende  dei  tempi. 

Il  Marino  ebbe  idee  originali  nella  composizione 
degli  idilli  pastorali.  Il  sentimento  amoroso,  sen- 
suale, per   meglio  dire,    in    essi    entra    in    copia 


—  162  — 
si  grande,  che    cancella  ogni  parvenza   bucolica. 
L'amore   teocriteo    sparisce    interamente,    perchè 
nel   poeta   pastorale  greco  la  donna  è  una  figura 
cosi  semplice  e  delicata,    che    a    prima    vista    si 
crede  sia  incapace  di  grandi  passioni   ;   anzi   ha 
una  qua!  certa  grossolanità  di  modi,   per    cui   si 
pensa  che  Teocrito  niente  o  poco  curasse  ne'  suoi 
idilli  il  sentimento  dell'amore,  anzi  si  può  affer- 
mare che  non  lo  conoscesse.    Egli,  del  resto,    in- 
namoratosi del  gran  quadro  della  natura,  ha  de- 
scritto ingenuamente   tutti  gli   usi    de'  pastori   e 
i  loro  veri  costumi,  componendo,  per  tal  modo,  un 
quadro  fedelmente  storico  sugli  usi  pastorali.  Fin 
in  Virgilio,  che,  come  da  se  stesso  osserva,  fu  il 
primo  dei  latini  a  scrivere  di  cose  pastorali,  il  sen- 
timento dell'amore  entra  come  di  straforo,  in  nes- 
suna delle  egloghe  virgiliane  essendo  rappresen- 
tata la  donna.  Anche  nelle  egloghe  del  sommo  poeta 
latino    v'  è    contemplazione    serena    de'  fenomeni 
della  natura  essenzialmente,  se  si  eccettua  la  velata 
allusione,  che  in  esse  il  poeta  fa,  della  sua  vita  o 
delle  gesta  de'  suoi  protettori.  Ma  la  decadenza 
della  coltura  latina,  portava  un  notevole  cambia- 
mento   nell'indirizzo    dato    alla  poesia  pastorale, 
che    subiva    anch'  essa    1"  influenza    dell'  abbassa- 
mento  della   moralità  nei  popoli,  e  veniva   man 
mano  corrompendosi,  perdendo  quella  ingenua  sem- 
plicità che  le  stava  cosi  bene.  Cosi  la  vita  sensuale 
cittadina   entrava  nella  vita  pastorale,  alterando 
sensibilmente  lo  spirito  di  quella  poesia. 

La  quale,  quando  col  Rinascimento  venne    ri- 


—  163  — 
messa  in  uso,  ed  ebbe  per  primi  cultori  Dante,  il 
Boccaccio  e  il  Petrarca,  si  vide  a  vicenda  colti- 
vata secondo  il  gusto  virgiliano,  e  secondo  quello 
■di  Stazio  e  di  Claudiano.  Alla  prima  scuola  ap- 
partengono il  Baldi,  il  quale  più  di  tutti  si  ac- 
costa a  Virgilio,  il  Rota  ed  altri.  Della  seconda 
sono  campioni  Jacopo  Sannazaro,  Torquato  Tasso, 
Griainbattista  Guarini,  e  si  giunge  sino  al  Ma- 
rino; pel  quale  l'ambiente  pastorale  non  è  che 
secondario  e  forse  inutile.  Nei  suoi  idilli  la  sola 
nota  dominante  è  l' amore  sensuale  e  sjDOglio 
■d'ogni  freno  rettorico.  (i) 

S' io  dicessi,  che  pieno 
È  d'Amor  ruuiverso,  e  chAmor  solo 
Tra  le  catene  sue  costringe  i  Cieli, 
E  cliAmor  move  il  Sole,  e  che  le  stelle 
Ardon  dAmore  anch'elle, 
Sì  come  astratte  cose. 

Ecco  quanto  il  Marino  ci  dà  per  precetto  nella 
sua  poesia  pastorale  ;  la  quale  non  è,  per  il  poeta, 
descrizione  minuta  e  semplice  d'un  mondo  primi- 
tivo, nella   vita  e  nel   cuore,  ma  aspirazione  ed 


(1)  Troppo  lungo  sarebbe  voler  notare  tutte  le  definizioni  che  il  Ma- 
rino dà  dell'amor'?.  Eccone  una: 

Non  già  sempre  con  danno 

Amor  produce  affanno. 

Talor  soave  affetto 

È  padre  del  diletto. 

Amor  fiamma  gentile 

Desta  a  nobili  imprese  anima  vile, 

Anzi  foco  fecondo 

È  sostegno  dell'alme,  alma  del  mondo. 


—  164  — 
entusiasmo  per  un  Dio,  il  quale,  secondo  lui,  fa 
soffrire  tutta  l'umanità.  E  questo  Dio  è  l'amore. 
Uno  degli  idilli  favolosi  della  Sampogna.,  quello 
intitolato  «  Proserjnna,  »  è  di  sana  pianta  copiato 
da  quello  di  Claudiano.  Dove  il  poeta  latino  della 
decadenza  dice: 

.....  pariter  prò  vii"gine  certaut 
Mars  clipeo  melior,  Phoebus  praestantior  arcu. 
Mars  donat  Ehodopen,  Phoebus  largitur  Amyclas 
Et  Delou  Clariosque  lares.  Hinc  aemula  luno. 
Hinc  poscit  Latona  nurum.  Despexit  utrumque 
Flava  Ceres  raptusque  timeus  (lieu  caeca  futuri) 
Aethera  deseruit:  lurtim  sua  pignora  terris 
Commendat  fidis  Siculasque  relegat  in  oras, 
Ingenio  confisa  loci.  (1) 

il  Marino  traduce: 

Quinci  Giunon,  quindi  Latona  intanto 
La  vuol  per  nuora,  ed  emuli,  e  discoi'di 
L'uno  armato  di  spada,  e  l'altro  d'arco, 
!Ne  contendon  tra  lor  Marte,  ed  Apollo. 
Questi  Delo,  ed  Amicla,  e  Cinto,  e  Claro, 
Quei  le  promette  in  dote 
Il  Rodope,  e  '1  Pangeo, 
I  Geloni,  i  Bistoni,  i  Traci^  e  i  Geti. 
Ma  la  madre  orgogliosa 
L'uno  e  l'altro  rifiuta, 
E  pur  tra  sé  dubbiosa 
Di  frode,  e  di  rapina, 
Tiene  in  Trinaeria  ascosa 
Quella  beltà  divina. 

(1)  Claiidii  Claudiaui,  Cai-mina,  Lipsiae,  MDCCCLXXIX,  pag.  86,. 


—  165  — 
-Claudiano  dice: 

Causa  latet.  Dubios  agnovit  sola  tumultus 

Diva  Paphi  mixtoque  metu  perterrita  gaudet.  (1) 

Ed  il  Marino:  " 

Né  la  cagion  di  strepito  sì  grande 
Altra  che  Vener  sola, 
In  cui   mista  al  timor  serpe  la  gioia, 
Ancor  v'ha  chi    comprenda. 

Il  Marino  prende  da  Claudiano  perfino  nna 
-similitudine.  Il  poeta  latino,  per  dire  che  Plutone 
tenta  uscire  dalle  atre  caverne,  dov'  è  confinato, 
per  rapire  Proserpina,  dice  : 

Ac  velut  occultus  securum  pergit  in  hostem 
Miles  et  effossi  subter  fundamina  campi 
Transilit  inclusos  arcano  limite  muros, 
Turbaque  deceptas  victrix  erumpit  in  arces 
Terrigenas  imitata  viros  :  sic  tertius  heres 
Saturni  latebrosa  vagis  rimatur  habenis 
Devia  fraternum  cupiens  exire  sub  orbem.  (2) 

Ed  il  Marino: 

Inorridirò,  ed  adombraro  usciti 
Al  ben  lume  superno 
I  cavalli  d'Averno, 
Già  lungo  tempo  avvezzi 
Ad  esser  di  caligine  nutriti, 
E  stupiti,  e  smarriti 
Al  novello  splendore 

<1)  Op.  cìt.,  pag.  98. 
<2)  Ibid. 


r 


—  166  — 
D'alt)"0  mondo  migliore, 
Torser  le  briglie,  e  col  timone  obliquo 
S'arrestaro  sbuffando 
Per  far  ritorno  alle  regioni  ombrose. 

Claudiano  : 

Diffugiunt  Nymphae,  rapitur  Proserpina  curru.  i^ 


Imploratque  deas.  lam  Gorgonis  ora  revelat 
Pallas  et  intento  festinat  Delia  telo, 
Nec  patruo  cedunt.  (1) 


Marino 


....  Allor  corredo 
Dansi  tutte  a  fuggire 
Le  sbigottite  Ninfe, 
E  Proserpina  misera  e  dolente 
Ecco  rapidamente  è  alfin  rapita, 
E  portata  a  gran  corso 
Dal  ferrugineo  carro, 
Non  sa,  se  non  piangendo 
A  le  compagne  Dee  chiedere  aita. 
Svela  Bellona  ardita 
Allor  del  torvo  e  pallido  Gorgone 
Il  mostruoso  aspetto^  e  seco  quella, 
Che  Triforme  s'appella, 
Dà  di  piglio  agli  strali. 
Ed  incurvando  il  suo  cornuto  nervo, 


Claudiano  : 

Intei-ea  volucri  fertur  Proserpina  curru 

(1)  Ibid.,  pag.  100. 


—  167  — 

Caesariem  diffusa  Noto  planctuque  lacertos 
Verberat  et  questus  ad  nubila  fundit  inanes  : 

Marino  : 

Intanto  lagrimosa 
Sovra  il  carro  volante 
Verso  le  bolge  orribili  discende 
De  l'Eleusina  Dea  l'alta  speranza, 
E  battendosi  il  petto, 
Diffonde  in  un  co'  capei  d' oro  ai  venti 
Questi  vani  lamenti 

L'immagine    di    Flegetonte    è   cosi   descritta    da 

Claudiano  : 

Dominis  intrantibus  ingens 
Assurgit  Phlegethon;  flagrantibus  hispida  rivis 
Barba  madet  totoque  fluunt  incendia  vultu. 

Ed  il  Marino: 

Gli  assorge  in  su  l'entrata 
Il  vasto  Flegetonte, 
A  cui  da  tutto  il  volto 
Piovono  incendij,  e  da  la  barba  scorre 
Di  cocenti  ruscelli  orrida  brina. 

Il  Marino  termina  l'idillio  col  pianto  di  Cerere 
elle,  ritornando  da'  giuochi  eleusini,  non  ritrova 
più  la  figlia. 

Dir  con  quai  strida,  e  quanti 
Dolorosi  lamenti  il  Ciel'  offese, 
Come  recisi  in  Flegra 
Duo  cipressi  gemelli, 
Levogli  in  alto,  e  con  le  chiome  sciolte 


—  168  — 
Kicercando  ogni  parte,  il  moudo  scorse, 
E  come  moderando 
De'  Dracrlii  alati,  e  mansueti  i  freni, 
L'aprica  arena,  e  la  canuta  polve 
D' aurea  messe  feconda, 
Eese  fertile,  e  bionda. 
Non  fia  mia  cura. 

E  consiglia  il  lettore  a  goder  la  fine  dell' idillio 
nella  bellissima  tela  in  cui  Tiziano  rappresenta 
il  doloroso  episodio,  perchè,  dice  il  poeta: 

Narrar  gli  affanni  e  i  pianti^ 
D'una  madre,  che  perde 
L'amata  prole,  ed  orba 
D'ogni  suo  ben  si  lagna,  e  s'addolora, 
Lnpossibil  mi  fora. 

JJ  Orfeo  e  il  solito  idillio  ovidiano,  cosi  spesso 
cantato  da' poeti;  e  non  v' e  niente  di  originale, 
se  si  tooflie  il  curioso  ditirambo  clie  cantano  i 
satiri  e  i  baccanti  in  onore  del  Dio  indiano,  di- 
tirambo cbe  il  Marino  imitò  dal  Poliziano. 

L'ultimo  idillio  favoloso,  clie  narra  gl'infelici 
amori  di  Piramo  e  Tisbe,  è  anch'esso  imitato  e 
dallo  spagnuolo,  cui  il  Marino  ricorreva  molto 
di  sovente.  Giorgio  di  Montemayor  gli  forni  l'ori- 
ginale ;  e  quando  il  Marino  non  traduce  la  poesia 
dell'autore  della  Diana,  ne  fa  la  parafrasi.  Il 
Marino  ne  imita  pei-fìno  il  verso,  che  è,  come  ab- 
biam  detto,  quello  adoperato  nel  romancero  spa- 
gnolo, e  crediamo  che  questo  del  poeta  napolitano 
sia  esempio  raro  nella  poesia  italiana. 


—  169  — 
Montemayor  comincia  l'idillio: 

De  Tisbe  y  Piramo  quiero 

cantar  la  muerte  j  amores, 

oyan  me  solo  amadores, 

y  el  qne  no,  corno  grosero 

ti'ate  de  cosas  menores. 
Quien  tuviere  en  poca  estima 

un  amor  firme  y  constante, 

no  me  escuche,  aunque  yo  cante, 

que  se  abaxarà  la  prima, 

si  acaso  lo  veo  delante. 
Pues  comienza  musa  mia, 

de  los  dos  el  triste  canto, 

de  euya  muerte  y  espanto 

una  temprana  alegria 

abrió  las  puertas  al  llanto. 
Y  si  piensas  està  muerte 

muy  al  naturai  pintalla, 

tus  propias  palabras  calla 

y  à,  mi  desdichada  suerte 

las  pide  para  conti  Ila.  (1) 

Ed  il  Marino: 

Voglio  pianger  cantando 
Di  Piramo,  e  di  Tisbe 
E  gli  amori,  e  la  morte. 
Ascoltino  il  mio  canto 
Sol  gli  amanti  fedeli, 

(1)  È  quest'idillio  unito  alla  Duma  di  Jorge  De  Montemayor,  (en  Ma- 
drid, aSo  de  M.DCC.XCV,  pag.  363).  Per  quante  ricerche  abbia  fatte  non 
m'è  stato  possibile  trovare  Piramo  y  Tishe  del  Montemayor  nell'edizione 
del  Rivadeneyra. 


—  170  — 
Ch'  uditor,  che  spregiasse 
Un  vero  amor  geutile, 
Farla  languir  lo  stile. 
Prendi  Musa  selvaggia 
La  tua  flebil  Siringa, 
E  narra  il  fiero  caso 
De'  duo  malnati,  in  cui 
Una  gioia  immatura 
Partorì  doglia  eterna. 
E  se  dipinger  vuoi 
Quanto  convieusi,  al  vivo 
Questa  istoria  pietosa, 
Lascia  le  proprie  tue 
Dolci  parole  usate, 
E  chiedile  dolenti 
A  la  mia  sorte  trista. 


Montemayor: 


Ella  Tisbe  se  Uamaha, 
él  Piramo  se  decia, 
ella  por  él  se  encendia, 
él  per  ella  se  abrasaba, 
y  es  lo  menos  que  sentia. 

Eran  ninos  en  la  edad, 
mas  el  amor  la  suplió, 
j  tanto  se  si  les  dio, 
que  nunca  una  voluntad 
sin  otra  se  desmandó. 


Ed  il  Marino: 


Piramo  ei  nome  area, 
Ella  Tisbe  era  detta. 
Il  Giovane  n'ardea, 


—  171  — 
N'ardea  la  Giovinetta. 
Eran  su  l'età  fresca 
Pargoletti  ed  acerbi, 
Ma  là  dove  mancava 
La  grandezza  de'  corpi, 
Supplivano  de'  cori 
Le  piaghe  smisurate; 
E  '1  difetto  de  gli  anni 
Empiva  Amor'  adulto. 
Amor'  intempestivo. 
Ch'  ai  lor  crescenti  ardori 
Die  di  se  stesso  tanto, 
Che  Tun  voler  da  l'altro 
Giammai  non  si  diso-iunse. 


Montemayor  : 


Las  horas  piden  à  Dios 
tan  largas  para  gozar, 
quan  breves  para  es^jerar, 
qua  ya  el  amor  en  los  dos 
puede  estender  y  cortar. 

Y  quiere  muy  en  su  seso, 
que  en  principio  de  su  vida 
el  tiempo  con  su  corrida 
el  verse  les  de   por  peso, 
y  el  ausencia  sin  medida. 

Con  pasatiempos  y  juegos 
con  otros  minos  holgando, 
y  ellos  solos  conversando 
con  un  solo  nifio  ciego, 
que  à  los  dos  està  abrasando. 


E  il  Marino: 


—  172  — 

Ed  egli,  ed  ella  a  prova 
L'ore  chiedeano  al  Cielo 
Tanto  lunghe  a  la  gioia, 
Quanto  corte  a  la  speme, 
Con  altri  fanciulletti 
Ivano  esercitando 
Gli  scherzi  puerili. 
Ma  con  loro  giocando 
Fieramente  scherzava 
Un  fanciul  cieco,  e  nudo. 

Moutemayor  cosi  descrive  l'afFannosa  aspettativa 
di  ciascuno  degli  amanti: 

i  ó  lo  que  Tisbe  sentia 

quando  Piramo  tardaba  ! 

ó  Piramo  quàl  estaba, 

si  Tisbe  se  detenia 

al  tiempo  que  la  esperaba  ! 
Como  se  vengara  el  uno 

del  otro,  si  ser  pudiera, 

en  la  culpa  que  le  diera, 

que  la  pena  cada  uno 

por  el  otro  la  sufriera. 

Ed  il  Marino: 

0  Tisbe  che  sentiva 

Qualor  più  del  costume 

Tax'dava  un  sol  momento 

Piramo  a  comparire  ; 

E  quale  anco  a  l'incontro 

Piramo  rimanea, 

Se  Tisbe  oltre  l'usato 

Aspettar  si  facea. 


—  173  — 

0  come  vendicata 

L'un  contro  l'altro  avrebbe 

La  colpa  de  l'indugio. 

Se  colpa  esser  potesse 

Colà  dove  la  pena 

L'un  per  l'altro  sofferta 

Avrebbe  volentieri. 

E  terminiamo  con  un  ultimo  confronto.  Tisbe,  come 
sappiamo,  dopo  essere  stata  divisa  dall'amante, 
per  inimicizie  clie  corsero  tra  le  due  famiglie,  sup- 
plica il  padre  di  unirla  a  Piramo.  Montemayor 
fa  dire  alla  sventurata: 

Padre,  la  doncella  dice, 

o  enemigo  capital, 

pues  al  amor  paternal 

tu  condicion  contradice, 

y  al  mio  que  es  mas  leal. 
l  Quando  mi  bien  me  quitaste, 

di,  por  qué  no  te  acordabas, 

que  aquella  à  quien  le  quitabas 

es  la  misura  que  engendraste, 

j  la  que  viva  enterrabas? 
è  Qué  fieras  6  qué  serpientes 

venenosas  j  mortales, 

qué  aves  ó  qué  animales 

por  el  bien  no  paran  mientes 

de  sus  liijos  naturales? 
6  Si  à  los  que  falta  razon 

esto  no  les  has  faltado, 

dime,  dónde  lo  bas  allado 

de  abrasar  un  corazon 

que  tu  mismo  bas  engendrado  ? 


—  174  — 
Si  lo  haces  por  mi  honra, 

que  desista  asi  lo  siento, 

ya  llevas  mal  fundamento, 

pues  no  vi  major  deshonra 

que  vida  con  descontento. 
Quanto  mas,  que  de  mirar 

no  viene  deshonra  alguna, 

j  de  baxo  de  la  luna 

no  hay  crueldad  corno  apartar 

dos  almas  que  ya  son  una. 
Si  lo  haces  por  curarme, 

abrame  este  corazon, 

do  se  arraigó  la  pasion. 

que  querer  sobre   sanarme, 

no  lo  tensfo  à  discresion. 
Tu  sobresanas  un   mal, 

un  no  ver  despues  de  ver, 

mas  la  fuerza  del  querer, 

que  es  la  causa  priucipal, 

bien  ves  que  no  puede  ser. 

Ed  il  Marino  imitando  sempre  il  poeta  portoghese, 

Padre  (dicea)  non  padre. 
Ma  capital  nemico, 
■  Posciach'  a  la  pietate 
E  paterna,  ed  umana 
Contradice  e  repugna 
La  tua  gran  feritate; 
Tu,  che  '1  mio  ben  mi  togli, 
Come  non  ti  ricordi, 
Né  pensi,  che  colei, 
Che  viva  hai  sotterrata 
Crudele,  è  quella  istessa. 


—  175  — 

Che  'n  vita  hai  generata  ? 
Qual  barbarica  rabbia 
Giunse  a  sì  fatto  sdegno, 
Che  struggesse  il  suo  sangue  ? 
Qual  serpente,  o  qual  fera 
Vive  armata  cotanto 
Di  veleno,  e  d'orgoglio, 
Ch'  a  la  sua  propria  prole 
Procuri  strazio,  e  morte  ? 
S'agii  animali  istessi, 
A  cui  manca  ragione. 
Ragione  in  ciò  non  manca. 
Dimmi,  donde  imparasti 
D'incenerire  un  core, 
che  tu  stesso  creasti?  (1) 

Questo   si   può   notare   per  gridilli  favolosi;  i 
quali    appunto    per   l'indole   loro,  già  argomento 

(1)  Montemayor  imita  in  questo  idillio  l'Ariosto  ;  quando   Tisbe   arriva 
al  fonte,  e  vede  arrivare  la  leonessa,  fugge  ; 

Como  pequeuuela  gama, 
La  qual  va  huyendo  loca 
Del  pardo,  y  quando  le  toca 
De  un  àrbol   qualquiera  rama, 
Piensa  qae  es  la  horrible  boca. 

Questa   similitudine  egli   la   ricavò   dal   Furioso,  in  quella  celebre  ot- 
tava, che  il  Galilei  non  rifiniva  mai  di  lodare. 

Qual  pargoletta  o  damma,  o  capriola. 
Che  tra  le  fronde  del  natio  boschetto 
A  la  madre  veduta  abbia  la  gola 
Stringer  dal  pardo,  e  aprirle  '1  fianco  e  '1  petto, 
Di  selva  in  selva  dal  crudel  s'invola, 
E  di  paura  trema  e  di  sospetto  : 
Ad  ogni  sterpo  che  passando  tocca, 
Esser  si  crede  a  l'empia  fiera  in  bocca. 

[Furioso,  Canto  I.,  St,  34). 


—  176  — 
di  racconto  nei  poeti  antichi,  sono  da  giustificarsi 
per  l'imitazione,  alcune  volte  servile,  clie  il  Ma.rino 
adotta  de'  modelli  latini. 

Il  curioso  però,  sta  nel  fatto  che  anche  negli 
idilli  pastorali,  dove  la  fantasia  del  poeta  poteva 
creare  fatti  ed  episodi  nuovi  ed  originali,  si  ri- 
scontra la  stessa  mancanza  del  sentimento  proprio, 
originale  e  creativo,  di  immagini  e  d'episodi. 

Gl'idilli  pastorali  sono  quattro:  La  Bruna  Pa- 
storella, la  Ninfa  Avara^  la  Disputa  Amorosa  ed 
i  Sospiri  d'Ergasto. 

Il  primo  di  quest'idillio  è  il  migliore  di  tutti^ 
perchè  ha  una  tinta  di  originalità,  la  quale  manca 
negli  altri  due  seguenti,  non  potendosi  chiamare 
idillio  pastorale  il  quarto,  cioè,  «  I  Sospiri  d'Er- 
gasto. » 

L' originalità  della  Bruna  Pastorella  risulta 
dall'avere  il  Marino  introdotti  nel  dialogo  argo- 
menti che  si  riferiscono  alle  vicende  della  sua 
vita  ;  fatto  che  del  resto  si  riscontra  in  quasi  tutta 
la  bucolica  italiana,  dal  Boccaccio  in  su. 

Il  prof.  Mango  crede  che  questo  idillio  sia 
stato  coniposto  in  Napoli,  e  dice:  «  Insomma  la 
«  Bruna  Pastorella  »  è  un  idillio  napoletano,  per- 
chè e'  è  il  riverbero  della  natura  e  della  vita 
napoletana  voluttuosa,  e  la  sua  nota  caratteristica 
è  la  poesia  del  bacio,  toccando  del  quale  il  Marino 
ci  dà  lirica  piena  di  bellezze.  »  (1) 

Noi   invece  siamo   inclinati   a   credere  che   la 

(1)  //  Marino  poeta  lii-ico,  Cagliari,  1887,  pag.  85. 


—  177  — 
Bruna  Pastorella  sia  stato  composto  negli  ul- 
timi momenti,  in  cui  il  Marino  rimase  alla  Corte 
di  Carlo  Emanuele.  Da  Napoli  il  Marino  era 
partito  sui  primi  mesi  del  1600  e  non  v'  era  più 
tornato  per  lo  spazio  di  quindici  anni;  in  patria 
poi  non  sognava  davvero  di  diventar  poeta  della 
corte  di  re  Luigi  XIII.  Mentre  invece  egli  scrisse 
quest'idillio,  quando  ebbe  invito  da  Margherita 
di   Navarra    a  voler  raggiungere  la  sua  corte. 

Lidio.  A  se  l'appella  il  gran  Pastor  di  Senna, 

Accioch'  egli  cangiando 

In  tromba  la  sampogna, 

Possa  intrecciar  col  verdeggiante  alloro, 

Che  gli  cerchia  la  fronte,  i  Gigli  d'oro. 

Quinci  a  varcar  s' appresta 

Le  gelid'  Alpi,  e  le  profonde  valli. 

Ch'  el  Rodano  divide. 
Lilla.  Hor'  ha  ben  d'  onde 

Di  Durenza,  e  di  Sorga  Arno  dolersi, 

A  cui  dever  confesseranno  homai 

Il  furto  di  duo  Cigni.   (1) 

Il  secondo  idillio  è  uno  dei  soliti  contrasti  tra 
un  pastore  ed  una  ninfa,  l'una  crudele,  e  che  non 
conosce,  ne  vuol  conoscere  amore,  l'altro  che  spa- 
sima j)er  lei.  Nell'idillio  la  «  Ninfa  Avara  »  Fileno 
è  quello  che  pel  Tasso  è  Aminta  e  pel  Guarini 
Lineo.  Anzi  la  imitazione  è  manifesta,  quando 
Fileno  vuol  indurre  Filaura  ad  amarlo,  e  per 
persuaderla  gli  descrive  «  l'amore  univesale.  » 

(1)  L'uno  è  Fileno,  ossia  il  Marino.  Credo  che  l'altro  sia  Ottavio  Ki- 
nucciui. 

12 


—  178  — 

Fileno.  S' io  dicessi,  che  pieno 

È  d'Amor  l'Universo,  e  ch'Amor  solo 

Tra  le  catene  sue  costringe  i  Cieli, 

E  eh'  Amor  move  il  Sole,  e  che  le  stelle 

Ardon  d'Amor'  anch'elle. 

Si  come  astratte  cose, 

E  dal  senso  mortai  troppo  lontane, 

Potrebbon  forse  (ancorché  chiare  e  piane) 

All'intelletto  tuo  rendersi  oscure. 

Ma  tutto  ciò,  eh'  io  icario, 

Tel  dimostra  Natura,  e  'n  questa  scena 

Di  misti,  e  d'elementi 

Tu  tei  vedi,  e  tei  senti. 

Mira  là  la  Giovenca  in  su  l'erbetta 

Il  suo  Torel,  che  l'araa, 

Amante  aifettuosa, 

Lambir,  quasi  baciando,  il  caro  fianco. 

Odi  con   quali  accenti 

Chiama  là  tra  le  fronde 

Di  quella  quercia  antica 

L'usignuol  lusinghier  la  dolce  amica. 

Vedi  tra'  rami  di  quel  verde  mirto 

La  Colomba  amorosa 

Come  col  vago  insieme 

Gemendo  bacia,  e  ribaciando  geme. 

Vedi  il  suo  Tortoj.-ello 

D'  un'  in  altro  arboscello 

Seguir  cantando  a  volo 

La  compagna  vezzosa. 

La  qual  s'  avvien  che  poi  ne  resti  priva, 

Sconsolata,  e  malviva 

In  secco  tronco  lagrimando  dice. 

Piango  i  miei  gionii  vedova  infelice. 

Vedi  (non  eh'  altro)  vedi 


-  179  — 

La  Vipera  gelosa 

Ne  l'orlo  de  la  siepe,  or  che  rìdente 

Bingiovenisce  l'anno, 

Là  dove  dolcemente 

Più  d'Amor,  che  di  Sol  foco  la,  scalda. 

Come  ondeggiando  mostra 

A  l'Aspe  innamorato 

Ricca  di  lucid'  or  la  nova  spoglia, 

I  pestiferi  fiati,  e  i  fischi  orrendi 

In  sospir  son  rivolti. 

Le  lingue,  che  pungenti 

Saettavano  altrui  rabbioso  tosco, 

Son  saette  soavi,  ond'  Amor  vibra 

Dolcezza  a  l'un  de'  due  spesso  mortale. 

Ecco  la  Vite  a  l'Olmo, 

Ecco  l'Edera  a  l'Orno  abbarbicata; 

E  tu  cruda,  ed  ingrata 

Perchè  di  viver  pur  sempre  t'ingegni 

Solinga  e  scompagnata? 

Pon  mente  ivi  a  quel  Pruno, 

Fu  già  sterile  un  tempo  inutil  x^ianta, 

Da'  cui  ruvidi  rami 

Nascer  frutto  solea  pontico,  e  vile. 

Or  per  virtù  d'un  nodo,  e  d'un  innesto 

Fatta  è  dolce  d'amara, 

Di  selvaggia  gentile, 

E  te  come  non  vale 

Con  sua  forza  immortale 

Far  di  rustica  ed  aspra  Amor  possente 

Domestica,  e  feconda  ? 

Cosa  in  somma  non  è  tra  quanti   oggetti 

Questo  si  spazioso 

Teatro  universal  ti  rajDpresenta, 

Dove  in  ogni  stagion  Amor  non  regni. 


—  180  — 

Ma  vie  più  in  questa  assai, 
Quando  l'erbette,  e  i  fiori 
Torna  con  Glori  a  rifiorire  (1)  Api'ile. 
Queste  selve  vicine. 

Quest'antri,  queste  valli,  e    questi  mentir 
Quest'acque,  e  questi  fonti 
Si  distillano  amando; 
.Discorron  mormorando 
Di  quel  foco  gentil,  che  '1  tutto  incende. 

Tasso  : 

Dafne.  Stimi  dunque  nemico 

Il  monton  de  l'agnella? 
De  la  giovenca  il  toro? 
Stimi  danque  nemico 
Il  tortore  a  la  fida  tortorella? 
Stimi  dunque  stagione 
Di  nemicizia  e  d'ira 
La  dolce  primavera 
Ch'or  allegra  e  ridente, 
Riconsiglia  ad  amare 
Il  mondo  e  gli  animali, 
E  gli  uomini  e  le  donne;  e  non  t'accorgi 
Come  tutte  le  cose 
Or  sono  innamorate 
D'un  amor  pian  di  gioia  e  di  salute? 
Mira  là  quel  colombo 
Con  che  dolce  sussurro  lusingando 
Bacia  la  sua  compagna  ; 
Odi  quell'usignuolo 
Che  va  di  ramo  in  ramo 

<1)  Riaprire,  ed.  di  Venezia,  1620. 


^  181  — 
Cantando:  Io  amo,  io  amo:  e,  se  no  '1  sai, 
La  biscia  or  lascia  il  suo  veleno,  e  corre 
Cupida  al  suo  amatoi-e, 
Van  le  tigri  in  amore, 
Ama  il  leon  superbo  :  e  tu  sol,  fera 
Più  che  tutte  le  fere. 
Albergo  gli  dinieghi  nel  tuo  petto. 
Ma  che  dico  leoni  e  tigri  e  serpi, 
Che  pur  han  senlimento  ?  Amano  ancora 
Gli  alberi,  veder  puoi,  cori  quanto  affetto 
E  con  quanti  iterati  abbracciamenti 
La  vite  s'avviticchia  al  suo  mai'ito, 
L'abete  ama  l'abete,  il  pino  il  pino. 
L'orno  per  l'orno  e  per  la  salce  il  salce, 
E  l'un  per  l'altro  faggio  arde  e  sospira: 
Quella  quercia,  che  pare 
Si  ruvida  e  selvaggia, 
Sente  anch'ella  il  potere 
De  l'amoroso  foco  ;  e  se  tu  avessi 
Spirto  e  senso  d'amore,  intenderesti 
I  suoi  muti  sospiri,    or  tu  da  meno 
Esser  vuoi  delle  piante, 
Per  non  esser  amante?  (1) 

;E  il  Gruarini  infine: 

Lineo.  Dimmi  :  se  'n  questa  sì  ridente  e  vaga 

Stagion,  che  'nfiora,  e  rinnovella  il  mondo, 
Vedessi  invece  di  fiorite  piagge. 
Di  verdi  prati,  e  di  vestite  selve, 
Starsi  il  pino  e  l'abete  e  '1  faggio  e  l'orno 
Senza  l'usata  lor  frondosa  chioma, 

(1)  n  Rinaldo  e  l' Aminta,    di    Torquato    Tasso,    per    cura    di    Guido 
Mazzoni,  Firenze,  Sansoni,  1881,  pag.  274. 


—  182  -^ 
Senz'erbe  i  prati,  e  senza  fiori  i  poggi, 
Non  diresti  tu,  Silvio  :  Il  mondo  langue^ 
La  natura  vien  meno?  Or,  quell'orrore 
E  quella  maraviglia  che  dovresti 
Di  novità  SI  mostruosa  avere. 
Abbila  di  te  stesso.  Il  Ciel  n'ha  dato 
Vita  agli  anni  conforme,  ed  ali 'etate 
Somiglianti  costumi:  e  come  amore 
In  canuti  pensier  si  disconviene, 
Cosi  la  gioventù  d'amor  nemica 
Contrasta  al  Cielo,  e  la  natura  offende. 
Mira  d' intorno,  Silvio  : 
Quanto  il  mondo  ha  di  vago  e  di  gentile. 
Opra  è  d'Amore  :  amante  è  il  Cielo,  amante- 
La  terra,  amante  il  mare. 
Quella  che  lassù  miri  innanzi  all'alba, 
Così  leggiadra  Stella, 
Arde  d'amor  anch'ella,  e  del  suo  Figlio 
Sente  le  fiamme;  ed  essa  che  'nnamora^ 
Innamorata  splende: 
E  questa  è  forse  l'ora. 
Che  le  furtive  sue  dolcezze,  e  '1  seno 
Del  caro  Amante  lassa  : 
Vedila  pur  come  sfavilla  e  ride. 
Amano  per  le  selve 
Le  mostruose  fere;  aman  per  Tonde 
I  veloci  delfini,  e  l'orche  gravi. 
Quell'augellin,  che  canta 
Si  dolcemente,  e  lascivetto  vola 
Or  dall'abete  al  faggio. 
Ed  or  dal  faggio  al  mii'to. 
S'avesse  umano  spirto. 
Direbbe:  Ardo  d'amore,  ardo  d'amore: 
Ma  ben  arde  nel  coi'e, 


—  183  — 
E  pai'la  in  sua  favella 
Sì,  che  l'intende  il  suo  dolce  desìo: 
Ed  odi  appunto,  Silvio, 
Il  suo  dolce  desìo 

Che  gli  risponde:  Ardo  d'Amore  anch'io. 
Mugge  in  mandra  l'armento,   e  que' muggiti 
Sono  amorosi  inviti. 
Rugge  il  leone  al  bosco. 
Né  quel  ruggito  è  d'ira: 
Così  d'amor  sospira.  (1) 

Però  il  Marino,  do|)0  aver  imitato  i  due  più 
rinomati  scrittori  di  drammi  pastorali,  confessa 
l'imitazione  sua;    e  per    bocca   di  Filaura,  dice: 

Filaura.       Fileno,  il  tuo  discorso 
È  vago,  e  dotto  invero, 
Ma  si  trito  e  comune, 
E  già  sì  antico  ornai,  che  sa  di  vieto. 
Quando  Dafne  esortava 
Silvia  ad  amar'  Aminta, 
Con  questa  invenzion  le  predicava. 
Poi  quando  a  Silvio  Lineo, 
Pur'  altro  amor  persuader  volea, 
Il  medesmo  dicea. 

Ed  aggiunge  che  non  v'è  meschino  capraio 
o  fattore  che,  per  convincere  la  sua  ninfa  ad 
amarlo,  non  adoperi  queste  ragioni.  E  quasi  pen- 
tendosi  d'aver  preso  le  stesse  immagini  adope- 
rate dal  Guarini  e  dal  Tasso,  dice: 


(1)  Il  Pastor  Fido,  di  Giambattista  Guarini,  Firenze,  Barbèra,  1866, 
pag.  24.  L'Ongaro  ha,  nell'atto  I,  scena  I,  ù.e\V Alceo,  favola  pescatoria, 
le  medesime  parole.  Alcippe  vuol  persuadere  Eurilla  ad  amarlo.  «  Colui, 
dice,  che  non  ama  essendo  amato.  Commette  gran  peccato.  « 


—  184  — 

Conviensi  a  non  vulgai-e 

Spirito  peregrino 

Dal  segnato  sentier  sviarsi  alquanto, 

E  per  novo  camino 

Dietro  a  novi  sentier  movere  il  eorso. 

Il  terzo  idillio  «  La  Disputa  Amorosa  »  è  degno 
di  nota,  per  essere  la  traduzione  di  uno  dei  «  Col- 
loc[UÌa  famiìiaria  »  di  Erasmo  di  Rotterdam.  Il 
Marino  fu  molto  severo  con  questo  grande  filosofo, 
che  venne  chiamato  il  Voltaire  del  Cinquecento. 
Nella  «  Galleria  »  lo  dij)inge  coi  colori  -piix  neri, 
e  lo  carica  d'ogni  più  bassa  ingiuria,  insieme  ai 
grandi  riformatori  suoi  contemporanei: 

Dottore,  o  Sediittor  deggio  appellarte? 
Di  Giuda,  0  d'Anticristo  empio  conviensi 
Il  nome  a  te^  che  'n  alterando  i  sensi, 
Sai  del  Vangelo  adulterar  le  carte? 

Maestro  rio  d'abominabil'  arte, 
Falso  Profeta,  entro  i  cui  spirti  accensi 
Sol  di  zelo  infernal,  tutto  contiensi, 
Quanto  dal  "^ero  s'allontana,  e  parte. 

Tu  mostrar'  il  sentier,  ch'ai  Ciel  conduce, 
Giuda  fallace?  e  tu  per  via  secura 
Scorgere  i  ciechi,  assai  più  cieco  Duce? 

Che  al  candido  inchiostro,  e  fede  impura? 
Ombra  nel  core,  e  ne  l' ingegno  luce  ? 
Scienza  chiara,  e  coscienza  oscura? 

Già  il  Mango  aveva  notato  come  la  «  Disputa 
Amorosa  »  —  un  dialogo  tra  Laurino  e  Selvaggia, 
de'  quali  una  scherza  senza  spirito,  l'altro  ragiona 
con  troppe  acutezze  • —  fosse  una  disputa  sfornita 


—  185  — 
d'ogni  pregio  artistico  e  piena   di   sofismi,  come 
■appare  dalle  stesse  parole  di  Selvaggia  a  Laurino  : 

Aguzza  pur  la  punta 

De  la  tua  dialettica  saetta 

Amoroso  Sofista. 

Ma  non  accenna  però  alla  imitazione,  che  il  Ma- 
rino fa  del  dialogo  Proci  et  Puellae  di  Erasmo.  (1) 

Costui  nel  dialogo  introduce,  come  personaggi, 
Pamphiìus  e  Maria.  E  comincia  : 

Pa.  Salve  crudelis,  salve  ferrea,  salve  adaman- 
tina. —  Ma.  Salve  tandem  et  tu  Pampliile,  quo- 
ties  et  quantum  voles,  et  quocumque  libet  no- 
mine. Sed  interim  milii  videris  oblitus  nominis 
mei.    Maria  vocor. 

Ed  il  Marino: 

Laurino.        A  Dio  Tigre,  a  Dio  quercia, 

A  Dio  selce,  a  Dio  smalto,  a  Dio  diamante. 

Ninfa  crudele  a  Dio. 
Selvaggia.      A  Dio  Laurin,  ma  dimmi, 

Che  titoli  son  questi  ? 

Hai  tu  forse  obliato  il  nome  mio? 

Selvaggia  m'appell'io. 

Dove  Erasmo  dice: 

Ma.  Bona  verba.  Ubinam  strages  ista  morta- 
lium,  quos  ego  occidi?  Ubi  sanguis  interfecto- 
rum?  —  Pa.  Unum    cadaver  vides    examine,    si 


(l)Cito  la  seguente  edizione:  Desideri! Ersarai  Roteradami  Colloquia  fanti' 
liaria,  Cum  omnium  Notis,  Amsterodami,  apud  J.  Jansonium,  cla.Io.cxxxv, 
pag.  119. 


—  186  — 
modo  me  vides.  —  Ma.  Quid  ego  audio?  Mor- 
tuus  loqueris,  et  obambulas?  Utinam.  m.i]ii  nun- 
quam  occurrant  umbrae  formidabiliores  !  — Pa.Lu- 
dis  tu  quidem,  tamen  interim.  m.iserum  examinas, 
et  crudelius  occidis,  quam  si  confonderes  telo. 
Nunc  longo  cruciatu  excarniiicor  miser.  — il/a.Eho! 
die,  quot  gravidae  ad  tuum  occursum  abortieront? 
—  Pa.  Atqui  pallor  arguit  exanguem  magis,  quam 
ulla  sit  umbra.  —  Ma.  Atqui  iste  pallor  tinctus 
est  viola.  Sic  palles,  ut  cerasum  maturescens,  aut 
uva  purpurascens.  —  Pa.  Satis  procaciter  rides 
miserum.  —  Ma.  Atqui  si  mihi  non  credis,  admove 
speculum.  —  Pa.  Non  optarim  aliud  speculum  ; 
nec  arbitror  esse  clarius  ullum,  quam  in  quo 
nunc  me  contemplor.  —  Ma.  Quod  speculum  mihi 
narras  ?  —  Pa.  Oculos  tuos. 
Il  Marino  traduce: 

Sei.  E  dove  è  tanta  strage 

Di  mortali  trafitti, 

E  di  tanta  infelice 

Gente  da  me  spietatamente  uccisa? 
Lau.  Un  cadavere  essangue 

Vedrai,  s'a  me  ti  volgi,  a  cui  sol  manca 

La  sepoltura  dell'amato  seno. 
Sei.  Che  strane  cose  ascolto? 

Morto  dunque  favelli,  e  spiri,  e  senti? 

0  non  m'incontrin  mai 

Più  spaventose  e  formidabil'ombre. 

Quante  gravide  Ninfe 

In  mirando  il  tuo  volto 

Si  sconciato  nel  parto? 


—  187  — 
Lau.  Tu  motteggi,  e  schernisci 

L'amorosa  miseria^  anzi  la  morte 

D'un'  anima  innocente. 

Pur  vedi  ben  dal  pallido  sembiante 

Il  color  scolorito; 

Questo  mortai  pallore,  ond'io  son  tinto, 

Ti  può  mostrar  eh'  io  sono 

Ombra  tra'  vivi,  e  più  che  vivo  estinto. 
Sei.  Si  certo,  è  ben  di  cenere  funebre 

Questa  tua  pallidezza. 

In  quella  guisa  impallidisce  a  punto 

La  tua  languida  guancia, 

Che  suole  uva  matura, 

0  maturo  ciriegio 

Quando  sorseggian  più  là  ne  l'Autunno 

Tra  le  porpore  lor  Bacco,  e  Vertunno. 
Lau.  Ancor  scherzi,  i  tuoi  scherzi 

Son  saette  pungenti,  onde  trafigi 

Il  mio  misero  cor,  eh'  è  già  trafitto. 
Sei.  Se  fede  a  me  non  pi-esti, 

Prendi  lo  specchio,  e  mira. 

Crederai  forse  a  te  medesrao  il  vero. 
Lau.  Altro  specchio  non  chieggio. 

Né  (credo)  oggetto  offerse  agli  occhi  altrui 

Cristallo  mai  più  lucido  di  quello. 

In  cui  felice  hor'  io 

Mi  contemplo,  e  vagheggio. 
Sei.  E  quale  specchio  è  questo, 

Ch'oggi  dopo  il  morir  ti  fa  beato  ? 
Lau.  I  tuoi  begli  occhi,  in  cui 

Del  mio  perduto  cor  scherza  l'imago. 

Erasmo  : 

Ma.  Argutator,  ut  semper  tui  similis  es!  Sed 


—  188  — 
unde  doces  esse  exanimem  te?  An  cibum  capiunt 
iimbrae  ? 
Marino  : 

Sei.  Faceto  gai-ruletto, 

Sempre  all'arguzie  torni. 

Ma  dimmi,  ond'argomenti 

Esser  morto  vivendo?  Hor  gustan  forse 

Cibo  (come  tu  fai)  gli  spirti  ignudi? 

A  questa  domanda  di  Maria ^  Panq^hilus  ri- 
sponde : 

Capiunt,  sed  insipidum,  qualem  ego. 
E  Laurino  anche  lui: 

Si  nutrisce  quest'alma, 
Gustan,  ma  tal,  qual'io. 
D'invisibil  vivanda, 
Che  mi  pasce,  e  consuma. 

Maria  domanda  a  Pamphilus:  Sed  obsecro  te, 
num  etiam  ambulant   umbrae?  num  vestiuntur? 
num  dormiunt? 
e  Selvaggia  : 

Parlano  forse  i  morti? 

Colgon  fior,  premon  latte? 

Veston  lana  ancor  l'ombre  ?  e  prendon  sonno  ? 

PampMlus  dice  : 

Sed  quid  dices,  si  argumentis  Acliilleis  evin- 
cam,  et  me  esse  mortum,  et  te  esse  liomicidam? 
E  Laurino: 


—  189  - 
E  che  diresti  poi, 

Se  con  ragion  gagliarde  io  ti  provassi, 
Che  quantunque  mi  viva, 
Son  di  vita  diviso, 
E  che  tu  l'homicida,  io  son  l'ucciso? 

Il  Marino  copia  j)ersiiio  i  sottilissimi  sofismi  del 
filosofo  fiammingo;  Erasmo  dice: 

Pa.  Primum  illud  milii  donabis,  opinor,  mor- 
tem  niMl  alind  esse  quam  abductionem  animae  a 
corpore.  —  Ma.  Largior  —  Pa.  Sed  ita  ut  ne  repo- 
scas  quod  dederis.  Tum  band  infìciaberis,  eum,  qui 
alteri  adimit  animam,  bomicidam  esse.  Concedes  et 
illud,  quod  a  gravissimis  auctoribus  dictum,  tot 
seculorum  suffragiis  comprobatum  est,  animam. 
hominis  non  illic  esse,  ubi  animat,  sed  ubi  amat. 

Ed  il  Marino: 

Lati.  Altro  non  è  il  morir,  che  scioglier  l'alma. 
Da  la  sua  viva  spoglia. 
Homicida  è  colui, 
Che  priva  d'alma  altrui. 
Ma  l'alma  de  l'amante 
Vive  dov'ama  piti,  che  dov'ha  vita, 
Dunque  muor  per  colei,  che  l'ha  rapita. 

Ed  il  dialogo,  o  meglio  contrasto  amoroso,  va 
sempre  di  questo  passo,  tanto  nel  poeta  napoli- 
tano, quanto  nel  filosofo  fiammingo.  Però,  siccome 
il  dialogo  nel  primo  è  fra  due  pastori,  l'ambiente 
ed  i  particolari  del  contrasto  risentono  della  vita 
pastorale  ;  e  questa  è  l'unica  variante  fatta  dal 
Marino  al  dialogo  di  Erasmo,   nel  quale  ultimo 


—  190  — 
l'azione  è  fra  due  personaggi  qualunque,  lasciando 
indeterminati  l'epoca  e  l'ambiente. 

L'ultimo  componimento  pastorale  del  Marino, 
compreso  nella  1*^  edizione  della  Samjpogna,  s'in- 
titola «  I  Sospiri  d'Ergasto.  » 

Il  Marino  chiama  questo  componimento  idillio 
pastorale,  ma  potrebbesi  chiamare  invece  poemetto 
lirico  o  stanze  boscherecce;  perchè  nei  Sospiri 
d' Ergasto  non  esiste  azione  pastorale,  che  co- 
stituisce appimto  r  idillio,  I  Sospiri  d' Ergasto 
sono  stanze  ove  un  pastore  innamorato  sfoga  la 
sua  passione  'amorosa  in  affettuosi  lamenti,  ma, 
su  per  giù,  questo  contrasto,  spesso  fìnto,  tra  il 
pastore  innamorato  e  la  ninfa,  la  quale  gli  ha 
rifiutato  d'amarlo,  e  l'ha  lasciato  in  dolorosi  affanni, 
è  rappresentato  in  ogni  componimento  d'indole 
pastorale,  che  del  resto,  per  esser  compreso  in  con- 
fini troppo  angusti,  manca  di  varietà  d' episodi 
in  tutte  le  altre  manifestazioni  del  sentimento 
che  non  sia  quello  amoroso  ;  dove  la  fantasia  crea- 
tiva del  poeta  si  sbizzarrisce  in  mille  modi,  fino 
a  creare  scene  ed  azioni,  ove  la  vita  pastorale 
non  esiste  che  nell'ambiente,  mentre  la  forma  e 
il  sentimento  dell'amore  è  spesso  moderno  e  tale, 
che  semplici  pastori  non  potrebbero  mai  esprimere 
e  provare. 

Dunque  tanto  negli  idilli  che  nelle  egloghe 
primeggia  l'amore  colle  sue  gioie  e  colle  sue  pene. 
Amore  convenzionale,  forse  più  convenzionale  di 
quello  de'  petrarchisti,  perchè  nel  Marino  s'ag- 
giunge anche  il  convenzionalismo  della  frase,  oltre 


—  191  — 
quella  dell'azione  e  del  colorito.  Ed  il  poeta, 
per  sua  natura,  superficiale  negli  affetti  e  volgare 
nella  forma,  non  raggiunge  mai  la  frescliezza  delle 
pastorali  e  dell'egloglie  del  Tasso  e  del  Baldi,  dei 
quali  il  primo  è  poeta  verista,  ossia  conoscitore 
e  cultore  della  natura,  e  dà  perciò  vita  reale  ai 
personaggi  che  descrive;  nello  stesso  tempo  clie 
mantiene  fermi,  per  quanto  si  riferisce  all'ambiente, 
le  stesse  azioni  o  scene  create  dagli  antichi,  dan- 
doci per  giunta  la  pastorale  più  bella  e  di  colorito 
più  delicato,  che  sia  mai  uscita  dalla  fantasia  di 
poeta. 

Nel  Marino  invece  osserveremo  passione  e  non 
amore  ;  la  quale  gli  serve  per  far  parlare  ai  per- 
sonaggi un  linguaggio  enfatico  e  pieno  di  calde 
immagini;  ed  in  questo  appunto  il  Marino  è  grande 
artista.  E  se  qualche  volta  svia  l'azione  della  pa- 
storale, per  sua  natura  elegiaca,  questo  è  lieve 
difetto,  quando  il  poeta  crea  episodi  caldi  d'amo- 
rosa passione. 

Ed  il  cardinal  Bentivoglio,  scrivendo  al  Marino, 
si  congratulava  con  lui  per  la  fattura  del  libro, 
dicendogli:  «  Oh  che  vena!  Oh  che  purità!  Oh 
che  peregrini  concetti  !  »  Mentre  che  in  Italia  l' o- 
pera  veniva  accolta  con  grande  favore,  e,  appena 
pochi  mesi  dopo  la  prima,  aveva  l'onore  di  una 
seconda  edizione. 


—  192  — 


Capitolo  IX. 


Il  Marino  e  V  Hotel  de  Jìamboitilìet  —  Zi' Ariane  —  Il  Marino  e  lo  ChapC' 
lain  —  Valore  letterario  e  morale  del  poema  —  Il  Marino  poeta  epico 
e  lirico  —  Vénus  and  Adonis  di  Shakespeare  —  Valore  lirico  del  poem» 
shakespeariano  —  Vénus  t>t  Adonis  del  La  Fontaine,  e  gli  altri  poemi 
sul  mito  adoniano  —  La  favola  di  Amore  e  Psiche  —  Marino,  La  Fontaine 
e  Molière  —  Importanza  del  mito  di  Psiche. 


Fondavasi  in  questo  mentre  a.  Parigi  il  cele- 
berrimo «  Hotel  de  Rambouillet,  »  e  istituivasi  la 
classe  cosi  detta  dei  précieux  e  delle  précieuses.  In 
via  Saint-Thomas  du  Louvre,  non  lungi  dal  pa- 
ìais  du  CanUnal,  esisteva,  nel  1615,  un  palazzo 
notevole  per  la  sua  architettura  italiana.  Questo 
palazzo  era  V Hotel  Pisani  o  Romhouillet,  che  ì  pré- 
cieux scelsero  per  loro  quartier  generale,  e  che 
distinguevasi  per  lo  splendore  ricercato  de'  suoi 
ornamenti,  per  lo  stile  magnificamente  civettuolo 
dei  suoi  vasti  giardini,  e  soprattutto  per  l'eleganza 
della  gente  che  lo  frequentava.  La  padrona  di  casa, 
una  italiana,  (figlia  d'un  Pisani  e  d'una  Savelli) 
aveva  sposato  il  marchese  di  Rambouillet,  amicis- 
simo di  Concino  Concini  e  gran  maestro  della  guar- 
daroba sotto  Luigi  XIII.  Attorno  ad  essa  si  riuni- 
vano quegli  ultimi  residui  della  corte  italiana  di 
Caterina  e  di  Maria  de'  Medici  e  coloro  che  in 
Francia  jD^ssavano  per  gente  di  spirito. 

Ciascuno   prendeva   quivi  un  battesimo  d'eie- 


—  193  — 
ganza,  clii  dal  Bembo,  chi  dai  romanzi  di  caval- 
leria, ma  soprattutto  dall'  Ariosto  e  dal  Tasso  ;  un 
profumo  venuto  dall'Italia  imbalsamava  questa 
casa  consacrata  ai  raffinamenti  esotici  ed  alle 
delicatezze  sconosciute.  Dall'  Hotel  de  Rambouillet 
ebbero  origine  i  précieux  e  le  précieuses  contro 
cui  Boileau,  Racine  e  Molière  s'armarono,  tren- 
t'anni  più  tardi,  della  collera  del  buon  senso.  I 
primi  frequentatori  dell'  Hotel  de  Eambouillet  fu- 
rono italiani,  e  quando  nel  1615  giunse  in  Francia 
il  Marino,  madama  di  Eambouillet  gli  aperse 
con  gioia  la  casa.  Si  credeva  esser  lui  il  degno 
successore  degl'  immortali  poeti  italiani,  i  quali 
erano  ogni  giorno  rammentati  con  venerazione 
dai  frequentatori  dell'Hotel  de  Eambouillet.  In- 
vece il  Marino  rappresentava  una  società  nuova, 
scevra  d'energia,  d' anima  politica,  di  nazionalità 
e  di  coraggio.  (1) 

Il  Marino,  entrando  a  far  parte  àeìVHótel  de 
Eaìnbouillet,  ne  divenne  subito  l'idolo.  Colà  conobbe 
Cbapelain,  Godeau,  Gomberville,  Conrart,  Costar 
e  tanti  altri,  ed  il  poeta  napolitano  invaghiva  co- 
storo alla  lettura  del  Tasso,  dell'Ariosto,  del  Gua- 
rini  e  del  Bonarelli,  mentre,  a  sua  volta,  imitava 
le  egloghe  e  gl'idilli  bellissimi,  indegnamente 
calunniati  dal  Malherbe,  del  Honsard. 

Intanto  a  Parigi  il  Marino  preparava  la  stampa 


(I)  Philarète  Chasles.  Le  Marino  en  France.  La  France,  V[Espagne 
et  l'Italie  cui  XVII  siede,  Paris,  1875,  pag.  248.  Vedere  anche  11  breve 
ma  succoso  articolo  del  Salvici),  salla  Rassegna  Settimanale:  L'Ariosto 
all'Hotel  de  Eambouillet,  1880. 

13 


—  194  — 
àeW Adone  ;  s'  era  deciso  a  farlo  stampare  in 
Francia  «  si  per  la  correzione,  avendovi  da  inter- 
venire egli  stesso,  si  perchè  forse  in  Italia  non 
gli  avrebbero  passate  alcune  lascivette  amorose.  » 
Per  pubblicarlo  avea  dovuto  indugiare  moltissimo, 
perchè  le  continue  discordie  civili  in  Francia  non 
gli  permettevano  di  accennare  ad  alcuni  perso- 
naggi, che  da  un  momento  all'altro  potevano  ca- 
dere in  disgrazia  della  corte  francese.  «  Quando 
il  Marino  pensò  di  pubblicare  in  Parigi  il  suo 
Adone^  scrive  l'Aprosio  nel  Buratto^  ne'  primi 
tempi  che  si  trovò  in  quelle  parti,  volse  racco- 
mandarlo alla  protezione  del  maresciallo  d'Ancre; 
ma  convenendoli  per  le  rivoluzioni  della  Francia 
raccomandarlo  a  Sua  Maestà  Cristianissima,  mutò 
ogni  cosa, .  né  vi  rimase  vestigio  della  prima  de- 
dicazione. «  Girolamo  Aleandri  pure  assicura,  che 
«  la  stamjDa  àelV  Adone  restò  per  un  pezzo  inchio- 
data per  la  morte  del  maresciallo  d'Ancre.  » 
Però  nel  1623,  morto  il  Luynes,  ed  acquietatesi 
in  Francia  le  discordie  civili,  V Adone  uscì  alla 
luce  pe'  tipi  del  Varano,  e  dedicato  «  alla  Maestà 
Cristianissima  di  Maria  de'  Medici,  Regina  di 
Francia  e  di  Navarra.  » 

Durante  la  stampa  del  poema,  «  che  per  l'ac- 
curatezza e  ricchezza  sua  richiedeva  molto  tempo,  » 
il  Marino,  a  guisa  d'un  buon  padre,  che  vede  i 
progressi  del  figlio  suo  prediletto  e  se  ne  compiace, 
scriveva  agli  amici  d'Italia,  esternando  loro  le 
sue  paure  od  i  suoi  vivi  compiacimenti.  «  Jj  Adone 
si  stampa,    scriveva    al    Ciotti,  e  già  n'  è   tirata 


—  195  — 
una  gran  parte.  La  stampa  riesce  magnifica,  e 
Azeramente  degna  di  poema  regio,  perchè  si  fa  in 
foglio  grande  con  dieci  ottave  per  facciata,  in 
due  file,  onde  la  spesa  è  grossa  per  esser  volume 
forse  di  trecento  fogli,  e  si  fa  il  conto,  che  sia 
per  sette  volte  maggiore  della  Gerusalemme  del 
Tasso.  In  dodici  non  si  potrebbe  stampare,  se  non 
si  facesse  in  più  tomi.  » 

Vi  figurate  ora  voi  questo  poema,  frutto  d'un 
buon  verseggiatore,  al  quale  stanno  rivolti  gli 
sguardi  di  tutti  i  letterati  italiani  e  stranieri, 
come  una  famiglia  che  aspetta  con  ansia  un  ma- 
schio, il  quale  perpetui  il  nome  di  lei,  indaga  le 
spasmodiche  torture  della  partoriente,  quasi  per 
carpirgli  innanzi  tempo  il  grande  responso?  Fi- 
guratevelo,  pensando  altresì  che  il  re  dà  al  Ma- 
rino mille  scudi  per  prepararne  la  stamj^a;  e  cer- 
tamente nascerà  spontanea  una  mesta  riflessione, 
osservando  che  il  povero  Torquato,  alla  distanza 
di  appena  trent'anui,  impazzisce  perchè  gli  fanno 
scempio  della  sua  Gerusalemme^  e  deve  la  stampa 
di  questo  poema  alla  infedeltà  d'un  amico! 

La  vendita  dell' J.cZo«e  arrivò  sino  a  cinquanta 
scudi  il  volume,  ed  il  Loredano  dice  che  «  in 
Francia  era  in  istima  maggiore  della  Lucerna  di 
Epitetto,  o  delle  orazioni  di  Isocrate,  che  furono  ven- 
dute venti  talenti,  ed  il  re  permise  che  una  copia  di 
esso  venisse  depositata  nella  biblioteca  reale.  »  (1) 
Giovanni  Chapelain,  autore  della  Pucelle  d'Or- 
ai) Loredano,  Vita  del  Cav.  Mai-ino,  op.  cit.,  pag.  42. 


—  196  — 
léanSj  e  amico  intimo  del  cardinal  di  Richelieu,  il 
quale  l'onorava,  come  dice  egli  stesso  «  de  son 
estime  et  des  marques  da  sa  libéralité,  »  richiesto  da 
Giacomo  Favereau,  forse  il  correttore  delle  stampe 
del  jDoema,  di  un  suo  parere  sull'opera  che  doveva 
pubblicarsi  a  Parigi,  scrisse  una  lunghissima  let- 
tera  o  meglio  una  sperticata  lode  sul  poema,  la 
quale  fu  premessa  all'edizione  di  Parigi.  (1) 

Quello  però  che  più  meraviglia,  è  che  lo  Cha- 
pelain,  subito  dopo  la  morte  del  Marino,  cambiasse 
completamente  idea  sull'eccellenza,  e  del  poema,  e 
dell'autore. 

Infatti  in  una  lettera  che  egli  scrive  a  Saint 
Amant,  nel  1654,  lo  ammira  per  esser  cosi  fe- 
dele seguace  del  Marino,  e  con  fare  ironico  si  ma- 
nifesta, in  fondo  dalla  lettera,  della  stessa  ojdì- 
nione    del  contradittore. 

«  Monsieur,  gli  scrive,  j'avoue  que  ce  seroit 
une  grande  témérité  à  moy  de  contester  jamais 
avec  vous  de  la  moindre  chose  du  monde,  lorsque 
mesme  j'ay  ojDiniastré  que  le  nombre  des  stances 
de  V Adone  estoit  plus  petit  que  vous  me  l'asseu- 
riés.  Je  devois  penser  que  vous  excelliés  par  dessus 
moy  aussi' bien  en  mémoire  qu'en  jugement,  (sic) 
et  croire,  puisque  je  n'estois  pas  conforme  à  votre 
opinion,  que  la  mienne  estoit   la    mauvaise.  »  (3/ 

(1)  Fu  tradotta  in  italiano  da  certo  Torelli,  e  pubblicata,  nel  1625, 
Insieme  alla  "  Sferza  infettiva  contro  i  quattro  ìiiinistri  d'iniquità  „  cu- 
riosissimo scritto  del  Marino. 

(2)  Questi  giudizi  dello  Chapelaiu  li  rilevo  dalle  lettere  del  medesimo, 
pubblicate  per  cura  del  Ministero  di  Pubblica  Istruzione  in  Francia. 
l.ettres  de  Jean  Chapelain,  Paris,  Imprimerle  Natioualc,  1830-1883,  voi.  II» 


—  197  — 

Nel  1639  poi,  in  una  lettera  diretta  al  Balzac, 
il  quale  lo  avea  rimproverato  d'essere  stato  troppo 
severo  nel  dargli  un  giudizio  sul  Marino,  lo  Cha- 
pelain,   se  ne  esce  con  queste  parole: 

«  Vous  traittés  seulement  un  peu  trop  favo- 
rablement  le  dernier,  (il  Marino)  ce  me  semble, 
en  luy  donnant  l'imagination  au  point  de  perfec- 
ction.  »  (1)  Ed  il  fatto  era  andato  cosi.  Il  Marino 
nel  suo  lungo  soggiorno  a  Parigi,  segnalò  allo 
Chapelain,  «  avec  des  louanges  extraordinaires  » 
le  commedie  d'Annibal  Caro  ;  lo  Chapelain  sembra 
che  non  ne  rimanesse  soddisfatto,  e  ciò  lo  si  scorge 
facilmente  dalla  lettera  che  scrive  allo  Balzac. 

Più  tardi  le  censure  e  gli  attacchi  aumentano. 
Nel  1662,  scrivendo  ad  Huet,  gli  spiega  come  si 
offri  di  scrivere  la  prefazione  alV  Adone  ;  per  meglio 
far  risultare  le  basse  e  malsane  accuse  dello  Cha- 
pelain, che  rimproverava  al  Marino  la  mancanza 
d'immaginazione,  -  lui  che,  in  quarant'  anni,  non 
seppe  cavar  dal  suo  cervello  che  una  noiosissima 
epopea  sopra  Giovanna  d'Arco,  -  riporteremo  intero 
il  brano  di  lettera  che  si  riferisce  al  nostro  poeta  : 

«  L'occasion  en  fut  que  le  voyant  dans  une  forte 
raisonnable  crainte  que  cet  ouvrages  (VAdoiie) 
quand  il  l'auroit  publié,  ne  fust  batu  en  ruine 
par  les  Académies  Italiennes  à  cause  de  l'imper- 
fection  de  son  dessein  qu'  il  n'excusoit  que  sur 
sa  jeunesse  et  le  peu  de  connaissance  qu' il  avoit 
de  l'Art  lorsqu'il  l'entreprit,  je  lui  conseillay  de 
chercher  quelque  couleur  pour  se  couvrir  de  l'in- 

(1)  Op.  cit.,  pag.  365. 


—  198  — 

sulte  qu'il  appréliendoit.  Il  me  dit  qu'il  avoit 
pensé  de  faire  un  parallèle  de  la  poesie  et  de  la 
peinture  et  d'essayer  de  se  sauver  par  ce  marais 
là.  Gomme  cette  eschappatoire  me  parut  peu 
digne  de  luy,  je  l'exliortay  à  méditer  quelque 
cliose  de  plus  solide,  et  sur  ce  qu'il  me  conjura 
d'  y  resver  aussi,  ilatté  de  la  confìance  il  prenoit 
en  moy,  je  rumiuay  si  bien  que  je  lui  trouvay 
l'expédient  que  vous  aurés  peu  voir  dans  la  Pré- 
face  francoise  de  sou  poéme,  qu'aprés  luy  avoir 
exposé  mon  moyen,  il  voulut  que  je  misse  par 
escrit,  ce  qui  fut  fait  dès  l'année  1620  et  imprimé 
peu  de  temps  ensuitte,  avec  un  grande  satisfaction 
du  Chevalier  quand  il  vit  que  le  Italiens  avoient 
traduit  mon  écrit  en  leur  langue,  et  employé 
dans  la  première  édition  qu'ils  iirent  de  l'ouvrage 
à  Venise.  »  (1) 

Nel  1673  scrive  al  padre  Rapin  :  «  Quant  au 
Marin,  il  estoit  fort  ignorant  et  n'avoit  que  l'ima- 
gination  belle  pour  le  détail  des  pensées  et  l'expres- 
sion  pure,  nombreuse  et  claire  pour  la  lyrique 
principalement.  Il  ne  pensa  à  l'art  qu'aprés  avoir 
achevé  son  grand  poéme  de  V Adone,  ce  qui  le  dése- 
speroit  quand  il  fut  obligé  de  le  publier  et  qui  ì& 
fìt  me  conjurer  de  le  secourir,  ce  que  je  fìs  à  sa 
consolation  par  la  préface  que  vous  avés  velie.  »  (2) 

Le  sj)agnolate  dello  Cliapelain  non  si  riflettona 
solamente  sul  Marino.  Nel  1667,    in  una    lettera 

(1)  Op.  cit.,  pag.  215.  Si  noti  che  il  Marino  nel  1G20  aveva  quarautuiv 
auni  e  lo  Chapelain  era  poco  più  che  ventenne. 

(2)  Ibid.,  pag.  816. 


—  199  — 
diretta  al  conte  G-raziani,  il  caro  e  fedele  disce- 
polo del  Tassoni,  lo  assicura  che  la  stampa  della 
Secchia  Rapita^  (la  quale  prima  di  compiersi  passò 
per  tante  vicissitudini)  senza  suo  mezzo  non  si 
sarebbe  pubblicata;  aggiunge,  «  qu'il  avoit  eiie 
manuscrite  de  la  main  propre  du  Tassone  pour 
la  faire  imprimer  en  France,  parce  qu'  il  ne  l'eust 
osé  tenter  en  Italie,  ce  que  j'entrepris  contre  le 
sentiment  du  chevalier  Marin  qui  par  jalousie 
ou  par  caprice  en  avoit  desgoutté  les  impri- 
meurs.  » 

Ora,  quando  si  osservi  che  nel  1622,  anno  in 
cui  usci  a  Parigi  la  prima  edizione  della  Secchia 
Rapita^  lo  Chapelain  era  giovanissimo  e  niente 
affatto  conosciuto,  com'è  mai  possibile  che  il  Tas- 
soni gli  inviasse  in  Francia  una  delle  copie  ma- 
noscritte del  suo  poema?  Noteremo  poi  che  lo 
Chapelain,  neanche  quando,  all'ombra  del  terribile 
cardinale,  divenne  un  personaggio  importante  nella 
repubblica  delle  lettere,  essendo  egli  stato  uno 
dei  princijDali  fondatori  deìV Acadéìnie  Frangaise, 
sorta  nel  1635,  conosceva,  se  non  altro  di  fama, 
il  Tassoni,  perchè,  nella  stessa  lettera  diretta 
al  Graziani,  scrive:  «  Mandés  moy,  je  vous  prie, 
si  le  Tassone  n'estoit  pas  Modenois,  et  s'il  avoit 
de  la  naissance,  quels  estoient  ses  emplois  et  ses 
attachemens  et  quand  et  où  il  est  mort.  » 

Il  Carducci  invece  assicura,  che,  «  passando  di 
Roma  l'abate  Scaglia  fratello  di  un  diplomatico 
di  Savoia,  si  offri  di  condurre  egli  la  pratica 
della  stampa  in  Parigi.  Ed  in  Parigi  uscì  final- 


—  200  — 
mente  nel  1622,  a  cura  di  Francesco  Baroni  se- 
^etario  del  marchese  Scaglia  e  pe'tipi  di  Tous- 
saint   du  Bray,  il  desiderato  poema.  »  (1) 

Ma  ritorniamo  alV Adone  ed  al  suo  autore;  il 
quale  temeva  che  il  poema  non  corrispondesse 
all'aspettazione,  «  non  tanto  per  lo  stile  che  po- 
teva passar  per  esser  fiorito  e  venusto,  ma  per 
la  favola,  »  alquanto  povera  d'azioni.  Il  poema 
è  diviso  in  venti  canti;  ha  ben  cinquemilaventitrè 
ottave  e  più  di  quarantamila  versi.  Avea  ragione 
dunque  il  Marino,  quando  assicurava  a'  suoi  amici 
d' Italia,  essere  il  poema  delV Adone  j)i^i-  lungo 
della  Gerusalemme  e  del  Furioso.  Lavoro  giova- 
nile, il  poema  dovette  subire  parecchie  trasfor- 
mazioni, e  per  pressioni  di  protettori  e  d'amici, 
e  23er  le  vicende  de'  tempi.  (2)  L'ATeandri  poi  assi- 
cura che  la  stampa  à&W Adone  restò  per  un  pezzo 
inchiodata  per  la  morte  del  maresciallo  d'Ancre 
cui,  come  ho  detto  innanzi,  doveva  esser  dedi- 
cato il  poema. 

(1)  Prefazione    alla    Secchia    Rapita,    Firenze,    Barbèra,    pag.    XXIX. 

(2)  Al  conte  Fortuniano  Sanvitali  il  Marino  scriveva  che  in  Parigi 
pensava  di  dare  alle  stampe  parecchie  sue  opere  e  specialmente  VAilnne 
«  il  quale  sebbene  è  poema  giovanile,  composto  ne'  primi  anni  della  mia 
età,  piace  tanto  a  tutti  gli  amici  intelligenti  per  la  sua  facilità  e  venustà, 
che  mi  son  deliberato  di  pubblicarlo.  »  Che  poi  l'Adone  fosse  un  poema 
giovanile  ce  lo  assicura  anche  il  Loredano,  il  quale  dice  che  «  il  Marino 
a  Ravenna  compose  V Adone,  la  Strage  degl'Innocenti  a  parte  delle  jDicfcie 
Sacre.  » 

Girolamo  Aleaudri  e'  informa,  che  il  poema  «  si  scriveva  prima  che 
il  Marino  partisse  lia  Roma;  che  poi  a  Torino  seguitò  a  scriverlo  e  gli 
die. te  in  Francia  l'ultima  mano.  »  Ed  Onorato  Claretti,  nella  prefazione 
alla  terza  parte  della  Lira,  da  noi  già  accennata,  fin  dal  1614  ci  avverte 
che  tra  le  altre  composizioni  poetiche  del  Marino,  v'era  «  V Adone,  il  quale 
»>  poco  meno  di  mille  stanze,  et  in  questo  si  compiacque  egli  ne'  primi 
anni  della  sua  gioventù  alquanto  di  vagheggiare.  » 


—  201  — 

Venere, 

La  Donna  che  dal  mare  il  nome  ha  tolto 

un  giorno,  pensando  ai  casi  di  sua  vita,  prende 
ad  inveire  contro  Amore,  suo  figliuolo,  il  quale 
gli  fa  commettere  i  più  pazzi  errori;  ed  al  colmo 
dell'esasperazione,  afferrato  un 

....  flagello  di  rose  insieme  attorte, 

lo  batte  di  santa  ragione.  Le  rosee  carni  del  po- 
vero fanciullo  diventano  rosse  per  le  battiture,  ed 
il  fìgliuol  di  Vulcano,  uscito  dalla  materna  reggia 
pieno  di  sdegno,  va  piangendo  a  raccontar  l'acca- 
duto ad  Apollo,  il  quale,  da  quando  rese  palesi 
gì'  illeciti  amori  di  Venere  con  Marte,  è  nemico  giu- 
rato di  Citerea.  Apollo  cerca  di  consolarlo  e  poi 
gl'indica  la  maniera  di  vendicarsi.  In  Arabia, 
gli  dice,  v'è  un  giovinetto    a    cui    la    madre 

Fu  sorella  in  un  punto,  avolo  il  padre. 

Qual  vendetta  più.  bella  sarà  la  tua,  che  quella  di 
rendere  Venere  innamorata  di  Adone?  Se  tu  farai 
ciò,  non  solo  cadrà  in  oblio  la  memoria  de'  nostri 
grandi  contrasti,  ma  ti  regalerò  altresì  una  lira, 
che  ha  le  corde  d'oro  ed  i  tasti  di  rubino. 

Amore  accetta  il  consiglio  datogli  da  Apollo, 
e  congedatosi  da  lui. 

Per  gli  spazi  sen  già  de  l'aria  molle 
Scioccheggiando  con  l'aure  Amor  volante, 
E  dettava  talor  rabbioso  e  folle 
Tragiche  rime  a  più  d'un  mesto  amante, 
Talor  lungo  un  ruscello  o  sovra  un  colle 


—  202  — 
Piegava  l'ali  e  raccogliea  le  piante, 
E  dovunque  san  giva  il  superbetto 
Rubava  un  core  o  trapassava  un  petto. 

Mentre  Amore  corre  per  l'aere,  vede  in  una 
piccola  barca  il  giovanetto  Adone.  Il  quale  in- 
seguendo una  cerva,  s' era  condotto  in  riva  al 
mare;  e,  adescato  dalla  Sirena,  approfittando  d'una 
barca,  abbandonata  colà  dai  pescatori,  v'era  salito 
sopra  per  fare  una  gita  in  mare.  Amore,  tutto  in- 
tento a  tribolar  la  madre,  va  a  trovare  Vulcano, 
il  quale,  appena  scorge  il  nudo  pargoletto,  smette 
di  lavorare;  e,  udito  cbe  il  figliuolo  vuole  una- 
freccia,  la  quale  potrà  anche  vendicare  i  torti 
cke  Venere  lia  con  Vulcano,  gliela  fabbrica  sul- 
l'atto; Amore  s'allontana  quindi  da  lui  e  corre 
da  Nettuno,  al  quale  racconta  che  il  Cielo  ha  de- 
stinato che  Adone  divenga  amante  di  Venere; 
lo  prega  perciò  che  susciti  una  tempesta,  la  quale 
possa  far  capovolgere  la  barca  ov'  è  Adone  e  lo 
faccia  cadere  nelle  sue  reti  amorose.  Nettuno  ac- 
consente. 


Urtansi  i  venti  in  minaccioso  aspetto, 
De  le  concavi  nubi  anime  orrende; 
E  par  che  rotto  o  distemprato  in  gelo 
Voglia  nel  mar  precipitare  il  Cielo. 

Borea  d'aspra  tenzon  tromba  guerriera 
Sfida  il  turbo  a  battaglia  e  la  procella. 
Curva  l'arco  dipinto  Iride  arciera, 
E  scocca  lampi  in  vece  di  quadrella. 
Vibra  la  spada  sanguinosa  e  fiera 


—  203  — 
■   Il  superbo  Oi-'ion,  torbida  stella, 
E  '1  Ciel  minaccia  ed  a  le  nubi  piene 
D'acqua  insieme  e  di  foco  apre  le  vene.  (1) 

Il  mal  guidato  paliscliermo  intanto  balla  sulle 
onde  ed  a  volte  corre  pericolo  di  sommergersi, 
insieme  al  misero  Adone,  che 

Più  pallido  e  piii  gelido  che  neve 

aspetta  ad  ogni  momento  la  morte,  tanto  più 
perchè- anche  la  perfida  Sirena  lo  ha  abbando- 
nato. Finalmente  approda  a  terra,  e  precisa- 
mente sull'isola  di  Cipro,  così  cara  a  Venere. 
Adone  scende  dalla  barca  e  percorre  l'isola  per 
lungo  e  per  largo;  incontra  Olizio  pastore,  al 
quale  racconta  le  sue  peripizie,  e  Clizio  gentil- 
mente dà  ad  Adone  tutte  le  notizie  che  vuole. 
Gl'indica  la  gran  reggia  d'Amore;  il  parco  ri- 
servato solamente  a  Venere  e  a  Diana,  e  del 
quale  egli  è  custode,  e  gli  dice  che  vive  beato  e 
contento  del  suo  stato,  lungi  dalle  insidie  delle 
corti  :  fa  quindi  bere  ad  Adone  il  vino  spremuto 
dalle  poma  del  piacere,  vino  che  inebria  il  fan- 
ciullo e  lo  fa  amare,  senza  sapere  però  quale  sia 
l'oggetto  del  suo   amore. 

Sceso  intanto  nel  mar  Febo  a  corcarsi 
Lasciò  le  piagge  scolorite  e  meste, 
E  pascendo  i  destrier  fumanti  ed  arsi 
Nel  presepe  del  Ciel  biada  celeste  (!) 

(l)  Cfr.  questa  battaglia  dei  venti    con    quella    della    Secchia    Rapita 
(Canto  X). 


—  204  — 
Di  sudor  e  di  foco  umidi  e  sparsi 
Nel  vicino  Ocean  lavar  le  teste; 
E  l'uno  e  l'altro  Sol  stanco  si  giacque 
Adon  tra'  fiori,  Apollo  in  grembo  a  l'acque. 

La  mattina  seguente  Adone  accompagna  Clizio, 
che  conduce  la  gregge  al  pascolo;  giungono  in- 
sieme presso  il  palazzo  d'Amore,  del  quale  il  Ma- 
rino fa  una  descrizione,  che,  se  è  goffa  per  lo 
straordinario  accumulamento  di  colori,  i  più  di- 
sparati e  più  strani,  è  però  bella  per  la  vivezza 
delle  immagini  e  per  la  straordinaria  messe  di 
fantastici  episodi.  Quivi  Clizio  narra  ad  Adone 
il  giudizio  di  Paride,  per  la  quale  narrazione  il 
Marino  spende  ben  centocinquanta  ottave  ;  poscia 
Clizio  lascia  Adone  che,  per  opera  d'Amore,  prende 
ad  inseguire  un  cervo,  ma  invano  tenta  raggiun- 
gerlo ;  e  stancatosi  d' inseguirlo,  si  ferma,  molto 
lungi  però  dal  gregge  e  da  Clizio.  Intanto 

Già  varcata  ha  del  dì  la  mezza  terza 
Sul  carro  ardente  il  luminoso  Auriga, 

e  Adone 

Sotto  l'arsura  de  l'estiva  lampa 
Che  dal  più  alto  punto  il  sol  percote, 

soffre  un  caldo  insopportabile.  Cerca  un  luogo  di 
frescura,  ove  potersi  riposare  ;  lo  trova  e  s'addor- 
menta. Amore  però  veglia  per  la  vendetta  ;  scher- 
zando con  Venere,  che  è  sopra  un  colle  non  molto 
distante  dal  luogo  ove  dorme  Adone,  le  ferisce 
il  cuore  additandole  l'addormentato  giovinetto,  e 


—  205  — 
l'innamoramento  è  compiuto.  Venere  allora,  tra- 
mutata in  Diana  cacciatrice,  vola  in  traccia  di 
Adone,  e  nella  strada  si  punge  il  piede  con  una 
spina.  Ciò  non  ostante  segue  il  suo  cammino, 
perchè 

Vinta  la  doglia  è  dal  desire  e  cede 
A  la  piaga  del  cor  quella  del  piede. 

Giunge  là  dove  Adone  dorme  saporitamente,  e, 
dopo  averlo  lungamente  e  languidamente  contem- 
plato, lo  bacia  in  bocca.  Il  suono  del  bacio  sve- 
glia Adone,  che  alla  vista  di  tanta  beltà  resta  esta- 
tico, poi  superato  quel  primo  stupore,  tenta  fug- 
gire ;  ma  la  diva  trattenendolo  : 

Perchè,  disse,  mi  fuggi,  ove  ne  vai  ? 
Mi  volgeresti  il  bel  guardo  sereno, 
Se  sapessi  di  me  ciò  che  non  sai. 

Allora  il  giovanetto,  soggiogato  dallo  splendore 
degli  occhi  di  Venere,  sosta,  e  le  chiede  chi  sia; 
la  madre  d'  amore  evita  dirgli  la  sua  origine  di- 
vina, e,  per  fuorviare  il  discorso,  lo  prega  di  vo- 
lerle curare  la  puntura  della  spina  ;  Adone  che 
non  era 

di  cote  rozza  alpina 

Né  di  libica  serpe  al  mondo  natO; 

s'affretta  subito  a  medicar  la  ferita.  Qui  Venere 
rivela  al  giovane  l'esser  suo;  ed  approfittando  del 
turbamento  di  Adone,  gli  dice  : 


—  206  — 

Or  più  non  mi  nascondo.  Io  mi  son  quella 
Per  cui  d'Amore  il  terzo  ciel  s'accende; 
Quella  son  io  la  cui  lucente  stella 
Innanzi  al  Sole,  emula  al  Sol  risplende. 
Taccio  che  dal   mio  bel,  qualunque  bella 
Bella  è  detta  quaguiìi,  bellezza  prende; 
Taccio  che  figlia  son  del  sommo  padre: 
Dirò  sol  ch'amo  e  che  d'Amor  son  madre. 

Adone,  dopo  aver  guardato  lungamente  la  sua 
amante,  chinò  mestamente  gli  occhi,  e  sospirando 
le  fece  una  bella  dichiarazione  amorosa.  Venere 
acconsente  d'esser  amata  da  lui;  poi,  strettamente 
abbracciati,  entrano  nel  palazzo  d'Amore.  Quivi 
il  nudo  arciere  narra  ad  Adone  la  favola  di 
Psiche,  la  narrazione  della  quale  occupa  tutto  in- 
tero il  quarto  canto  del  poema. 
/  Nel  canto  quinto  siamo  ancora  nel  palazzo  d'A- 
/  more,  dove  Adone,  pentitosi  della  parola  data, 
cerca  una  via  per  andarsene;  intanto  gii  si  pre- 
senta Mercurio,  che  per  trattenerlo  gli  narra 

Ciò  ch'addiveune  al  misero  Narciso 

ed  altre  novelle,  con  le  quali  vuol  persuadere  1'  in- 
deciso fanciullo  a  diventar  l'amante  di  Venere. 

Con  queste  fole  e  Tavolette  avea 
Del  sommo  Giove  il  messaggier  sagace 
Pei'suaso  il  Garzon 

Ma  Venere  troncando  le  ciancio  del  loquace 
arciere,  si  fa  avanti  ad  Adone,  pregandolo  che 
smetta  la  sua  vita  di  cacciatore  piena  di  perigli, 


—  207  — 

e  che  diventi  l'miico  suo  pensiero;  ed  Adone  ac- 
consente. Allora  entrambi  entrano  nella  casa  di 
Venere,  ove  sono  effigiate  tutte  le  produzioni  della 
natura  e  dello  scibile  umano.  Quivi  Mercurio  pre- 
para al  fanciullo  un  gentile  spettacolo,  la  rappre- 
sentazione della  Favola  d'Atteone,  dove 

L' Invenzione,  la  Favola,  il  Poema, 
E  r  Ordine,  e  '1  Decoro  e  l'Armonia 
De  la  Tragedia  sua  stendono  il  tema, 
La  Facezia  e  l'Arguzia  e  l'Energia. 
L' Eloquenza  è  l'artefice  suprema. 
Sovrastante  con  lei  la  Poesia. 
Seco  il  Numero,  i1  Metro  e  la  Misura 
Si  prendou  de  la  Musica  la  cura. 

Intanto  cala  la  notte,  e  Adone  s' addormenta 
nelle  braccia  di  Venere,  senza  neancbe  aspettare 
la  fine  dello  spettacolo.  La  mattina,  svegliatosi, 
invitato  dalla  dea  e  da  Mercurio,  entra  insieme 
con  loro  nel  giardino  del  Piacere,  del  quale  Mer- 
curio fa  a  Adone  la  più  minuta  descrizione;  en- 
trano insieme  in  alcuni  ripari  naturali,  mira- 
bilmente istoriati;  qui  il  Marino  tesse  l'elogio 
de'  più  insigni  pittori  viventi  e  da  lui  conosciuti  • 
nomina  il  Paggi,  il  Castello,  clie  illustrò  la  Ge- 
rusalemme, il  Caravaggio,  lo  Spada,  il  Valesio. 
il  Morazzone,  il  Serrano,  il  Procaccino,  il  Palma, 
il  Bronzino,  il  Bassignano  e  Guido  Reni.  Adone 
ammira  le  belle  pitture,  clie  adornano  quelle 
grotte  naturali,  in  cui  sono  raffigurati  gli  amori 
e    le    gesta    de'  celesti    eroi,    come   il    rapimento 


—  203  — 
d'Europa,  gli  amori  cV  Endimione  ecc....  Venere 
poi,  nel  fargli  osservare  un  pavone,  gli  narra  una 
favola,  che  è,  di  sana  pianta,  creazione  del  Ma- 
rino. (1)  Poi,  sempre  guidato  dalla  sua  amante,  fa 
un'abile  e  coscienziosa  rivista  di  tutte  le  piante 
che  vi  sono  nel  giardino  del  Piacere.  Giunto  da- 
vanti all'albero  che  dà  la  mirra  : 

Non  potè  fai-  che  del  materno  stelo 
Non  compiangesse  il  figlio  il  caso  acerbo  : 
Siati  sempre,  gli  disse,  amico  il  cielo. 
Tronco  che  'n  mezzo  al  cor  piantato  io  serbo. 
Le  tue  chiome  non  sfrondi  orrido  gelo, 
Le  tue  braccia  non  spezzi  Austro  superbo; 
E  quando  ogni  altra  pianta  i  fregi  perde 
In  te  verdeggi  il  fior,  fiorisca  il  verde. 

Per  il  giglio  poi  ha  parole  affettuosissime  : 

Salve,  gli  disse,  o  sacra,  o  regia,  o  degna 
Del  maggior  Gallo  e  fortunata  insegna. 

Dopo  avergli  fatto  contemplare  tutte  le  mera- 
viglie che  adornano  il  Cielo,  Mercurio  conduce 
alfine  il  giovinetto  nel  palazzo  di  Venere.  Ivi  sona 
raccolte  le  anime  di  tutte  le  belle  donne  passate 
e  future  ;  ■  colà  la  gente  mena  vita  allegra  ed  ogni 
cosa  traspare  amore  e  felicità.  Sotto  la  scorta  di 
Venere,  Adone  passa  in  rassegna  le  donne  più. 
famose  dell'antichità  e  del  presente;  vede  Elena, 
Briseide,   Polissena,   Didone,    Cleopatra,    Europa, 

(1)  Veggasi  Canto  VI,  st.  82. 

Gli  umani  ingegni  quando  più  non  sanno 
Favole  tali  ad  inventar  si  danno. 


—  209  — 
Leda,  Diomira,  Arianna.  Andromeda,  Ero,  tra  le 
greche;  E-ebecca,  Rachele,  Betsabea,  Susanna, 
Ester,  Dalila,  Dina,  Giuditta,  Berenice,  tra  le 
ebree;  Livia,  Messalina,  Lucrezia,  Fausta,  tra  le 
latine  ;  e  finalmente  tra  le  moderne  :  Emilia  Gron- 
zaga.  Margherita  di  Ferrara,  Margherita  di  Lo- 
rena, Giulia  d'Este,  Caterina,  Maria,  Isabella  e 
Margherita,  tutte  di  casa  Savoia;  Margherita  di 
Valois,  Carlotta  di  Condè,  Maria  di  Montpensier, 
Luigia  di  Lorena,  Caterina  di  Guisa,  Anna  di 
Soissons,  Enrichetta  di  Vendòme,  Anna  di  Rohan, 
Maria  di  Montbason,  e  la  vedova  regina  di  Francia, 
Maria  de'  Medici,  alla  quale  il  poeta  fa  un  nuovo 
panegirico.  (1) 

Terminata  la  rassegna  delle  belle  e  nobili  donne, 
sparisce  d'un  tratto  l' incantevole  quadro  di  quelle, 
e  poi  Adone,  Venere  e  Mercurio  ritornano  donde 
erano  partiti.  Nel  viaggio  Adone,  ancor  piena  la 
mente  di  quelle  belle  visioni,  domanda  a  Mercurio 
quale  sarà  la  sua  fine;  Mercurio,  il  quale  conosce 
le  strane  peripezie  tra  le  quali  Adone  è  nato  e 
cresciuto,  gli  predice  che  morrà  ucciso  da  un  cin- 
ghiale, ed  il  racconto  di  questa  morte  è  pieno  di 
quelle  massime  d'astrologia,  delle  quali  nel  Sei- 
cento già  si  cominciava  a  dubitare. 

Venere  però,  che  vede  il  suo  amante  turbarsi 
a  questo  brutto  vaticinio,  lo  trae  a  se   e  lo  per- 


(1)  Yeggasi  nella  Nuova  Antologia  (aprile  1887)  lo  studio  del  Nuziante: 
lì  cavalier  Marino  alla  Corte  di  Luigi  XIII.  L'A.,  il  quale  è  già  noto  per  altri 
lavori  malameute  coLcepiti  e  peggio  condotti,  con  questo  titolo  pomposo» 
scrive  un  articolo  pieno  di  grandi  inesattezza   e  di  giudizi  avventatissimi. 

14 


—  210  — 
suade  che  Mercurio  lia  mentito.  A  dissuaderlo 
vieppiù  tesse  la  vita  dell'alato  Iddio,  raffiguran- 
dolo quale  un  fraudolento  ed  un  menzognero.  Gli 
narra  il  furto  che  fece  dell'armento  di  Apollo  e, 
quando  questo  Dio  era  ancora  fanciullo,  dell'arco 
e  della  farètra  ;  del  pugnale  rubato  a  Marte  ;  della 
tenaglia  e  del  martello  preso  a  Vulcano,  e  del 
cinto  che  rubò  dal  fianco  di  lei,  vantandosi  poi 
della  cosa.  Lo  ammonisce  infine  a  non  credere 
alla  magia  e  all'astrologia  ;  sicché  Adone  si  ras- 
serena. 

Intanto  la  Gelosia,  della  quale  il  Marino  fa  un 
ritratto  raccapricciante  per  la  sua  orridezza,  sco- 
pre la  tresca  di  Venere  con  Adone  e  corre  tosto 
a  darne  avviso  a  Marte,  il  quale  faceva  ritorno  da 
una  guerra  contro  i  Geloni  ed  i  Biarini,  e  sa  cosi 
bene  insinuargli  nel  sangue  il  veleno  della  gelo- 
sia, che  il  Dio  guerriero  vola  a  Cipro,  per  isco- 
prire  l'infedeltà  di  Venere.  Però  Amore  se  ne 
accorge  e  tosto  ne  avvisa  Venere,  la  quale  chiama 
Adone  in  disparte  e  lagrimando  l'esorta  a  fug- 
gire l'ira  del  «  Dio  degli  elmi  e  delle  spade,  »  Il  gio- 
vinetto, pien  di  paura,  si  stringe  nelle  spalle  e  tace, 
apparecchiandosi  a  partire.  Ecco  lo  sfortunato 
amante  in  preda  alla  paura. 

Pallido  più  che  marmo,  e  freddo  e  muto 
Mentre  ch'apre  la  bocca  è  parlar  vuole, 
In  quella  guisa  che  talor  veduto 
Da  la  Lupa  del  bosco  il  Pastor  suole, 
Come  spirito  e  senso  abbia  perduto 
Gli  muoion  nella  lingua  le  parole, 


—  211  — 

Ed  è  sì  oppresso  dal  dolor  che  l'ange 

Gir  al  pianger  de  la  Dea  punto  non  piange. 

Venere  per  la  prima  si  rimette  dall'emozione, 
e,  dà  all'amante  un  anello  magico,  mirando  il  quale 
Adone  può  sempre  veder  l'immagine  dell'amata 
donna  e  sapere  dove  e  con  chi  sia, 

Dove  sto,  ciò  elle  fo,  ciò  che  ragiono. 

Quindi  lo  raccomanda  a  Ganimede,  perchè  gli 
sia  d'aiuto  e  lo  difenda.  Adone  parte,  mentre  Te- 
nere s'apparecchia  a  ricevere  l'infuriato  amante. 
La  Dea  usufruisce  di  tutte  le  civetterie,  di  tutte 
le  moire  e  le  ipocrisie,  di  cui  dispone  la  donna. 

Con  gli  occhi  molli  e  con.  le  trecce  sparte 
Su  la  soglia  dell"  uscio  incontro  fassi, 
E  va  dolente  e  lusinghiera  avante 
Al  suo  feroce  e  furibondo  amante. 

Comincia  dal  rimproverare  a  Marte  la  sua  ge- 
losia; gli  rammenta  che,  sebbene  madre  e  mae- 
stra di  Amore,  pure  è  infelicissima,  perchè  con- 
tinuamente torturata  dalla  gelosia  ;  a  quelle  moine 
Marte  si  placa  e  la  pace  è  fatta.  Intanto  Adone, 
errante  e  fuggitivo,  va  piangendo  e  tapinando 
tutto  il  giorno. 

Qui  v'  è  un'ottava  che  ne  ricorda  un'altra  del- 
l'Ariosto, quando  questi  narra  la  fuga  d'Angelica. 

Teme  se  stesso,  e  di  se  stesso  l'ombra 
Al  suo  proprio  timore  anco  è  molesta. 
Ad  ogni  sterpo  che  '1  sentiero  ingombra 
Volgasi,  e  '1  moto  immantinente  arresta. 


—  212  — 
Quasi  destrior  che  spaventato  adombra, 
S'ode  picciol  rumor  per  la  foresta, 
Se  tronco  il  calle  gli  attraversa,  o  sasso 
Marte  sei  crede  e  risospende  il  passo. 

Sopraffatto  poi  dalla  staiicliezza  s'addormenta^ 
e  la  mattina,  mentre  erra  per  un  bosco,  s'  imbatter 
in  una  leggiadra  cacciatrice.  Questa  correva  sulle 
piste  di  un  cagnolino,  il  quale,  a  sua  volta,  cac' 
clava  una  bellissima  cerva,  presso  ad  esser  dila- 
niata dai  denti  del  cane,  e  che  si  rifugia  vicino 
a  Adone,  scongiurandolo  a  salvarla.  Adone,  sor- 
preso nel  sentir  parlare  una  cerva,  prega  la  cac- 
ciatrice a  voler  risparmiare  la  povera  bestia.  La 
cacciatrice,  eli'  è  una  driade,  a  nome  Silvania,  ac- 
consente a  patto  che  voglia  visitare  la  sua  pa- 
drona, Falsirena, 

Che  d'Jasio  è  sorella  e  di  Mammone, 
Di  Proserpina  figlia  e  di  Plutone. 

Adone  di  buon  grado  accetta,  e,  guidati  dal 
cagnolino,  s'incamminano  verso  il  palazzo  della 
maga. 

Passano  per  vie  orride  e  sconosciute;  traver- 
sano oscure  caverne,  e,  dopo  aver  acquietato  un 
orribile  coccodrillo,  che  loro  contendeva  il  passo, 
entrano  nel  giardino  di  Falsirena,  dove  incon- 
trano la  maga  che  si  stava  bagnando.  Intanto 
Amore  colpisce  con  una  freccia  il  cuore  di  Fal- 
sirena, che  diviene  amante  di  Adone.  Curioso  e 
ridicolo  giuoco  di  parole  è  la  narrazione  del  cam- 
biamento del  cuore  di  Falsirena  ;  la  maga,  rima- 


—  213  — 
sta  sempre  insensibile  agli  strali  d'  amore,  adesso, 
alla  vista  d'un  imberbe  fanciullo,  seiite  ardersi  il 
^uore. 

Ardo,  lassa,  o  nou  ardo  ?  ahi  qual'  io  sento 
Stranio  nel  cor  non  conosciuto  affetto? 
È  forse  ardore?  Ardor  non  è,  che  spento 
L' avrei  col  pianto,  è  ben  d'ardor  sospetto. 
Sospetto  no,  più  tosto  egli  è  tormento. 
Come  tormento  sia,  se  dà  diletto? 
Diletto  esser  non  può,  poich'  io  mi  doglio. 
Pur  congiunto  al  piacer  sento  il  cordoglio. 

Or  se  non  è  piacer,  se  non  è  affanno. 
Dunque  è  vano  furor,  dunque  è  follìa? 
Folle  non  è  chi  teme  il  proprio  danno; 
Ma  che  prò,  se  noi  tugge,  anzi  il  desia? 
Forse  Amor?  Non  Amor.  S'io  non  m'inganno, 
Odio  però  non  è:  che  dunque  tìa? 
Che  sia,  misera,  quel  che  '1  cor  m'ingombra? 
Certo  è  pensiero,  o  di  pensiero  un'ombra? 

Ma  se  questo  è  pensier,  deh  perchè  penso? 
Crudo  pensier,  perchè  pensar  mi  fai? 
Perchè  s'al  proprio  mal  penso  e  ripenso. 
Torno  sempre  a  pensar  ciò  ch'io  pensai? 
Perchè,  mentre  in  pensar  l'ore  dispenso. 
Noli  penso  almen  di  non  pensar  più  mai? 
Penso,  ma  che  poss'io?  Se  penso,  invero 
La  colpa  non  è  mia,  ma  del  pensiex'O. 

Mentre  clie  la  maga  s' affligge  e  piange,  per 
«ssere  incappata  ne'  lacci  d'  amore,  sopravviene 
il  giorno  e  con  esso  le  due  sue  ancelle  Sofrosina 
e  Idonia;  quest'ultima  consiglia  Falsirena  a  non 
sprezzare  l'amore    cb'  ella    nutre    per  Adone;    la 


—  214  — 
prima  invece  tenta  di  combattere  questa  passione,, 
e  fa  osservare  clie  Adone  è  un  primo  venuto  e 
indegno  di  lei.  Dopo  penoso  combattere  tra  que- 
sti due  disperati  consigli,  Falsirena  s'appiglia  al 
primo.  Ignuda,  spirante  dal  corpo  bellissimo  àrabi 
profumi,  muove  pian  piano,  timida  e  rispettosa,  là 
dove  giace  Adone  e  lo  bacia.  Adone....  resiste  ai 
vezzi  della  maga,  e  cosi  risponde  alle  sue  infuO' 
cate  preghiere  : 

Donna,  assai  ti  degg'io;  pria  che  si  sciolga 
Qviesto  dover,  si  disciorrà  la  vita. 
Finché  chiusa  fia  l'alma  in  questa  spoglia, 
Falsirena  nel  petto  avrò  scolpita. 
Così  signor  foss'  io  d'ogni  mia  voglia 
Come  pronto  m' avresti  a  darti  aita. 
Ma  che  poss'  io  ?  Forza  d'onor  mi  move, 
E  tenor  di  destin  mi  chiama  altrove. 

Falsirena,  a  queste  parole,  rimane  muta  e  confusa;^ 
essa  aveva  troppo  calcolato  su  quel  giovine,  che 
non  ha  d'uomo  che  l' immagine.  Adone  esce  dalle 
dorate  soglie  e  v'entra  Idonia,  per  conoscer  l'ac- 
caduto; l'ancella,  anch'essa  sorpresa,  corre  verso 
Adone,  che 

tra  quelle  verdui*e  erme  e  riposte 
Al  fresco  del  mattin  si  rivestiva 

e  tenta  persuaderlo  a  diventar  l'amante  della  sua 
padrona.  Adone  però  non  ne  vuol  sapere;  il  mi- 
sero ed  ostinato  fanciullo  vien  messo  in  un'orrida 
prigione  ed  a  guardia  di  lui  vien  dato  uno  schiava 
armeno  eunuco. 


—  215  — 
Il  Marino  in  questo  punto  traduce  Claudiano. 
Eccone  alcuni  esempi: 

Marino  : 

La  custodia  del  carcere  rimise 
L'irata  Donna  ad  un  suo  schiavo  Armeno. 
Degno  supplicio  al  mal,  che  poi  commise, 
Portò  costui  fin  dal  materno  seno. 
Giusto  ferro  gli  svelse  e  gli  recise 
De  la  gemina  fede  il  peso  osceno, 
E  gli  tolse  a  la  luce  appena  uscito, 
Ufiicio  in  un  di  padre,  e  di  marito. 

Claudiano: 

Saepe  tamen  coepit.  Cunabula  prima  ci'uentis 
Dedita  suppliciis.  Rapitur  castrandus  ab  ipso 
Ubere,  suscipiunt  matris  post  viscera  poenae. 
Advolat  Armenius  certo  mucrone  recisos 
Edoctus  mollire  mares  damnoque  nefandum 
Aucturus  pretium  fecundum  corporis  ignem 
Sedibus  exhaurit  geminis  unoque  sub  ictu 
Eripit  officium  patris  nomenque  mariti.  (1) 

Marino  : 

Corse  l'Arabia  e  per  l'Assii'ia  appresso 
Esercitossi  in  ministerii  vili  ; 

Claudiano  : 

Inde  per  Assyriae  trahitur  commercia  ripae. 
Hiuc  fora  venalis  Galata  ductore  frequentat 
Permutatque  domos  varias 

(1)  Claudii  Claudiani,  Carmina  (In  Eutropitim,  lib-  I)  op.  cit.,  Voi.  I, 
pag.  160. 


—  216  — 
Però  Adone  teneva  ancor  duro  ;  e  la  maga  al- 
lora ricorse  a'  suoi  mezzi,  dai  quali  attendeva  un 
effetto  sicuro. 

E  di  tenta)-  determinò  gl'inganni. 

Fece  un'orribile  miscela  d' ingredienti  magici, 
ma  tutti  sortivano  un  effetto  contrario;  e  come 
mai  poteva  sperar  bene,  se  la  dea  d'amore,  die 
Falsirena  invocava  ne'  suoi  scongiuri,  era  la  sua 
rivale?  Quindi  la  maga  si  trasforma  in  pix3Ì- 
strello,  e  sul  dorso  di  un  montone  corre  in  As- 
siria, dov'era  stata  combattuta  aspra  guerra;  xa, 
sul  campo  su  cui  giacevano  ammonticchiati  mi- 
gliaia di  morti,  ne  sceglie  uno,  per  i  suoi  magici 
esperimenti,  lo  fa  risuscitare,  e  gì' impone  di  ri- 
velarle il  nome  della  donna  che  occupa  il  primo 
posto  nel  cuore  di  Adone.  Il  povero  risuscitato 
le  confessa  che  Adone  ama,  riamato,  Citerea,  e 
che  Falsirena  non  potrà  mai  godere  dell'  amore 
di  Adone,  perchè  questi  possiede  un  anello,  che  lo 
preserva  da  ogni  passione.  La  maga,  presa  dal  di- 
spetto, uccide  il  soldato  e  poi  ritorna  velocemente 
nel  suo  palazzo,  più  che  mai  accesa  d'amore  del  fan- 
ciullo, e  col  fermo  proposito  di  togliergli  l'anello. 

Tutti  gì'' incantesimi  eseguiti  dalla  maga  Fal- 
sirena, sono  tolti,  di  peso,  dal  libro  IV  della  J'ar- 
saglia  di  Lucano.  Citiamo,  al  solito  alcuni  brani, 
presi  qua  e  là,  indeterminatamente: 

Marino  : 

Scelse  un  meschin  di  quella  mischia  sozza, 
Che  passato  di  fresco  era  di  vita. 


—  217  — 
Intei-o  i]  volto,  intera  avea  la  strozza, 
Ma  d'un  troncon  nel  petto  ampia  ferita. 
Se  fia  guasto  il  pulmon,  se  rotta,  o  mozza 
Sia  l'aspra  arteria,  ond'  ha  la  voce  uscita, 
Prendendo  a  prescrutar,  trova  la  maga, 
Ch'  ha  le  viscere  intatte  e  senza  piaga. 

Lucano  : 

Thessala  vatem 

Eligit,  et  gelidas  leto  scrutata  medullas 
Pulmonis  rigidi  stantes  sine  vulnere  fibras 
Invenit,   et  vocem  defuncto  in  corpore  quaei'it. 

Marino  : 

Nel  seu,   che  quasi  ancor  tepido  langue, 
Fa  nove  piaghe  allor  la  man  perversa, 
Per  cui  lavando  il  già  corrotto  sangue. 
Il  vivo  e  '1  caldo  in  vece  sua  vi  versa. 
Gli  sparge  ancora  in  ogni  vena  esangue 
Di  varie  cose  poi  tempra  diversa. 
Ciò  che  di  mostruoso  unqua,  o  di  tristo 
Partorisce  Natura,  entro  v'  ha  misto. 

De  la  Luna  la  spuma  ella  vi  mesce. 
La  bava,  quando  in  rabbia  entra  il  mastino, 
E  '1  fiel  vi  mette  del  minuto  pesce 
Che  '1  volo  arresta  del  fugace  pino. 
Ponvi  l'onda  del  mar  quando  più  cresce, 
E  di  Cariddi  il  vomito  canino, 
E  de  l'unico  augello  orientale 
11  redivivo  cenere  immortale. 

L' incorruttibil  cedro  e  l'amaranto, 
L' immortai  mirra  e  '1  balsamo  v'interna, 


—  218  — 
La  seconda  virtù  del  grano  infranto, 
E  de  la  Fera  fertile  di  Lerna. 
Del  fegato  di  Tizio  ancora  alquanto, 
Che  sé  medesrao  rinascendo  eterna, 
E  del  seme  del  bombice  v'ha  messo, 

Verme  possente  a  suscitar  sé  stesso. 
Il  cerebro  dell' Arpido  vi  stilla 
E  la  midolla  del  non  nato  infante, 
E  del  nido  Aquilino  onde  rapilla 
Vi  pon  la  pietra  gravida  e  sonante; 
Havvi  l'occhio  del  Lince,  e  la  pupilla 
Del  Basilisco  e  del  Dragon  volante. 
Della  Iena  la  spina,  e  la  membrana 
De  la  Cerasta  orribile  africana. 

Le  polpe  del  Biscion  che  nel  mar  Rosso 
Guarda  la  preziosa  margherita 
Infra  l'altre  sostanze,  e  'nsieme  l'osso 
Del  libico  Chelidro  anco  vi  trita. 
La  pelle  v'  è  e'  ha  la  Cornice  addosso 
Dopo  ben  nove  secoli  di  vita  ; 
Né  vi  mancan  le  viscere  col  sangue 
Del  Cervo  alpin  che  divorato  ha  l'angue. 

Ferri  di  ceppi  e  pezzi  di  capestri, 
Fili  arrotati  di  rasoi  taglienti. 
Punta  d'aguzzi  chiodi  e  sangui  e  mestri 
Di  donne  uccise  e  di  svenate  genti. 
De'  fulmini  la  polve  e  degli  alpestri 
Ghiacci  il  rigore  e  gli  aliti  de'  venti, 
E  i  sudori  del  Sol  quand'arde  luglio 
Vi  distempra  confusi  in  un  miscuglio. 

V'aggiunse  d' Etna  l'orride  faville. 
Di  Flegra  i  zolfi,  e  di  Cerauno  i  fumi. 
Del  gran  Cocito  le  cocenti  stille, 
Del  pigro  Asfalto  i  fervidi  bitumi. 


I 


—  219  — 

E  di  miir altri  ingredienti  e  mille 
Abominande  fecce,  empi  sozzumi, 
Infamie  e  pesti,  onde  la  Maga  abbonda, 
Incorporò  nella  mistura  immonda. 

Poiché  tai  cose  tutte  insieme  accolte 
Nelle  fibre  e  nel  core  infuse  gli  ebbe, 
E  dal  suo  sputo  infette  altr'erbe  molte 
Virtuose  e  mirabili  v'accrebbe. 

Lucano: 

Pectora  tunc  primum  ferventi  sanguine  supplet- 
Vulneribus  laxata  novis:  taboque  medullas 
Abluit:  et  virus  large  lunare  ministrat. 
Hunc  quidquid  fetu  genuit  natura  sinistro 
Miscetur.  Non  spuma  canun,  quibus  unda  timori  est 
Viscera  non  lyncis,  non  dirae  nodus  hyaenae 
Defuit,  et  cervi  pasti  serpente  medullae  : 
Non  puppim  retinens,  Euro  tendente  rudentes. 
In  medii  eclieneis  aquis,  oculique  draconum, 
Quaeque  sonant  feta  tepefacta  sub  alita  saxa  :^ 
Non  Arabum  volucer  serpens,  innataque  rubris 
Aequoribus  custos  pretiosae  vipera  conchae: 
Aut  viventis  adhuc  Libyci  membrana  cerastae, 
Aut  cinis  Eoa  positi  Phoenicis  in  ara. 
Quo  postquam  viles,  nec  habentes  nomina  pestes- 
Contulit:  infando  saturatas  Carmine  frondes, 
Et,  quibus  OS  dirum  nascentibus  inspuit  herbis, 
Addidit,  et  quidquid  mundo  dedit  ipsa  veneni; 

E,  per  finire,  il  Marino: 

A  tai  detti,  o  prodigio,  ecco  repente 
Il  sangue  inte^ndir  gelido  e  duro, 


—  220  — 

E  le  vene  irrigar  d'umor  corrente, 
Che  già  pur  dianzi  irrigidite  furo. 
Ripien  di  spirto  e  d'alito  vivente 
Movesi  già  l'immobil  corpo  oscuro; 
Già  già  palpita  il  petto,  ed  ogni  fibra 
Ne'  freddi  polsi  si  dibatte  e  vibra. 

I  nervi  stende  a  poco  a  poco,  e  sorge, 
E  comincia  ad  aprir  l'egre  palpebre. 
Torna  il  calor,  ma  somministra  e  porge 
A  le  guance  un  color  eh' è  pur  funebre. 
Pallidezza  sì  fatta  in  lui  si  scorge, 
Che  somiglia  squallor  di  lunga  febre; 
E  con  la  morte  ancor  confusa  e  mista 
Giostra  la  vita  che  pian  pian  riacquista. 

■e  Lucano  : 

Protinus  adstrictus  calvit  cruor,  atraque  fovit 
Vulnera,  et  in  venas  extremaque  membra  cucurrit. 
Pei'cussae  gelido  trepidant  sub  pectore  fibrae: 
Et  nova  desvetis  subrepens  vita  mediillis, 
Miscetur  morti.  Tunc  omnis  palpitat  artus  : 
Tenduntur  nervi  :  nec  se  tellure  cadaver 
PauUatim  per  membra  levat,  terraque  repulsum   est, 
Erectumque  semel.  Distento  lumina  rictu 
Nudantur.  Nondum  facies  viventis  in  ilio, 
lam  morientis  erat.  Kemanent  pallorquo  l'igorque; 
Et  stupet  Hiatus  mundo. 

Intanto  Adone  languiva  in  durissima  prigione, 
dovendo  sopportare  i  cattivi  trattamenti  dell'  ar- 
meno Idraspe,  e,  quel  ch'era  peggio,  quelli  di 
un'orrida  nana,  la  quale,  per  colmo  di  sciagura, 
s'innamora  di  Adone.  Però  Idonia,  la  confidente 


—  221  — 

di  Falsirena,  si  decide  a  togliere  la  compagnia 
di  quelle  furie  al  povero  fanciullo,  e,  dopo  mille 
moine,  offrendogli  un  lauto  pranzo,  gli  dà  del- 
l'oppio, il  quale  fa  cadere  Adone  in  un  profondo 
letargo.  L'anello  allora  vien  rubato  e  sostituito 
facilmente  con  uno  falso.  Al  destarsi  Adone,  ancor 
pieno  dei  fumi  del  narcotico,  fa  per  mirare  l'im- 
magine di  Citerea  nell'anello,  ma  la  cara  visione 
è  sjjarita.  Allora  si  stempera  in  lagrime,  e  Venere, 
commossa,  manda  Mercurio  al  giovinetto  latore 
di  una  lettera.  Il  messaggero  di  Giove  gli  palesa 
la  frode  commessa  da  Falsirena,  e  lo  istruisce  per 
ricuperare  l'anello  ed  uscir  dalla  prigione.  Frat- 
tanto Falsirena,  sotto  le  spoglie  di  Venere,  com- 
parisce ad  Adone,  il  quale  è  preparato  a  questa 
gherminella  della  maga  e  non  se  ne  commuove. 
La  maga  allora  si  decide  a  preparare  un  filtro,  che 
faccia  ardere  di  amore  per  lei  il  fedele  amante  di 
Oiterea,  ma  Idonia,  clie  serve  il  desinare  al  giovi- 
netto, per  volere  di  Mercurio,  sbaglia  bevanda  e  gli 
dà  invece  a  bere  quella  clie  trasforma  le  persone. 
Adone,  tramutato  in  magnifico  uccello,  è  final- 
mente libero  e  vola  per  l'aria  in  compagnia  di 
Mercurio,  il  quale  gli  fa  noto  come  la  casa  e  gli 
incantesimi  di  Falsirena  siano  opera  di  Vulcano, 
aizzato  da  Marte,  che  vuol  vendicarsi  di  Citerea. 
Vulcano  vede  in  tal  modo  svelata  la  trama  tesa 
al  povero  Adone,  sul  quale  sovrasta  però  un  altro 
pericolo;  d'incappare  cioè  in  una  rete  clie  Vul- 
cano ha  ordita  per  impadronirsi  di  Adone,  tra- 
sformato in  uccello.    Adone  cade  nella  rete,  che 


—  222  — 

è  stata  tesa  nel  giardino  di  Venere,  e  le  compagne 
della  dea  decidono  di  regalar  a  lei  il  bell'animale. 
Qui  Adone  è  spettatore  di  una  scena  ben  triste 
per  lui:  assiste  agli  amori  di  Venere  con  Marte! 
Al  misero  fanciullo  vien  voglia  di  piangere, 

Né  potendo  sfogar  la  doglia  in  pianto 
Fu  costi'etto  addolcirla  almen  col  canto. 

Mercurio  ba  compassione  del  tapinello  e  gli  dà 
alcuni  consigli,  pe'  quali  può  riprendere  la  forma 
umana;  entrare  nella  casa  di  Falsirena  e  ripren- 
dersi l'anello  donatogli  dalla  dea,  anello  che  la 
maga  gli  aveva  perfidamente  rubato.  Questo  ed 
una  noce,  la  quale,  quando  ne  provi  il  bisogno, 
può  apprestargli  il  desinare,  deve  prendere  Adone 
nell'erario  della  maga  e  non  altro.  Il  malcauto 
giovine  però  non  ascolta  il  consiglio  di  Mer- 
curio. Entra  nel  luogo  ove  sono  riposti  tutti  i  te- 
sori di  Falsirena,  ed  oltre  all'anello  ed  alla  noce 
non  sa  resistere  alla  tentazione  d'  ajDpropriarsi 
ancbe   l'arco  e  la  farètra  di  Meleagro. 

Adon  che  fai  ?  deli  qual  follia  ti  tira 
Ai-mi  a  toccar  d'infernal  tosco  infette? 
Ahi  forsennato,  ahi  trascurato,  mira 
Chi  quelParco  adoprò,  quelle  saette. 
V'è  di  Diana  ancor  nascosta  l'ira, 
Son  fatalmente  infauste  e  maledette, 
Dacché  la  Fera  sua  fu  da  lor  morta, 
Infelici  l'ha  fatte  a  chi  le  porta. 

La  maga  Falsirena  intanto  s'appresta    a   ven- 
dicar l'onta  arrecatagli  da  Adone.  Organte,  specie 


—  223  — 

di  rodomonte,  è  incaricato  della  vendetta;  il  ma- 
snadiero  prende  con  sé  uno  scelto  drappello  e  si 
mette  in  traccia  del  fuggitivo,  il  quale  erra 
per  ogni  dove,  libero  alfine  clagl'incaatesimi  della 
maga.  Griunto  alla  marina,  vede  che  colà  si  bagna- 
no alcune  villanelle,  e,  vestendosi  da  donna,  si 
unisce  ad  esse.  In  questo  mentre  una  turba  di 
masnadieri  circonda  il  fanciullo  e  lo  fa  prigio- 
niero. Trascinato  davanti  a  Malagorre,  capitano 
dei  predoni,  è  condotto  nell'abitazione  di  questa 
gente,  specie  di  grotta,  ove  sono  riposte  le  spoglie 
rubate  ai  viandanti.  Malagorre  s'innamora  pazza- 
mente di  Adone,  cb'è  creduto  una  donna;  anche 
perchè  il  fanciullo  afferma  d'esser  tale  e  di  chia- 
marsi Licasta.  Qui  il  racconto  assume  proporzioni 
ariostesche,  e  forse  l'intreccio  e  la  varietà  degli 
episodi  superano  in  fantasia  anche  quelli  creati 
da  messer  Ludovico.  Adone  è  messo  in  compagnia 
con  un  giovine,  il  quale,  a  sua  volta,  s'invaghisce 
del  fanciullo.  Filauro,  tale  è  il  nome  del  giovine, 
era  stato  fatto  prigioniero,  insieme  alla  sorella 
Filora,  mentre  andavano  a  Menti.  In  questo  mentre 
Orgonte  s'imbatte  co'  masnadieri,  capitanati  da 
Malagorre,  e  s'impela  una  battaglia  che  degenera 
in  carneficina.  Filauro  e  Filora  muoiono  per  mano 
dei  briganti,  che  sono  volti  in  fuga  da  Orgonte 
solo  a  combattere,  dopo  che  tutti  i  suoi  son  morti. 
Orgonte  allora  si  mette  in  traccia  di  Adone,  ma 
nelle  ricerche  cade  in  una  voragine  e  muore.  (1) 

(l)  In  questo  canto  (XV)  il  Marino  s'appropria  quel  verso  di   Dante  : 
La  bocca  sollevò  dal  fiero  pasto. 


—  224  — 

Scampato  da  questo  nuovo  pericolo,  Adone,  men- 
tre si  riposa  dalle  emozioni  provate,  vede  venirgli 
incontro  un  cavaliere.  E  Sidonio,  amante  di  Do- 
risba,  la  madre  della  quale,  Argene,  nega  di  dar- 
gliela in  isposa,  perchè  in  guerra  l'ha  orbata  del 
padre.  Dopo  vari  episodi,  Sidonio  raggiunge  il 
suo  intento,  mentre  che  Adone,  dopo  tante  perse- 
cuzioni, ritorna  nelle  braccia  di  Citerea. 

La  quale  però,  per  provar  se  ancora  Adone  gli 
sia  fedele,  si  trasforma  in  una  villanella  ;  e,  fìn- 
gendosi un'indovina,  facilmente  può  indagare  i 
passati  amori  del  giovine  e  predirgli  nuove  pe- 
ripezie. Alla  fine  Venere,  saputo  il  suo  amante 
essergli  stato  sempre  fedele,  si  rivela  a  lui. 

De'  dì  perduti  e  del  ritorno  tardo 
Ristora  il  tempo  entro  il  bel  grembo  assiso, 
Dolce  pria  l'arse  il  lampeggiar  del  guardo, 
Dolce  ferillo  il  folgorar  del  viso, 
Ma  dolcemente  da  più  dolce  dardo 
Al  saettar  del  bacio  ei  giacque  ucciso. 
Languiano  l'alme  e  d'egual  colpo  tocca 
Gravida  di  due  lingue  era  ogni  bocca. 

E  dopo  ciò  gli  amanti  ritornano  al  palagio  d'a- 
more, dove  ricominciano  gli  amori  e  dove  si  passa 
nuovamente  di  meraviglia  in  meraviglia.  Quivi  Ve- 
nere propone  al  giovine  una  partita  a  scacchi,  nella 
quale  il  Marino  fa  sfoggio  di  un'abilità  grandis- 
sima come  verseggiatore  ;  chi  vincerà  la  partita 
dovrà  governar  le  brame  e  le  voglie  del  perdi- 
tore. Il  giuoco  però,  per  mezzo  di  noiose    circo- 


—  225  - 
stanze,  non  è  vinto  da  nessuno  degli  avversari^ 
ed  Amore,  chiamato  come  giudice,  imbroglia 
sempre  più  la  cosa,  che  viene  infine  accomodata 
da  Adone,  il  quale  dà  la  palma  della  vittoria  a 
Venere.  Questo  canto  palesa  tutti  i  vizi  e  tutti 
i  difetti  del  Marino  come  poeta  lirico  e  come 
epico;  qui  niente  alletta  la  fantasia  del  lettore, 
se  si  accetti  la  bizzarra  tessitura  del  giuoco.  Le 
meschine  e  ridicole  rivalità  di  Mercurio  e  di 
Amore,  la  rabbia  da  che  è  presa  Venere,  perchè 
Gelania,  una  sua  ancella,  guasta  il  giuoco,  destano 
nausea  nel  lettore.  L'incedere  maestoso  e  sensi- 
bile del  poema  classico  mitologico  sparisce,  per 
dar  luogo  ad  un  intralciato  e  penoso  sperpero  di 
episodi,  che  guastano  il  dramma.  Ma  prendiamo 
di  nuovo  la  narrazione,  che  fortunatamente  è 
alla  fine. 

Intanto  in  Cipro  doveva  eleggersi  un  nuovo 
re,  il  quale,  secondo  l'editto  della  dea  di  Gnido, 
doveva  essere  superbamente  bello.  Il  giorno  del- 
l'elezione, si  presentano  moltissimi  aspiranti  al 
posto  regale,  ma  la  dea  d'  Amore  dà  la  corona  di 
re  al  suo  amante,  il  quale,  proclamato  re  da'  ci- 
prioti, è  portato  in  trionfo  dagli  isolani,  con  im- 
mense grida  di  giubilo.  Però  le  ore  felici  per 
Adone  sono  brevi  e  fugaci.  Era  da  poco  nelle 
braccia  di  Citerea,  quando  la  Dea  parte  di  nuovo, 
per  assistere  a  giuochi  che  si  fanno  a  Citerà  in 
onore  di  Amore.  Però  promette  all'amante  di 
trattenersi  poco  tempo  colà,  perchè  ha  desiderio 
di  vivere    sempre    insieme    coll'amato    fanciullo. 


—  226  — 
Parte  infine  con  gran  dolore,  presaga  del  fato  che 
incombe  sii  Adone,  e  tenta  invano  di  salvarlo  col 
compiere  sulle  spalle  di  un  Tritone,  da  lei  allet- 
tato colla  sua  bellezza,  un  viaggio  marittimo  assai 
singolare  dal  lato  geografico,  in  cerca  di  Glauco, 
che  potrebbe  darle  l'erba  dell'immobilità  da  som- 
ministrare all'amante.  Glauco  non  si  trova,  e 
Venere  è  costretta  ad  approdare  a  Citerà,  perchè 
i  giuochi  sono  'pev  cominciare.  Nel  frattempo 
Adone  snida  alla  caccia  e  provoca  un  fiero  cin- 
ghiale, aizzato  contro  di  lui  dall'odio  implacabile 
di  Marte  e  di  Diana.  La  belva,  innamorata  della 
bellezza  di  Adone,  lo  insegue  per  baciargli  un 
fianco,  denudatogli  nella  fuga  dal  vento,  e  con- 
ficca le  zanne  nelle  carni  delicate  del  giovinetto. 
Adone  muore  ! 

E  morto  Adone.  Amor  dolente, 
Perchè  non  piangi  ?  Il  bell'Adone  è  morto. 
Empia  fera  e  crudel  col  davo  dente, 
Col  dente  empio  e  cradel  l'uccise  a  torto. 
Ninfe,  e  voi  non  ijiangete?  Ecco  repente 
Adon  vostro  piacer,  vostro  conforto. 
Lascia  del  proprio  sangue  umidi  fiori. 
Piangete^  Grazie,  e  voi  piangete.  Amori. 

I  due  ultimi  canti  narrano  come  in  appendice 
i  funerali  fatti  all'amante  di  Venere  e  i  giuochi 
istituiti  in  onor  suo.  (1) 

Questo  è  il  riassunto  del  poema  che  costruito 

(1)  Tutlo  repi.soilio,  nel  (jualo  il  cingliialr,  ai  rimproveri  (li  Venere, 
contrappone  umili  scuse,  è  ricavato  dall'idìllio  di  Teocrito:  «  La  morie 
di  Adone.  » 


—  227  — 
principalmente  con  materiali  mitologici,  si  dovrà 
-chiamare  poema  favoloso,  come  il  Marino  chiama 
favolosi  i  primi  idilli  della  Sampogna:  quali  il 
Ratto  di  Proserpina,  l'Orfeo,  l' Atteone,  ecc..  E 
noi  crediamo  che  l'idra  d'Ercole  non  fosse  cosi 
fertile  di  teste  come  V Adone  è  fertile  di  digres- 
sioni, molte  delle  quali  sono  alla  lor  volta  di- 
gressioni delle  prime.  Scriveva  lo  Stigliani,  il 
maggior  nemico  letterario  del  nostro  poeta,  esser 
V Adone  il  poema  dei  poemi]  checche  ne  sia  il 
Marino  rifuse  in  esso  tutte  le  sue  liriche  pasto- 
rali, marittime,  boscherecce,  amorose^  laudative; 
di  nuovo  non  v'  è  che  qualche  episodio,  ove  narra 
i  casi  della  sua  vita  oltremodo  avventurosa,  op- 
pure le  gesta  de'  più  ragguardevoli  personaggi 
del  tempo.  Questo  modo  di  comporre  crediamo 
che  non  era  stato  adottato  da  alcun  poeta  né 
antico,  ne  moderno,  anzi  totale  invenzione  del 
nostro  Autore. 

Nel  poema  non  v'è  energia,  ne  poetica,  ne 
morale;  è  sempre  lo  stesso  saltare  di  palo  in 
frasca,  sempre  quel  descrivere  minutamente  ogni 
più  piccolo  oggetto.  «  L'energia  nel  poeta,  dice 
saviamente  il  Giraldi,  non  sta  nel  descrivere  mi- 
nutamente ogni  cosuccia  qualunque  volta  il  poeta 
scrive  eroicamente,  ma  nelle  cose,  che  sono  degne 
della  grandezza  della  materia  che  il  poeta  ha 
tra  le  mani  ;  e  la  virtù  dell'energia,  la  quale  può 
anch'essere  chiamata  efficacia,  viene  eseguita  ogni 
qual  volta  non  usiamo  ne  favole,  ne  cose  oziose.  » 
Di  più,  il  fatto  che  si  suppone  avvenuto  nei  tempi 


—  228  — 
favolosi,  obbliga  il  Marino  a  ricavare  il  mara- 
viglioso  del  suo  poema  dalle  azioni  delle  divi- 
uità  mitologiche  seguendo  l'esempio  de'  poeti  greci 
e  latini:  la  qual  cosa,  favoleggiata  in  tempi  nei 
quali  a  quelle  divinità  non  si  prestava  alcuna 
credenza,  mostra  la  sua  poca  serietà  con  cui  egli 
scriveva;  il  che  spiega  perchè  le  sue  narrazioni 
riescono  fredde  e  privono  il  lettore  di  quel  diletta 
che  reca  il  maraviglioso,  quando  ha  intime  rela- 
zioni con  fatti  veri,  o  almeno  tali  da  mettere 
in    movimento    l'immaginazione. 

Jj^Adone^  oltre  all'essere  in  generale  il  racconto 
di  un  infame  adulterio  di  dei  e  d'eroi,  e  di  una 
scandolosa  rivalità  de'  medesimi,  viene  anche  a 
mostrare  quanti  vizi  erano  corteggiati  in  quel- 
l'età cosi  povera  di  nobili  e  belli  ideali.  L'argo- 
mento del  poema  è  tutto  una  tessitura  di  pas- 
sioni leggere  e  superficiali,  come  il  cuore  del 
Marino,  in  cui  non  vibra  la  corda  del  sentimento. 
È  una  lanterna  magica,  che  vi  passa  davanti  agii 
occhi,  rappresentando  azioni  ed  episodi,  a  volta 
sensuali  e  spiranti  una  perfetta  beatitudine  della 
vita,  a  volta  tetri  e  raccapriccianti;  tali  che  danno  a 
pensare  al  lettore  e  gli  fanno  riflettere,  che  il  Marino 
degrada  troppo  e  dei  e  umanità,  che  servono  come 
strumenti  e  spettatori  del  dramma.  Infatti  nel  canta 
decimoquinto  Marte,  mentre  dorme,  è  preso  di 
mira  dalle  imprudenti  canzonature  di  una  miriade 
di  satiri  e  d'amorini  che  lo  insultano  in  mille 
modi.  Apollo  stesso,  il  grande  e  generoso  Dio,  è 
scettico  e  vendicativo,  e  forse  è  lui  solo  la  causa 


~  229  — 
vera  di  tutto  il  dramma,  di  cui  Adone  è  il  capro 
espiatorio.  Questo  giovinetto  poi,  bello  come  un 
angelo,  non  ha  carattere;  la  volontà  è  affatto 
morta  in  lui,  ed  ei  non  riesce  che  uno  strumento 
passivo  in  mano  del  fato,  che  lo  aggira  a  sua  posta. 
Adone  è  un  uomo  che  si  muove  solo  per  volontà 
degli  altri,  che  fugge  alla  prima  richiesta  del- 
l'amante, eppoi  piange  sopra  la  sua  infelicità; 
che  non  pensa  a  difendersi,  quando  viene  assalito, 
che  non  si  vendica,  ne  rimprovera  a  Venere  le 
-sue  infedeltà.  Al  lettore  non  è  punto  simpa- 
tico quest'eroe  impastato  di  finissima  e  mobilis- 
sima materia,  la  cui  anima  è  vile  e  senza  ini- 
ziativa. «  Adone  concepito  in  un  tempo  e  fra 
un  popolo  a  cui  manca  il  carattere,  non  ha 
carattere;  vile,  non  ha  coscienza  della  sua  viltà, 
soffoca  nel  piacere  ogni  istinto  generoso,  e  ban- 
disce da  se  il  pensiero,  perchè  il  pensiero  è  vita, 
lotta,  tormento  fecondo,  ed  egli  ama  meglio  ve- 
getare ed  oziare  nelle  voluttà  senza  passioni, 
circondato  da  ogni  parte  da  fallaci  parvenze,  si 
muove  in  un  mondo  di  falsità  e  la  vita  reale  gli 
fa  paura.  »   (i) 

Abbiamo  detto  che  il  Marino  nel  poema  sciupa 
i  caratteri.  Diremo  di  più,  che  è  anche  infelice 
nella  tessitura  dell'intreccio,  il  quale  confonde- 
rebbe la  memoria  di  chiunque  per  la  sua  smi- 
suratezza e  per  l'immensa  quantità  d'episodi. 
Da  ogni  minimo  vocabolo,  che  gli  capita  per 
<caso  sotto  la  penna,  il  Marino  prende  occasione 

(1)  Corradino,  Il  Seicentisma  e  l'Adone,  Casanova,    Torino,  1880. 


—  230  — 

di  far  sfoggio  della  sua  facilità,  della  sua  fa- 
condia e  della  sua  coltura,  come  per  esempla 
nel  terzo  canto,  ove,  per  dire  die  Adone  dorme, 
«  e  che  avea  il  sonno  negli  occhi,  »  esce  a 
narrare  la  favola  lunghissima  di  Morfeo  e  di 
Pasitea.  Tutto  il  canto  quarto,  nel  quale  narra 
la  favola  di  Psiche,  non  ha  che  fare  un  nero  di 
fava,  ne  con  Venere,  ne  con  Adone;  senza  di  esso 
il  j)oema  può  procedere  e  restare  intero.  Di  più 
le  favole  che  nel  quinto  canto  Mercurio  narra 
ad  Adone,  sono  pur'  esse  inutili  e  prese  a  pre- 
stito. Quella  di  Narciso  non  si  racconta  per  altro, 
se  non  perchè  Adone  non  s' invanisca  per  la 
tro^Dpa  bellezza;  ma  dove  appare  in  lui  segno 
alcuno  di  tale  vanità?  La  favola  di  Ganimede, 
la  quale,  col  mostrare  ad  Adone  la  sua  grande 
fortuna,  tende  a  farlo  persuaso  di  ci*ò  di  cui 
egli  è  poi  perfettamente  sicuro,  è  anch'  essa 
inutile. 

Il  Marino,  sebbene  abbia  grande  venerazione 
per  i  classici  latini  ed  italiani,  s^^ecialmente  per 
Ovidio  e  pel  Tasso,  oggetto  quest'ultimo  per  lui 
d'ammirazione  profonda,  s'allontana  in  certe  guise 
da  loro.  In  costoro  v'è  studio  paziente  ed  accurata 
de' personaggi,  che  si  muovono  in  un  ambiente 
relativamente  semjjlice.  Neil'  opera  del  poeta  na- 
politano invece  i  personaggi  non  sono  affatto  stu- 
diati; mentre  l'ambiente  è  così  sovraccarico  di 
tinte  smaglianti  e  di  paesaggi  incantati,  e  non 
incantevoli,  che  la  fantasia  ci  si  perde  facilmente. 
Quindi  il  Marino,  a  differenza  de'poeti  epici  e  bu- 


—  231  — 
colici,  è  grossolano  e  volgare  nella  forma  e  impe- 
rito nella  rappresentazione  de' personaggi. 

Adone  per  Venere  non  è  un'amante;  a  volta 
è  un  discepolo,  al  quale  la  dea  fa  da  maestra  di 
rudimenti,  a  volte  è  un  manichino  che  mette 
in  riposo  solamente  quando  le  conviene,  per  ca- 
priccio o  per  necessità. 

L""  Adone  poi  si  stacca  sensibilmente  dagli  an- 
tichi poemi  epici  e  cavallereschi;  il  Marino  dà 
all'amore  una  forma  nuova  che  non  esisteva  dap- 
prima, e  questa  forma,  data  all'amore,  è  un  no- 
vello impulso  e  un'espressione  diiferente  che  ri- 
ceve la  letteratura.  E  noi  crediamo  che  qui  sta 
il  merito  principale  dell'autore,  pel  quale  divenne 
celebre  e  celebrato.  «  L'uomo  ama  il  maraviglioso, 
perchè  più  ci  avviciniamo  all'antichità  e  più  i 
fantastici  episodi  delle  epopee  rapiscono  la  fan- 
tasia de' popoli;  la  società  moderna,  amante  di 
novità,  non  poteva  adottare  che  un  solo  mara- 
viglioso ed  era  il  romantico,  il  quale  è  favoloso 
come  l'epopea  e  per  di  più  falso  ;  esso  ci  descrive 
gli  uomini  e  le  passioni  sotto  un  aspetto  più  in- 
tenso :  cangia  gli  uomini  in  dei  e  in  demoni,  ma 
senza  dircelo,  lasciando  loro  attitudini  e  forme 
umane.  » 

A  questi  difetti,  propri  dell'  epoca  in  cui  viveva 
il  poeta,  e  cosi  spontaneamente  coloriti  da  lui, 
s'aggiunga  la  mania  di  voler  ingentilire  ed  inno- 
vare la  forma,  che  menò  lui,  come  gli  altri,  a  ren- 
derla invece  falsa  e  malsana,  per  soverchia  accu- 
mulazione  d'iperboli  e  di  metafore,  ed    avremo, 


—  232  — 

come  poema,  quell'  informe  ammasso  dislegato 
d'episodi,  iu  forma  barocca,  cli'è  VAdoue.  Ma 
del  resto  la  natura  del  poeta  non  potea  con- 
durlo al  concepimento  di  un  racconto  che  proce- 
desse ordinato  e  pensato  con  seri  intendimenti 
artistici.  Il  suo  capolavoro  sono  le  liriche  amo- 
rose, dove  descrive  ciò  clie  pensa  e  quello  ciie 
ambisce  di  possedere.  Colà  il  lettore  ha  il  campo 
d'osservare  la  facil  vena  poetica  del  Marino,  nel 
quale,  siccome  in  lui  è  molto  variabile  questo 
sentimento,  analizza  perciò  mirabilmente  la  pas- 
sione amorosa  ;i  suoi  versi  allora  sono  fluidi,  efifi.- 
caci  ed  eleganti  ;  diletta  in  questa  sua  estrinseca- 
zione del  sentimento,  perchè  egli  ha  nel  cuore  la 
perfetta  conoscenza  di  ciò  che  dice,  senza  andarlo 
a  chiedere  umilmente  a  prestito  a'  modelli  antichi. 
Quando  egli  imita  da  costoro,  le  sue  creazioni 
riescono  fredde,  come  colorito,  e  difettose  come 
forma;  mentre,  descrivendo  quello  che  sente  e 
pensa,  acquista  una  tinta  originale,  che,  come 
poeta  amoroso,  trova  un  solo  contrapposto  :  il 
Petrarca. 

E  l'amore  che  il  Marino  dice  di  nutrire  in 
petto  e  pel  quale  scrive  versi,  non  è  quell'  amore 
«  vile  e  plebeo,  che  saetta  il  cuore  alla  gente 
villana,  parto  infame  dell'immonda  lascivia,  al- 
lievo licenzioso  dell'ozio  umano » 

Gai'zon  nato  di  furto, 
Nutrito  tra  le  fere,  Arderò  ignudo, 
Lusinghiero,  fallace. 


—  233  — 

Attempato  fanciul.  cieco  cerviero. 
Pargoletto  benigno  e   fier  gigante 
Spiritello  vagante,  empio  tiranno, 
Che  usurpandogli  il  seggio 
De  la  ragione  oppressa 
Signoreggia  le  voglie,  il  sonno  uccide. 

Non  è  questo  l'amore  clie  sente  e  che  descrive 
il  poeta.  Invece  è  «  un  nume  casto  e  pudico, 
amico  di  concordia  e  d'onestà,  giovinetto  alato, 
che  solleva  da  terra  i  pigri  ingegni,  Dio  delle 
meraviglie,  imperatore  di  nobili  desideri,  illustra- 
tore di  nobili  pensieri,  ecc.  » 

Ma  del  resto,  questo  era  l'indirizzo  poetico  del 
tempo.  L'Italia,  che  prima  aveva  riso  in  faccia 
all'epico  ed  al  cavalleresco;  che  cominciava  a 
guardar  con  la  lente  del  critico,  anzi  dell'ipercri- 
tico, il  canzoniere  del  Petrarca,  «  chiamandolo  un 
libro  barbaro,  è  piuttosto  prosa  che  poesia;  »  rim- 
proverando il  poeta  di  non  aver  adoperato  «  né 
traslati,  né  figure,  non  forme,  non  metafore,  né 
parte  alcuna  di  quelle,  che  usa  l'arte,  per  fare  i 
versi,  non  scelta  di  frasi,  né  vaghezza  di  parole, 
né  grazia  di  concetti,  né  lume  insomma  alcuno 
di  quello,  che  ai  poeti  somministra  la  natura;  »  (1) 
e  che  ora  irrideva  anche  agli  dei  mitologici  e 
pagani:  questa  Italia  si  cristallizzava  nell'idillio. 

Accanto  alle  concezioni,  piene  di  satira,  del 
Tassoni,  ed  ai  travestimenti  epici  del  Bracciolini, 

(1)  Il  Sitratto  del  Sonetto  e  della  Canzone,  Discorsi  di  Federigo  Ma- 
pinni,  in  Venetia,  appresso  li  Bertani,  167»,  pag.  93. 


—  234  — 

del  Lalli,  del  Corsini  e  di  tanti  altri  minori,  essa 
creava  un'arte  tutta  languori  e  svenimenti.  Tutta 
la  poesia  lirica  italiana  si  trasportava  nell'  Ar- 
cadia, ossia  in  un  mondo  fittizio,  dove  non  si  po- 
teva e  doveva  parlare  altro  che  d'amore;  dove 
si  jDoteva  spasimare  e  soffrire  per  un  dio  clie  so- 
lamente restava  agl'Italiani  e  del  quale  essi  po- 
tevano liberamente  parlare,  adulare  ed  odiare;  quei 
pastori  snervati,  e  cogli  occhi  sempre  lagrimosi; 
quelle  pastorelle  scettiche,  civettuole,  e  niente 
affatto  femmine,  erano  i  personaggi  che  i  poeti 
del  Seicento  rappresentavano  nella  loro  poesia  ar- 
tificiosa, tutta  piena  di  bisticci  e  di  metafore  ar- 
ditissime; ispirata  ad  un  naturalismo  vacuo  ed 
a  volte  lubrico  e  appassionato;  ed  il  Marino  fu 
assorbito  tutto  da  questa  maniera  di  poetare  fiacca 
e  languida;  egli,  come  dice  in  una  bella  frase 
il  De  Sanctis,  «  dicesi  che  fu  il  corruttore  del 
secolo.  Piuttosto  è  lecito  di  dire  che  il  secolo 
corruppe  lui,  o,  per  dire  con  più  esattezza,  non  ci 
fu  corrotti,  ne  corruttori.  »  (1) 

E  questo  è  evidente.  Furono  i  frutti  di  una 
ricerca  animata  da  cattive  intenzioni  nel  campo 
del  petrarchismo  e  dell'epopea,  che  condusse  a 
ciò;  fu  lo  spirito  di  novità  che  s'impossessò  del 
Seicento,  e  che  assorbì  tutti  :  poeti,  prosatori,  pit- 
tori, filosofi  e  politici.  E  costoro  noi  li  vediamo 
sfilare  neìV Adone,  ritratti  con  grande  verità;  per 
questa  ragioni,  e  per  altre  che  verremo  man  mano 

(1)  Storia  (iella  letteratura  ittìiana,  di  Francesco  De  Saiictis,  Napoli. 
A.  Morano,  1879;  Voi.  II,  pag.  217. 


—  235  - 
esponendo,  si  spiega  il  grande  favore  col  quale 
fu  accolto  da  tutti  il  poema,  e  la  «  stima  di  cui 
ne  faceva  il  mondo;  »  perciò  V Adone  è  da  stu- 
diare e  molto,  e  fu  gran  torto  dei  critici  l'aver 
dimenticato  che  in  quel  poema  è  racchiuso  tutto 
il  Seicento,  nelle  emanazioni  della  vita  sociale, 
artistica  e  intellettuale. 

U Adone  poi  non  si  deve  studiare  come  un 
complesso  di  episodi  i  quali  formano  un  regolare 
intreccio  perchè  il  poema,  anche  se  a  prima  vista 
sembra  avere  un  nesso,  ciò  non  di  meno  devesi 
leggere  e  studiare  parte  a  parte.  Cosi  quando 
si  è  letto  un  canto  sulo  àeìVAdonej  è  come  se  si 
fossero  letti  tutti,  perchè  l'interesse  non  cade  sul 
poema,  ma  sulla  poesia  del  poema  stesso.  È  una 
onda  sonora  di  versi  e  di  rime,  musicata  come 
una  melodia  dolcissima  ;  in  essa  s'osserva  già  il 
ritmo  rausicale,  che  ha  il  suo  culmine  nella  can- 
zonetta del  Metastasio,  discepolo,  come  vedremo 
in  seguito,  più  diretto  del  Marino.  Il  quale,  dice 
il  De  Sanctis,  fu  uno  scrittore  melodrammatico  ; 
la  sua  ottava  è  fluida  e  produce  lo  stesso  effetto 
della  musica  nel  sentimento  del  lettore;  ossia  ca- 
denza, armonia,  dolcezza  infinita.  «  La  lirica  sei- 
centista  è  in  gran  parte  melodrammatica,  »  e 
man  mano,  nella  letteratura  italiana,  veniva  a 
morire  la  robustezza  dell'endecasillabo  che  dal- 
l'Alighieri al  Tasso  avea  servito  a  dimostrare  al 
mondo  i  divini  loro  pensieri  e  ad  esso  veniva 
sostituita  la  strofetta.  Cosi  la  musica  prendeva 
il  posto  della  lirica  italiana,  e  nella  nostra  patria 


—  236  — 

'veniva  a  crearsi  un'altra  gloria  nazionale,  la  quale 
fu  il  melodramma, 

E  V Adone  sta  li  a  rappresentare  questa  grande 
trasformazione;  in  esso  i  germi,  già  in  embrione 
neir  Or/eo,  -neW  Aminta  enei  Factor  Fido,  sono  ora 
in  fecondazione  avanzata;  quando  il  Marino  dice': 

Voi  che  scherzando  gite,  anime  liete, 
Per  la  stagion  ridente  e  gioveuile, 
Cogliete  con  man  provvida  cogliete, 
Fresca  la  rosa  in  sull'april  d'aprile, 
Pria  che  quel  fuoco  che  negli  occhi  avete 
Freddo  ghiaccio  divenga  e  cener  vile. 
Pria  che  caggian  le  perle  al  dolce  riso, 
E  com'è  crespo  il  crin  sia  crespo  il  viso. 

Un  lampo  è  la  beltà,  l'etate  un'ombra. 
Né  sa  fermar  l'irreparabil  fuga. 
Tosto  le  pompe  di  Natura  ingombra 
Invida  piuma  ingiuriosa  ruga. 
Rapido  il  tempo  si  dilegua  e  sgombra. 
Cangia  il  pel  gli  occhi  oscura  il  sangue  asciuga 
Amor  non  men  di  lui  veloci  ha  i  vanni, 
Fugge  co'  fior  del  volto  il  fior  degli  anni. 

De'  lieti  dì  la  Primavera  è  breve 
Né  si  riacquista  mai  gioia  perduta, 
Vien  dopo  '1  verde  con  pie  tardo  e  grave 
La  penitenza  squallida  e  canuta 


annunzia  il  Metastasio,  la  strofetta  del  quale  già 
si  trova  quasi  allo  stato  di  perfezione  nel  Cliia- 
brera,  poeta  che  s'avvicina  al  Marino  più  di  quello 
-che  non  si  creda. 


—  237   — 

Perciò  l'Adone  fu  a  giusto  titolo  chiamato  il 
capolavoro  di  quanto  fu  prodotto  nella  letteratura- 
dei  Seicento;  perchè  esso  è  lo  specchio  fedele  degli 
usi,  dei  costumi  e  delle  aspirazioni  di  quell'epoca; 
è  il  degno  rappresentante  di  una  poesia  lirica  ed 
epica,  che  deperisce,  e  di  un'altra,  melodramma- 
tica, che  sorge:  arte  bella,  nuova  e  soprattutto 
nazionale. 

Eppoi,  poteva  il  Marino  dar  di  fiato  alla  tromba- 
epica  e  dare  al  mondo  letterario  un  poema,  tal 
quale  l'avea  dato  il  povero  Tasso  ;  lui  eh'  era 
spettatore  delle  critiche  mosse  alla  Gerusalemme? 
Perchè  crediamo  che  il  Marino  avrebbe  voluto  e 
potuto  fare  anche  lui  il  suo  bravo  poema,  e  le 
frequenti  allusioni  di  cui  è  pieno  V Adone  fanno 
fede  di  ciò.  Prima  e  dopo  il  Marino,  molti  e 
molti  poeti  tentarono  l'epopea,  ma  non  vi  riu- 
scirono ;  il  Chiabrera  ci  dava  V Italia  Liberata, 
Giambattista  Strozzi  la  Venezia  Edificata^  Tom- 
maso  Stigliani  il  Mondo  Nuovo,  il  Biffi,  la  Roma 
Risorgente  ;  i  poeti  del  Seicento  avevano  persino 
tentato  il  poema  sacro;  e  Gasparo  Murtola,  a- 
imitazione  del  Du  Bartas  e  del  Tasso  componeva- 
il  Mondo  Creato;  il  Soranzo  V Adamo,  Rodolfa 
Campeggi  Le  Lagrime  della  Vergine  ;  Raffaele 
Rabbia  un  poema  sopra  La  Madonna  Egiziaca; 
ma  tutti,  poemi  epici  e  sacri,  erano  condannati 
all'obbio,  perchè  l'Italia  non  li  comprendeva  o 
o  meglio  non  ci  si  divertiva. 

Il  Marino,  ingegno  vivacissimo,  esjDcrtissimo  ed 
essenzialmente  pratico,  si  trovava  appunto  davanti 


—  233  — 
a  questo  quadro;  comprese  che  l'Italia,  nelle  con- 
dizioni in  cui  si  trovava,  serva,  oppressa,  vili- 
pesa, lungi  dalla  vita  pubblica,  e  mancante  del- 
l'indipendenza, voleva,  non  potendo  far  altro,  di- 
vertirsi, e  questo  lo  poteva;  allora  il  Marino  non 
volle  andare  contro  corrente;  acclamato  il  poeta 
del  tempo,  non  volle  essere  impari  alla  «  aspet- 
tazione che  di  lui  faceva  il  mondo  »  e  scrisse 
VAclone^  ossia  dipinse  il  pensiero,  le  aspirazioni, 
_gli  usi  e  le  abitudini,  tutto  insomma,  del  tempo; 
questo  e  non  altro  fece  il  Marino.  Ed  oggi  che 
il  critico  giudica  questo  poeta  alla  stregua  delle 
moderne  esigenze,  ha  torto  ;  com'  ebbe  torto  a 
rimproverare  l'Ariosto  di  essere  stato  solamente 
artista.  Da  messér  Lodovico  al  Donizzetti  e  al 
Rossini,  il  popolo  italiano  fu  un  popolo  d'artisti; 
l'arte  era  la  sola  passione,  il  solo  obbiettivo  per 
cui  l'Italia  poteva  vivere,  e  tutta  vi  si  rifuggiò 
empiendo  il  mondo  delle  più  belle  creazioni  del- 
l'arte ;  e  quando  sorse  qualche  poeta,  che  lamentò 
le  miserie  italiane,  questo  fu  non  solo  artista, 
ma  cittadino,  quale  il  Berchet.  Perchè  il  Berni, 
il  Caporali,  Salvator  Rosa  e  tanti  altri,  prima 
pensarono  all'arte  e  poi  alla  satira. 

Riconosciamo  adunque  nel  Marino  un  grande 
artista  ;  avrà  egli  cantato  cose,  che,  per  molti 
rispetti,  a  noi  non  andranno  a  sangue,  ma  non 
pesiamo  troppo  la  mano  su  di  lui.  Egli  fu  nel 
Seicento  colui  che  più  di  tutti  comprese  qual  via 
dovevasi  tenere  per  salire  alla  fortuna  ;  ci  si  mise 
e  vi  riuscì. 


—  239  — 

Ed  il  Marino,  die  allorquando  si  trattava  di 
parlare  delle  sue  poesie  si  comportava  da  mer- 
cante espertissimo,  chiama  il  suo  poema  «  fab- 
brica rifarcita  (o  per  meglio  dire)  gonnella  rap- 
pezzata. »  Confessava  clie  la  sua  favola  era  an- 
gusta e  incapace  di  varietà  d'accidenti,  e  die 
s'era  ingegnato  d'arricchirla  d'azioni  episodiche, 
come  meglio  gli  era  stato  possibile.  (1)  Ed  in  una 
lettera  al  Ciotti,  parlando  della  Strage  degli  In- 
nocenti, diceva  «  esser  questo  poema  senza  compa- 
razione più  perfetto  àeW Adone;  il  quale  poema 
presso  di  lui  non  era  in  tanta  stima  quanta  ne 
faceva  il  mondo.  »  (2) 

Anche  Shakespeare  volle  scrivere  un  poema  su 
Adone,  e  nel  1593,  forse  per  compiacere  all'amico 
suo,  il  giovane  conte  di  Southampton,  compose 
Venus  and  Adonis.  (3)  Questo  poema  dunque  e  an- 
teriore di  trent'anni  a  quello  del  Marino.  Ebbe 
parecchie  edizioni;  in  mezzo  secolo  fu  riprodotta 
undici  volte,  e  da  ciò  si  può  arguire  che  il  suc- 
cesso fu  considerevole.  Dice  lo  Stapfer,  che  questo 
poema  è  completamente  italiano  per  lo  spirito 
suo;  che  i  difetti  che  lo  guastano  sono  quelli 
stessi  che  si  rimproverano  alla  letteratura  italiana, 


(1)  Nel  16C2  Nicole  «  Consigliere  e  Presidente  nell'elezione  della  città 
di  Chartres  »  tradiiceva  il  primo  canto  dell'  Adone,  che  stampava  in- 
sieme ad  alcune  versioni  di  Persio,  di  Ovidio  e  di  Orazio,  dedicando  il 
libro  a.  Liii^i  XIV.  «  Les  oeuvres  de  monsieur  le  président  Nicole,  à  Paris, 
chez  Charles  de  Sercj',  au  Palais,  dans  la  salle  Dauphiue,  à  la  Bonnc- 
Foy  couronne,  M.DC.LXII.  « 

(2)  Marino,  Lettere,  pag.  142. 

(3)  Tlie  Works  of  William  Shakspeare,  in  seven  volumes,  Leipzig,  U 
Tauchnitz,  1863,  voi,  XVII,  pag.  2:8. 


—  240  -- 
in  quel  momento  della  sua  storia  quando  la  ma- 
teria cominciava  a  mancarle,  ed  essa   era  caduta 
ne' raffinamenti  eccessivi  della  forma  (1)* 

Questo  e  il  poema  del  Marino  sono  certamente 
i  più  ragguardevoli  sul  mito  degli  amori  di  Ve- 
nere con  Adone.  Shakespeare  si  attiene  però, 
come  fattura  del  poema,  strettamente  al  mito 
greco,  tramandatoci  da  Ovidio;  mentre  che  il 
Marino  empie  il  suo  d'un  enorme  numero  di 
storie  favolose,  che  sviano  facilmente  l'attenzione 
del  lettore  ed  intralciano  il  racconto  principale. 
In  quello  dello  Shakespeare,  Venere  rappresenta 
l'amore  in  tutte  le  sue  focose  manifestazioni  : 
Adone  la  bellezza  in  tutta  la  sua  virilità.  Venere 
nel  poema  del  gran  tragico  inglese  è  d'una  lus- 
suria che  spaventa.  E  la  donna  feroce  ne' suoi 
amori,  che  prega,  che  minaccia,  che  odia,  che  ma- 
gari si  vendica  crudelmente,  pur  che  soddisfi,  ai 
suoi  immensi  desideri:  «  Oh  pietà,  esclama  ella 
rivolgendo  le  languide  pupille  su  Adone;  fan- 
ciullo dal  cuore  di  pietra,  non  è  che  un  bacio 
ch'io  ti  chiedo;  io  t'ho  supplicato  anche  per  il 
feroce  e  terribile  dio  della  guerra,  che  non  ha 
mai  curvato  il  collo  nelle  battaglie,  che  trionfa, 
appena  giunge,  in  tutte  le  lotte.  Ebbene,  egli  ha 
implorato  da  me  ciò  che  tu  non  domandi  nep- 
pure; sopra  il  mio  altare  egli  ha  deposto  la  sua 
lancia,  il  suo  scudo,  il  suo  cimiero  ;  per  far  pia- 
cere a  me  ha  imparato  a  giuocare,  a   ballare,  a 

(1)  Stapfer,  Draiiies  et  poi  me  a  de  Sìiak-expeurc,  Paris,  Fischbacher,  1881, 
jiag.  IQi. 


—  241  — 
scherzare,  a  fare  il  birichino,  a  divertirsi,  a  sor- 
ridere, facendo  delle  mie  braccia  il  suo  campo  di 
battaglia  e  del  mio  letto  la  sua  tenda.  »  A  queste 
grida  appassionate,  a  quest'immenso  e  sfrenato 
bisogno  di  godimento.  Adone,  che  non  ha  che 
una  sola  passione,  la  caccia,  con  accento  di  non- 
curanza e  con  aria  annoiata,  esclama  :  «  Smetti,  il 
sole  mi  dà  noia  e  mi  brucia  la  faccia  ;  bisogna 
che  me  ne  vada.  » 

Shakespeare  nel  suo  poema  ha  descritto  il  dua- 
lismo tra  la  passione  amorosa  e  la  bellezza.  La 
prima  s'arma  di  tutte  le  seduzioni,  di  tutte  le 
armi  che  l'amore  più  sfreneto  ha  a  sua  disposi- 
zione. L'altra  si  munisce  di  un'  indifferenza  a  tutta 
prova.  Le  frasi  infuocate,  che  sfuggono  a  Venere 
nell'  impeto  della  passione,  sono  accolte  da  Adone 
con  aria  d'annoiato.  Le  armi,  con  le  quali  Venere 
supplica  e  minaccia  Adone  acciò  si  getti  nelle 
sue  braccia,  si  spuntano  senza  neanche  intaccare 
quel  cuore  di  ghiaccio.  «  Sei  tu  dunque  di  roc- 
cia, sei  tu  dunque  d'acciaio?  esclama  Venere  al 
colmo  dell'esasperazione;  no,  tu  sei  più  duro  della 
roccia,  perchè  questa  s'ammollisce  alla  pioggia. 
Oh,  se  tua  madre  avesse  avuto  un  cuore  duro 
come  il  tuo,  essa  non  t'avrebbe  messo  al  mondo, 
sarebbe  morta  sterile!  » 

Ma  Adone,  a  queste  parole,  sorride  sprezzante- 
mente e  si  muove  per  andarsene.  «  Pietà,  grida 
ella  fuori  di  sé,  un  favore  !  una  carezza  !  »  Adone 
non  la  sente  nemmeno  e  si  precipita  verso  il  suo 
cavallo. 


16 


—  242  — 

Ma  all'improvviso,  da  un  bosco  vicino,  una  ma- 
gnifica cavalla  di  razza  spagnola  scorge  il  cor- 
siero di  Adone,  il  quale  vede  la  sua  compagna 
andare  in  ismanie  e  vuole  raggiungerla.  Adone 
fa  sforzi  da  energumeno  per  rattenerlo,  ma  invano; 
esso  rcmpe  i  freni  che  lo  trattengono,  e  fugge 
verso  la  nobile  cavalla,  lasciando  il  cavaliere  solo 
con  Venere.  Qui  principia  nuovamente  una  bat- 
taglia tra  la  passione  e  l' indifferenza,  accoppiata 
al  più  grande  scetticismo.  Venere  vuol  persua- 
dere il  giovinetto  ad  an  aria,  portandogli  l'esem- 
pio del  destriero,  che  tradisce  il  padrone  per  cor- 
rere al  godimento  sensuale.  — •  «  Io  non  conosco 
l'amore,  risponde  Adone,  e  non  voglio  neanche 
conoscerlo,  a  meno  che  non  sia  una  bestia  fulva, 
ed  allora  io  gli  darei  la  caccia.  »  Ed  esce  in  que- 
ste stupende  frasi,  nelle  quali  si  rivela  il  gran 
tragico  inglese  in  tutta  la  sua  straordinaria  po- 
tenza : 

«  Il  mio  amore  per  l'amore  non  è  che  l'amore 
del  disprezzo,  giacche  io  ho  inteso  dire  che 
l'amore  è  una  vita  d'agonia  che  un  soffio  fa  ri- 
dere e  piangere.  » 

Alfine  le  moine  di  Venere  vincono  l' insensibi- 
lità del  fanciullo  ;  la  focosa  passione  s' è  impa- 
dronita della  sua  preda.  Le  labbra  di  Venere  sono 
vittoriose;  quelle  di  Adone  ubbidiscono  e  piagano 
il  tributo  del  vinto  ;  nei  suoi  slanci  d'  avvoltoio.  Ve- 
nere abusa  talmente  della  vittoria,  che  minaccia 
di  dar  fondo  al  ricco  tesoro  di  quelle  labbra  mor- 
tali. Una  volta  ch'essa  ha  gustato  le  primizie  del 


—  243  — 
bottino,  si  mette    a    sacclieggiare  con   una  furia 
acciecata  ;  il  suo  viso  bagnato  di  sudore,  il    suo 
sangue  in  ebullizione  e  il  desiderio  sfrenato,  pro- 
vocano in  lei  un'audacia  senza  limite  ;  poi,  avendo 
pietà  del  fanciullo,  che  la  prega  di  lasciarlo  par- 
tire, gli  dà  l'addio,  raccomandandogli  il  suo  cuore, 
che  Adone  porterà  sempre  con   se.    «  Io  passerò 
questa  notte  nel  dolore,  dice    la    dea,    perchè    il 
mio  cuore  sofferente  sforza    i    miei    occhi    a  ve- 
gliare.   Dimmi,    maestro    d'amore,   ci    rivedremo 
domani?  Me    lo  prometti?  »  Adone    le  risponde 
di  no;  domani  egli  vuol    dar    la    caccia    al   cin- 
ghiale,  insieme  ad    alcuni  suoi    amici.  Venere  a 
questa  risposta  impallidisce,  dà  in  ismanie  e  non 
vuole  far  partire  l'amante  ;    questi    prega    e  mi- 
naccia che  lo  lasci  andare  ;  la  Dea  gli  mette  in- 
nanzi agli  occhi  tutti  i  pericoli  che  lo  sovrastano. 
«  Ah!  esclama  Adone,  perdendo  del  tutto  la  sua 
pazienza;  tu  ricadi  di  nuovo  nelle  tue  fastidiose 
teorie,  tante  volte  da  me  ribattute.  Che  cosa  hai 
tu  affermato  eh'  io  non  possa  confutare?  Il   sen- 
tiero che  conduce  al  pericolo  è  dolce.  Io  non  odio 
l'amore,  ma  gli  artifici  del  tuo  amore,  che  regala 
baci  al  primo  venuto.  Tu  lo    fai   per  procreare! 
Oh!  strana  scusa,  quando  la  ragione  serve  di  mez- 
zana  negli  accessi    della  lussuria.  Io  potrei  dire 
di  più,  ma  non  oso  parlare;    il  testo    è  vecchio, 
l'oratore  è  troppo  novizio.  Io  me  ne  vado  dunque 
con  tristezza  ;  la  vergogna  è  dipinta  sul  mio  viso, 
il  timore  nel    mio    cuore.  Le    mie    orecchie,  che 
haimo    ascoltato    il   tuo    frivolo    linguaggio,    mi 


—  244  — 
bruciano  per  aver  commesso  questa  bassezza.  » 
Dopo  ciò  Adone  parte,  mentre  la  dea  sfoga  il 
suo  grande  dolore  nel  silenzio  della  notte.  Ad  un 
tratto  ode  un  grido;  è  Adone,  che,  alle  prese 
col  cingliiale,  rimane  ferito  a  morte  ;  Venere  corre 
sul  luogo  ed  assiste  all'ultima  agonia  del  misero- 
giovine.  Guarda  le  labbra  di  lui,  sono  pallide  p 
gli  prende  le  mani,  sono  fredde....  Adone  è  morto  I 
E  Venere,  sopraffatta  dal  dolore  più  acuto,  esce 
in  questo  stupendo  lamento  : 

«  Poiché  tu  sei  morto,  ahimè!  ecco  avverata- 
la mia  profezia  ;  l'amore  sarà,  d'ora  in  avanti, 
accompagnato  dal  dolore  ;  sarà  scortato  dalla  ge- 
losia; se  ne  troverà  dolce  il  principio,  amara  Ibt 
fine;  sarà  capriccioso,  ingannatore  e  pieno  di  frodi; 
appena  sbocciato,  sparirà  d'un  soffio  ;  farà  forte  il 
debole,  debole  il  forte;  muto  il  saggio,  dando  la 
parola  al  pazzo;  sarà  economo  e  pieno  di  stra- 
vaganze ;  apprenderà  a  vivere  quando  sarà  vecchio^ 
rovinerà  il  ricco,  arricchirà  il  povero;  sarà  fol- 
lemente furioso,  dolcemente  bonario  ;  farà  del  gio- 
vine un  vecchio,  del  vecchio  un  fanciullo.  » 

E  mentre  Adone,  come  una  nebbia,  svaniva  alla 
vista  di  lei,  dal  sangue  sparso  a  terra  sbocciava 
un  fiore  color  di  porpora  macchiato  di  bianco  ;  Ve- 
nere china  la  testa  per  fiutare  quel  fiore  e  quando 
lo  coglie  esce  dallo  stelo  un  umore  verdastro,  che 
la  dea  paragona  alle  lagrime.  —  «  Ecco,  esclama, 
volgendo  la  parola  al  fiore,  ecco  le  abitudini  di 
tuo  padre,  soave  rampollo  di  un  essere  ancor  più 
soave;  i  suoi  occhi  si  mettevano  in  moto  alla  mi- 


—  245  — 
jiima  contrarietà;  ma,  sappi,  altrettanto  vale  fiorire 
nel  mio  seno  che  nel  suo  sangue.  Qui,  nel  mio  seno, 
tuo  padre  amava  riposarsi;  tu  gli  succedi.  E  nel 
tuo  diritto.  Va  !  riposa  nel  fondo  di  questa  cuna  ; 
il  mio  cuore  palpitante  ti  cullerà  notte  e  giorno, 
E  non  passerà  giorno  ch'io  non  baci  il  fiore  del 
mio  amante!  » 

Qui  finisce  il  dramma  shakespeariano  ;  il  poema, 
composto  di  men  ohe  duecento  ottave,  ha  l'im- 
pronta del  genio.  Venere  è  la  donna  shakespeariana 
in  tutta  la  sua  estensione.  Bella,  crudele,  som- 
messa, impetuosa,  che  odia  come  un  córso  e  che 
ama  come  l'arabo  del  deserto  ama  il  suo  cavallo, 
o  meglio  come  Desdemona  ama  Otello.  La  dea 
d'amore  è  ritratta  magistralmente  nel  poema. 
Adone  poi  ha  nelle  vene  qualcosa  di  virile,  che 
manca  nel  suo  omonimo  del  Marino.  Il  primo  alle 
richieste  della  dea  risponde  sprezzantemente  e  ri- 
batte con  assoluta  padronanza  di  pensiero  le  crude 
esigenze  di  Citerea;  l'altro,  nella  medesima  situa- 
zione, impallidisce,  trema,  china  vergognosetto  gli 
occhi,  come  un  Luigi  Gonzaga  qualunque,  che  la 
Chiesa  indegnamente  santificò;  né  sa  dare  un  rifiuto. 

L'uno  crede  l'amore  «un debito  troppo  schifoso,  » 
ne  vuole  contrarlo;  «  anzi,  dice,  non  è  l'amore  che 
alberga  nel  cuore  di  Venere,  ma  la  lussuria  più  sfre- 
nata; »  e  ricambia,  con  moti  che  denot  ano  sprezzo 
ed  impazienza,  le  moine  e  gl'infuocati  sguardi  della 
dea.  Il  Marino  invece  riverisce  in  Venere  la  gran 
dea  d'amore;  rimane  estatico  e  stapefatto  al  solo 
^juardarla,  nò  osa    contraddirla  nelle  sue  brame. 


—  246  — 

Voi  siete  tal  eli'  altri  non  può  mirai-vi, 
Che  mirando  cVamor  non  se  n'accenda  : 
Ma  non  può  alcuno  accendersi  ed  amai'vi, 
Ch'  amando  non  v'oltraggi  e  non   v'offenda. 
Offesa  v'è  servirvi  ed  adorarvi  : 
V'oltraggia  uom  vii  che  cotant'alto  intenda. 
Perchè  con  quel  ch'ogni  misura  passa 
Proporz'ion  non  ha  scala  sì  bassa.  (1) 

Eppoi  Shakespeare  ci  rappresenta  in  Adone 
l'uomo  coi  suoi  grandi  vizi  é  con  le  sue  grandi 
virtù.  E  ciò,  dopo  aver  letto  i  due  poemi,  reca  con- 
forto al  lettore.  Fa  pena  vedere  nel  poeta  italiano 
quel  bellissimo  fanciullo  affetto  da  tanta  bassezza 
di  animo  ;  ohe  è  vile,  pauroso,  che  piange  sempre 
e  piega  il  capo  ad  ogni  cenno  della  dea.  Adone 
non  è  mi  eroe;  è  una  maccliinetta  che  agisce  per 
solo  impulso  di  Venere;  la  quale,  dopo  essersene 
servita  nella  sua  passione  e  nei  suoi  godimenti, 
lo  manda  via  da  casa  sua,  perchè  teme  1'  avvi- 
cinarsi di  Marte,  aizzato  dalla  gelosia;  e  questo 
senza  un  conforto  soave  pel  fanciullo,  senza  prima 
aver  combattuta  la  minima  battaglia  nel  suo  cuore, 
affrontare  cioè  l'ira  del  dio  della  guerra,  e  non 
soggiacer  subito  alla  paura.  Adone  invece  nel 
poema  di  Shakespeare  è  un  uomo  che  soffre,  è 
vero,  ma  non  per  vizio  di  donna.  E  un  uomo  che 
sa  resistere  alle  moine  della  dea  ;  che  sostiene 
im2:)erterrito  i  languidi  sguardi  della  sirena;  che 

(1)  Questo  stesso  sentimento  s'osserva  in  tutte  le  liriche  amorose,  o 
meglio  amatorie,  del  Marino;  nell'egloga  il  Lamento,  risalta  la  figura 
di  Amiuta  innamorato  di  Amarilli,  costantemente  crudele  ed  ingrata.  (Cfr. 
Mango,  op.  cit.,  pag.  86). 


—  247  — 
in  luogo  di  sentirsi  domata  da  questa,  fugge,  per 
dar  la  caccia  al  cinghiale,  il  die,  nella  mente  di 
Shakespeare,  equivale  a  combattere  le  aspre  bat- 
taglie della  vita.  Il  lettore  del  poema  shakespea- 
riano s'appassiona  per  quel  ragazzo,  bello  come 
un  Bacco  greco,  coraggioso  sino  alla  temerità, 
e  che  ragiona  come  uno  scettico  epicureo.  V  è 
del  don  Giovanni  in  quel  fanciullo;  non  però  il 
volgare  seduttore  di  femmine,  lo  svergognato 
millantatore  delle  sue  avventure  galanti;  bensì 
il  don  Giovanni,  che  anche  nelle  braccia  di  una 
donna  non  dimentica  che  v'è  un  altro  mondo  in 
cui  pure  si  vive  ;  e  che  non  è  il  mondo  dell'a- 
more e  della  sensualità. 

Il  Gervinus,  parlando  di  questo  poema,  dice  che 
è  stato  scritto  nella  prima  effervescenza  della 
gioventù  di  Shakespeare;  riconosce  nell'opera  del 
tragico  inglese  l'abuso  della  rettorica  italiana,  che 
contemporanea  a  Shakespeare  fioriva  iieìV Arcadia 
del  Sidney  e  con  VEuphués  di  Giovanni  Lilly; 
aggiunge  però  che  questo  poema  supera  tutte  le 
produzioni  à^Weiifuismo^  e  Shakespeare  gli  appa- 
risce come  un  Creso  in  poesia,  nel  pensiero  e  nelle 
immagini  ;  come  un  maestro  ed  un  vincitore  in 
materia  d'amore;  come  un  gigante  in  passione  ed 
in  potenza  sensuale.  Venus  and  Adonis  ha  ispi- 
rato anche  al  Ttiine  una  pagina  calda  ed  alta 
nel  colorito,  come  del  resto  gli  poteva  suggerire 
l'argomento.  (1) 

(1)  Questn  poema  dello  Shakespeare  non  è  stato    ancora    tradotto  in 
lingua  italiana,  e  ciò  reca  gran  meraviglia. 


—  248  — 

Alleile  il  La  Fontaiiie  lia  cantato  gli  amori 
di  Venere  con  Adone. 

La  Fontaine,  per  alcuni  rispetti,  si  avvicina  al 
Marino;  (1)  anzi  si  può  affermare  che  il  favolista 
francese  non  sdegnasse  di  aver  sott' occhio  il 
poema  del  Marino,  perchè  nelVAvertissement^  che 
premise  all'  edizione  del  1669  dice  :  «  Le  fonds 
que  j'en  avois  fait,  soit  par  la  lecture  des  anciens, 
soit  par  celle  de  quelques-uns  de  nos  inodernes,. 
s'est  presque  entièrement  consume  dans  l'embel- 
lissement  de  ce  poéme,  bien  que  l'ouvrage  soit 
■court,  et  qu'à  proprement  parler  il  ne  morite  que 
le  nom  d'idylle.  » 

E,  seguendo  l'esempio  del  Marino,  «  l'avoit 
fait  marcher  à  la  suite  de  Psyché,  cro^^ant  qu'il 
étoit  à  propos  de  joindre  aux  amours  du  iìls 
celles  de  la  mère.  »  Ma  poi,  seguendo  l'avviso  di 
alcuni,  cambiò  idea. 

Ambedue  confessano  di  preferire  il  canto  del- 
l'amore ;  per  tutti  e  due  cantar  cose  eroiche  è 
un'impresa  alla  quale  non  si  vogliono,  né  pos- 
sono adattare. 

Il  Marino  dice: 

Altri  colà  dove  Parnaso  al  Cielo 
Erge  in  due  corna  le  frondose  cime 
Per  coronarsi  del  più  verde  stelo 
Sudi  a  poggiar  per  calle  erto  e  sublime. 
Io  sol  del  vostro  altero  orgoglio  anelo 

(1)  Oeiivres  complèles  de  La  Fontaine,  Paris,  Haeliotte,  18j8,  Voi.  1, 
pag.  683. 


—  249  — 

Su  '1  monte  alpestre  a  sollevar  le  rime, 
E  vò  che  '1  guidernon  de'  miei  sudori 
Sia  corona  di  mirti  e  non  d'allori. 

Amor  solo  è  il  mio  Febo  ed  Amor  solo 
Con  l'arco  istesso  onde  gli  strali  e'  scocca, 
Perchè  la  gloria  si  pareggi  al  duolo, 
De  la  mia  lira  ancor  le  corde  tocca. 
Da  l'ali  del  pensier  che  spiega  il  volo 
Là  donde  poi  qual  Icaro  trabocca. 
Anzi  pur  da  la  sua,  svelse  la  penna 
Con  cui  scrivo  talor  quant'ei  m'accenna.  (1) 

In  fondo  in  fondo  però,  al  Marino  j)iacerebbe 
cantare  azioni  guerresche,  quali  quelle  del  duce 
famoso  e  okiarOj  che,  armato  di  giusto  sdegno, 
vendicò  lo  strazio  amaro  del  Messia;  oppure  vor- 
rebbe comporre  «  nuove  metamorfosi  nel  genere 
di  quelle  del  Sulmonese;  »  e  conchiude: 

Ma  poi  ch'a  rozzo  stil  non  lice  tanto, 
Seguo  d'Adone  e  di  Ciprigna  il  canto. 

La  Fontaine  non  è  meno  esplicito.  Ecco  l'esordio 
del  poema: 

Je  n'ai  pas  entrepris  de  chanter  dans  ces  vers 
Rome  ni  ses  enfans  vamqueurs  de  l'univers, 
Ni  les  fameuses  tours  qu'  Hector  ne  put  défendre, 

(1)  Sempre  la  medesiraa  cosa!  Cosi  pure  scrive  nel  sonetto,  che  serve 
di  proemio  alla  Lira  : 

Altri  canti  di  Marte,  e  di  sua  schiera 
Gli  arditi  assalti,  e  l'onorate  imprese, 
Le  sanguigne  vittorie,  e  le  contese, 
I  trionfi  di  Morte,  orrida  e  fera. 
lo  canto.  Amor 


—  250  — 

Ni  les  combats  des  dieux  aux  rives  du  Scamandre. 
Ces  sujets  sont  trop  hauts,  et  je  manque  de  voix; 
Je  n'ai  jamais  chanté  que  l'ombrage  des  bois, 
Flore,  Echo,  les  Zépbj^rs,  et  leurs  raolles  haleines, 
Le  vert  tapis  des  prés  et  l'argent  des  fontaines. 


Ma  muse  en  sa  faveur  de  myrte  s'est  parée  ; 
J'ai  voulu  célébrer  l'amant  de  Cythérée, 

Tanto  il  Marino  quanto  il  La  Fontaine  sono  fe- 
deli al  mito  classico,  e  danno  la  palma  della  vittoria 
a  Venere.  Ambedue  risentono  fortemente  del 
dramma  pastorale  ch'ebbe  tanta  voga  nei  secoli 
XVI  e  XVII,  dramma  pastorale  che  s'infiltra  in 
tutti  i  componimenti  poetici  e  arriva  sino  all'^- 
done;  ambedue  sono  cortigiani  e  perciò  debbono 
seguire  l'uso  delle  corti,  anche  nell'indirizzo  poe- 
tico ch'esse  preferiscono. 

Il  La  Fontaine,  come  Shakes|)eare,  apre  subito 
il  poema  coU'innamoramento  di  Adone,  episodio 
che  in  quello  del  Marino  occupa  tre  canti.  Dopo  l'in- 
namoramento, vengono  i  godimenti,  la  caccia,  in  cui 
Adone  muore,  e,  come  il  tragico  inglese,  il  poeta 
francese  termina  il  poema  quando  Venere,  singhioz- 
zando, ascende  nel  suo  palazzo,  per  nascondere  il  do- 
lore che  la  strazia  nel  silenzio  e  nell'ombra.  Oltre 
ai  tre  poemi  sopra  accennati,  esiste  ancora,  sul  mito 
di  Adone  una  commedia  di  Lope  de  Vega  Adonis 
y  Venus ;  Les  amours  de  Vémis  et  d' Adonis  opera 
drammatica  di  Dévise,  rappresentata  a  Parigi 
nel    Ì8G5;    la    Fabula    de    Adonis    y    Vénus    del 


—  251  — 
poeta    madrileno    Alfonso    De    Batres;    V  Adonis 
poema  del  celebre  don   Diego    Hurtado  de  Men- 
doza;  ed  infine  sonetti  e  canzoni  seicentiste   che 
la  storia  letteraria    fortunatamente  non  registra. 

Tra  i  molti  e  svariati  episodi  che  pullulano  nel 
poema  del  Marino,  v'  è,  come  abbiamo  detto,  la  fa- 
vola di  Psiche,  che  occupa  tutto  il  canto  quarto  del 
poema,  canto  che  il  Marino  intitolò  :  La  Novelletta. 

La  favola  di  Psiche  è  senza  dubbio  la  miglior 
parte  deìVAsiìio  d'Oro  d'Apuleio.  Essa  è  conside- 
rata, a  ragione,  una  delle  più  ingegnose  ed  inte- 
ressanti trasmesseci  dall'antichità,  e  sebbene  in 
Apuleio  si  trovi  per  la  prima  volta,  non  si  crede 
tuttavia  ch'egli  ne  sia  l'inventore.  (1) 

Tra  coloro  che  prima   del    Marino    si    occupa- 

(1)  Apuleio,  come  tutti  sanno,  visse  nel  secondo  secolo  dell'era  cri- 
stiana. Il  nome  di  Psiche  in  greco  significa  anima  e  farfalhi,  e  la  farfalla 
era  simbolo  presso  i  greci,  dell'immortalità.  Di  più  un  gran  numero  di  mo- 
numeuti  d'arte  greci,  alcuni  dei  quali  appartengono  all'epoca  della  più 
grande  perfezione,  raffigurano  alcune  delle  avventure  di  Psiche.  Si  crede 
anche  che  la  favola  di  Amore  e  Psiche  fosse  un  mito  morale,  facente  parto 
di  quei  misteri  ai  quali  erano  iniziate  le  sole  donne,  e  che  erano  destiniili 
ad  essere  rappresentati  in  loro  presenza  sotto  la  forma  d'un  dramma  sim- 
l)olico,  affine  di  rammentare  loro  i  pericoli  che  assediano  la  beltà,  e  d'in- 
culcar loro  i  doveri  che  la  moglie  deve  compiere  in  mezzo  a  prove  e  a 
diUlcoltà  d'ogni  genere.  (Cfr.  J.  Dunlop,  Gesehichfe  der  Prosadichtungen, 
trad.  tedesca  di  F.  Liebrecht,  Berlin,  1851,  pag.  48). 

Ultimamente  il  Cosquin,  nel  suo  pregevolissimo  lavoro  di  novellistica 
comparata,  Les  Contes  Lorrains,  {Romania,  1881),  espresse  il  convinci- 
mento che  il  racconto  di  Psiche  fosse  di  origine  indiana.  Su  questo  iiunto 
vi  sarebbe  molto,  ma  molto,  da  discutere;  perchè,  pure  ammesso  che 
questo  bellissimo  racconto  non  sia  un  mito,  bensi  una  fiaba,  sarebbe 
senza  dubbio  a  vedere  se  essa  appartenga  a  quel  gruppo  indiano  di  no- 
velle popolari,  le  quali,  per  ragioni  troppo  evidenti,  furono  ignorate  dai 
latini;  e,  ammesso  che  la  fiaba  abbia  riscontri  anche  nelle  novelle  in- 
diane, ciò  non  verrebbe  niente  affatto  a  dimostrare  eh'  essa  sia  di  ori- 
gine indiana.  D'altra  parte  alcuni  sostengono  che  sia  un  mito  (Cfr.  Max 
Miiller,  e  specialmente    il    Liebrecht    Zur     Volkskiinde,    lleilbronn,  1879, 


—  252  — 
rono  di  Psiche,  citerò  per  ora  il  Del  Carretto, 
ed  Ercole  da  Udine,  che  ambedue  scrissero  un 
dramma  su  Psiche,  il  Fracastoro,  che  nel  dialogo 
deW Airhna  accenna  rapidamente  al  racconto,  ed 
Agnolo  Firenzuola  che  tradusse  liberamente  1'^- 
sino  d'Oro  d'Apuleio.  (1) 

Il  Marino  s'è  attenuto  strettamente  ad  Apuleio, 
anzi  ha  seguito  quasi  j)asso  passo  il  testo  latino 
del  poeta  cartaginese.  (2) 

Ecco  il  sunto  della  favola  :  Psiche,  giovinetta 
bellissima,  che  eccita  l'invidia  di  Venere,  per 
comando  dell'oracolo,  che  minacciava  sciagure  ai 
suoi  genitori,  vien  condotta  ed  abbandonata  sopra 
una  deserta  montagna.  Amore,  invaghitosi  della 
grande  bellezza  di  lei,  manda  Zefiro,  che  la  pigli 
sulle  sue  ali,  e  la  porti  in  un  palazzo  incantato, 

paj.  239),  che  ricollegano  la  fiaba  di  Psiche  col  mito  antichissimo  di 
(Pururuvas  ed  Urva^j  e  con  altre  novelle  indiane).  Ma  questo  sarà  oggetto 
d'ano  studio  che  faremo  in  seguito.  Intanto  qui  mi  giova  avvertire  che  molte 
novelle,  e  di  tutti  i  paesi,  hanno  degli  episodi  simitì,  più  o  meno,  ad  alcuni 
{•he  si  trovano  nella  novella  di  Psiche;  ma,  com'è  naturale,  non  ricavano 
il  fatto  dalla  fonte  mitologica,  perchè  Apuleio  è  il  primo  ad  introdurre 
nella  narrazione,  come  personaggi.  Amore  e  Psiche,  in  un  tempo  in 
cui  la  mitologia  era  in  tutto  il  suo  splendore.  11  compianto  Vittorio  Im- 
briani  avea  già  accennato  a  questa  comunanza  d'episodi  che  hanno  alcune 
novelle  popolari  col  mito  di  Psiche;  e  ciò  tiu  dal  1875  parlando  di  Giovanni 
Battista  Basile    {Giornale    napoUt  ino). 

(1)  L'abate  C.iacomo  Zanella  {Nnora  Antologia,  Serie  terza,  Voi.  IX, 
1887)  accennando  al  Salvioli  ed  al  Cassiani,  che  hanno  versi  sopra  il  mito 
di  Poiché,  dimentica,  se  non  conosce,  il  Canto  lY  del  Marino;  come  pure, 
accennando  al  La  Fontaiue,  doveva  anche  accennare  alla  tragedia  di  Mo- 
lière, ed  al  poema  composto  verso  il  1840  da  Victor  De  Laprade.  Questo 
per  contrario  fece  il  Torraca,  in  una  recensione,  sul  giornale  la  Ras- 
segna, ad  un  opuscolo  della  Lovatelli  sul  mito  di  Psiche. 

(2)  Non  dobbiamo  però  tacere  che  il  Marino  ha  messo  qualcosa  di  suo 
nella  Novelletta,  come  ii  viaggio  dì  Venere  in  cerca  del  figlio,  ed  un'  ot- 
tava bellissima,  quando  Psiche  s'avvicina  all'amante,  tenendo  in  mano 
la  lucerna  fatale. 


—  253  — 
posto  in  amenissimo  luogo  fuori  della  vista  degli 
nomini;  in  questo  palazzo,  rilucente  d'oro  e  di 
gemme,  Psiclie  ha  ancelle  invisibili  che  le  som- 
ministrano quanto  può  desiderare.  Amore,  lo  sposo, 
la  visita  di  notte  ;  e  lo  avverte  che,  per  quanto 
ama  il  suo  bene,  non  si  invogli  di  vedere  la  sua 
faccia.  Psiche  aveva  due  sorelle  maggiori,  già  ma- 
ritate ad  uomini  men  che  onesti.  Queste  due  ven- 
gono a  visitare  la  minore  sorella,  che  contro  il 
consiglio  di  Amore  le  accoglie  e  mostra  loro  la 
magnificenza  e  gli  agi  della  casa.  Tocche  d'invidia, 
le  ree  femmine  giurano  la  perdita  della  troppa  cre- 
dula ed  ingenua  sorella,  che,  contro  i  consigli  ed 
i  rimproveri  di  Amore,  si  ostina  a  riceverle  due 
altre  volte.  Esse  giungono  a  persuaderla  che  lo 
sposo  sconosciuto  altri  non  sia  che  un  mostro; 
che,  per  non  essere  veduto,  le  aveva  proibito  di  vo- 
lerlo conoscere.  Psiche,  ingannata,  crede  all'iniqua 
suggestione;  ed  una  notte,  mentre  Amore  dormiva, 
presa  una  lampada  si  accosta  al  suo  letto.  Mentre 
stupefatta  di  tanta  bellezza  si  ricorda  e  pensa  alla 
menzogna  delle  sorelle,  cade  dalla  lampada  una 
scintilla  che  va  a  ferire  Amore  in  una  spalla; 
Qui  Psiche  si  ferisce  inavvertentemente  con  le 
frecce  di  Cupido  e  arde  di  amore  per  lui  ;  ma 
Cupido  fugge  in  cielo  fra  le  braccia  della  madre, 
che  lo  chiude  in  una  camera  e  irritata,  sottopone 
la  povera  Psiche  a  travagli  e  tormenti  d'ogni  guisa; 
finche,  deposta  l'ira,  accoglie  Psiche  in  cielo,  ed 
alla  presenza  di  tutti  la   dà  [sposa  ad  Amore.  (L) 

(1)  Zanella.  Luogo  citato. 


—  254  — 
Giovanni  La  Fontaine    s'innamorò    anche    lui 
della  favola  di  Psiche,  modificandone  però  la  nar- 
razione. 

Nell'opera  sua  fìnge  che  quattro  amici  vadano 
a  Versailles  per  vedere  quei  superbi  giardini  e 
quei  magnifici  palazzi,  nuove  meraviglie  del  nuovo 
regno.  Uno  di  essi,  Polyphile  (che  è  poi  il  La  Fon- 
taine) per  variare  i  divertimenti  dei  tre  amici, 
ed  anche  per  consultare  il  loro  gusto  e  per  pro- 
fittare delle  loro  critiche,  fa  la  lettura  di  quanto 
egli  ha  scritto  sopra  le  avventure  di  Psiche- 
La  sua  narrazione  è  spesso  interrotta  dalla  de- 
scrizione de'bei  luoghi  che  i  quattro  amici  hanno  oc- 
casione di  contemplare,  dalle  discussioni  letterarie, 
alle  quali  essi  s'abbandonano,  e  dalle  riflessioni 
ed  osservazioni  che  ciascuno  fa.  Questi  ragiona- 
menti, spesso  burleschi,  e  qualche  volta  seri  e 
morali,  stancano  il  lettore,  il  quale,  appassionan- 
dosi alla  narrazione  della  favola,  vedesi  spesso 
interrotto.  Come  abbiamo  detto,  il  narratore,  Poly- 
phile, è  il  La  Fontaine  ;  gli  altri  sono  :  Gelaste  che 
raffigura  Molière,  Ariste  che  è  Boileau,  ed  A- 
cante,  Racine.  (1) 

Il  Marino  invece  fa  narrare  gli  amori  di  Psiche 
dall'eroe  principale  della  favola,  Cupido,  che  è 
compagno  di  Adone  nel  suo  palazzo;  ed  in  questa 
guisa  il  Marino  s'allontana  da  Apuleio,  il  quale 
finge  che  la  favola  sia  narrata  da  una  vecchia  ad 

(1)  II  racconto  di  Apuleio  è  stato,  in  verità,  troppo  diluito  dalla 
peuua  del  La  Fontaine;  ha  un  colorito  troppo  roseo,  troppo  sdolcinato; 
non  è  più  Venere  che  parla,  è  Madama  di  Montespan.  Giove  non  esiste 
sfifattoj  Giove  è  Luigi  XIV,  le  Soi  Soleil. 


—  255  — 
lina  fanciulla  prigioniera.  Il  poeta  seicentista, 
sempre  pronto  a  coprire  di  definzioni  morali  il 
suo  poema,  allorquando  cade  in  qualclie  scurri- 
lità, premette  alla  novella  di  Psiche  una  lunga 
allegoria,  nella  quale  vuol  far  credere  che  «  la  fa- 
vola di  Psiche  rappresenta  lo  stato  dell'uomo,  la 
città  dove  nasce  il  mondo  ;  il  re  e  la  regina,  che 
la  generano.  Iddio  e  la  materia;  che  le  tre  fi- 
gliole di  quelli  rappresentano  la  Carne,  la  Libertà 
dell'Arbitrio  e  l'Anima  ;  Venere  che  ha  invidia 
di  Psiche  sarebbe  la  Libidine  ;  costei  la  manda  a 
Cupidine,  cioè  la  Cupidità,  la  quale  ama  essa 
Anima  e  si  congiunge  a  lei,  persuadendole  a  non 
voler  a  mirar  la  sua  faccia  ;  cioè  a  non  voler  at- 
tenersi ai  diletti  della  concupiscenza,  ne  consen- 
tire agli  incitamenti  delle  sorelle.  Carne  e  Libertà. 
Ma  ella,  a  loro  istigazione,  entra  in  curiosità  di 
vederla  e  discopre  la  lucerna  nascosta,  cioè  a  dire 
palesa  la  fiamma  del  desiderio  celata  nel  petto. 
La  Lucerna  che  sfavillando  cuoce  Amore,  dimostra 
l'ardore  della  Concupiscibile,  che  lascia  sempre 
stampata  nella  carne  la  macchia  del  peccato. 
Psiche,  agitata  dalla  fortuna  per  diversi  pericoli,  e 
dopo  molte  fatiche  e  persecuzioni  copulata  ad  Amore, 
è  tipo  delia-stessa  Anima,  che  per  mezzo  di  molti  tra- 
vagli arriva  finalmente  al  godimento  perfetto.  »  (1) 
Accanto  a  questi  due  poemi  sul  mito  di  Psiche 
esiste  anche  una  tragedia  di  Molière  ;  (2)  questa  fu 

(1)  Questa  del  resto  è  la  spiegazione  che  diede    della    novella    il    ve. 
«jovo  Fulgenzio,  sullo  scorcio  del  secolo  VII.  Cfr.   Torraca,  art.  cit. 

(2)  Oeuvres   complete^    de    Molière,   Paris,    Garnier,    1884,    Voi.    Ili, 
paj.   185. 


—  256  — 
rappresentata  per  la  prima  volta  nel  1671  musi- 
cata dal  celebre  LuUi,  il  quale  scrisse  per  la  com- 
media l'intermezzo  del  prim'atto.  Nel  prologo  che 
precede  la  tragedia,  Venere,  al  solito,  si  lamenta 
che  gli  uomini  abbiano  cessato  di  far  sacrifizi  al 
tempio  in  onore  di  lei,  e  rivolte  tutte  le  loro  cure 
a  Psiche.  Aegiale  e  Phaène  cercano  di  consolarla,, 
ed  Aegiale  dice: 

Voila  comme  Ton  fait  ;  c'est  le  style  des  hommeSr 
Us  sont  impertinents  dans  leurs  comparaisons. 

La  tragedia  di  Psiche,  che  dura  cinque  atti,, 
principia  con  le  querele  di  Aglaure  e  di  Cydippe^ 
sorelle  della  fanciulla,  le  quali  si  struggono  d'in- 
vidia nel  pensare  a  tutti  gli  onori  che  sono  riservati 
a  Psiche  ;  in  questo  mentre  giungono  due  principi,, 
venuti  ad  ammirare  anch'essi  la  bellissima  rivai© 
di  Venere  e  le  fanno  amorose  dichiarazioni.  Psiche 
argutamente  li  rifiuta,  non  ostante  che  le  sorelle 
la  pregano  ad  accettare  l'amore  di  essi.  Durante 
questa  disputa  viene  Lycas,  capitano  delle  guardie 
del  re,  padre  di  Psiche,  annunziando  alla  fanciulla 
che  il  padre  vuole  vederla.  Psiche  parte,  e  Lj^cas, 
con  le  lagrime  agii  occhi  racconta  alle  due  so- 
relle che  l'oracolo,  interrogato  dal  re,  ha  dato 
questo  responso  : 

Que  l'on  ne  pense  nulleraent 
A  vouloir  de  Psycbé  conclure  rhyménée  ; 
Mais  qu'  au  sommet  d'un  mont  elle  soit  promptement 
Eli  pompe  funebre  menée, 
Et  que,  de  tous  abandonnée, 


—  257  — 
Pour  époux  elle  attende  ea  ces  lieux  constamment 
Un  monstre  dont  on  a  la  vue  empoisonnée, 
Un  serpent  qui  répand  son  venin  en  tous  lieux, 
Et  trouble  dans  sa  rage  et  la  terre  et  les  cieux. 

Ed  il  primo  atto  termina  con  un  balletto  can- 
tato in  italiano  «  da  una  donna  desolata  e  da  due 
uomini  afflitti.  » 

Nel  second'atto  Psiche  tra  i  pianti  di  tutti,  è 
condotta  sul  luogo  del  supplizio;  e  dopo  aver 
pregato  le  due  sorelle,  che  piangevano  ipocrita- 
mente, di  lasciarla  sola  e  di  raggiungere  e  con- 
solare l'afflittissimo  padre,  l'angelica  fanciulla, 
sola  sull'alto  della  montagna,  esclama  : 

Enfin,  seule  et  tonte  à  moi-méme, 
Je  puis  envisager  cet  afFreux  changement 

Qui,  du  bant  d'une  gioire  extréme, 

Me  precipite  au  monument. 

Cette  gioire  étoit  sans  seconde  ; 
L'éclat  s'enrépandoit  jusqu'aux  deux  bouts  du  monde. 
Tout  ce  qu'il  a  de  rois  sembloient  faits  pour  m'aimer  ; 

Tous  leurs  sujets,  me  prenant  pour  déesse, 

Commencoient  à  ra'accoutumer 

Aux  encens  qu'ils  m' offroient  sans  cesse: 
Leurs  soupirs  me  suivoient  sans  qu'il  m'en  coùtàt  rien  ; 
Mon  àme  restoit  libre  en  captivant  tant  d'àmes , 

Et  j'etoit,  parmi  tant  de  flammes, 
Reine  de  tous  les  coeurs  et  maitresse  du  mien. 

0  ciel!  m'auriez-vous  fait  un  crime 

De  cette  insensibillté  ? 
Déployes-vous  sur  moi  tant  de  sévérité, 
Pour  n'avoir  à  leurs  voeux  rendu  que  de  l'estime  ? 

17 


—  258  — 
Si  vous  m'iinposiez  cette  loi. 
Qu'  il  fallùt  faire  une  choix  poiar  ne  pas  vous  déplairo, 
Puisque  je  ne  pouvais  le  faire, 
Que  ne  le  faisiez-vous  pour  raoi  ? 

In  questo  mentre  compariscono  i  due  prìncipi, 
che  l'avevano  richiesta  nel  tempo  della  sua  feli- 
cità, e  s'offrono  di  salvarla  anche  a  costo  della 
loro  vita.  Psiche  rifiuta  la  generosa  offerta  ; 
senza  che  abbiano  il  tempo  d'impedirlo,  la  fan- 
ciulla viene  portata  in  aria  da  due  zeffiri,  e  Cu- 
pido, autore  ed  attore  del  ra^Dimento,  esclama, 
volando  : 

AUez  niourir,  rivaux  d'un  dieu  jaloux, 
Dont  vous  méritez  le  courroux, 

Pour  avoir  eu  le  coeur  sensible  aux  raémes  charnies. 

Et  toi,  forge,  Vulcain.  mille  brillants  attraits. 
Pour  orner  un  palais 

Où  l'Amour  de  Psyclié  veut  essuyer  les  larmes, 
Et  lui  rendre  les  armes, 

Al  terz'atto  Psiche  è  nel  palazzo  d'Amore,  (1) 
dove  gusta  con  Cupido  tutte  le  dolcezze  della 
passione- amorosa.  Ma  Psiche  però  non  può  reg- 

(1)  Qui  termina  l'opera  di  Molière,  il  quale  aveva  formato  il  piano 
della  tragedia  e  ne  regolò  la  disposizioue.  Quanto  alla  versificazioue  egli 
stesso  ci  avverte  che  non  poteva  compierla  tutta  lui:  «  Le  carnaval  appro- 
choit,  et  les  ordres  pressants  du  roi,  qui  se  vouloit  donner  ce  magnifique 
divertissement  plusicurs  fois  avant  le  carème,  Vont  mis  dans  la  necessitò 
de  souffrir  un  peu  de  secours.  Ainsi  il  n'y  a  que  le  prologue,  le  premier  acte, 
la  première  scène  du  sccond  et  la  pionière  du  troisièine,  dont  les  vera 
soicut  de  lui.  M.  Corneille  a  cmployé  une  quiuzaiue  au  reste;  et.  par  ce 
moyen,  S*  Mijestó  s'est  trouvéa  scrvio  dau-^  le  tenips  qu'elle  l'avoit  or- 
donné. 


r-  259  — 
gere  al  pensiero  ch'ella  sia  felice,  mentre  il  vec- 
chio padre  e  le  due  sue  sorelle  ne  piangono 
l'immatura  perdita;  e  prega  caldamente  il  suo 
amante  che  la  famiglia  di  lei  sia  testimonio  di 
tanta  felicità  e  delle  cure  che  a  lei  prodiga 
Amore.  Questi  tenta  resistere,  obiettando  non 
esser  vero  che  Psiche  gli  abbia  dato  tutta  l'a- 
nima; Psiche  però  gli  fa  osservare  che  le  te- 
nerezze di  sangue  non  possono  renderlo  geloso. 
Ed  Amore  allora  acconsente  a  malincuore  a'  pre- 
ghi dell'amata,  e  voltosi  a  Zeffiro  : 

....  allez,  partez,  Zéphyre; 
Psyché  le  veut,  je  ne  l'en  puis  dédire. 

Psiche  e  Cupido  restano  soli;  poi  anche  que- 
st'ultimo parte,  perchè  non  vuole  che  la  sua  pre- 
senza disturbi  le  gioie  di  famiglia;  e  la  prega  di 
sbrigarsi,  perchè  debbono  pensare  all'amore  e  non 
ad  altro. 

All'atto  terzo  siamo  in  un  magnifico  palazzo, 
in  fondo  del  quale  si  vede  un  giardino  superbo 
ed  incantevole.  Compariscono  Aglaure  e  Cydippe, 
le  quali  sono  stupefatte  per  la  vista  di  tante  cose 
meravigliose;  ma  arrabbiatissime  che  una  cadetta, 
com'esse  chiamavano  Psiche,  debba  godere  tanta 
felicità;  Psiche  frattanto  s'unisce  anche  lei  alle 
sorelle,  e  poco  dopo  le  prega  di  andar  via,  perchè  il 
suo  bene  è  impaziente  di  rivederla  ;  le  due  sorelle 
partono,  dopo  aver  data  promessa  di  ritornare 
l'indomani.  Quindi  i  due  amanti  si  ricongiungono 
e  Psiche  prega  Cupido  di  dirle  il  suo  nome.  Cu- 


—  2B0  — 
pido  sulle  prime  nega,  ma  Psiche  tanto  insiste  che 
finalmente  le  si  rivela: 

Eh  hien  je  suis  le  Dieu  le  plus  puissant  des  Dieux, 
Absolu  sur  la  terre,  absolu  dans  les  Cieux  ; 
Dans  les  eaux,  dans  les  airs,  mon  pouvoh'est  suprème: 

En  un  mot,  je  suis  l'Amour  mème. 
Qui  de  mes  propres  traits  m'étois  blessé  pour  vous; 
Et,  dans  la  violence,  hélas!  que  vous  me  faites. 
Et  qui  vient  de  changer  mon  amour  en  courroux, 
Vous  m'alliez  avoir  pour  époux. 
Vos  volontés  sont  satisfaites  ; 
Vous  avez  su  qui  vous  aimiez  ; 
Vous  connoissez  l'amant  que  vous  charmiez  ; 

Psyché,  voyez  où  vous  en  ètes. 
Vous  me  forcez  vous-mème  à  vous  quitter; 
Vous  me  forcez  vous-mème  à  vous  òter 
Tout  l'etfet  de  votre  victoire . 
Peut-étre  vos  beaux  yeux  ne  me  reverront  plus. 
Ces  palaiS;  ces  jardins,  avec  moi  disparus, 
Vont  faire  évanouir  votre  naissante  gioire. 

Vous  n'avez  pas  voulu  m'en  croire; 
Et,  pour  tout  fruit  de  ce  doute  éclairci, 
Le  Destin,  sous  qui  le  ciel  tremble, 
Plus  fort  que  mon  Amour,  que  tous  les  dieux  ensemble 
Vous  va  montrer  sa  baine,  et  me  chasse  d'ici. 

Detto  ciò  Amore  sparisce  ;  la  povera  fanciulla, 
mentre  che  palazzi  e  giardini  spariscono  come  d'in- 
canto, si  trova  in  mezzo  ad  una  vasta  campagna,  ir» 
rigata  da  un  fiume,  nel  quale  Psiche,  al  colmo  della 
desolazione,  vuole  precipitarsi;  ma  viene  trattenuta 
dal  dio  del  fiume,  il  quale  le  spiega  come  tutto  ciò 
sia  opera  di  Venere,  gelosa  della  bellezza  di  lei.  In 


—  261  — 
questo  Venere  si  avanza,  e  colma  di  rimproveri 
Psiche;- poi  le  ordina  di  seguirla.  La  fa  scendere 
nell'inferno,  dove  Psiche  ritrova  i  due  principi 
amanti  di  lei,  i  quali  s' erano  precipitati  dal  monte 
su  cui  Psiche  era  stata  trasportata.  In  questo  mentre 
comparisce  Amore;  e  Venere,  Amore  e  Psiche  ri- 
tornano insieme  nel  palazzo  di  Venere.  Qui  Amore 
prega  la  madre  di  perdonare  a  Psiche,  ma  la  dea 
è  inflessibile  ;  allora  vedendo  Gì-iove  che  s'avvicina, 
gli  va  incontro  e  lo  prega  di  voler  perdonare  a 
Psiche,  aggiungendo  che 

Si  Psyclié  n'est  à  raoi,  je  ne  suis  plus  l'Amour. 
Qui,  je  romprai  mon  ai'c,  je  briserai  mes  flèches. 

Giove,  commosso  dalle  preghiere  del  fanciullo, 
invita  Venere  ad  esaudire  i  desideri  di  lui  ;  Venere 
obietta  che  ciò  è  impossibile,  perchè  Psiche  è 
mortale:  «  Ebbene,  soggiunge  G-iove,  io  la  farò  im- 
mortale. »  Venere  china  il  capo;  la  pace  è  fatta  e 
le  nozze  di  Amore  e  Psiche  sono  celebrate. 

Il  poema  del  De  Laprade,  pubblicato  nel  1841, 
spira  tale  un  odore  di  misticismo,  del  quale  il 
poeta  ha  circondato  il  mito,  che  l'opera  sembra 
una  tesi  filosofica  più  tosto  che  un  poema  mito- 
logico. E  diviso  in  tre  libri,  ognuno  de'  quali  co- 
mincia con  un  argomento  e  termina  con  un  epilogo. 
Il  poeta  colloca  subito  Psiche  nel  palazzo  d'A- 
more, ove  de' cori  invisibili  annunciano  alla  fan- 
ciulla l'arrivo  di  Eros  ;  ed  alla  sera  le  loro  nozze 
mistiche  sono  celebrate  in  luogo  sontuosissimo,  ma 
avvolto  nelle  tenebre,  per  le  quali  a  Psiche  è  in- 


—  262  — 
terdetto  di  vedere  il  suo  sjdoso.  Ma  Psiche  non  può 
vivere  a  quel  modo,  perchè  è  agitata  per  quel- 
l'amore incognito  ed  infinito;  ed  invano  il  not- 
turno amante  viene  a  consolarla,  perchè  il  desi- 
derio di  conoscere  l' essere  invisibile,  di  scorgere 
l' infinito,  turba  le  delizie  del  casto  imeneo.  Psiche 
trasgredisce  agli  ordini  del  suo  sposo  e  del  de- 
stino; la  malaugurata  lampada  è  accesa  ed  ella 
riconosce  Amore  nel  suo  notturno  sposo.  Questa 
disubbidienza  è  punita  e  la  fanciulla,  discacciata 
dalla  casa  d'Amore,  prende  la  via  dell'esilio;  ma 
una  lacrima  bagna  il  ciglio  d'Amore,  e  questo  è 
segno  della  redenzione  di  Psiche,  ossia  della 
umanità.  Così  la  sventurata  vaga  per  il  mondo 
terrestre,  dove  ha  dovuto  scendere,  e  questo  è 
in  allegoria  il  mondo  dell'espiazione  ;  visita  tutti 
i  paesi,  cominciando  da  quelli  allo  stato  di  bar- 
barie, dove  è  presa  e  fatta  schiava.  Liberata  va 
in  Egitto,  in  Grecia,  analizzando  minutamente 
civiltà  e  credenze  religiose;  ma  l'assenza  di  Psiche 
attrista  Amore,  il  quale  supplica  Giove  a  voler 
porre  termine  alle  pene  della  fanciulla,  che  nella 
mente  del  poeta  rappresenta  l'anima,  alla  quale 
Amore  deve  unirsi  per  sempre.  Giove  acconsente 
all'unione  di  Eros  con  Psiche,  di  Amore  con 
l'Anima;  le  nozze  si  celebrano  sull'Olimpo;  le 
muse  intuonano  un  epitalamio  :  invece  della  prima 
lampada  pallida  e  furtiva,  un  astro  immortale 
inonda  di  luce  il  luogo  consacrato  all'imeneo, 
condannato  altra  volta  all'oscurità.  Le  divinità 
esiliate  ritornano  sull'Olimpo  e  l'imeneo  uni  ver- 


—  263  — 
sale  celebra  la  vita  felice  e  l' annientamento  del 
male. 

Il  De  Laprade,  come  abbiamo  veduto,  si  scosta 
sensibilmente  dalla  natura  e  dalle  condizioni  del 
soggetto;  percbè  cristianizza  alcune  delle  situa- 
zioni del  poema,  anzi  fa  parlare  Psiche  come 
Gesù.  Nazareno.  Psiche  non  è  la  fanciulla  felice 
nelle  braccia  d'iimore,  tanto  felice  ch'essa  si  ras- 
segna ad  ignorare  il  viso  del  suo  misterioso 
amante,  il  quale  poi,  nel  racconto  apuleiano,  è  per 
suggestione  creduto  un  serpente  dalla  fanciulla; 
è  una  vergine  che  parla  liberamente  e  famigliar- 
mente  con  tutte  le  potenze  della  natura,  coi  fiori, 
con  i  venti,  con  le  acque,  ed  analizza  i  loro  mi- 
nimi movimenti  con  una  finezza  ed  una  sottigliezza 
degna  d'un  filosofo  sperimentale.  E  troppo  dotta, 
troppo  intelligente  questa  fanciulla  ingenua  e 
misticamente  amorosa;  per  cui  la  favola  è  svisata 
anche  nelle  origini  oltre  che  negl'intendimenti.  (1) 

(1)  Francesco  Biaccioliai  fece  auche  lui  un  poema  sul  mito  di  Psiche; 
rimase  però  inedito  e  il  mss.  giace  alla  biblioteca  nazionale  di  Roma. 


264  — 


Capitolo  X. 


I  Marino  torna  in  Italia  —  Accoglienze  che  riceve  in  patria  —  Sua 
morte  —  Esequie  del  Marino  —  Ritratto  del  poeta  —  Indole  generale 
della  sua  lirica  —  La  Strage  degli  Innocenti. 


Era  appena  compiuta  la  stamjDa  dell'^cZo^e 
quando  il  Marino  risolse  di  ritornare  in  Italia. 
Questo  suo  divisamento  egli  lo  manifestava  in 
tutte  le  sue  lettere  dirette  agli  amici  d'Italia, 
quasi  che  fosse  oramai  stufo  di  tanta  gloria  clie 
la  corte  francese  e  il  re  Luigi  XIII  gli  prodi- 
gavano. Del  resto  1'  idea  di  ritornare  in  Italia 
egli  l'accarezzava  anche  j^rima  di  pubblicar  l'J.^o?ie 
perchè  al  conte  Fortuniano  Sanvitali,  avanti  di 
pubblicar  la  Sampogna,  ossia  prima  del  1620, 
scriveva  da  Parigi:  «  L'amore  d'  Italia  mi  tira, 
ed  il  desiderio  del  rivedere  gli  amici  antichi  mi 
fa  languire  di  sfinimento.  Spero  in  breve  dare 
una  passata  per  coteste  bande,  e  forse  con  miglior 
modo,  se  le  promesse  di  chi  le  può  effettuare 
riescono  vere.  Intanto  non  mi  mancheranno  al- 
meno cento  scudi  il  mese  ben  pagati,  i  quali  sua 
Maestà  si  contenta,  eh'  io  gli  goda  nella  mia  patria 
purché  a  volta  a  volta  mi  lasci  rivedere  in  questa 
Corte.  » 

Il  clima  francese  poi  era  contrario  alla  sua 
salute  e  ne  aveva  esperimentati  gli  effetti  cadendo, 


—  265  — 
inalato  pareccliie  volte  nel  soggiorno  di  otto  anni 
■ch'egli  fece  in  Parigi;  e  scriveva  al  San  vitali 
«  che  voleva  rompere  ad  ogni  modo  quella  fata- 
lità che  lo  riteneva  in  Francia,  dove  da  molto 
non  avea  mai  avuta  un'ora  di  salute,  anzi  era 
stato  continuamente  agitato  da  gravissimi  mali.  » 

Infine,  dopo  molte  esitazioni,  che  gli  facevano 
prolungare  il  suo  soggiorno  in  Francia,  il  Marino 
nell'autunno  del  1623  faceva  ritorno  in  Italia, 
•dopo  aver  ricevuto  assicurazione  dal  re,  «  che  la 
pensione  sarebbe  stata  pagata  pel  Marino  al  suo 
Procuratore  in  Parigi;  a  patto  però  che  si  la- 
sciasse rivedere  in  quella  Corte  una  volta  almeno 
-ogni  due  anni.  »   (1) 

Il  Marino  veniva  in  Italia  per  molti  fini  ; 
non  ultimo  dei  quali  era  il  voler  far  tacere 
alcune  ciarle  sparse  ad  arte  che  i  suoi  libri 
dovessero  essere  esaminati  dall'  Inquisizione.  Ed 
al  Sanvitali  che,  come  abbiamo  detto,  lo  con- 
sigliava, ritornando  in  Italia,  a  cercar  la  pro- 
tezione di  qualche  principe  italiano,  rispondeva; 
«  Io  sono  già  stracco  delle  Corti,  e  non  ne  voglio 
più;  e  poiché  Iddio  mi  ha  dato  il  modo  d'uscire 
di  necessità,  mi  delibero  di  vivere  a  me  stesso 
gli  anni,  che  mi  avanzano,  con  qualche  riposo, 
e  tranquillità.  » 

Arrivato  a  Torino  veniva  accolto  in  quella 
Oorte  con  quegli  onori  «  che  Alessandro  avrebbe 
iipprestati  ad    Omero  »    dice  il  Loredano.  Ed  il 

(1)  Lettere  del  Cav.  Marino.  La  pensione  non  venne  mai  pagata  al 
Marino  ne'  ventidue  o  ventitré  mesi  che  ancora  visse  in  Italia. 


—  266  — 
principe  Tommaso   di  Savoia,  fratello    del   duca, 
gli  donò  una  collana  d'oro   in    ricompensa  della 
Sampogna  dedicatagli.  » 

Partiva  in  questo  mentre  per  Roma  il  cardi- 
nale Maurizio  di  Savoia,  uomo  che  tanto  fece 
parlare  di  se  nel  Seicento  per  la  sua  nullità  ;  e 
questo  porporato  invitò  il  Marino  a  far  parte 
del  suo  seguito  per  raggiungere  la  corte  papale, 
n  poeta  accettò  l'offerta  e  pochi  mesi  dopo  aver 
abbandonata  la  Francia  entrava  in  Roma,  accolto 
da  tutti  co' segni  della  più  grande  famigliarità, 
in  ispecie  dal  cardinale  Ludovisio  Ludovisi,  ni- 
pote di  papa  Gregorio  XV,  dal  principe  di  Ve- 
nosa fratello  di  questo  e  da'  primi  signori  della 
corte  papale. 

Però  egli,  che  avea  ricevuti  tanti  onori  e  tanta 
gloria  da  un  re,  rifiutò  le  offerte  cbe  gli  vennero 
fatte  da  quei  principi,  di  andare  ad  abitar  con 
loro,  e  scelse  invece  la  casa  di  Crescenzio  Cre- 
scenzi,  fratello  di  colui  che  gli  aveva  aperto  la  via 
della  celebrità. 

Intanto  sopravvenivano  al  poeta  parecchie  di- 
sgrazie, che  lo  affliggevano  grandemente;  a  Bi- 
serta  una  barca  che  faceva  il  viaggio  da  Marsiglia 
a  Roma,  veniva  depredata  dai  corsari  turchi  ed 
il  Marino  vi  perdeva  più  di  «  settemila  scudi  di 
valori  e  moltissime  pitture  originali  a  lui  caris- 
sime; »  di  più  ad  Ancona  gli  stampavano  alla 
macchia  VAdone^  in  concorrenza  con  l'edizione, 
che  in  Roma  il  poeta  stesso  curava,  e  che,  «  per 
esser  più  corretta  ed  emendata  da  lui,  si  poteva 


—  267  — 
pigliare  per  regola  nelle  altre  edizioni.  »  E  come 
se  ciò  ancora  non  bastasse,  egli  era  colto  da  una 
fierissima  colica    che    l'obbligava    a    starsene    in 
letto,  (i) 

In  questo  mentre   l'Accademia  degli    Umoristi 

(1)  Lo  Stigliani,  In  un  manoscritto  esistente  alla  Casanatense.,  col  quale 
intendeva  di  rispondere  ad  un  libro  composto  dai  difensori  della  fama 
del  Marino,  dice:  «  Il  Marino  rimase  a  Roma  per  poche  settimane,  ed 
avea  per  carcere  la  casa  di  Crescenzio  Cresceuzi,  come  prigioniero  del 
Tribunale  dell'Inquisizione.  E  poi  essendo  stato  liberato  dall'accusa  si 
trasferi  a  Napoli.  » 

Ciò  non  può  essere;  anzi  è  una  fiaba  dell'invidiosissimo  poeta,  per- 
chè il  Marino  scrive  agli  amici  di  «  trovarsi  occupatissimo  in  quei  fran- 
genti di  sedia  vacante;  «essendo  morto  Gregorio  XV,  ed  a  questi  essendo 
per  succedere  il  card.  Barberini,  che,  divenuto  papa  col  nome  di  Urbano 
Vili,  subitosi  mostrò  amicissimo  del  poeta.  Il  quale,  dopo  l'elezione  del  Bar- 
berini, scriveva:  «  Basta,  lodato  Iddio,  dopo  tante  turbolenze  di  sedia  va- 
cante, abbiamo  un  papa  poeta,  virtuoso,  e  nostro  amicissimo.  »  Che  fosse 
completamente  padrone  di  sé,  e  libero  di  fare  quel  che  gli  piaceva,  lo 
rileviamo  da  una  lettera,  che  addi  28  luglio  1623  scrive  allo  Scaglia,  edi- 
tore in  Venezia:  «  Sono  in  casa  del  serenissimo  cardinale  di  Savoia, 
perchè  dopo  la  morte  del  papa.  Sua  Altezza  e  l'ambasciatore  della  Maestà 
Cristianissima,  non  hanno  voluto  ch'io  mi  trattengo  altrove.  »  S'osservi  fi- 
nalmente che  il  Marino  non  curava  aifatto  le  accuse  di  oscenità  che  face- 
vano al  poema:  «  Scrissi  già  a  Vossignoria  ch'io  non  mi  curava  punto 
dell'esamina  scritta  contro  di  me.  Ora  lo  replico  di  bel  nuovo,  pregan- 
dovi a  non  impedirla.  Lasciate  pur  correre  l'acqua  all'  ingiù,  e  che  si 
scapriccino  tutti,  che  ben  si  rimarranno  chiariti.  Ho  dato  un'occhiata  a 
quel  sommario  d'opposizioni  e  vi  giuro,  che  leggendo  tante  buffonerie, 
ho  riso  un  pezzo,  e  mi  tengo  da  più  che  prima,  perchò  il  naso  appunto 
d'un  signor  critico  cosi  sottile  non  ha  saputo  trovar  altro  nelle  mie  cose; 
e  mentre  cerca  di  notar  i  miei  errori,  discuopre  le  sue  marce  ignoranze. 
Ma  vi  assicuro,  che  tanto  questa,  quanto  qualsivoglia  altra  squacquerata 
contro  di  me,  uscita  che  sarà  fuora,  non  sarà  né  letta,  né  confutata;  e 
starei  fresco  se  volessi  levar  pur'un'ora  agli  altri  miei  studi  per  dar  sod- 
disfazione a  due  pedantuzzi,  che  vorrebbero,  come  dice  Cornelio:  «  Ma- 
gnis  inimicitiis  clarescere.  n  I  due  pedantuzzi  sarebbero  stati,  a  dir 
dello  Stigliani,  il  Testi  e  lo  Stigliani  stesso;  e  la  lettera  del  Marino 
era  diretta  allo  Scaglia.  È  pure  una  fiaba  quell'altra  asserzione  dello 
Stigliani,  secondo  la  quale,  quando  il  Marino  venne  in  Roma  da  Parigi, 
«  Crescenzio  Crescenzi  gli  fece  le  spese  e  gli  prestò  due  servitori  del 
suo  a  livrea.  Altrimenti  la  bisogna  andava  male.  Andossene  poi  a  Napoli 
senza  1  servitori,  e  là  mori  in  due  meschine  camere  prese  a  pigione.  » 


—  268  — 
di  Roma,  istituita  da  Paolo  Mancini,  e  della  quale 
erano  stati  prìncipi  Giambattista  Guarini  ed 
Alessandro  Tassoni,  eleggeva  a  suo  principe  il 
Marino  ;  il  quale  spendeva  il  tempo  in  quest'  a- 
dunanza  ed  in  quella  che  aveva  fondata,  pure  in 
Roma,  il  Cardinale  Maurizio  di  Savoia;  e  poco 
dopo  partiva  alla  volta  di  Napoli,  che  non  rive- 
deva da  oltre  ventiquattr'anni;  da  dove  era  fug- 
gito per  scampare  dal  capestro,  povero,  solo,  e 
colla  morte  nell'anima;  e  dove  ora  rientrava  ricco, 
sazio  di  onori  e  di  gloria,  riverito  da' suoi  eguali 
ed  accarezzato  e  protetto  dai  potenti. 

«  Mi  ritrovo  dopo  tant'anni  di  peregrinazione, 
scrive  al  Sanvitali,  nella  mia  patria,  ricevuto  ed 
accarezzato  con  tanti  onori  e  con  tanti  applausi, 
ch'io,  che  conosco  assai  bene  i  pochi  meriti  miei, 
resto  pieno  di  confusione,  ne  posso  non  vergo- 
gnarmi di  me  stesso.  Non  conviene  eh'  io  mi  dif- 
fonda in  raccontare  i  particolari,  perciocché  le 
cose  son  cosi  pubbliche,  che  potrà  averne  rela- 
zione da  mille  bocche  e  da  mille  persone.  »  Ed 
in  verità,  oltremodo  lusinghiera  fu  l'accoglienza 
che  ricevette  in  Napoli.  I  signori  di  quella  corte 
lo  accolsero  «  con  segni  di  manifesta  allegrezza,  » 
e  lo  stesso  viceré,  il  duca  d'Alba,  mandò  le  sue 
carrozze  per  ricevere  degnamente  il  poeta  napo- 
litano, che  avea  fatto  parlare  di  se  tutta  Europa. 
La  città  intera  poi,  «  per  usar  seco  gratitudine  e 
lasciar  qualche  pubblica  memoria  di  aver  avuto 
un  figliuolo  che  non  le  avea  fatto  disonore,  pen- 
sava   d'innalzargli    una    statua    con  epitaffio,  in 


—  269  — 
nome  di  tutta  l'Università  ;  »  (1)  era  inoltre  stato 
fatto  principe  dell'Accademia  degli  Oziosi]  (2)  ne 
gli  erano  giovate  scuse,  perchè  «  giovedì  con  pub- 
blici applausi  ed  acclamazioni,  scrive  il  Marino 
ad  Antonio  Bruni,  fui  dicliiarato  tale  nel  Capi- 
tolo grande  di  S.  Domenico  con  tanto  concorso 
di  popolo  e  di  nobiltà  clie  fu  certo  cosa  mirabile, 
perchè  senza  il  numero  innumerabile  de' letterati 
e  de' cavalieri,  vi  furono  contati  centosessanta 
principi  e  signori  titolati.  »  Ed  in  quell'adunanza 
fu  recitata  un'orazione  in  sua  lode  con  infinita 
quantità  di  poemi,  d'emblemi,  d'anagrammi  e 
d'altre  composizioni  di  diversi  begl'  ingegni  ;  men- 
tre il  mercoledì  innanzi  era  stato  invitato  dal 
marchese  d'Ansi  nell'altra  Accademia  àegVInfu- 
l'iati^  dove  pure  era  stato  festeggiato  entusiasti- 
camente. Ohe  più?  Il  viceré  metteva  a  disposi- 
zione sua  la  gondola  vicereale;  il  segretario  spa- 
gnolo del  viceré,  Gonzales,  lo  accoglieva  e  lo 
trattava  famigliarmente  ;  le  due  Accademie  degli 
Oziosi  e  degli  Infuriati  si  guardavano  in  cagnesco 
perchè  ciascuna  voleva  rubarlo  all'altra,  tanto  che 
il  Marino  stesso  dubitava  «  che  il  viceré  non  vi 
avesse  a  porre  le  mani  lui  nella  faccenda  ;  »  la 
provvisione  ch'egli  avea  perduta  in  Francia  gli 
veniva  pagata  in  Napoli  dal  viceré  ;  ed  il  Marino 
scriveva  al  Bruni  :  «  Ed  io  le  giuro  che  non  cre- 

(1)  Marino,  Lettere,   pag.  77. 

(2)  L'Accademia  degli  Oziosi  in  Napoli  venne  istituita,  ne'  primi  anni 
del  secolo  XVII,  per  opera  del  marchese  Della  Villa,  principe  di  Manso, 
dhl  viceré  conte  di  Lemos  e  da  Lupercio  Leonardo  de  Argensola,  ce- 
lebre   poeta  spagnolo,   che  venne  in  Napoli  col  seguito  del  viceré. 


—  270  — 
deva  di  dover  ricevere  la  millesima  parte  di  tanti 
onori  che  lio  ricevuti  nella  mia  patria.  » 

Solo  lo  affliggeva  clie  a  Roma  l' Inquisizione 
stava  rivedendogli  il  suo  Adone;  ma  tosto  si  tran- 
quillizzava, jDerchè  a  revisore  era  stato  designato 
il  cardinale  Pio  di  Savoia,  «  dimostratosi  sempre 
suo  parziale  protettore  ;  uomo  saggio,  di  finissimo 
giudizio  e  versato  ne'  Poeti  antichi  e  moderni.  Del 
resto,  scriveva  il  Marino,  se  il  libro  merita  il 
fuoco,  che  si  abbruggi,  e  si  condanni  all'oblivione, 
perchè  mi  contento  di  soggiacere  più  tosto  alla 
sentenza,  ancorché  rigorosa,  d'un  personaggio 
nobile,  intelligente,  e  che  rimira  le  cose  con 
animo  benigno  e  con  occhio  spassionato,  eh'  alle 
goffe  sindicature  di  certi  uomini  plebei,  indiscreti 
e  incapaci.  Ricordo  al  signor  cardinale  ch'egli 
fu  prima  princi]De,  che  prete;  e  perciò  non  dovrà 
dimostrarsi  molto  scrupoloso  intorno  a  certe  ba- 
gatelle,  le  quali  non  pregiudicano  punto  alla  re- 
ligione cattolica.  Che  vi  sia  dentro  qualche  lasci- 
vietta  lo  confesso;  ma  quanto  vi  è  di  lascivo  è 
tutto  indirizzato  al  fine  della  moralità,  si  come 
potrà  ben  comprendere,  chi  vorrà  leggerlo  atten- 
tamente, e  si  come  io  farò  vedere  al  mondo  in 
un  lungo  discorso  scritto  da  me  sopra  questo 
soggetto,  dove  difeiostro  la  differenza  ch'è  tra  la 
lascivia  dello  scrivere  e  l'oscurità,  e  quali  sono 
i  Poeti  che  Platone  discacciò  dalla  Repubblica 
come  perniciosi.  »  (1) 

(1)  Questo  suo  scritto  non  vide  mai  la  luce,  il  che  fa  immaginare  che 
il  Marino  non  lo  compose  affatto. 


—  271  — 

Cosi,  ammirato  da  tutti  ed  amato  dai  grandi 
spagnoli  alla  Corte  napolitana,  il  Marino  trascor- 
reva lieta  e  placida  la  vita.  x4.1  Barbazza,  che  gli 
chiedeva  notizie  della  sua  salute,  rispondeva  : 
«  Sappia  Ella,  che  mi  trovo  assai  allegro  d'animo 
e  sano  di  corpo  in  questo  scoglio  (1)  e  non  so 
s'  io  debba  chiamarlo  Villa  o  dilizie  di  Napoli. 
Qui  l'acque  del  mare  sono  sempre  tranquille  ;  qui 
Tombre  degli  alberi  anche  nel  fitto  meriggio  di- 
fendono dal  caldo  il  nocchiero.  Qui  le  fontane 
sempre  dolcissime  e  purissilne  porgono  diletto,  e 
refrigerio  ai  marinari,  e  in  somma  questo  spazio 
di  mare  è  un  teatro  floridissimo  dove  ogni  sera 
viene  la  nobiltà  napoletana  dentro  le  gondole  a 
goder'un'aria  di  paradiso.  »  Ed  ogni  mercoledì 
doveva  fare  un  discorso  all'Accademia,  cosa  che 
lo  importunava  moltissimo,  perchè,  «  per  essere 
degno  dell'aspettaziorte  che  s'avea  del  poeta,  era 
costretto  a  farvi  sopra  studi  particolari,  talché 
del  continuo  teneva  impacciato  l'intelletto  e  la 
memoria  per  ritrovare  nuove  invenzioni,  e  per 
recitarle.  »  Ma,  sopravvenuta  la  morte,  addì  25 
marzo  1625,  j)er  ritenzione  d'urina,  cessava  di 
vivere  fra  il  compianto  generale.  «  Il  nostro  ca- 
valier  Marino  passò  a  miglior  vita  in  Napoli, 
scriveva  riVchillini  al  Preti,  a'  25  del  passato, 
giorno  memorabile  per  essere  il  martedì  santo, 
solenne  per  l'annunziazione  della  Vergine,  e  la- 
grimevóle  per  la  perdita  di  tant'uomo.  Ha  quat- 
tro mesi,  ch'egli  si  pose  a  letto  per  certi  dolori 

(1)  Il  Hariao  dimorava  a  Posillipo. 


—  272  — 
d'urina,  (1)  e  per  mala  disposizione  di  tutto  il 
corpo.  Sopraggiunse  la  febbre,  la  quale  andò  de- 
generando in  etica  manifesta;  s'aggiunse  il  tra- 
vaglio della  carnosità,  da  cui  egli  solea  spesso 
esser  molestato:  ed  avendolo  perciò  i  medici  si- 
ringato, egli  rimase  in  quelle  parti  ulcerato  no- 
tabilmente. Questi  dolori  alterarono  si  fattamente 
la  febbre,  che  l'etica  degenerò  in  acuta,  la  quale- 
finalmente  rubò  quell'uomo  al  mondo.  »  (2) 

Solenni  e  meravigliose  furono  le  esequie  fatte 
in  suo  onore.  Il  suo  cadavere  fu  portato  nella, 
chiesa  de'  Padri  Teatini  ;  «  la  sua  bara  era  seguita- 
da  più.  di  cento  titolati,  principi,  baroni  ed  altri 
principali  signori  della  città  e  del  regno,  e  da 
moltitudine  di  popolo  innumerabile.  Quelli  a  quat- 
tro a  quattro,  con  gran  doppieri  accesi  in  mana 
e  con  gli  ocelli  pregni  di  lacrime,  e  questa  con 
pianti  e  con  sospiri  gittate  le  corone  d'alloro- 
sopra  gli  arnesi  cavallereschi,  che  sopra  la  col- 
trice stavano,  gli  prestarono  gli  ultimi  ossequi: 
onore  colà  e  lo  scettro  de'  regi,  e  alla  penna 
d'oro  del  cavalier  Marino  solamente  dovuti.  »  (3) 

L'Accademia  degli  Umoristi  poi,  quindici  giorni 
dopo  la  morte  del  j^oeta,  celebrò  solenni  esequie. 
«  Erano  le  pareti  della  sala  dell'Accademia  tutte 

(1)  Dice  lo  Stigliaui  che  il  Marino  mori  «  per  taglio  di  un  segreto 
membro  accancrenatosi  per  vecchia  carnosità.  » 

(2)  «  Miserere  mei  Deus  secundum  magniim  tiiiserirordiam  inani,  furono- 
le  ultime  parole  che  pronunciò  il  Marino  morendo,  «  dice  il  Loredano. 
«  Veramente,  aggiunge,  l'ultime  voci  di  questo  cigno  divino  non  potevano 
essere  che    pie.  » 

(3)  Lettera  di  Claudio  Achilliui  a  Girolamo  Preti.  Questa  lettera  è 
unita  alla  biograBa  che  scrisse  il  Baiacca,  pag.  80. 


—  273  - 
vestite  di  panni  paonazzi,  e  in  faccia  alla  porta 
]Drincipale,  per  la  quale  si  entrava  a  diametro^ 
rispondeva  un  elogio  ornato  da' lati  di  belle  ed 
all'azione  mesta  proj^orzionate  pitture,  e  di  sopra, 
come  per  frontispizio,  dell'arma  del  cavaliere,  in 
modo  che  altri  appena  avea  posto  il  pie  su  la 
soglia,  che  l'occhio  era  tirato  a  leggerlo  :  e  però 
non  lo  posso  io  preterire,  scrive  il  Baiacca,  o 
trasportare  altrove,  ma  voglio  che  voi  ancora  lo 
leggiate  qui: 

«  Equiti  Io.  Baptistae  Marino.  Poetae  sui  sae- 
culi  Maximo,  Cuius  Musa  è  ParthenojDcis  cine- 
ribus  enata,  Inter  lilla  efflorescens.  Eeges  habuit 
Moecenates,  Cuius  ingenius  foecunditate  faelicis- 
simum,  Terram  Orbem  habuit  admiratorem.  Aca- 
demici  Humoristae  Principi,  quodam  suo.  »  (1) 

Il  concorso  di  gente  poi  fu  immenso.  V  inter- 
vennero il  cardinale  Maurizio  di  Savoia,  i  duchi 
di  Al  cala  e  Pastrana,  ambasciatori  spagnoli,  i 
monsignori  Querenghi,  Ciampoli  e  Mascardi  ed 
Alessandro  Tassoni.  Furono  letti  nell'adunanza 
elogi,  epitaffi,  sonetti  e  madrigali  in  numero 
straordinario;  e  Antonio  Sforza  da  Monopoli,  uno 
degli  Umoristi^  trattò  in  latino  il  problema: 
«  Perchè  gli  antichi  ne' mortori  si  tagliassero  i 
capelli.  » 

Il  Marino,  prima  di  morire,  volle  che  si  desse 
fuoco  a  tutti  i  suoi  manoscritti,  fra  i  quali  l'ori- 
ginale della  Murtoleide;  (2)  e  nel  suo  testamento 

(1)  Baiacca,    Vita  del  cavalier  Marino. 

(2)  Forse  in  questa  maniera  si  sarà  distrutto  il  poema  da  lui  composto 

18 


—  271  — 
legò  la  libreria  ai  SS.  Apostoli,  chiesa  de'Padri 
Teatini  in  Naj^oli,  e  le  pitture  che  teneva  in 
Roma  a  Crescenzio  Crescenzi,  volendo  anche  in 
punto  di  morte  testimoniare  la  sua  gratitudine 
alla  famiglia  del  suo  protettore. 

Dice  il  Baiacca  che  «  il  Marino  era  di  statura 
non  molto  eccedente  l'ordinaria,  di  faccia  lun- 
ghetta, ma  non  disdicevole,  di  fronte  spaziosa, 
d'occhi  azzurri  ed  acuti,  di  bocca  anzi  grande 
che  no,  con  labbra  grossette,  segno  di  sensualità, 
di  naso  non  grande,  non  piccolo,  non  fino,  non 
curvo,  ma  retto  e  di  proporzionata  misura^  di 
bella  carnagioiie  ;  di  jDelame  che  tirava  al  biondo, 
se  bene  l'età  cominciava  a  colorirlo  di  bianco  ; 
nutriva  poca  barba  e  portava  una  capellatura 
lunga  fin  sotto  gli  orecchi,  la  quale  si  come  per 
natura  non  era  folta,  cosi  non  era  per  artifìcio 
colta,  ne  acconcia.  Era  di  gesti  e  di  movimenti 
leggiadri,  ma  talora  ispiranti  impazienza  o  de- 
notanti astrazione;  onde  pareva  anche  in  viso 
malinconico;  se  bene  per  altro  era  d'aspetto  grato 


ol  abbozzato  ilelle  Trasformazioni,  del  quale  il  Marino  tante  volte  parla 
nelle  sue  lettere.  Qaesto  poema  avrebbe  descritto  il  viaggio  di  quattro  famosi 
capitani,  Ercole,  Alessandro,  Cesare  e  Colombo,  ciascuno  de'  quali  final- 
mente si  ammoglia  con  una  delle  quattro  parti  del  mondo,  finte  sotto  velo 
di  regine,  Asia,  Africa,  Europa  ed  America.  Però  il  Loredano  asserisce  che 
gli  amici  del  Marino  vollero  opporsi  all'ordine  dato  dal  poeta  «  ed  il 
poema  fu  sottratto  all'  incendio,  e  tutto  imperfetto.  »  Noi  non  possiamo 
dar  notizie  del  poema,  per  quante  ricerche  abbiam  fatte.  Ultimamente 
l'egregio  prof.  Mango,  e  prima  di  lui  il  signor  Ludovico  Pepe,  ha  accen- 
nato ad  un  altro  poema  del  Marino,  sulla  liberazione  d'Anversa,  il  quale 
si  troverebbe  nella  biblioteca  de'  Benedettini  a  Cava  de'  Tirreni.  Noi  però 
abbiam  potuto  rintracciare  solamente  quattro  sonetti  del  poeta  sopra  l'e- 
spaguazione  d'Ostenda  per  opera  dello  Spinola. 


—  275  — 
e  gentile.  Era  contro  il  suo  costume  negli  ultimi 
anni  dopo  il  suo  ritorno  di  Francia  fattosi  egual- 
mente culto  ed  elegante  cosi  nel  vestire,  come  nello 
scrivere,  conoscitore  della  sua  propria  virtù,  lauda- 
tore di  se  medesimo  ed  amicissimo  della  lode.  »  (1) 

Cosi  moriva  il  poeta  più  fortunato  die  sia 
mai  esistito.  Fortunato  in  vita  però,  perchè  cin- 
quant'anni  dopo  si  parlava  di  lui,  da  tutti  i 
letterati  italiani,  come  di  qualcosa  di  vituperoso. 
Reca  meraviglia  vedere  come  quest'uomo,  man 
mano,  senza  conquidere  ed  abbattere  gli  altri, 
perviene,  e  sulle  prime  senza  conoscenza  di  quel 
che  ottiene,  a  si  alto  grado  di  celebrità.  Armato 
egli  di  una  penna,  per  se  stessa,  e  per  abitudine 
dell'età  in  cui  vive,  fiacca  e  senza  nobili  e  grandi 
idee,  egli  riesce  ad  imporre  al  mondo  un  poema 
che,  come  opera  d'arte,  è  povera  cosa;  e  come 
obiettivo  di  novità,  inutile.  Sembra  che  con  lui 
la  fortuna  abbia  voluto  divertirsi,  perchè,  men- 
tre lo  pone  alla  più  alta  cima  della  celebrità, 
permette  pure  che  esperimenti  per  due  volte  la 
orribile  cella  del  carcere. 

Il  Marino,  di  sua  natura  frivolo  e  leggero,  è  un 
buon  poeta  se  lo  si  considera  da  un  lato  ;  visto 
dal  quale  non  mostra  tutti  i  difetti  del  suo  tempo 
e  si  riconnette  alla  schiera  de' poeti  italiani  che 
hanno  dato  impulso  potente  alla  lirica  amorosa; 
visto  da  questo  lato  non  ci  peritiamo  a  procla- 
marlo il  primo  poeta  che  sia  vissuto  nel  Seicento  ; 
perchè  quivi  in  lui  tutto  è   naturalezza    e  spon- 

(1)  Baiaeca,    Vita  del  caralier  Marino. 


—  276  -- 
taneità;  egli  ha  impreso  a  cantare  una  passione, 
che  per  sua  natura  è  quella  che  ha  cangiato  tante 
volte  di  carattere  e  d'espressione,  passando  per 
il  crogiuolo  delle  società  e  delle  letterature  di 
tutti  i  tempi,  pel  quale  cangiamento  è  necessario 
appena  un  modo  diverso  di  sentire  e  di  conside- 
rare r  amore.  E  basterebbe  osservare  1'  amore 
cantato  da  Dante  per  la  sua  Beatrice,  e  quello 
che  l'Aretino  imprende  a  cantare  per  le  sue 
cortigiane,  a  fine  di  convincere  della  verità  di 
quanto  abbiamo  detto.  Ed  ecco  perchè  il  Ma- 
rino, il  quale  sdegna  le  rifritture  petrarchesche, 
ed  invita  invece  i  poeti  latini  della  decadenza, 
pieni  di  sensualità,  raggiunse  la  celebrità.  Ecco 
perchè  l'amor  platonico  del  Tasso  non  è  com- 
preso in  quel  secolo,  mentre  s'ammira  di  lui  la 
bellissima  orditura  data  al  poema,  e,  più  che  tutto, 
l'amore  di  cui  egli  fa  ardere  Armida. 

Il  Marino  poi,  considerato  come  poeta  epico  e 
come  poeta  cortigiano,  scende  dal  suo  gradino  e 
s'aggiunge  subito  alla  schiera  di  quei  poeti,  cui  la 
storia  letteraria  del  Seicento  fortunatamente  ha 
consacrata  all'oblio.  Come  volete  che  il  Marino,  co- 
noscitore com'  è  dell'umanità,  ed  in  un'epoca  nella 
quale  bisognava  adulare  per  vivere,  possa  esser 
poeta  e  diventar  celebre  ;  e  nello  stesso  tempo 
discostarsl  dagli  altri?  Il  mestiere  del  poeta  di 
corte  non  era  poi  una  cosa  da  invidiarsi;  il  Ma- 
rino, per  godere  della  protezione  della  regina 
Maria  de'  Medici,  doveva  paragonarla  a  Venere, 
anzi  renderla,  in  bellezza,    superiore  alla  dea  di 


—  277  — 
amore.  E  domandarsi  poi  se  non  era  soverchio 
ardire  adoperare  questa  similitudine  a  petto  di 
si  grande  regina.  Il  poeta  di  corte  doveva  cantare 
e  lodare  tutto  quello  che  piaceva  al  suo  padrone, 
fìnanco  il  cagnolino  ;  epperciò  il  suo  linguaggio 
e  la  sua  maniera  di  poetare  è  tutto  un  conven- 
zionalismo freddo  e  compassato,  senza  entusiasmo, 
perchè  il  poeta  non  canta  con  sentimento  proprio, 
ma  con  quello  degli  altri.  E  quando  è  convenzio- 
nale è  falso,  perchè  non  conforme  né  alla  realtà 
storica,  né  al  concetto  proprio  dell'arte,  che  per  se 
stessa  non  accetta  guide  nei  voli  dell'immagina- 
zione: sicché  quante  volte  il  poeta,  che  mette  a 
tortura  il  cervello  per  crear  cose  nuove  su  vec- 
chio fondo,  allo  scopo  di  far  piacere  al  suo  pa- 
drone, esce  in  frasi  che  non  sono  per  indole  loro 
convenzionali,  il  poeta  è  ridicolo.  (1) 

Ma  intanto  il  Marino,  per  oltre  cinquant'anni, 
era  stato  l' idolo  letterario  di  tutta  l' Europa. 
Costar,  Volture  e  Balzac,  celebri  campioni  del 
l'Hotel  de  Ramhouillet  citavano,  come  sentenze 
indiscutibili,  i  versi  del  poeta  nelle  loro  lettere, 
ed  in  Italia  le  poche  rime  rimaste  inedite  per 
la  morte  dell'autore  venivano  pubblicate  come 
cose  di  grande  importanza.  Nel  1647  due  anni 
dopo  la  morte  del  Marino,  Giacomo  Scaglia,  e- 
ditore  veneziano,  pubblicava  le  lettere  di  lui, 
gravi,  argute  e  facete,  ricche  di  notizie  impor- 
rai) E  qui  a  noi  cade  acconcio  avvertire  che  Scipione  Volpicella  chiama 
le  poesie  del  Marino,  «  stemperate  speculazioni  platoniche  e  poetiche  scon- 
cezze. »  (Studi  di  letteratura,  storia  ed  arte,  Napoli,   1876,  pag.  56.) 


_  278  — 
tanti  e  curiose  sopra  gl'illustri  j)ersonaggi  del 
tempo  e  preziose  per  lo  studio  sul  poeta.  (1)  Poiché 
egli  era  in  corrispondenza  coi  personaggi  illustri 
del  tempo,  ai  quali  egli  dava  notizie  interes- 
santi sul  suo  soggiorno  a  Parigi.  Queste  lettere, 
come  abbiam  detto,  riflettono  efficacemente  la 
figura  di  quest'uomo  singolare,  moralmente  e 
intellettualmente.  Le  lettere  da  lui  scritte,  men- 
tr'era  ancora  in  Napoli,  sono  umili,  rispettose,  di 
una  adulazione  servile,  con  gl'illustri  suoi  j)ro- 
tettori,  quali  il  Manso.  A  Torino  egli  è  già  in 
corrispondenza  con  tutti  i  poeti  viventi  ;  ed  allo 
Stigliani  dette  norme  cosi  sicure  sulla  nuova  scuola 
poetica,  che  questo  non  sa  rispondergli  se  non 
colla  calunnia.  Ma  le  lettere  che  il  Marino  scrive 
da  Parigi  sono  senza  dubbio  quelle  che  hanno 
maggior  importanza  storica  e  letteraria.  Per  mezzo 
di  esse  noi  j)OSSÌamo  sapere  che  il  Marino  è  l'idolo 
di  quella  corte,  accarezzato  dal  re  e  dai  principi 
di  casa  Borbone.  Da  Parigi  egli  scrive  con  piena 
sicurezza  della  grande  rinomanza  che  ha;  egli 
ora  non  piega  più  il  capo  quando  riceve  un  fa- 
vore; rifiuta  sdegnosamente  le  servitù,  che  a  lui 
offrono  i  potentati  italiani.  E  quando  si  degna  a 
ritornare  in  patria,  noi  abbiamo  visto  il  delirio 
di  tutta  Italia  nel  riceverlo. 


(1)  Lettere  del  Cavalier  Marino,  Gravi,  Argute,  Facete,  e  Piace- 
voli, con  diverse  Poesie  del  medesimo  non  più  stampate,  in  Veneti», 
M.D.C.XXVII.  Le  poesie  unite  a  questa  lettera  sono  dieci;  quella  ormni 
celebre,  Itnìia  parla  a  Venelia,  alcune  ottave  col  titolo:  Donna  axpettatn 
per  mare  in  tempo  di  Fortuna,  un'ode  alla  re^iua  d'Inghilterra,  una  Let~ 
era  rfi  Ma nd ricanto  a  Rodomonte  e  sei  sonetti. 


—  279  — 
Nel  1633,  Francesco  Del  Chiaro,  nipote  del  poeta 
e  canonico  napolitano,  pubblicava  il  poema  eroico 
la  Strage  clegV Innocenti^  dedicandolo  al  duca  di 
Alba;  sperando  che  il  poema  stesso  «  uscendo 
dalla  cieca  notte  dell'oblio  per  mezzo  di  quel- 
VAÌba.,  potesse  far  passaggio  al  chiarissimo  giorno 
dell'eternità  e  della  gloria.  »  (1)  Il  poema  era  diviso 
in  quattro  canti,  ma  lo  stesso  anno  Giovanni  Ma- 
nelfì,  editore  romano,  pubblicava  il  poema  dividen- 
dolo in  sei  canti  e  dedicandolo  a  certo  Paolo  Lodo- 
vico Rinaldi,  patrizio  romano;  (2)  e  nella  dedica  can- 
giava anche  la  seconda  ottava  del  poema,  con  la 
quale  il  Marino  dedicava  i  poema  al  duca  d'Alba. 

Antonio,  e  tu  del  gran  Ibero  honore, 
Germoglio  altier  d'Imperador,  e  Regi, 
Chi  non  s'abhagha  al  tuo  sovran  splendore, 
S'al  sole  istesso  VAlha  tua  pareggi  ? 
0  de  più  grandi  Heroi  specchio,  e  valore, 
Che  d'invitta  virtù  ti  glorij,  e  pregi, 
Non  dispreggiar  di  sacre  rime  ordito, 
Questo  picciol  d'honor  serto  fiorito. 

avea  detto  il  Marino.  E  Giovanni  Manelfì  can- 
giava questa  ottava  in  un'altra  «  non  del  Marino; 
ma  di  celebre  ingegno,  con  la  quale  anche  in 
verso  il  Poema  io  dedico.  » 

Tu  Lodovico,  a  la  cui  fronte   andranno 
Intessendo  ghirlande  alme  canore  ; 

(1)  La  Strage  dgV Innocenti,  Poema  del  Sig.  Cav.  Marino,  In  Roma,  ad 
istanza  di  Giovanni  Manelfi,  con  lic.  de  superiori,  1633. 

(2)  Tutte  le  edizioni  posteriori  però,  compresa  quella  curata  dal  Sa. 
lani  di  Firenze,  ed  uscita  pochi  anni  or  sono,  dividono  il  poema  iu 
quattro  canti,  con  la  dedica  al  duca  d'Alba. 


—  280  — 

De  l'invidia  più  rea  con  scherno,  e  «Tanno, 
Queste  note  raccogli   alte,  e  sonore  : 
E,  mentre  Erode,  il  barbaro  Tiranno, 
Spiega  stranio  trofeo  d'aspro  furore, 
Api-i,  con  sacra  man,  musico  legno. 
Trionfi  di  pietà,  trofei  d'ingegno. 

Ed  ora  che  cosa  è  il  poema,  la  Strage  degli 
Innocentiì  E  noi  rispondiamo  die  è  uno  de'  libri 
j)iù  letti  in  Italia,  tanto  che  i  contadini  ne  sanno 
a  memoria  squarci  lunghissimi.  Non  v'  è  umile 
capanna,  in  Toscana,  nell'Umbria,  nel  Napolitano, 
che  accanto  al  poema  dei  Reali  di  Francia^  di 
Guerrino  il  Meschino  e  del  Libro  de'  Sogni,  non 
abbia  il  poema  della  Strage  degV Innocenti.  Esso 
è  più  comune  nelle  campagne  che  non  sia  la 
Gerusalemme  del  Tasso,  col  quale  ultimo  il  Ma- 
rino ebbe  in  idea  di  gareggiare,  componendo  la 
Gerusalemme  Distrutta^  poema  del  quale  noi  con- 
serviamo il  settimo  canto. 

La  Strage  degV Innocenti  comincia  come  il  canto 
quarto  del  poema  di  Torquato;  nel  quale  si  de- 
scrive l'adunanza  di  un  consiglio  di  numi  dell'in- 
ferno, per  contrappore  le  loro  forze  a  quelle  dei 
cristiani,  vincitrici.  Ed  il  Marino,  anche  lui,  fa 
raccogliere  a  consiglio  i  23rincipali  dei  dell'inferno, 
i  quali  vedendo 

da  Dio  mandato  in  Galilea 
Nunzio  celeste  a  Verginella  umile, 
Che  la  inchina  e  saluta,  e  come  a  Dea 
Le  i*eca  i  gigli  dell'eterno  aprile. 
Vede  nel  ventre  della  vecchia  ebrea, 


—  281  ~- 

Feconda  in  sua  sterilità  senile, 
Adorar  palpitando  il  gran  concetto 
Primo  santo,  che  nato  un  pai'goletto. 

se  ne  commuovono  e  decidono  di  avvisarne  Erode. 
Di  qui  l'eccidio  di  tutta  l'infanzia  ebrea,  la  nar- 
razione del  quale  occupa  due  interi  canti  del 
poema.  Ma  frattanto  tra  i  fanciulli  uccisi  v'  è 
anche  il  figlio  di  Erode  ;  e  questo  re  appena  ha 
notizia  della  morte  di  lui,  dà  in  ismanie  ed  in 
lamenti  :  il  poema  poi,  insignificantissimo  e  noioso, 
termina  col  viaggio  che  fanno  i  morti  fanciulli 
verso  il  Limbo.  (1) 

Alcuni  scrittori  hanno  voluto  credere  che  questo 
poema  è  quanto  v'  è  di  buono  fra  le  poesie  del 
Marino.  Noi  invece  siano  inclinati  a  credere  che 
il  nostro  poeta  non  ha  composto  cosa  più  insulsa 
ed  incompleta.  Gran  torto  è,  a  parer  nostro, 
voler  risuscitare  gli  scritti  inediti  de'  poeti,  i 
quali,  non  pubblicandoli,  ebbero  la  loro  buona 
ragione  per  considerarli  non  degni  della  stampa. 
E  nella  Strage  degV Innocenti  oltre  a  tutti  i  vizi 
propri  di  quell'epoca,  noti  vi  si  osserva  quella 
perfezione  che  il  Marino  dava  al  suo  verso,  per- 
chè questo  riuscisse  piano  e  spedito. 

(1)  Questo  però  nou  era  il  giudizio  che  il  poeta  dava  sopra  la  Strage 
degl'Innocenti;  durante  la  stampa  àélV Adone,  il  Marino  scriveva  al  Ciotti: 
«  Tengo  in  procinto  la  Strage  degT Innocenti,  a  mio  gusto  una  delle  mi- 
gliori composizioni,  che  mi  sieno  uscite  dalla  penna,  e  senza  comparazione 
più  perfetta  àeW Adone.  »  Ma  forse  questo  giudizio  il  Marino  lo  faceva 
per  consolare  il  libraio  veneziano,  dal  quale  non  aveva  fatto  stampare 
l'Adone.  Infatti  il  poeta  assicurava  anche  che  la  Strage  degl'Innocenti  l'a- 
vrebbe pubblicato  il  Ciotti  stesso. 


2-2  — 


Capitolo  XI. 

Tommaso  Stigliaui  contro  il  Jlarino  —  Combatte  VAdone  anche  dopa 
la  morte  dell'autore  —  Apologisti  del  Marino  —  Angelico  Aprosio  da 
Ventimiglia. 

La  morte  del  Marino  non  quietò  affatto  le  ri- 
dicole contese  letterarie,  delle  quali  il  poeta  na- 
politano era  sempre  la  causa,  come  in  alcune  n'era 
1'  istigatore. 

Tommaso  Stigliani  da  Matera  fu  quello  che, 
più  di  tutti  gli  altri,  procurò  di  smontare  l'idolo 
che  tanto  facilmente  era  stato  innalzato. 

La  vita  di  questo  poeta  è  delle  più  singolari  ; 
essendo  a  Parma  in  qualità  di  segretario  del  duca 
Ranuccio  Farnese  ebbe  ad  attaccar  lite  con  Enrico 
Caterina  Lavila,  il  famoso  autore  della  «  Storia 
delle  Guerre  di  Francia  »;  il  quale  lo  lasciò  mo- 
ribondo sulla  via.  Ne  crediamo  qui  inutile  ripor- 
tare la  narrazione  della  rissa,  anche  perchè,  in 
certo  qual  modo,  è  un  piccolo  quadro  della  vita 
dello  Stigliani  ;  ecco  come  egli  stesso  in  una  let- 
tera a  Ranuccio  Farnese,  che  allora  trovavasi  a 
Piacenza,  racconta  il  fatto. 

«  Il  sig.  Marchese  Orazio  Pallavicino,  il  quale 
vien  di  fresco  da  Piacenza,  mi  ha  visitato  in 
letto  a  nome  di  V.  A.  Serenissima  affettuosa- 
mente, e  con  molti  conforti  ed  offerte,  recandomi 
ad  un  tempo  un  suo  comandamento,  che  è,  ch'io 


i 


—  283  — 
distenda  in  iscritto  una  distinta  relazione  di 
quella  questione  nuovamente  succeduta  tra  me, 
ed  Enrico  Caterina  Davila,  per  la  qual  mi  trovo 
giacere;  e  che  distesa  ch'io  l'abbia,  gliela  mandi 
costà  quanto  prima.  Acciocché  avendone  l'Altezza 
Vostra  già  avuta  un'altra  da  esso  avversario, 
possa,  dopo  il  sentire  ambedue  le  parti,  prender 
temperamento  di  farmi  pacificar  con  lui  per  una 
intera  soddisfazione  ed  onore.  Primieramente  io 
rendo  a  V.  A.  doppia  grazia,  e  della  benigna 
visita,  che  s'è  degnata  di  farmi  fare,  e  del  cari- 
tatevole assunto,  che  s'  e  abbassata  a  pigliar  per 
me,  risultandomi  a  troppo  segnalato  favore,  che 
quel  Principe,  il  quale  ha  costituito  in  luogo  di 
mio  supremo  Padrone,  e  di  mio  assoluto  Giudice, 
si  ponga  in  luogo  di  mio  pietoso  amico,  e  di  mio 
amorevole  avvocato.  Appresso  ubbidisco  pronta- 
mente al  comando  quantunque  mi  trovi  tuttavia 
esser  fiacco  per  l'avute  ferite,  se  bene  assicurato 
della  salute,  e  fuori  ormai  di  pericolo.  Ben  prima 
ch'io  cominci  a  contare  il  fatto,  mi  protesto  che 
con  tutto  ch'io  sia  per  dire  quella  stessa  verità 
ad  unguem,  la  qual  direi  se  non  l'avessi  interesse 
alcuno,  o  con  tutto  ch'io  presuma,  ch'anche  l'av- 
versario abbia  fatto  il  medesimo  :  avrei  però  caro 
che  V.  A.  non  credesse  ne  a  me,  ne  a  lui,  ma 
solo  a  quei  testimoni,  che  vi  trovavano  esser  da 
principio,  ed  a  quegli  altri,  che  vi  sopraggiunsero 
da  poi,  ed  alla  pubblica  fama,  che  gli  uni,  e  gli 
altri  n'hanno  già  sparsa  qui  in  Parma,  e  fuori  ; 
mentre  conviene,  ed  e  giusto,   che    chi  ha  mena 


—  284  — 
di  passione,  abbia  più  di  credito,  potendo  essere, 
che  a  me  le  cose  ch'io  dirò,  fussero  per  la  detta 
passione  partite  altrimenti  di  quel  die  sono.  Sappia 
che  l'A.  V.  che  il  di  nono  d'agosto  (1)  a  ore  venti 
e  due  «  che  appunto  oggi  son  finiti  quindici 
giorni  »  essendo  io  in  piazza  a  seder  davanti 
alla  Libreria  del  Viotti,  fui  invitato  dal  Davila 
suddetto  ad  andar  per  la  città  a  spasso  con  seco, 
e  con  Flaminio  Querenghi,  e  con  Gioseppe  Gia- 
vardi,  i  quali  erano  con  lui.  E  questo  può  testi- 
ficarsi dal  Malossi  pittore  di  V.  A.  che  ci  sentì, 
essendo  in  bottega  a  comperar  non  so  che  libri. 
Il  quale  invito  io  accettai  allegramente,  e  mi  misi 
a  camminar  con  loro  verso  il  Duomo,  dove  avanti 
che  arrivassimo  trovammo  in  Pescheria  Alessan- 
dro Tagliaferro,  che  volontariamente  s'accompa- 
gnò con  noi.  Andammo  alla  chiesa  del  Duomo, 
con  pensier  che  vi  fusse  gente;  e  dopo  aver  fatto 
orazione,  e  veduto  non  esservi  nessuno,  il  Gia- 
Tardi  ridendo  disse:  Signori,  che  cosa  facciamo 
noi  qui,  dove  non  è  altre  persone  che  dipinte, 
e  scolpite.  Andiamo  verso  S.  Benedetto,  che  in- 
tendo, ch'oggi  vi  sia  musica  per  la  vigilia  di  S. 
Lorenzo,  del  qual  dicono,  che  v'è  un'altare:  e 
€081  dicendo  s'inviò.  Noi  quasi  rapiti  dal  suo 
parlare,  e  dalla  sua  mossa,  lo  seguimmo  concor- 
demente, e  subito  s'uscì  di  Chiesa.  Mentre  che 
s'andava  per  via,  gli  tre,  cioè  Davila,  Giavardi 
•e  Querenghi,  restarono  alquanti  passi  addietro, 
ragionando  tra  loro  pienamente;  e  noi  due,  cioè 

(1)  Dcir'anno  1G06. 


I 


—  285  — 
Taglieferro  ed  io,  andavamo  innanzi  pur  par- 
lando. Più  oltre  ci  fermammo  per  aspettare  i 
tre,  ma  essi  sempre  dicevano  clie  noi  attendes- 
simo a  camminar  pur'oltre,  che  in  ogni  modo 
ci  avrebbono  arrivati.  Giunsesi  alla  strada  di 
S.  Benedetto  in  quella  parte  appunto,  la  quale 
ha  da  una  banda  la  chiesa,  e  dall'altra  il  can- 
tone, dove  abita  Lucietta  meretrice.  In  questo 
cantone  i  tre  soprarrivarono,  e  la  compagnia  si 
riunì  tutta,  e  fermossi.  Allora  il  Davila  cambiato 
in  viso  disse  verso  me:  «  Voi  ci  avete  menati 
in  luogo  par  vostro.  »  A  queste  parole  io  non  ri- 
sposi, simolando  di  non  averle  udite,  e  facendo 
mostra  di  non  badarvi.  Ma  il  Davila  dopo  qualche 
silenzio  di  tutti  ripigliò  a  dir  di  nuovo:  «  Dico, 
che  ci  avete  menati  in  luogo  da  vostro  pari.  » 
Al  che  forzato  io  risposi  :  «  Io  non  son  quello,  che 
ha  menati  gli  altri:  mentre  son  venuto  insieme 
con  tutti  là  dove  avea  proposto  il  sig.  Giavardi 
che  si  venisse,  cioè  in  questa  Chiesa,  che  è  qui 
incontro.  Ma  se  per  mio  pari  intendete  uomo  da 
bene,  avete  ragione  in  questa  parte,  perchè  cosa 
da  buono  è  il  venire  a  i  luoghi  santi.  »  Replicò 
egli  :  «  Voi  ci  avete  condotti  non  in  Chiesa,  ma  in 
bordello.  Però  per  par  vostro  io  intendo  furfante.  » 
«  Tu  menti  (diss'io)  per  la  gola,  »  e  tutto  a  un  punto 
misi  mano  alla  spada,  ed  al  pugnale.  Ma  egli, 
eh' avea  i  pendenti  coli' agucchia  alla  Veneziana, 
si  spacciò  più  prestamente  di  me,  e  tirommi  una 
coltellata  su'l  braccio  destro  in  tempo,  ch'io  avea 
mezza  la  spada  fuor  del  fodero.   Io  per  lo   calor 


—  286  — 
dell'ira  sentendo  poco  la  ferita,  finii  di  cacciar 
mano,  e  tirai  una  stoccata  verso  lui.  Questa  gli 
fa  pienamente  parata  dalla  spada  del  Giavardi,  che 
tenea  gridato:  «  Fermate,  Signori,  »  e  simili  altre 
parole,  che  suol  dir  chi  partisce.  Siccome  ancora 
l'istesso  dicea  il  Querenghi  con  un  pistoiese  in 
mano,  il  quale  egli  è  solito  di  portar  sotto  la 
toga,  standosi  il  Tagliaferro  -da  parte  a  vedere 
per  non  aver'arme  veruna.  Tirammoci  alquanti 
altri  colpi,  dei  quali  io  non  posso  ricordarmi 
distintamente  per  l'alterazion  dell'animo,  ch'allora 
mi  tenea  occupato:  ma  sempre  mi  parve  d'osser- 
var, cli'a  lui  tutte  le  mie  botte  erano  parate  da 
i  partitori,  ed  a  me  le  sue  arrivavano  libere, 
sicché  bisognava  che  me  le  parassi  io  medesimo 
col  mio  pugnale.  Finalmente  il  Davila  veden- 
domi troppo  risoluto,  e  non  bastandogli  (oltre 
l'aiuto  de'compagni)  l'esser' egli  ingiaccato,  dove 
per  opposito  io  era  in  camicia,  cominciò  a  riti- 
rarsi indietro,  ed  io  ad  incalzarlo-  fortemente  con 
ferma  intenzione,  o  d'ucciderlo,  o  d'esserne  ucciso. 
Arrivossi  al  canale  d'una  cisterna,  dove  fallendo 
a  me  un  piede,  io  caddi  con  un  ginocchio  in 
terra.  Allora  il  Davila  ripreso  animo,  venne  in- 
nanzi, e  mi  trasse  (senza  che  i  due  ne  l'impe- 
dissero) una  profonda  stoccata  la  qual  mi  colse 
da  quattro  dita  sopra  la  mammella  destra,  e  pas- 
sandomi il  petto  di  canto  in  canto,  m'uscì  dal- 
l'altra banda  sotto  alla  spalla  pur  diritta,  con 
ben  due  palmi  in  spada  fuori.  In  quel  suo  venire 
innanzi  io  gì'  investii  di  punta  nella  gamba  man- 


—  287  — 
ciaa;  e  per  quanto    ora    mi    dice    il  Simonetta, 
Cile  ha  m.edicato  me,  e  lui,  la  ferita  fu  con  nota- 
bile tocoamento  di    nervi,    si  die    corre  pericolo 
di  stroppio.  Fatto  ch'egli  ebbe  il  gran  colpo  sud- 
detto, credendosi  d'avermi  in  tutto  ammmazzato, 
non  ricoverò  l'arme,  ma  me  la  lasciò  confitta  nel 
corpo,  e  se  n'andò  via  zoppicando,  in  compagnia 
del  Giavardi  e  del  Querenghi.  Il  peso  della  guardia 
della  spada  nemica  fini  di  farmi  cadere  in  terra 
dsl  tutto  a  faccia  in  giù,  ma  subito    io  fui  aiu- 
tato, e  mi  levai,  reggendo  con   ambedue    l'arme 
mie  l'arma  dell'avversario.  Andai  coi  mie  piedi, 
cosi  infilzato    com'era,  alla    più    vicina    casa,  la 
quale  è  quella    della   predetta  Lucia.    Dove  pre- 
stamente fattomi  venire  il  Sacerdote,    ed    il  me- 
dico, mi  confessai  prima,  e  poi  mi  feci  cavar   la 
spada  faori,  e  medicarmi.  Stetti  per  quella  notte 
in  essa  casa,  e  la  mattina  con    una   seggetta    di 
V.  A.  mi  feci  portare  a  casa  mia.  »  (1) 

Il  povero  Stigliani  stette  fra  la  morte  e  la  vita 
parecchio  tempo,  e  fu  grande  fortuna  per  lui 
che  la  spada  del  Davila,  passando  per  la  cavità 
del  torace,  non  toccò  il  polmone. 

Il  poeta  materano  (il  Marino  ironicamente  lo 
chiamava  Materiale)^  segui  nelle  prime  sue  liriche 
la  maniera  di  poetare  del  poeta  napolitano,  spe- 
rando aver  comuni  con  lui  la  fortuna  e  la  ce- 
lebrità. Ma  ne  l'una  ne  l'altra  arrisero  allo  Sti- 
gliani, che,  invidiosissimo  com'era,  fin  da  quando 
il  Marino  stava  alla  corte  del    duca    di    Savoia, 

(Ij  Lettere  di  Fra  Tomaso  Stigliani,  Roma,  1G73,  pag.   185. 


l 


—  283  — 
cercava  tutte  le  maniere  per  calunniarlo.  Ed  il 
Marino  che  non  era  uno  stupido,  andava  scoprendo 
le  cattive  insinuazioni  di  colui  che  altre  volte  s' era- 
dichiarato  suo  amico.  «  Io  sono  entrato  in  sospettOj. 
scrive  il  Marino  da  Torino  al  Benamati,  ch'egli 
non  sia  colui  che  va  sparlando  del  fatto  mio,  con  si 
poca  modestia,  che  non  solo  non  l'ho  voluto  con- 
solare di  questo,  (1)  ma  con  una  destra  disgressio- 
nista  gli  ho  motteggiato  d'ingratitudine,  dicendo- 
gli che  malamente  corrisponde  alla  mia  affezione.  » 

Intanto  il  Marino  era  partito  alla  volta  di  Pa- 
rigi, e  lo  Stigliani  stampava  nel  1617  venti  canti 
del  suo  poema,  R  Mondo  Nuovo,  in  mezzo  a. 
mille  difficoltà,  perchè  gli  editori,  fra  i  quali  lo 
Scaglia  ed  il  Ciotti,  per  istigazione  del  Marino, 
si  rifiutavano  di  stampargli  il  poema. 

Nel  Mondo  Nuovo,  ad  arte,  o  inconsapevol- 
mente, il  Marino  era  adombrato  in  un  pesce.  (2) 
Allora  il  poeta  napolitano  perdette  la  pazienza 
ed  avverti  lo  Stigliani  che  si  sarebbe  vendicato 
delle  ingiurie.  Lo  Stigliani  impaurito  scrisse  al 
Marino    una    lunghissima  ed    umilissima  lettera, 

(1)  Lo   Stigliani  aveva  pregato  il  Marino  di  fargli  copia  d'un  sonetto 
dal  poeta  napolitano  altra  volta  composto  in  lode  dello  Stigliani. 

(2)  Ecco  le  stanze  clic  riguardano  il  Marino  : 

la  questo  fiume,  e  per  lo  mar  vicino 
Vive  il  Pesciuom  con  sue  mirabil  membra 
Detto  altramente  il  cavalier  marino, 
Verace  bestia,  bench'ai  vulgo  uom  sembra 
Che  nulla,  fuor  che  l'alma,  ha  di  ferino, 
Ej  tutto  a  nostra  immagine  rassembra; 
Figlio  della  Sirena  ingannatrice. 
Ed  alla  madre  egual,  se  '1  ver  si  dice. 
Come  si  vede  l'allusione  era  troppo  manifesta. 


—  289  — 
scusandosi  col  dire  che  egli  non  avea  inteso  di 
alludere  alla  sua  persona,  ne  a  quella  di  altri.  (1) 
Ad  onta  di  ciò  il  Marino  mantenne  la  parola  e 
pubblicò  alcuni  pungentissimi  sonetti  che  chiamò 
Smorfie^  e,  tanto  nella  Galleria^  che  nella  Sampogna 
e  n.eW  Adone^  non  smise  di  metterlo  in  ridicolo,  chia- 
mandolo, nella  Galleria  un  poeta  goffo,  nella  Sam- 
pogna  Lamb rusco, 

Lambrusco  dico,  l'invido  Capraio, 
Di  cui  con  tutto  ciò  rider  conviemme, 
Ch'  uscito  fuor  dal  suo  natio  pagliaio, 
Volse  passar  nell'Indiche   maremme, 
Sperando  accumular  molto  danaio, 
E  trarne  un  gran  tesor  d'oiM),  e  di  gemme  ; 
Ma  poi  di  gemme  invece,  e  'n  vece  d'oro 
I^u  vii  piombo,  e  vii  fango  il  suo  tesoro. 

Se  'l  mio  canto  il  suo  canto  in  prova  vinse, 
Ne  fu  giudice  Alcippo  il  saggio  vecchio, 
Che  'n  fronte  allor  baciommi,  in  sen  mi  strinse, 
E  pur  di  chiaro  senno  è  vivo  specchio. 
Questi,  poiché  d'alloro  il  crin  mi  cinse. 
Così  pian  pian  mi  disse  entro  l'orecchio. 
Quanto  a  l'alto  Cipresso  il  Giunco  umile, 
Tanto  l'emulo  tuo  cede  al  tuo  stile.  (2) 

(1)  Alcuni  biografi  sincroni  del  Marino  asseriscono  che  questa  lettera 
fa  scritta  ad  arte  dallo  Stigliani  dopo  la  morte  del  suo  avversario.  Io 
non  credo.  Basta  leggerla,  e  poi  confrontarla  con  la  risposta,  evidentis- 
sima, ohe  fa  ad  essa  il  Marino.  È  una  sfida  secca  e  formale: 

«  Io  feci  intendere  a  V.  S.  per  mezzo  di  una  lettera  scritta  dal  Ma- 
gnanini  al  Magnani  come  non  aveva  voluto  rispondere  alla  sua  finta  di- 
.scolpa  per  non  trattar  d'amico  chi  avea  trattato  me  da  nemico  ;  di  nuovo 
esso  Magnani  me  n'ha  importunato  con  un'altra  sua:  onde  io  finalmente 
scrivo  a  V.  S.  non  già  per  risponderle,  ma  per  farle  sapere,  che  non  le 
vo'  rispondere  se  non  in  istampa.  Addio.  (Marino,  Lettere,  pag.  133).  » 

(2)  Marino,  Sampogna  {Sospiri  d'JErgasto),  St.  49  e  50. 

19 


—  290  — 
'^eìV Adone  infine  lo  raffigurò  ad  un  gufo  : 

Quand'ecco  fuor  da  un  cavernoso  tufo, 
Sbucar  difforme  e  rabbuffato  un  Gufo. 

Oh  quanto  o  quanto  meglio,  infame  augello. 
Eitorneresti  a  l'infelici  grotte^ 
Nunzio  d'infausti  auguri  al  Sol  rubello. 
E  de  l'ombre  compagno  e  de  la  notte. 
Non  disturbar  l'angelico  drappello, 
Vanne  tra  cave  piante  e  mura  rotte. 
A  celar  cjuella  sua  fronte  cornuta. 
Quegli  occhi  biechi  e  quella  barba  irsuta.  (1) 

Il  povero  Stigliani  era  per  queste  beffe  diven- 
tato la  favola  de"  letterati  italiani;  ciò  non  ostante, 
vivente  il  Marino,  non  rispose  affatto  alle  ingiurie 
di  questo,  il  quale  scriveva  al  Ciotti  :  «  Dello  Sti- 
gliani non  occorre  jdììi-  parlarne.  So  benissimo 
clie'egli  è  in  Roma,  e  mi  dicono  che  si  muore 
di  fame.  Io  per  me  gli  lio  compassione,  ma  non 
la  merita  per  la  sua  malignità.  » 

Due  anni  dopo  la  morte  dell'avversario,  lo  Sti- 
gliani pubblicò  una  spietata  critica  siiìVAdone. 
Egli  intitolò  l'opera  V  Occhiale^  (2)  dedicandola 
al  conte  d'  Olivarez .  Della  prefazione ,  come 
in  genere  di  tutte  quelle  clie  andarono  avanti 
alle  opere  dello  Stigliani,  se  ne  incaricò  Francesco 
Balducci,   grande  amico  del  poeta,    poeta    anche 

(1)  Adune,  Canto  IX,  st.  183  e  184. 

(2)  Del  Mondo  Nuoro,  del  Cavalier  Tommaso  Stigliani,  venti  primi 
canti  coi  sommari  dell'istesso  autore  dietro  a  ciaschedun  d'essi,  e  con  una 
lettera  del  medesimo  in  fin  del  libro,  la  qual  discorro  sopra  d'alcune 
avute  oppositioni,  lu  Piacenza,  per  Alessandro  Bazachi,  MDCXVII. 


—  291  — 
lui,  e  «  soldato  degno,  come  dice  l'Aprosio,  (1)  di 
miglior  fortana  pel  suo  letterario  valore,  e  che, 
per  esser  sempre  pieno  di  debiti,  mori  all'ospedale 
di  febbre  maligna.  »  Il  Balducci  in  questa  prefa- 
zione asserisce,  «  con  l'appoggio  de'  degni  perso- 
naggi, che  infìno  allora  lessero  manoscritto  il 
tutto,  che  V  Occhiale  era  stato  composto  vivente 
il  Marino;  che  nel  libro  non  si  trattava  di  satire 
od  invettive  (allude  forse  alla  maniera  violenta, 
colla  quale  il  Marino  si  difendeva),  ma  di  giu- 
stificazioni morali,  ed  amichevoli,  e  di  dispute 
letterarie  cortesemente  maneggiate.  » 

Pregava  poi  gli  amici  del  Marino  «  ad  atten- 
dere che  le  altre  tre  prime  parti  àeW  Occhiale 
vedessero  la  luce,  prima  d'attaccar  polemiche  let- 
terarie; e  ciò  per  non  ispezzar  l'unione  della  causa 
in  più  parti;  ma  poter  far  tutta  la  fatica  in  una 
sol  volta.  » 

Tutta  1'  opera  è  una  critica  spietata  che  si  fa 
€i\V Adone,  negando  all'autore  del  poema  persino 
dell'immaginazione  e  della  varietà;  perchè  in  essa 
afferma,  e  spesso  malamente  prova,  che  quasi  tutti 
^li  episodi  e  i  versi  del  Marino  sono  presi  ai  poeti 
latini  ed  italiani. 

Lo.Stigliani  però,  pubblicando  V Occhiale,  su- 
scitò un  vespaio;  cominciarono  subito  le  aspre 
e  ridicole  critiche  all'aspro  e  ridicolo  libro.  Nel 
1628  Scipione  Enrico  da  Messina  pubblicava 
V  Occhiale  Appannato  ;  {2)  Andrea  Barbazza  le  Stri- 

(1)  Angelico  Aprosio,  Grillaia,  Pag.  159. 

(2)  "L'Occhiale  Appannato,  dialogo   nel  quale    si    difende    V Adone    del 


—  292  — 

gliate  a  Tommaso  Stigliani,  celandosi  sotto  il  pseu- 
donimo di  Robusto  Pogommega;  (1)  Agostino 
Lampugnani  da  Milano  scriveva  V Antiocchiale ;  (2) 
Teofilo  Gallaccini  le  Considerazioni;  (3)  Grirolamo 
Aleandri,  primo  bibliotecario  di  casa  Barberini, 
nel  1629  pubblicava  una  sua  Difesa  dM'  Adone.  (4) 
Finalmente  Niccolò  Villani,    autore    d'una  dotta 

cav.  Giambattista  Marino,  contro  del  cav.  F.  Tommaso  Stigliani,  in  12",  Mes- 
sina, presso  Gio.  Francesco  Bianco,  MDCXXIX. 

L'Errico  nel  1628  avea  pubblicate  le  «  RUnlte  di  Parnaso  »  dove  11 
Marino,  giungendo  nel  regno  di  Apollo,  era  messo  sotto  giudizio  e  poscia 
proclamato  grande  poeta. 

(1)  Le  St figliate  a  Tommaso  Stigliano  per  Robusto  Pogommega,  la 
Spira,  appresso  Henrico  Starckio,  MDCXXIX,  in  12°. 

(2)  A ntiocclìial e,  ow^vo  risposta  in  difesa  del  Cavalier  SCarino,  intorno 
&\V Adone,  fatto  da  Balbino  Balbuccì,  A  Momo.  M.  S.  in  4°.  Questo  è  il 
titolo  dell'opera  del  Lampugnani,  la  quale  si  conserva  manoscritta  nella- 
Biblioteca  Aprosiana  «  Cfr.  Biblioteca  Aprosiana,  pag.  302.  » 

(3)  Queste  considerazioni  del  Gallaccini  vennero  inserite  nel  Vaglio 
Critico  dell'Aprosio,  del  quale  parleremo  più  tardi. 

(4)  Difesa  AeW Adone,  poema  del  Cavalier  Marino,  per  risposta  all'Oc- 
cMale  del  Cav.  Stigliani,  Venezia,  MDCXXIX.  Questa  è  la  prima  parte  del 
libro.  Un  anno  dopo  se  ne  pubblicava  la  seconda  parte,  quando  però  lo 
autore  era  morto.  Alla  compilazione  di  questo  libro  1' Aleandri  fu  stimo- 
lato anche  dall' Achillini,  che  allora  da  Bologna,  dove  insegnava  rettorica 
in  quell'Università,  dettava  le^gi  poetiche  all'Italia,  e  che  per  la  morte 
di  Girolamo  Preti,  a\'venuta  a  Barcellona  nel  1626,  era  l'erede  principalo 
del  Marino. 

È  curiosa  in  quest'opera  la  difesa  che  l'Aleandri  fa  del  Marino  al 
canto  X  AeW Adone.  Il  poeta  napolitano  consacra  alcune  ottave  al  Galilei  ; 
Io  stigliani  nefiV Occhiale  lo  riprende,  avvertendolo  non  essere  stato  il 
sommo  astronomo  l'inventore  del  telescopio,  bensì  un  «  mastro  d'occhiali 
di  Fiandra..» 

«  Non  vorrebbe  lo  Stigliani,  osserva  l'Aleandri,  che  si  dicesse  che 
Galileo  fosse  stato  1'  inventore  del  telescopio,  e  ci  vuol  far  credere 
ch'egli  rifiuti  questa  gloria,  e  che  confessi  nel  suo  Saggiatore  essere  stato 
quello  stromento  trovato  da  un  mastro  d'occhiali  di  Fiandra.  Questo  si 
eleva  a  registrare  tra  1'  altre  verità  poetiche  dello  Stigliani,  e  'l  Saggia' 
tore  stesso  ch'egli  adduce  per  testimonio,  ce  ne  chiarirà.  Ma  vi  ha  chi 
crede,  che  lo  scopo  dello  Stigliani  non  sia  stato  di  scoprire  una  falsa  opi- 
nione del  Marino,  ma  di  maltrattare  il  Galileo,  contro  il  quale  serba  non 
so  che  rancore,  e  la  ragione  è  questa.  Si   prese    l'assunto   Don    Virginio 


—  idi  — 
dissertazione  sopra  la  Poesia  giocosa  de'  poeti  giteci 
e  latini,  pubblicava,  sotto  il  pseudonimo  di  Vin- 
cenzo Foresi,  1' ?7cceZZaÌ2<7"a ,  (1)  nella  quale  dimo- 
strava dottamente  false  ed  invidiose  le  accuse 
mosse  dallo  Stigliani  al  Marino,  non  disconoscendo 
però  nello  Stigliani  un  buon  poeta.  (2) 

Finalmente  il  padre  Angelico  Aprosio,  il  più 
fervido  difensore  del  Marino,  pubblicava  ben 
cinque  volumi  di  difesa  al  poema  dell'  Adone. 
L'Aprosio,  che  fu  amico  di  Gabriele  Naudé  e 
di  Gasparo  Sdoppio,  col  quale  ultimo  visse  lungo 
tempo  a  Venezia,  mette  nelle  sue  critiche  tante 
acute  ed  abbondanti  osservazioni  storiche  e  let- 
terarie, che  in  verità  i  suoi  libri  non  dimo- 
strano d'essere  stati  scritti  in  un'epoca  tutta   di 


Oesarini  di  far  stampare  in  Roma  quel  libro  del  Saggiatore,  e  diede  la 
cura  allo  Stigliani  di  sovrastare  alla  stampa  acciocché  uscisse  ben  cor- 
retto. Stampato  che  fu  il  libro,  e  capitato  in  mano  del  Galileo,  egli  si  dolse 
«he  lo  Stigliani,  conlra  la  mente  dell'autore,  v'havesse  messa  la  sua  deli- 
cata ortografia,  ma  che  un  luogo  ancora  n'havesse  corretto,  per  aggiungervi 
il  suo  nome,  e  per  mettersi  in  dozzina,  come  dir  si  suole,  con  autori  di 
celebre  fama.  Il  luogo  era  stato  scritto  dal  Galileo  in  questa  maniera:  » 
Non  solo  si  permette  al  filosofo  il  tramezzar  talhora  ne'  suoi  trattati  al- 
cune poetiche  delizie,  come  fece  Platone  e  come  fanno  molti  oggi  :  ma 
si  concede  anco  al  poeta  il  seminar  alle  volte  ne'  suoi  poemi  alcune 
scientifiche  speculazioni,  come  fece  Dante  nella  sua  Commedia.  «  Or  que- 
st'ultime parole  furono  dallo  Stigliani  in  questa  guisa  interpolate:  Come 
tra  i  nostri  antichi  fece  Dante  nella  sua  Commedia,  e  come  tra'  moderni 
ha  fatto  il  Cavalier  Stigliani  nel  suo  Mondo  Nuovo.  »  Questo  aneddoto 
caratterizza  la  prosopopea  dello  Stigliani. 

(1)  U' Uccellatura  di  Vincenzo  Foresi  a.'W Occhiale  del  Cavalier  fra  Tom- 
maso Stigliani  contro  V Adone  del  Cavalier  Gio.  Battista  Marino  e  alla 
Difesa  di  Girolamo  Aleaudri,  In  Venezia,  MDCXXX,  appresso  Antonio 
Pinelli. 

(2)  Nel  1631  poi  pubblicava  la  seconda  parte  della  sua  Difesa  col  pseu- 
domino  di  Messer  ¥a.^ia.no.  Considerazioni  soprala  seconda  parte  dell'Oc- 
chiale di  Tommaso  Stigliani,  control' Adone  del  Marino  e  sopra  la  seconda 
difesa  di  Girolamo  Aleandri,  Venezia,  per  Gio.  Pietro  Pinelli,  MDXXXI. 


—  294  — 
ricercatezze  e  d'ampollosità;  in  lui  rivelano  in- 
vece un  critico  ed  uno  scrittore  che  possiede 
un  vasto  e  solido  patrimonio  di  cognizioni  let- 
terarie. Nacque  in  Ventimiglia  il  29  ottobre  1607; 
«  da  fanciullo,  scrive  egli  stesso,  fu  innamorato 
dei  libri  in  tal  guisa,  che  dove  gli  altri  fanciulli 
per  un  pomo  darebbero  oro,  se  fusse  in  loro  balia, 
egli  per  un  libro  avrebbe  donato  non  j)ure  i 
frutti,  ma  anco  se  stesso.  » 

Fattosi  prete,  stette  un  anno  a  Genova,  poi  si 
condusse  in  Siena,  dove  dimorò  sei  anni.  Men- 
tre l'Aprosio  era  in  questa  città,  pubblicavasi 
V  Occhiale  dello  Stigliani,  e  allora  egli,  sotto  il 
nome  di  Ser  Poi,  fece  questo  sonetto  macchero- 
nico, attaccando  il  titolo  dallo  Stigliani  dato  al 
libro  : 

0  piacukim  grande  inexpiabile, 
Macula,  che  non  paté  uUo  astersivo; 
Flagizio  sol  multando,  e  deplorabile 
Yeneno  noxio  senza  correttivo. 

0  crimen  undequaque  condennabile, 
Che  mi  fa  cader  quasi  semivivo 
Tra  delitti  più  grave  registrabile, 
Lasciar  senza  il  tuo  retto  il  genitivo. 

E  quel  che  importa,  non  da  un  decenne 
Tyrone  incipiente  e  ungiregola, 
Fusciarra  come  dicesi  in  vernaculo; 

Ma  da  un  veterano  equequo  al  Merula 
Or  qual  nervo,  qual  scutica,  o  qual  baculo 
Fia  il  fustuario  alForazion  solenne?  (1) 

(1)  Come  abbiam  visto  lo  Stigliani  mise  per  titolo  del  libro:  Dell'Oc- 
chiale ecc.... 


—  195  — 

Poi  si  accinse  a  prender  le  difese  del  Marino; 
ma  riceveva  notizie  da  Messina  dallo  stesso  Sci- 
pione Enrico,  il  quale  lo  avvertiva  esser  in 
procinto  di  pubblicare  V  Occhiale  Appannato.  Ciò 
non  ostante  scrisse  l' opera ,  la  quale  intitolò 
La  Sferza  Poetica,  apologia  di  Sapricio  Saprici, 
e  doveva  mandarla  a  «  Cristoforo  Tomasini,  libraio 
in  Marcerà  all'insegna  della  Pace,  che  con  sua 
lettera  gli  aveva  data  parola  di  stampargliela; 
ma  quando  egli  era  pronto  d'incamminarla  fa- 
cendo la  consegna  in  Firenze  a  Modesto  Giunti, 
furono  chiusi  i  passi  ed  impediti  i  commerci  per 
cagione  del  contagio,  da  cui  poco  mancò  non 
fossor  desolati  la  Lombardia,  il  Piemonte,  lo  Stato 
Veneto  e  buona  parte  della  Toscana.  »  (1) 

Intanto  l'Aprosio  peregrinava  per  l'Italia,  e 
giungendo  a  Venezia  stringeva  colà  amicizia  coi 
principali  scrittori,  quali  il  Loredano,  il  Michiele, 

(1)  Queste  ed  altre  notizie  sull'Aprosio  le  raccolgo  da  quella  curiosa  ed 
importante  opera  sua  eh'  è  la  Biblioteca  Aprosiaiia  {La  Bibìioteca  Apro- 
si'iiia,  passatempo  autiinnaìe  di  Cornelio  Aspaaio  Antivigllmi,  tra'Vagabonùi 
di  Tabbia  detto  V Aggirato,  In  Bologna,  per  il  Manolensi,  MDCLXIII). 
Questo  libro  è  una  specie  di  catalogo  delle  pubblicazioni  che  l'Aprosio 
riceveva  in  dono  dai  principali  scrittori  d'Italia,  o  meglio  d'Europa,  le 
quali  pubblicazioni  formarono  poi  la  biblioteca  che  l'Aprosio,  morendo, 
donò  a  Ventimiglia  suo  paesi  natio.  Questa  bibliografia  delle  pubblica- 
zioni donate  all'Aptosio  è  da  lui  stesso  preceduta  da  una  specie  di  auto- 
biografia, ricca  di  importanti  notizie  sui  personaggi  italiani  e  stranieri 
del  tempo.  Ecco  poi  il  titolo  dell'opera  che  l'Aprosio  scrisse  per  prima, 
e  che  poi  fu  l'ultima  ad  esser  pubblicata:  «  La  Sferza  Poetica  di  Sapric 
ciò  Sapricci  io  Scantonato  Accademico  Eteroclitico,  per  risposta  alla  prima 
Censura  deW Adone  del  Cav.  Marino,  fatta  dal  cav.  Tommaso  Stigliani,  In  Ve- 
nezia, nella  stamperia  Guerigliaua,  MDCXLIII  in-12.  »  Padre  Angelico 
volle  in  seguito  dare  a  quest'opera  il  titolo  di  Veratro,  ma  poi  pentitosi, 
la  fece  stampare  col  primo  titolo,  dando  il  secondo  ad  un'  altra  opera 
difensiva. 


—  296  — 
il  Bonifacio.  Ritornato  a  Genova,  l'Aprosio, 
avendo  detto  che  nel  solo  primo  canto  del  Mondo 
Nuovo  dello  Stigliani  avrebbe  trovato  da  censu- 
rare molte  più  cose  che  lo  Stigliani  non  aveva 
trovate  tlqW Adone  del  Marino,  scrisse  in  una 
settimana  il  suo  Vaglio  Critico  che  mandò  subito 
a  Milano  per  essere  stampato.  Ma  il  manoscritto 
essendo  capitato  in  mano  d'un  revisore  amico 
dello  Stigliani,  la  pubblicazione  del  libro  aborti, 
e  l'Aprosio  in  quell'anno,  essendo  passato  a  Tre- 
vigi,  riusci  di  farlo  stampare  colà  per  Girolamo 
Highettini,  coprendosi  sotto  il  pseudonimo  di 
Masotto  Galistoni  da  Teramo,  che  è  l'anagramma 
di  Tommaso  Stigliani  da  Matera,  (1) 

A  quest'opera  l'Aprosio  ne  fece  seguire  subito 
un'altra  che  intitolò  II  Buratto.  (2)  Il  libro  è  de- 
dicato «  all'illustrissimo  e  reverendissimo  mon- 
signor   Francesco  Vitelli,  arcivescovo    d'Urbino, 

(1)  Il  Vaglio  Critico  di  Masotto  Galistoni  da  Teramo,  sopra  il  Mondo 
Nuovo  del  cavalier  Tommaso  Stigliani  da  Matera,  In  Rostock,  per  Uillelino 
Uvallop,  MDCXXXVII,  in-12.  Questa  opinione,  la  quale  è  del  resto  dell' A- 
prosio  ('vedi  Bihl.  Aprosiana,  pag.  124  e  125)  non  è  divisa  dallo  Stigliani,  il' 
quale,  in  alcune  postille  fatte  sopra  una  copia  del  Buratto  dell' Aprosio, 
la  quale  è  posseduta  dalla  Bibl.  V.  E.  di  Roma,  dice  :  «  Il  presente 
libro  (il  Buratto)  è  una  palese  falsità  di  un  frate  chiamato  Frate  An- 
gelico da  Ventimiglia,  il  quale  fece  il  Vaglio  Critico  contra  il  Mondo 
Nuoro  attribuendolo  falsamente  a  Masotto  Galistoni.  Poi  fìnse  da  sé  la 
risposta  chiamandola  II  Molino,  ed  ascrissela  a  Carlo  Stigliani  suo  tìglio. 
Alla  qual  risposta  ora  qui  replica  egli  medesimo  tuttavia  e  ne  fa  autore 
Carlo  Galistoni  figlio  di  Masotto.  Si  che  egli  solo  ha  opposto,  egli  solo 
ha  difeso  ed  egli  solo  ha  replicato.  Di  qui  giudichi  chi  legge  quanta  fede 
si  debba  prestare  a  un  pubblico  falsario  che  ha  voluto  gabbare  tutto  un 
mondo,  m 

(2)  Il  Buratto,  replica  di  Carlo  Galistoni  al  Molino  del  signor  Carlo 
Stigliani.  In  Venezia,  nella  stamperia  Sarziniaua,  appresso  Taddeo  Pa- 
voni, MDCXLII,  in-12. 


—  297  — 
•nunzio  apostolico  alla  Serenissima  Repubblica  di 
Venezia.  »  Nella  dedica  l'Aprosio  dice  come  Carlo 
Stigliani,  figlio  del  poeta,  avendo  avuto  occa- 
sione di  leggere  il  Vaglio  Critico,  scritto  contro 
il  padre,  pubblicò  un'opera  intitolata  E  Molino. 
Allora  il  figlio  di  Masotto  Galistoni,  ossia  dell' A- 
prosio,  fece  la  presente  opera.  Il  Buratto^  contro  H 
Molino;  aggiungendo  argutamente  «  che  il  padre 
cominciò  col  Vaglio.  Il  signor  Carlo  (Stigliani), 
per  macinare  il  grano,  si  servi  del  Molino,  che 
lui  per  cavar  la  crusca  dalla  farina  s'è  servito 
del  Buratto.  » 

Anche  quest'opera  è  una  critica  condotta  con 
molta  finezza  ed  arguzia  al  primo  canto  del 
Mondo  Nuovo  dello  Stigliani,  il  quale,  avendo 
detto  che  luia  lettera  del  Marino  scritta  all'Apro- 
sio  dopo  il  suo  ritorno  di  Francia,  era  falsa, 
l'infaticabile  frate  s'accinse  a  scrivere  un'altra 
opera,  V Occhiale  Stritolato,  celandosi  sotto  il  nome 
di  Scipio  Glareano;  (1)  in  quest'opera  difende  i 
tre  primi  canti  àeìVAdoìie  dalle  accuse  dello  Sti- 
gliani. Finge  l'Aprosio  che  il  Grlareano  abbia 
lette  le  oJDere  difensive  dell' Aleandri,  del  Villani 
e  di  Sapriccio  Sapricci;  e  sperando  «  che  nel- 
l'aia degli  scrittori  non  vi  sia  qualche  spiga  non 
osservata  da  loro,  si  fermerà  solamente  sopra  la 

(1)  Ij  Ocrhiale  Stritolalo  di  Scipio  Glareano,  per  risposta  al  signor 
cavalier  Tommaso  Stigliani,  M.DC.XXXX.  Questo  libro  sembrerebbe  an- 
teriore al  Buratto,  il  quale  porta  la  data  del  1641.  Però  bisogna  andar 
guardinghi  con  le  date  di  questi  benedetti  libri  stampati  nel  Seicento.  Del 
resto  poi  le  due  opere  del  Buratto  e  AcWOcchiale  Stritolato  sono  state 
stampate  insieme,  tanto  che,  per  l'impaginazione  e  per  la  tiratura  dei 
fogli,  l'una  non   può  andar  divisa  dall'altra. 


—  298  - 
seconda  censura,  nella  quale  non  si  curerà  osser- 
vare ogni  minuzia,  essendo  stato  fatto  da  tre 
sopra  nominati  signori;  ma  solamente  quello  clie 
gli  darà  materia  di  addurre  cose  non  addotte^ 
da  loro.  » 

L'anno  aj)presso  l'Aprosio  stampava  la  prima- 
opera  da  lui  composta,  ossia  la  Sferza  Poetìcaj 
clie,  come  abbiamo  detto,  teneva  in  pronto  fin 
dal  1630;  e  finalmente  nel,  1645,  il  frate  Ange- 
lico pubblicava  l'ultima  sua  opera  difensiva,  cKe 
intitolò  II  Veratro.  (1)  Nicolò  Crasso  parlando 
di  questo  libro,  cosi  s'esprimeva:  «  Questa  per 
mio  sentimento  è  un'opera  d'infinita  erudizione, 
che  porta  seco  qualche  lunghezza.  » 

La  meravigliosa  fecondità  di  questo  frate,  il 
quale  poi  riusci  uno  de' migliori  predicatori  del 
tempo  e  mori  più  che  ottantenne,  ebbe  il  suo 
effetto  in  Italia,  perchè  lo  Stigliani,  il  quale  mori 
l'anno  appunto  della  pubblicazione  della  seconda 
parte  del   Veratro,  non  rispose  mai    alle  critiche 


(1)  Del  Veratro,  apologia  di  Sapricio  Saprici,  per  risposta  alla  secomla 
censura  deW Adone  del  cavalier  Marino,  fatta  dal  cavalier  Tommaso  Sti- 
gliani. Il  libro  è  diviso  in  due  parti.  La  prima  venne  stampata  dal  Matteo 
Leni  nel  1647;  la  seconda  nel  1645.  Ecco  quanto  dice  l'Aprosio  stesso, 
nella  seconda  parte  del  Veratro,  su  questa  discordanza  cronologica  di 
date.  «Il  libro  che  ora  gl'invio,  acciocché  voglia  restar  servita  d'ono- 
rarmi di  segnar  le  cose  notabili,  non  è  la  seconda  parte  del  Veratro?  lì 
titolo  lo  dimostra.  B!  la  prima?  E  la  prima  è  nelle  mani  dello  stampatore 
ha  più  d'un  anno,  e  ne  sono  stampati  tanti  fogli,  che  non  fan  numero. 
La  seconda  è  finita:  adunque  il  due  è  prima  dell'uno.  Mi  dispiace  di 
questa  disorbitanza  non  perchè  mi  curi  dell'opera,  ma  perchè  parmi  di 
acquistar  nome  di  millantatore  appresso  il  signor  Alberici,  a  cui  deve 
esser  dedicata.  »  (Lettera  dell'Aprosio  a  Matteo  Defendi,  premessa  alla  se- 
conda parte  del  Veratro.) 


—  299  — 
dell' Aprosio.  Ma  il  tempo  dava  ragione  al  poeta 
materano,  perchè  un  antimarinismo  si  sviluppava 
in  tutte  le  città  italiane,  antesignano  d'una  poe- 
sia ancor  più  inutile  e  molto  più  dannosa  alla 
letteratura,  che  quella  del  Seicento.  Li^  Arcadia  esau- 
riva tutte  le  fonti  poetiche  su  cui  avevano  lavorato 
tanti  chiari  ingegni  italiani;  armatasi  d'un  ri- 
dicolo pedantismo,  aboliva  le  forme  del  bello,  na- 
scondendosi in  un  ridicolo  petrarchismo  in  di- 
ciottesimo. 

«  I  cataplasmi  arcadici,  applicati  a  quell'eri- 
tema (il  Seicento),  dice  Cesare  Cantù,  non  reca- 
vano gran  fatto  al  meglio;  perocché,  a  riformarsi, 
non  si  ricorse  alla  natura  ed  all'  inesausta  fonte 
dei  sentimenti,  bensì  ai  cinquecentisti  e  al  Pe- 
trarca, poeta  facile  a  imitare  perche  versa  in  un 
sentimento  universale,  mentre  erano  perdute  e 
l'allegoria  e  le  credenze  di  cui  si  rinforza  l'Ali- 
ghieri. Né  già  l'arte  immortale  cercavano  nel  can- 
tore di  Laura,  ma  i  pensieri  e  la  evirata  purità, 
traendone  apparenza  di  classici,  non  sostanza. 
In  alcuno  tu  trovi  parole  pure,  giro  melodioso, 
anche  nobiltà,  e  magnificenza  di  prosa  e  armonia 
di  verso;  ma  non  mai  passione,  non  quell'elo- 
quenza che  viene  dal  cuore  e  al  cuore  va;  e  in 
luogo  del  patetico  o  del  sublime,  una  fatuità  che 
viene  dal  non  aver  meditato  il  soggetto  ne  avere 
sforzato  la  mente  a  metter  fuori  qualcosa  di  nuovo 
0  di  vivo.  L'epigramma,  il  madrigale,  erano  il 
fondo  di  quel  comporre,  palleggiato  tra  l'affetta- 
zione, che  è  l'iperbole  degli  ingegni  meschini,  e 


—  300  — 
l'iperbole,  che  è  l'affettazione  degli  ingegni  belli 
ma  non  poetici. 

«  Con  molta  stima  di  se  e  ninna  del  pubblico, 
coll'ambizione  della  rima  e  della  frase,  coli' evi- 
tare di  dir  le  cose  naturalmente,  non  riuscivano 
clie  a  smorfiose  fantasie,  a  una  sciatta  loquacità, 
a  una  parassita  eleganza  ;  mettevano  l'arte  nel 
voltare  e  rivoltare  un'idea  sotto  tutti  gli  aspetti, 
vincere  difficoltà  col  descrivere  trivialmente  e 
indecorosamente  ciò  che  non  ne  ha  di  bisogno, 
voler  elevare  soggetti  triviali  e  ritrosi  col  panie- 
ciarli  di  parole  sonore  e  pillottarli  di  triviale 
dottrina,  perdendo  cosi  il  bello  col  mostrarsene 
a  caccia.  »  (1) 

Questo  cinquant'anni  dopo.  Ma  in  questo  lasso 
di  tempo  la  fama  che  s' avea  del  Marino  durò 
ovunque,  in  Francia,  nella  Spagna,  in  Inghilterra 
e  fìnanco  in  Germania.  Ne  meno  fortuna  arrise 
agli  ammiratori  del  poeta  napolitano,  fra  i  quali 
primeggiano  l'Achillini  e  il  Preti,  e  che,  vivente 
il  Marino,  gii  tributarono  sempre  e  ovunque  lodi 
solenni.  Ma  di  costoro  s'  è  parlato  fin  troppo  dagli 
storici  della  letteratura;  invece  noi  fermeremo  la 
nostra  attenzione  sopra  un  altro  poeta  che  superò 
tutti  gli  altri  nell'  imitare  il  Marino.  Intendiamo 
parlare  del  Metastasio.  Il  fortunatissimo  abate, 
dicono,  non  componeva  uno  de'  suoi  melodrammi 
se  non  s'ispirava  al  Marino.  E  le  sue  liriche  ri- 
sentono talmente  della   poesia    marinesca,  che  a 

(1)  L'Aliate  Parlili  e  la  Lomhardia  ne!  secolo  passalo,  Studi  di  Cesare 
Cantù,  Milano,  G.  Guoccbi,  1831,  pag.  18. 


—  301  — 
volte  sembrano  scritte    in    pieno    secolo  decimo- 
settimo, 0  meglio,  dal  poeta  stesso  napolitano. 

Nel  «  Canto  epitalamico  per  le  nozze  di  An- 
tonio Pignatelli  marchese  di  S.  Vincenzo  ed  Anna 
Francesca  Pinelli  de  Sangro  de'  duchi  dell' Ace- 
renza  »,  il  Metastasio  narra  gli  amori  di  Venere 
e  di  Marte;  una  turba  di  amorini  scorazzano 
intorno  alla  coppia,  ed  uno  di  loro,  con  la  spada 
del  dio  della  guerra,  ferisce  questi  al  fianco. 
Marte  si  sveglia  irato;  Venere,  ancli'essa  indi- 
spettita, batter  il  figlio  con  una  sferza  di  rose 
ed  Amore,  ^qv  vendetta,  quando  Marte  parte  per 
la  guerra,  gli  fa  deviare  il  cammino.  Lo  conduce 
«  del  bel  Sebeto  alle  felici  arene,  «  dov'  è  Anna 
Francesca  Pinelli,  della  quale  Marte  s' innamora 
perchè  Cupido  ha  scoccate  le  sue  quadrella;  ma 
la  fama  porta  a  Venere  la  nuova  del  tradimento  ; 
Venere  si  prepara  a  raggiungere  1'  infedele  e  pas- 
sando per  Vienna  s'incontra  con  Antonio  Pigna- 
telli, il  quale  è  scambiato  dalla  dea  per  il  dio 
della  guerra;  quindi  se  ne  innamora.  Cupido  av- 
verte di  ciò  Marte,  che  corre  minaccioso  sul  luogo  ; 
avviene  una  lite  nella  quale  intervengono  tutte 
le  deità,  e  Giove,  riconosciuti  Anna  ed  Antonio 
simili  a.  Venere  e  a  Marte,  decreta  che  debbano 
unirsi  in  matrimonio. 

Questo  è  il  sunto  dell'  epitalamio.  Ora  ve- 
niamo ai  raffronti,  che  sono  molto  spiccati.  Il 
Marino  (Canto  XIII)  descrive  gli  amori  di  Ve- 
nere e  Marte,  mentre  che  gli  amorini  inneggiano 
all'  imeneo  : 


—  302  — 
0  che  riso,  che  giubilo,  che  festa 
La  schiera  allor  de'  pargoletti  assale. 
Scherzando  van  di  quella  parte  in  questa 
A  cento  a  cento,  e  dibattendo  l'ale 
Un  fugge,  un  torna,  un  salta  ed  un  s'arresta, 
Chi  su  le  piume  e  chi  sotto  il  guanciale. 
Le  cortine  apre  l'uu,  l'altro  s'asconde 
Tra  le  coltre  adorate  e  tra  le  fronde. 

Tal  poiché  lasso  e  disarmato  il  vide 
Dopo  mille  posar  mostii  abbattuti, 
Osò  già  d'assalire  il  grande  Alcide 
Turba  importuna  di  Pigmei  minuti. 
Così  su'l  lido  ove  Cariddi  stride 
Soglion  con  Tirsi  e  Canne  i  Fauni  astuti 
Del  Ciclope  pastor,  mentre  ch'ei  dox'me, 
Misurar  l'ossa  immense  e'I  ciglio  informe. 
Altri  il  divin  Guerrier  con  sferza  molle 
Piede  di  X'ose  e  lievemente  offende. 
Altri  a  la  Dea  più  baldanzoso  e  folle 
Fura  gli  arnesi  ed  a  trattargli  intende 

Un  altro  a  l'armi  ben  forbite  e  belle 
Dato  di  piglio  de  l'Eroe  celeste, 
Con  vie  più  audace  man  gì'  invola  e  svelle 
Dal  lucid'elmo  le  superbe  creste  ; 
E'I  viso  ventilandogli  con  quelle. 
Ne  sgombra  l'aure  fervide  e  moleste, 
Poi  da  la  fronte  gli  rasciuga  e  terge 
Le  calde  stille  onde  '1  sudor  l'asperge. 

Alcun'altri  divisi  a  groppo  a  groppo 
In  varie  legioni,  in  varie,  squadre. 
Con  l'armi  dui*e  e  rigorose  troppo 
Movon  guerre  tra  lor  vaghe  e  leggiadre. 


—  303  - 

Chi  cavalca  la  lancia,  e  di  galoppo 
La  sprona  incontro  a  la  vezzosa  madre, 
€hi  con  un  Capro  fa  giostre  e  tornei, 
Chi  de  la  sua  vittoria  erge  i  trofei. 

Parte  piantan  gli  approcci  e  vanno  a  porre 
L'assedio  a  un  tronco  e  fan  monton  de  l'asta 
Batton  la  breccia,  e  son  castello  e  torre 
La  gran  goletta  e  la  corazza  vasta. 
Chi  combatte,  chi  corre  e  chi  soccorre, 
Altri  fugge,  altri  fuga,  altri  contrasta, 
Altri  per  l'ampie  e  spaziose  strade 
Con  amari  vagiti  inciampa  e  cade. 

Questi  d'insegna  invece  il  vel  disciolto 
Volteggia  a  l'aura,  e  quei  l'aiferra  e  straccia 
Colui  la  testa  impaurito  e'I  volto 
ISTella  celata  per  celarsi  caccia, 
E  dentro  vi  riman  tutto  sepolto 
Col  busto,  con  la  gola  e  con  la  faccia; 
Costui  volgendo  a  l'avversario  il  tergo 
Corre  a  salvarsi  entro  '1  capace  usbergo. 

Ma  ecco  intanto  il  Principe  maggiore 
Con  l'alato  squadron  che  lor  comanda. 
Comanda  dico  agli  altri  Amori  Amore, 
Agli  altri  Amori  i  quai  gli  fan  ghirlanda, 
Ch'ad  onta  sia  del  militare  onore 
Tosto  legata  a  la  purpurea  banda 
La  brava  spada,  e'n  guisa  tal  s'adatti 
Ch'a  guisa  di  timon  si  tiri  e  tratti, 

Senza  dimora  il  grave  ferro  afferra 
Sudando  a  prova  il  pueril  drappello. 
Ciascuno  in  ciò  s'esercita  e  da  terra 
Sollevarlo  si  sforza  or  questo  or  quello. 
Ma  perchè  '1  peso  è  tal  ch'appena  in  guerra 
Colui  ch'el  tratta  sol  può  sostenerlo, 


—  304  — 

Travagliar!  molto,  ed  han  tra  lor  divise 
Le  vicende  e  le  cure  in  mille  guise. 

Chi  curvo  ed  anelante  andar  si  rnira 
Sotto  il  gravoso  e  faticoso  incarco. 
Chi  la  gran  mole  assetta  e  chi  la  gira 
Dov'è  più  piano  e  più  spedito  il  varco. 
Chi  con  la  man  la  spinge  e  chi  la  tira 
0  con  la  benda,  o  col  cordon  de  l'arco. 
L'oi-goglioso  fanciul  guida  la  torma 
Tanto  che  con  quell'asse  un  carro  forma. 

Pon  quasi  trionfai  carro  kicente 
Del  sovi'ano  Campion  lo  scudo  in  opra, 
E  per  seggio  sublime  ed  eminente 
Altro  v'acconcia  il  morion  di  sopra. 
Quivi  s'asside  Amor,  quivi  sedente 
Trionfa  del  gran  Dio  che  l'armi  adopra. 
Traendo  intanto  il  van  di  loco  in  loco, 
Invece  di  destrier,  lo  Scherzo,  e  '1  Gioco. 

Acclama,  applaude  con  le  voci  e  i  gesti 
L'insana  turba  degli  Arcier  seguaci. 
Dicean  per  onta  e  per  dispregio:  È  questi 
L'invitto  Duce,  il  domator  de'  Traci  ? 
Lo  stupor  de'  mortali,  e  de'  celesti  ? 
Il  terror  de'  tremendi  e  degli  audaci? 
Chi  vuol  saper,  chi  vuol  veder  s'è  quegli 
Deh  vengalo  a  mirar  pria  che  si  svegli! 

Ecco  i  fasti  e  i  trionfi  illustri  ed  alti, 
Ecco  gli  allori,  ecco  le  palme  e  i  fregi. 
Più  non  si  vanti  omai,  più  non  s'esalti 
Per  tanti  suoi  sì  gloriosi  pregi. 
Quant'ebbe  unqua  vittorie  in  mille  assalti 
Soggiaccion  tutti  ai  nostri  fatti  egregi. 
Scrivasi  questa  impresa  in  bianchi  marmi, 
Vincan,  vincan  gli  amori,  e  cedan  l'armi! 


—  305  — 

A  quel  gridar,  dal  sonno  che  l'aggrava 
Marte  si  scuote  e  Citerea  si  desta, 
E  poiché  gli  occhi  si  forbisce  e  lava, 
Le  sparse  spoglie  a  rivestir  s'appresta. 

n  Metastasio  abbrevia  le  gesta  de'  piccoli  amori, 
riassumendole  in  sei  ottave,  e  prendendo  l'ispi- 
razione tutta  dal  Marino: 

Bello  è  veder,  qualor,  deposto  il  iDeso 
Della  lorica  sanguinosa,  e  dura, 
Marte  colla  sua  Dea  giace  disteso 
Tra' fioretti  del  prato,  e  la  verdura; 
Degli  amorini  il  folto  stuolo,  inteso 
A'  molli  scherzi,  in  fanciullesca  cura, 
Volare  a  gruppi,  e  in  mille  guise,  e  mille 
Vibrar  saette,  e  suscitar  faville. 

Uno,  deposto  la  faretra,  e  l'arco, 
Il  grand'elmo  adattar  procura  in  testa, 
Ma,  sotto  il  grave  inusitato  incarco 
Mezzo  nascosto,  e  quasi  oppresso  resta. 
Qual  passa  dell'usbergo  il  doppio  varco, 
E  chi  sopra  vi  sale,  e  lo  calpesta  ; 
Chi  tragge  l'asta,  e  chi  sul  tergo  ignudo 
Tenta  innalzar  lo  smisurato  scudo. 

Altri  la  ruota,  che  gli  cadde  al  piede 
De  la  conca  materna  adatta  all'asse, 
Né  il  semplice  può  mai,  perché  non  vede, 
Trovar  via  di  riporla  onde  la  trasse: 
Questi  al  "German,  che  su  l'erbosa  sede 
Dorme,   a  troncar  le  piume  intento  stasse, 
Quegli,  mentre  alle  labbra  il  dito  pone. 
Che  taccia  a  un  altro,  e  che  noi  desti,  impone. 

20 


—  306  — 

Qnal  d'un  alloro  in  su  la  cima  ascende 
Degli  augelli  a  spiar  la  sede  ignota, 
Qual  librato  su  l'ali  in  aria  pende, 
Qual  va  nel  fonte  a  inumidir  la  gota  : 
Clii  l'arco  acconcia  e  chi  la  face  accende, 
Chi  aguzza  il  dardo  alla  volvibil  ruota; 
Altri  corre,  altri  giace,  altri  s'aggira, 
E  chi  piange,  e  chi  ride,  e  chi  s'adira. 

Così,  colà  sovra  l'Iblèa  pendice, 
Errano  intorno  alle  cortecce  amate, 
Spogliando  de'  suoi  pregi  il  suol  felice, 
L'industri  pecchie  alla  novella  estate. 
Questa  dal  fior  soave  succo  elice. 
Quella  compon  le  fabbriche  odorate  ; 
Van  sussurando,  e  mille  volte  al  giorno 
Alla  cerea  magion  fanno  ritorno, 

Fra  gli  altri  un  dì,  mentre  riposa  in  pace 
Presso  alla  dolce  amica  il  Dio  Guerriero, 
Fura  il  brando,  lo  snuda^  e  troppo  audace 
Sei  reca  in  spalla  un  pargoletto  arciero; 
E,  movendo  più  tardo  il  pie  fugace 
Sotto  il  iDeso  per  lui  poco  leggero. 
Io  non  so  come,  al  genitor  vicino, 
Inciampando  nel  suol,  cadde  supino.  (1) 

Nel  Metastasio  Marte  si  sveglia  colpito,  sino 
ad  esser  ferito  a  sangue,  dalla  spada  malamente 
tenuta  da  questo  audacissimo  amore;  il  Marino 
invece  fa  svegliare  il  Dio  guerriero  per  il  cliiasso 
che  fanno  quegli  amorini  impertinenti  ;  ma  questo 
è  nulla,  perchè  senza  dubbio  il  Metastasio  ebbe 
presente  VAdoìie  quando  scrisse  quest'epitalamio. 

(1)  Opere  di  Pietro  Metastasio,  Firenze,  MDCCCXX,  Voi.   XI,  pag.  207. 


^ 


^  307  — 

Cke  più?  due  ottave  appresso  il  poeta  cesareo 
imita  il  Marino;  quando,  cioè,  dopo  che  Amore 
ha  ferito  incautamente  Marte,  la  dea  punisce  il 
figlio.  Il  Metastasio  adunque  dice  : 

Ei  per  fuggir  si  scuote,  e  si  dibatte, 
Ma  quella  prima  il  di  lui  fallo  apprese, 
Poi  con  sferza  di  rose  il  vivo  latte 
Delle  sue  membra,  in  cento  parti,  offese. 
E  si  discolpa,  ella  più  fiera  il  batte, 
Né  son  le  scuse,  e  le  querele  intese. 
Stanca  al  fin  Tabbondona,  ed  ei  sdegnato 
Va,  mordendosi  il  dito,  in  altro  lato. 

Ed  il  Marino: 

e  ciò  dicendo  il  batte. 
Con  flagello  di  rose  insieme  attorte, 
Cli'avea  groppi  di  spine,  ella  il  percosse, 
E  dei  bei  membri,  onde  si  dolse  forte, 
Fé  le  vivaci  porpore  più  rosse  ; 

Altra  imitazione,  e  più  accentuata,  è  la  descri- 
zione del  terribile  seguito  di  Marte. 
Il  Metastasio: 

Va  la  Discordia  innanzi,  e  i  nodi  spezza 
D'amor,  di  pace,  e  agevola  i  sentieri 
Al  Furor,  che  pei'igli  unqua  non  prezza, 
All'Empietà  da'  lividi  occhi,  e  neri  ; 
Presso  a  costor  vien  la  Vendetta,  avvezza 
A  scuoter  regni,  a  soggiogare  imperi, 
La  Crudeltà  la  siegue,  il  Tradimento, 
Il  Terror,  la  Ruina,  e  lo  Spavento. 


—  308  — 
V'è  la  superba  Ambizion  fumante, 
Che  pregna  di  se  stessa  ogn'altro  oblia; 
V'è  l'Invidia,  che  magra,  e  palpitante 
Più  l'altrui  mal,  che  il  proprio  ben  desia; 
V'è  la  pallida  Morte,  e  a  lui  davante 
Ruota  la  falce  sanguinosa,  e  ria, 
E  la  Fame,  e  la  Peste,  a  un  carro  istesso 
(Orrida  compagnia!)  gli  vanno  appresso.  (1) 

Ed  il  Marino: 

Innanzi  il  carro,  e  d'ogni  intorno  vanno 
Turbe  perverse  e  di  sembiante  estrano  : 
L'altero  Orgoglio,  il  traditore  Inganno, 
L'Omicidio  crudel,  lo  Sdegno  insano, 
L'Insidia  che  '1  coltello  ha  sotto  il  panno, 
E  la  Discordia  con  due  spade  in  mano, 
Il  Furor  cieco,  il  Rischio  disperato. 
Il  Timor  vile,  e  l'Impeto  sfrenato. 

La  Stizza  v'ha,  che  di  dispetto  arrabbia, 
L'Ira  vi  sta,  che  batte  dente  a  dente; 
La  Vendetta  si  moi-de  ambe  le  labbia. 
Ed  ha  verde  la  guancia  e  l'occhio  ardente, 
La  Crudeltà  d'imporporar  la  sabbia 
Gode  del  sangue  de  l'uccisa  gente. 
E  fa  strazi  e  dolori  e  pianti  e  strida 
Rota  la  falce  sua  Morte  omicida. 

Anche  V Epitalamio  per  le  nozze  degli  Eccellen- 
tissimi signori  D.  Giambattista  Filomarino  Prin- 
cipe della  Eocca,  ecc.  e  D.  Ilaria  Vittoria  Carac- 

(I)  Op.  cit.,  pa-.  21). 


—  309  — 
dolo  dei  Marchesi  di  S.  Eramo,    è    stato  scritto 
dal  Metastasio  sotto  l'impressione    della    lettura 
deWAdone. 

Il  Metastasio,  descrivendo  il  Sebeto,  dice: 


Su  le  floride  sponde 
Del  placido  Sebeto, 
Che  taciturno  e  cheto, 
Quanto  ricco  d'onor,  jìovero  d'onde, 
A  Partenope  bella  il  fianco  bagna, 
Partenope  Felice, 

E  di  Cigni,  e  d'Eroi  madre  e  nudrice; 
Stanca  di  tante  prede 
Di  Citerea  la  pargoletta  prole 
Fermando  un  giorno  il  piede, 
Ripiegando  le  penne 
A  riposar  si  venne.  (1) 

Ed  il  Marino: 

Tra  questi  umil  fìgliuol  del  bel  Tirreno 
Il  mio  Sebeto  ancor  l'acque  confonde: 
Picciolo  si  ma  di  delizie  pieno, 
Quanto  ricco  d'onor  jìovero  d'onde. 
Giriti  intorno  il  Ciel  sempre  sereno. 
Né  sfiori  aspra  stagion  le  belle  sponde, 
Né  mai  la  luce  del  tuo  vivo  argento 
Turbi  con  sozzo  pie  fetido  armento. 

Giace  in  te  la  Sirena,  e  per  te  poi 
Sorger  Virtude  e  fiorir  Gloria  io  veggio. 
Trono  di  Giove  e  di  pregiati  Eroi 
Felice  albergo,  e  fortunato  seggio. 
Dolce  mio  porto,  agli  abitanti  tuoi, 

(1)  Metastasio,  op.  cit.,  pag.  237. 


—  310  — 

Ne'  cui  petti  ho  11  mio  nido,  eterno  io  deggio. 
Padre  di  Cigni  e  lor  ricovro  eletto, 
E  de' fratelli  miei  fido  ricetto. 

Con  questi  encomi  affettuosi  Amore 
Del  patrio  fiume  mio  le  lodi  spande, 

Nello  stesso  ej)italamio  Amore  e  Venere  vanno 
da  Vulcano  per  avere  uno  strale,  col  quale  col- 
pire d'amorosa  fiamma  il  Filomarino  che  iia  of- 
feso Cupido. 

Per  quei  riposti,  e  cupi 
Solitari  dirupi 
Al  padre  ed  al  consorte 
Cupido  e  Citerea  volgono  i  passi, 
E  giunti  in  su  la  soglia 
Della  spelonca  affumicata  e  nera, 
S'arrestano  curiosi 
L'opra  a  spiar  dell'indefesso  Nume. 

Stava  intento  Vulcano 
Un  di  quegli  a  formar  fulmini   ardenti. 
Con  cui  Giove  dal  ciel  folgora  ;  ed  era 
In  pai'te  informe,  e  terminato  in  parte.^ 
Sudano  a  lui  d'intorno 

I  validi  Ciclopi, 

Nudi  le  membra,  e  rabbuffati  il  crine. 
Altri  solleva  e  preme 

II  mantice  ventoso,  e  l'aura  lieve 
Col  replicato  moto,  accoglie  e  rende. 
Altri  immerge  nell'onda 

Lo  stridulo  metallo;  ed  altri  al  cenna 
Del  prudente  Maestro 
Su  l'acciaio  rovente, 


—  311  — 

Del  pesante  martello  i  colpi  alterna. 
Ne  geme  l'antro,  e  le  minute,  e  spesse 
Strepitose  scintille 
Van  per  l'aria  sfuggendo  a  mille  a  mille. 

Ma  quando  il  Fabbro  accorto 
La  bella  Dea  rimira, 
Lascia  imperfetto  il  suo  disegno,  e  l'opra  ; 
E,  con  passo  ineguale, 
Correndo  incontro  alla  divina  moglie, 
Tra  le  ruvide  braccia  al  sen  l'accoglie, 
Le  domanda,  che  brami, 
Qual  cagion  la  conduca: 
E  col  timido  labbro  intanto  imprime 
Su  le  vermiglie  gote 
Di  fumo,  e  di  pudor  livide  note. 

E  il  Marino  finge  che  Amore  entri  nella  fucina 
del  padre  e  lo  preghi  a  costruirgli  una  freccia 
da  servire  ad  innamorar  la  madre;  e  dice: 

Nella  fuligginosa  atra  fucina, 
Dove  il  zoppo  Vulcan  suo  genitore 
De' Numi  eterno  i  vari  arnesi  affina 
Tinto  di  fumo  e  molle  di  sudore. 
Entra  per  fabbricar  tempra  divina 
D'un  aureo  strale,  imperioso  Amore  ; 
Strai,  ch'efficace  e  j^enetrante  e  forte 
Possa  un  petto  immortai  ferire  a  morte. 

Libero  l'uscio  al  cieco  Arciero  aperse 
La  gran  ferriera  del  divino  Artista, 
Parte  di  già  polite  opre  diverse. 
Parte  imperfette  ancor,  confusa  e  mista. 
Colà  fan  l'armi  lampeggianti  e  terse 
Del  celeste  Guerrier  superba  vista, 


—  312  — 

Qui  la  folgor  fiammeggia  alata  e  rossa 
Del  gran  fulminator  d'Olimpo  e  d'Ossa. 

Quand'egli  scorge  il  nudo  pargoletto 
La  forbice  e  il  marte!  lascia  e  sospende, 
E  curvo  e  chino  entro  il  lanoso  petto 
Con  un  riso  villan  da  terra  il  prende. 
Tra  le  ruvide  braccia  avvinto  e  stx-etto 
L' ispido  labbro  per  baciarlo  stende, 
E  la  sudicia  barba  ed  in  composta 
Al  molle  viso  e  delicato  accosta. 


PARTE  SECONDA 


315 


Capitolo  XII 

Il  seicentistiio  in  Europa  —  Una  polemica  letteraria  alla  fine  del  secolo 
XVIIl  —  Opinione  del  D'Ovidio  sul  seicentismo  —  Gongora  e  i  gon- 
goristi  —  Quevedo  e  i  culteranisti  —  La  'Plé'iade  e  i  poeti  crottés 
—  Lilly  e  gli  eufuisti  —  Hoffmannsvaldau  e  la  seuo'a  della  Slesia. 


Dopo  che  ci  siamo  provati  a  descrivere  e  rias- 
sumere tutti  i  grandi  difetti  di  questa  età, 
disgraziatamente  troppo  poco  studiata  e  perciò 
malamente  conosciuta,  e  dopo  aver  cercato  d'in- 
dagare quali  sieno  state  le  cause  che  hanno  pro- 
curato quel  pervertimento  d'ogni  gusto  estetico 
nell'arte  e  nelle  lettere,  vediamo  ora  quale  lette- 
ratura sia  la  più  direttamente  colpevole  in  questa 
curiosa  e  dannosa  trasformazione;  dove  cioè,  e 
quando,  ha  germinato  quel  cattivo  seme,  che  sotto 
tanti  punti  di  vista  ha  reso  sterili  le  fonti  crea- 
tive dell'arte  e  della  poesia. 

Ma  questo  è  affare  spinosissimo,  e  richiede  lunga 
e  seria  preparazione;  senza  la  quale  si  corre  pe- 
ricolo di  cadere  in  quelle  contraddizioni  in  cui 
facilmente  dà  di  cozzo  chi  non  adoperi  una  serena 
e  spassionata  critica  nella  trattazione  di  quest'im- 
portantissimo tema.  Si  conoscono  troppo  le  gravi 
discussioni  a  cui  dovette  sottostare,  sulla  fine  del 
secolo  scorso,  il  Tiraboschi,  quando,  per  giusti- 
ficare il  cattivo  gusto  letterario  che  surse  in  Italia 
durante  il  secolo  XVII,  dava  la  colpa  alla  lette- 


—  316  — 

ratura  spagnuola,  famigliarissima  e  molto  diffusa 
in  Italia  in  quel  tempo,  e  «  che,  affermava  l'e- 
rudito abate,  da  Marziale  in  poi,  per  condizioni 
climatologiclie  e  toj)Ografiche,  era  stata  sempre 
l'antesignana  in  quell'abuso  di  metafore  e  d'inter- 
posizioni, »  cli'è  appunto  uno  de'  distintivi  della 
letteratura  del  Seicento.  (1) 

Questa  stessa  teoria  era  stata  sostenuta  dal 
gesuita  Bettinelli  nel  suo  lavoro  «  Risorgimento 
degli  studi  in  Italia  dojjo  il  Mille,  »  riconoscendo 
la  Spagna,  e  più  particolarmente  il  teatro  spa- 
gnolo, causa  del  seicentismo  in  Italia,  quando 
questa  si  trovò  in  gran  parte  soggetta  a  quella 
dominazione. 

Sappiamo  che  per  dieci  anni  la  questione  durò 
accanita,  e  le  biblioteche  italiane  s'empirono  di 
volumi  che  trattano  quest'argomento.  Nel  1776 
si  pubblicarono  due  opere:  la  prima,  del  Padre 
Tommaso  Serrano,  stampata  a  Ferrara,  difese  i 
poeti  latini  spagnoli  dalle  accuse  formulate  dal 
Tiraboschi;  la  seconda,  del  padre  Giovanni  An- 
drés,  in  una  dissertazione  stampata  a  Cremona,  di- 
fese lo  stesso  tema,  confortandola  più  tardi  d'una 
grande  opera  sopra  la  storia  generale  d'ogni  let- 
teratura. (2)  In  questa  storia,  non  solo  mantiene 


(1)  G.  Tiraboschi,  Storia  della  Letteraiura  Italiana,  Modena,  1772-83, 
tomo  II,  paragrafo  XXVII. 

(2)  li.  Andrés,  Dell'origine,  progresso  e  stato  attuale  d'ogni  letteratura, 
Palermo,  1782-99;  nove  volumi  in  4"!  «  Baldanzoso  assunto,  sostenuto 
con  estese  ma  superficiali  cognizioni,  »  chiama  il  Cantìi  l'opera  del  Padre 
Andrés.  Cfr.  Cesare  Canti'i,  L'Abate  l'arini  e  la  Lombardia  nel  secolo 
passato,  Milano,  1854. 


I 


—  317  -- 
ferma  la  dignità  e  l'onore  della  letteratura  del 
suo  paese,  sotto  ogni  riguardo,  ma  rimonta  all'o- 
rigine di  quanto  v'è  di  migliore  nelle  letterature 
moderne,  sostenendo  che  tutto  ciò  si  deve  alla 
influenza  degli  Arabi  ;  influenza  che  dalla  Spagna 
si  propagò  in  Francia  e  in  Italia.  Come  si  scorge 
facilmente,  questo  lavoro,  che,  per  la  mole  im- 
mensa di  materiale  accumulato,  riesce  penoso,  è 
poi  esclusivamente  partigiano. 

Le  lettere  del  Serrano  ebbero  dapprima  risposta 
da  Clemente  Vannetti,  al  quale  il  Serrano  le  aveva 
dirette,  e  da  x4.1essandro  Zorzi,  amico  del  Tira- 
boschi.  Quanto  alla  lunga  dissertazione  del  Padre 
Andrés,  rispose  cortesemente  lo  stesso  Tiraboschi, 
in  alcune  note  alle  edizioni  posteriori  dalla  sua 
Storia  della  letteratura.  Ma  chi  si  segnalò  vera- 
mente in  questa  discussione  e  che  diede  una  reale 
importanza  alla  storia  letteraria  della  Spagna,  fu 
Francesco  Saverio  Lampillas,  gesuita  nato  in  Ca- 
talogna nel  1731.  Costui  pubblicò  nel  1778-81  sei 
volumi  in  ottavo,  intitolandoli.  Saggio  storico-apo- 
logetico della  letteratura  spagnola.,  (1)  lavoro  ch'egli 
fece  per  contrapporlo  alle  accuse  del  Bettinelli  e 
del  Tiraboschi.  L'autore  discute  la  connessione 
che  esiste  tra  i  poeti  spagnoli  latini  e  i  poeti 
romani  all'epoca  che  segui  la  morte  di  Augusto: 
esamina  la  questione  del  clima  della  Spagna,  sol- 
levata dal  Tiraboschi;  reclama  la  priorità  della 
coltura  spagnola  sull'italiana,    tanto    per  l'esteu- 

(1)  Saggio  Storico-apologetico  dellit  letteratura  spagnola,  Genova, 
1778-81,  Voi.  VI. 


—  318  — 
sione  come  per  l'importanza  della  sua  civiltà  ; 
sostiene  che  la  Spagna  non  deve  all'Italia  il  ri- 
nascimento delle  lettere  sulla  fine  del  medio-evo, 
nò  la  conoscenza  dell'arte  di  navigazione,  che 
aperse  a  lei  le  porte  del  nuovo  mondo.  D'altra 
parte  afferma  che  l'Italia  deve  alla  Spagna  gran 
parte  della  riforma  negli  studi  teologici  e  giuri- 
dici, principalmente  nel  secolo  XVI  ;  ma  l'opera 
non  ha  alcun  fondamento  solido  ed  il  tuono  ge- 
nerale è  piuttosto  declamatorio,  che  moderato  e 
filosofico. 

Ne  i  poeti  spagnoli  restarono,  in  quest'opera 
di  difesa,  indietro  agli  altri  scrittori:  Juan  Pablo 
Forner,  per  citarne  uno,  in  una  sua  epistola, 
diceva  : 

AUì  toman  su  origen  los  reveses, 
Quel  al  salvaje  espanol  tiian  y  vuelven 
Abates  italianos  muy  corteses. 

Cortan,  hienden,  deciden  y  resuelvea 
Como  pudiera  A  polo,  y  con  tal  juicio 
Que  siempre  non  condenan,  nunca  absuelvea 

La  invencion,  la  pnidencia,  el  artificio 
No  son  dones  del  suelo  de  Trajano  ; 
Los  Sénecas  ya  dieron  de  elio  indicio. 

Espatìol  fué  el  Marini,  no  italiano, 
Y  el  buen  Manuel  Tesauro  es  punto   fijo 
Que  nació  tajo  el  cielo  castellano. 

i  Italia  producir  un  tan  vii  hijo, 
Que  en  todo  sutilice  vanamente, 
En  reinterar  sofismas  muy  prolijo  ! 

i  Calumnia  abominable  é  impudente, 


—  319  — 

Cuando  à  su  clima  de  la  astrologia 
El  influijo  del  signo  mas  prudente! 

Acà  sólo  domina  gueira  impia, 
Impresion  del  saTludo  Sagitario^ 
Silvestre  signo  de  estacion  sombria. 

Ma  all'opera  difensiva  del  Lampillas  risposero 
tanto  il  Bettinelli  che  il  Tiraboschi,  ai  quali  re- 
plicò il  gesuita  catalano;  e  la  questione  man  mano 
si  spense  e  non  se  ne  parlò  più. 

Né  il  Ticknor  nella  sua  History  of  spanish  lite- 
rature  toccò  da  vicino  l'argomento,  limitandosi 
a  dire  che  tanto  in  Spagna  che  in  Italia,  prin- 
cipalmente all'epoca  del  Gongora  e  del  Marino, 
regnò  un  cattivo  gusto,  il  quale  s'aumentò  in 
seguito  alle  relazioni  ed  alle  simpatie  esistenti 
tra  le  due  letterature;  ma  che  non  si  può  rendere 
alcuna  delle  due  responsabili,  ne  della  sua  ori- 
gine,   ne    della  sua  propagazione. 

Il  prof.  D'OYidio  j)OÌ,  nel  1882,  cercò  di  rimuo- 
vere nuovamente  la  grande  questione  del  dove  e 
del  quando  nacque  questo  cattivo  gusto,  che  venne 
chiamato  seicentismo,  nelle  letterature  europee 
e  saggiamente  consigliava  «  di  leggere  gli  autori 
italiani  e  gli  spagnoli  (e  anche  i  portoghesi,  i 
francesi,  gl'inglesi)  dalla  metà  del  Seicento;  veri- 
ficare quale  nazione  abbia  preceduto  le  altre  nel 
seicentismo;  vedere  se  certi  singoli  concetti  od 
antitesi  siano  emigrati  da  una  letteratura  ad  una 
altra;  e  via  dicendo.  (1)  »  Credeva  poi  la  Spagna 

(1)  F,  D'Ovidio,  Seicentismo  spagnolismo  ?,  Nuova  Antologia,  15  ottobre 
1882^ 


—  320  — 

l'introduttrice  di  questo  pervertimento  nella  let- 
teratura italiana,  propagandosi  cosi  nelle  altre 
letterature  straniere  contemporanee,  e  quella  ma- 
niera di  foggiar  le  frasi  ce  lo  attaccarono,  du- 
rante il  grande  periodo  di  dominazione  spagnola, 
«  con  la  conversazione  e  con  la  letteratura;  a 
voce  e  in  iscritto.  » 

Noi  però  siamo  molto  restii  nell'accettare  questa 
ipotesi  dell'illustre  professore;  perchè  com'è  mai 
possibile  che  la  letteratura  spagnola,  la  quale  subì 
nel  Cinquecento,  epoca  di  G-arcilaso  de  la  Vega  e  di 
Boscan,  i  maggiori  lirici  della  Spagna,  l' influenza 
della  letteratura  italiana,  proprio  all'epoca  della 
sua  discesa,  come  importanza  letteraria,  possa  det- 
tar norme  e  far  adottare  forme  e  concetti  a  quella 
stessa  letteratura  su  cui  ebbe  prima  a  foggiarsi?  (1) 
Né  le  prove  mancano  di  questa  imitazione.  Lo 
stabilimento  di  una  monarchia  catalana  in  Italia 
alla  fine  del  secolo  XIII  aveva  già  messo  in  con- 
tatto le  due  civiltà  ;  fin  dalla  metà  del  secolo 
XV,  e  soprattutto  dalla  conquista  del  reame  di 
NajDoli  per  opera  di  Alfonso  V  d'Aragona,  si 
vede  sviluppare  una  scuola  letteraria  in  Catalo- 
gna, che  s' inspira  alle  idee,  imita  lo  stile,  copia 
alcune  particolarità  della  versificazione  di  Dante 
e  del  Petrarca,  e  porta  sino  in  Castiglia  i  primi 
germi  di  quel  modo  italiano  che  fiorirà  ben  pre- 
sto ne'  sonetti  del  marchese  di  Santillana.  E  se 
tra  i  due  popoli,  che  non  si  rattaccano  natural- 

(1)  Cfr.  Torraca,  Gl'imitatori  stranitri  del  Sannazaro,  Roma,  Loe- 
scher,  1882. 


—  321  — 

mente  clie  per  vincolo  di  parentela  e  per  comu- 
nità di  religione,  bisognava  un  seguito  di  rap- 
porti più  diretti  e  numerosi  delle  relazioni  gior- 
naliere ed  intime,  per  far  accettare  ed  imitare 
dall'uno  dei  due  i  modelli  letterari  dell'altro, 
una  folla  di  circostanze  contribuirono  a  questo 
ravvicinamento  sin  dallo  scorcio  del  secolo  XVI. 
La  creazione  d'una  vera  monarchia  spagnola 
eli' ebbe  subito  piede  in  Italia  per  l'unione  della 
Castiglia  e  degli  stati  della  corona  aragonese, 
l'elevazione  al  pontificato  di  due  papi  spagnoli  (i 
Borgia),  il  lungo  soggiorno  in  Italia  de'soldati 
di  Ferdinando;  più  tardi  l'elezione  all'impero  del 
re  di  Spagna,  avvenimento  capitale  che  assicu- 
rava alla  monarchia  spagnola  un'influenza  e  un 
prestigio,  che  non  avrebbe  mai  ottenuto  in  caso 
contrario  ;  infine  le  numerose  intraprese  politiche 
e  militari,  che  qualificano  il  regno  di  Carlo  V, 
molte  delle  quali  terminarono  a  favore  o  a  danno 
de' principi  italiani  ed  ebbero  per  teatro  i  loro 
stati:  ecco  un  insieme  grandissimo  di  fatti  sto- 
rici, capaci  di  stabilire  materialmente  la  supre- 
mazia della  Spagna  e  d'unire  per  lungo  tempo 
i  destini  dei  due  popoli.  Ciò  che  l'Italia  avea 
da  imporre  al  vincitore,  per  rifarsi  in  qualche 
maniera  della  perdita  della  sua  individualità  po- 
litica, ha  appena  bisogno  di  essere  accennato.  (1) 


(1)  Riporteremo  il  lettore  a  quelle  eplendidi  pagini  di  storia  lettera- 
ria scritte  dal  Carducci,  nelle  quali  non  si  sa  se  primeggi  l'acume  cri- 
tico meraviglioso,  o  l'amore  ardente  per  la  patria.  Cfr.  G.  Carducci,  Studi 
letterari,  Livorno,  Vigo,  1880,  pag.  129-135. 

21 


—  322  — 

Il  paese  clie  ha  conservato  buona  parte  dei  te- 
sori dell'arte  antica  e  delle  letterature  classiche; 
il  paese  che  in  pieno  medio  evo  produceva  de'poeti 
come  Dante  e  il  Petrarca  ;  che  più  tardi  resu- 
scitava il  mondo  antico  nelle  sue  più  belle  ma- 
nifestazioni, e  creava  una  letteratura  ed  un'arte 
meravigliose:  questo  paese,  poteva  subire  l' in- 
fluenza di  una  letteratura  per  se  stessa  inferiore 
a  quella  italiana,  ed  in  alcune  forme,  nella  me- 
trica ed  anche  nella  versificazione,  già  alquanto 
italiana?  Questo  paese  invece  obbligava  ogni 
nazione,  che  si  metteva  a  contatto  con  esso,  a 
contrarre  l' imitazione  di  quanto  produceva  ;  anche 
quando  la  Spagna  all'epoca  di  Carlo  V  si  fosse 
trovata  in  preda  ad  una  di  quelle  atrofìe  intel- 
lettuali e  morali  delle  quali  la  storia  de'  popoli 
offre  degli  esempi,  1'  influenza  della  coltura  ita- 
liana non  avrebbe  mancato  di  manifestarsi  con 
diverse  imitazioni  nel  dominio  delle  arti,  delle 
scienze  e  delle  lettere.  (1) 

E  noi  non  toccheremo  le  prove  evidentissime 
di  imitazione  italiana  ne'secoli  anteriori,  ed  ac- 
cenneremo all'  imitazione,  della  quale  è  piena  la 
letteratura  spagnola  durante  il  periodo  del  Sei- 
cento. Senza  dire  delle  parole  di  Boscan,  dette 
al  Navagero  in  Granata,  quando  questi,  nel  1526, 
era  ambasciatore  veneziano  alla  corte  di  Carlo  V, 
basta  il  solo  esem23Ìo    di  Garcilaso    de  la  Vega, 


(1)  A.    Morel-ratio.    L' Espagne    au    XVI  et    ai<    XVII  sitcìe,    Heil- 
bromi,   1878. 


—  323  — 

che  imita  sensibilmente  i  poeti  italiani;  (1)  e 
l' innovazione  di  Boscan,  e  di  Garcilaso  furono 
una  rivelazione  agli  spagnoli,  i  quali  si  diedero 
con  amore  a  studiare  la  lingua  italiana,  per  gu- 
stare i  suoi  capolavori  ;  (2)  ed  Hernando  de  Acuna, 
Gutierre  de  Cetina,  Liiis    de  Haro   seguirono    il 

(1)  Cfr.  il  lavoro  del  Torraca,  più  volte  citato,  sugli  Imitatori  stra- 
nieri del  Sannazaro,  Roma,  Loescber,  1882. 

(2)  Di  Gutierre  de  Cetina,  Herrera  eì  Djoi'ho  nelle  Anotaciones  à  las  obras 
de  Garcil'isn  de  la  Vega,  dice:  n  Guanto  a  los  sonetos  particularmente,  se 
conoce  la  hermosura  y  gracia  de  Italia;  y  en  nùmero,  lengua,  terneza,  y 
afectos  ninguno  le  negarà  lugar  con  los  primeros;  mas  fàltale  el  espirila 
y  vigor,  que  taa  importante  es  en  la  poesia;  y  asi,  dice  ujuchas  cosas 
dulcemente  pero  sin  fuerzas.  Y  paréceme  que  se  ve  eu  él  y  en  otros  lo 
Hae  en  los  pintores  y  maestros  de  labrar  piedra  y  metal,  que  afeotando 
1 1  blandura  y  policia  de  un  cuerpo  hermoso  de  un  mancebo,  se  conten- 
tan  con  la  dolzura  y  terneza,  no  mostrando  alguna  seSal  de  nervios  y 
niiiscolos,  come  si  no  fuese  tanto  mas  di  ferente  y  apartada  la  belleza  de 
la  mujer  de  la  herjiosura  y  generosidad  del  hombre,  que  cuanto  dista  el 
rio  Ipanis  del  Eridano.  »  K  di  questo  poeta  citeremo  un  sonetto  al  monte 
donde  fué  Cartago,  nel  quale  egli  traduce  letteralmente  un  sonetto  celebre 
del  Castiglione  : 

Excelso  monte,  do  el  romano  estrago 
Eterna  mostrarà  vuestra  memoria; 
Soberbios  edificios,  do  la  gloria 
Aun  resplandece  de  la  gran  Cartago  ; 

Desierta  playa,  que  apacible  lago 
Fuiste  Ileno  de  triunfos  y  vitoria  ; 
Despedazados  màrmoles,  historia 
En  que  se  lee  cuài  es  del  mundo  el  pago  ; 

Arcos,  anfiteatros,  baìios,  tempio, 
Que  fuisteis  edificios  celebrados, 
Y  agora  apenas  vemos  las  seuales  ; 

Gran  remedio  à  mi  mal  es  vuestro  ejemplo, 
Que  si  del  tiempio  fulstes  derribados, 
El  tiempo  derribar  podrà  mia  males. 

E  l'autor  del  Cortegiano  : 

Superbi  colli,  e  voi  sacre  ruine, 
Che'l  nome  sol  di  Roma  ancor  tenete, 
Ahi  che  reliquie  miserande  avete 
Di  tante  aaime  eccelse  e  pellegrine  ! 


—  324  — 
cammino  percorso  da  Garcilaso;  da  questo  mo- 
mento, nella  letteratura  spagnola,  non  solamente 
si  potranno  scorgere  le  forme,  ma  il  genio  stesso 
della  letteratura  italiana,  in  modo  che  a  noi  non 
sarà  permesso  di  mettere  in  dubbio  l'immenso 
trionfo  e  l'influenza  definitiva  della  letteratura 
italiana  sulla  spagnola.  Alla  fine  del  secolo  XVI 
questa  influenza,  cbe  dal  regno  di  Giovanni  II 
riempi  tutti  i  Cancioneros  è  ancora  evidente. 
E  se  Ribeiro,  Costana,  Heredia,  Garcilaso  San- 
cliez  de  Badajoz  e  i  loro  contemporanei,  i  quali 
tentano  di  opporsi  a  questa  corrente  straniera, 
continuano  ad  esser  letti,  il  cambiamento  de- 
stinato a  distruggere  la  scuola  alla  quale  que- 
sti poeti  appartengono,  s'avanzava  rapidamente. 
Nel  1578  Hieronimo  de  Lomas  Canterai  pubblica 
un  volume  di  poesie  e  nella  prefazione  non  esita 
ad  affermare  die  la  Spagna  ha  prodotto  appena 
un  poeta  degno  di  questo  nome,  ad  eccezione  di 
Garcilaso,  foggiato  su'  poeti  italiani.  Un  altro 
lirico  di  questa  stessa  epoca  e  che,  con  mi- 
gliori risultati,  jDrese  la  medesima  direzione,  è 
Trancisco  de  Figueroa,  gentiluomo  e  soldato  che 


Colossi,  archi,  teatri,  opre  divine, 
Trionfai  pompe,  gloriose  e  liete. 
In  poca  cener  pur  converte  siete, 
E  fatta  al  vulgo  vii  favole  al  fine. 

Cosi  se  in  alcun  tempo  al  tompo  guerra 
Fanno  l'opre  famose,  a  passo  lento 
Il  nome  e  l'opre  loro  il  tempo  atterra. 

Vivrò  dunque  fra' miei  martir  contento; 
Che  se  '1  tempo  dà  fine  a  ciò  eh'  è  in  terra, 
Darà  forse  ancor  fine  al  mio  tormento. 


—  325  — 

visse  lungamente  in  Italia,  consacrandosi  arden- 
temente allo  studio  della  lingua  italiana,  tanto 
da  scrivere  versi  in  italiano  non  inferiori  a'  suoi 
versi  spagnoli.  A  questi  due  poeti  bisogna  anche 
aggiungere  Vicente  Espinel  che  inventò  le  de- 
cimasi espanolas  o  ne  rinnovò  l'uso.  In  un  volume 
di  poesie,  che  vide  la  luce  nel  1591,  dà  alle 
forme  poetiche  italiane  la  preferenza  delle  forme 
castigliane.  (1)  Né  i  due  più  grandi  poeti  lirici  spa- 
gnoli di  questo  tempo,  Luis  de  Leon  e  Fernando 
De  Herrera,  sono  immuni  da  quest'imitazione 
italiana,  e  Quevedo  già  scorge  finamente  in  que- 
st'ultimo i  germi  di  quel  cattivo  gusto  letterario 
che  poi  prese  il  nome  da  Don  Luis  de  Grongora 
y  Argote,  e  chiamossi  perciò  gongorismo. 

Così  le  due  letterature  camminavano  di  pari 
passo,  con  differenza  però  che  l' italiana  era  presa 
a  modello  dalla  spagnola;  lo  provò  Cristobal  de 
Mesa,  il  quale  apparteneva  alla  scuola  puramente 
castigliana,  e  che,  venuto  in  Italia,  cambiò  stile, 
e,  secondo  come  egli  racconta,  da  quest'epoca 
segui,  nel  senso  più  assoluto  e  più  stretto,  la  scuola 
di  Boscan  e  di  Garcilaso  ;  ed  arrivati  a  questo 
periodo,  nella  letteratura  spagnola  si  hanno  due 
correnti:  l'una,  debolissima,  che  ancora  segue  la 
scuola  castigliana  ;  l'altra,  che  ha  già  fatto  molto 
cammino  e  che  è  numerosissima,  seguita  ad  imi- 
tare i  poeti  italiani.  Qui  comincia  per  la  Spagna 
l'epoca  di  Gongora  e  di  Ledesma;  quella  delle 
grandi  stranezze  ;  delle  metafore  ardite  e  strava- 

(1)  Cfr.  G.  Ticknor,  Op.  clt.,  voi.  II,  pag.  340. 


—  326  — 
ganti;  dell'introduzione  di  parole  latine  ed  ita- 
liane nel  linguaggio  spagnolo.  Tutti  gli  scrittori 
elle  tentano  fare  argine  a  questo  grave  danno 
sono  anch'essi  trascinati  dalla  corrente.  I  due 
fratelli  Argensolas,  Lupercio  e  Bartolomé  Leo- 
nardo, Juan  de  Jauregui,  Esteban  Manuel  de 
Yillegas,  ed  in  seguito  Quevedo,  che  anzi  divenne 
capo  della  setta  chiamata  dei  conceptos,  e  Lop& 
de  Vega,  tutti  furono  affetti  da  questa  manìa. 

Il  fecondo  commediografo  spagnolo  poi,  fu 
quello  che  più  attaccò  Grongora;  alcuni  sonetti 
sono  veramente  pungentissimi  : 

A    BARTOLOMÉ    LEONARDO 

La  uueva  juveutud  gramaticanda, 
Llena  de  solecismos  y  quillotros, 
Que  del  Parnaso  mal  impuestos  potros 
Dice  que  Apolo  en  sas  borrones  anda, 

Por  escribir  corno  la  patria  manda, 
Elementos  los  unos  de  los  otros, 
De  la  suerte  se  burlan  de  nosotros, 
Que  suelen  de  un  católico  en  Holanda. 

Vos,  que  los  escribis  limpios  y  tersos 
En  vuestra  docta  y  càndida  poesia, 
De  toda  peregrina  voz  diversos, 

Decid,  si  lo  sabeis,  i  qué  valentia 
Puede  tenere,  leyendo  ajenos  versos, 
Copiar  de  noclie  y  murmurar  de  dia? 

In  un  altro,  eloquentissimo  e  molto  conosciuto, 
evoca  le  grandi  figure  di  Garcilaso  de  la  Vega 
e  di  Boscan. 


—  327  — 

A  LA  NUEVA  LENGUA 

Boscan,  tarde  llegamos.  (.  Hay  posarla? 

—  Llamad  desde  la  posta^  Garcilaso. 

—  l  Quién  es?  —  Dos  caballeros  del  Parnaso. 

—  No  hay  donde  nocturnar  palestra  armada. 

—  No  entiendo  lo  que  dice  la  criada. 
Madona,  l  qué  decis?  —  Que  afecten  paso, 
Que  ostenta  limbos  el  mentido  ocaso, 

Y  el  sol  depinge  la  porcion  rosada, 

—  6  Està?  en  ti,  mujer?  —  Negóse  al  tino 
El  ambulante  liuósped.  —  é  Que  en  tan  poco 
Tiempo  tal  lengua  entre  cristianos  haya? 

Boscan,  perdido  liabemos  el  camino; 
Preguntad  por  Castilla,  que  estoy  loco, 
0  no  liabemos  salido  de  Vizcaya. 

Ma  il  fatto  è  questo  :  il  fenomeno,  nelle  mede- 
sime condizioni  clie  si  produsse  in  Italia,  avvenne 
anche  in  Ispagna,  dove  un  poeta  lirico,  il  Gon- 
gora,  fu  accusato  d' esseme  stato  l' introduttore 
nella  letteratura  della  sua  patria.  (1)  Parlando  di 
lui  e  dei  difetti  della  sua  età,  Quintana  dice: 
«  Come  un  uomo,  che  possedeva  tanta  forza  e 
tanta  abbondanza    di    ingegno   poetico,  potè    in 

(l)  L'origine  del  cuìteraiiismo,  di  cui  generalmente  si  accusa  Don  Luis  de 
Gongora  y  Argote,  ha  servito  di  base  a  moltissimi  critici  spagnoli  per  impan- 
tanarsi ia  supposizioni  più  o  meno  destituite  di  fondamento  e  tutte  lontane 
dalla  verità.  Mayans,  ad  esempio,  ingannato  dagli  elogi  che  fa  di  se  stesso 
fra  Hortensio  Felix  Paravicino,  autore  di  un  «  Panegirico  fiineral  de 
dona  ifarifdrl'a  de  Aiis'fia  »  crede  che  l' inventore  dello  stile  culto  sia 
questo  predicatore  spagnolo.  Luzan  ne  attribuisce  l' invenzione  a  Gor- 
gora,  oppure  a  Virgilio  Malvezzi.  Altri  l'attribuiscono  a  Don  Diego  de 
Saavedra  Faiardo;  Don  José  de  Vargas  Ponce  a  Juan  de  Jauregui  tra- 
duttore della  Farsaglia  di  Lucano,  e  per  ultimo  Don  Francisco  Martinez 
Mariana  designa  Mariana  e  Cervantes  co:ne  1  veri  autori  del  cullerà- 
n  ismo. 


—  328  — 
seguito  darsi  ai  deliri  deplorevoli  clie  poi  lo  per- 
dettero? Credendo  che  il  linguaggio  poetico  si 
snervasse,  e  reputando  la  naturalezza  per  povertà, 
la  purità  per  suggezione  e  la  facilità  per  ab- 
bandono, aspirò  ad  estendere  i  limiti  della  lingua 
e  della  poesia  e  si  diede  ad  inventare  un  nuovo 
modo  di  poetare  che  rialzasse  le  sorti  dell'  arte, 
la  quale,  secondo  lui,  era  molto  in  basso.  Questo 
modo  di  poetare  si  ha  da  distinguere  per  la  no- 
vità delle  parole,  della  loro  applicazione  per  la 
stranezza  e  per  lo  spostamento  della  frase  e  per 
abbondanza  d'immagini.  » 

Nella  Spagna  poi  il  male  assunse  un  aspetto 
più  pernicioso,  perchè  le  scuole  furono  due,  una 
detta  de'  conceptistos^  V  altra  del  culteranismo: 
della  prima  fu  capo  il  Ledesma,  al  quale  successe 
subito  Quevedo  :  dell'altra  don  Luis  de  Gongora, 
sebbene  v'ha  chi  dice  anche  che  il  primo  col- 
pevole sia  stato  don  Luis  Carrillo  y  Sotomayor, 
originario  di  Cordova,  come  Grongora,  e  le  cui 
opere  si  stamparono  a  Madrid  nel  1611,  mentre 
che  le  Soledades  del  Gongora  videro  la  luce  nel 
1613,  e  tutte  le  liriche  di  costui  nel  1627. 

Dunque  la  letteratura  spagnola,  perdendo  le 
sue  forme  originali  ed  imitando  la  lingua  e  la 
letteratura  italiana,  viene  a  rendersi  tributaria  a 
questa  fino  a  tutto  il  secolo  XVI.  Ora,  com'è 
mai  possibile  che  questa  stessa  letteratura  possa 
imporsi  a  quella  del  paese  ch'essa  va  a  dominare 
solamente  per  questo  fatto  materiale,  e  quando 
gli  scrittori  e  gii    artisti    spagnoli    vengono   nel 


—  £29  — 
paese  ch'è  stata  la  culla  dell'arte,  a  copiarvi  i 
capolavori,  mentre  traducono  le  migliori  liriche 
del  Tansillo,  del  Tasso,  del  Guarini  e  di  tanti 
altri?  (1)  Com'è  mai  possibile  che  una  lettera- 
tura, molto  più  importante  per  produzione  e  per 
storia,  di  quella  spagnola,  può  ricevere  l'imposi- 
zione di  questa,  che  fino  all'epoca  di  Carlo  V 
era  rimasta,  se  non  estranea,  almeno  indifferente, 
al  grande  risveglio  poetico  procurato  dal  Rina- 
scimento? (2) 

(1)  Juan  de  Jauregui  tradusse  VAminta;  Figueroa  il  Pastor  Fido; 
erano  a  Napoli,  col  viceré  conte  di  Leraos,  i  due  fratelli  Argensolas,  Don 
Antonio  Mirademescua,  Miqael  Moreno,  Quevedo,  Don  Francisco  de  Trillo 
y  Figueroa;  don  luan  de  lauregni,  discepolo  di  Herrera,  stava  in  Roma, 
dove  si  esercitava  nella  pittura,  copiando  le  migliori  opere  di  Raffaello, 
di  Michelangelo  e  di  Guido  Reni.  La  traduzione  deWAminta  egli  la  fece 
por  necessità,  la  quai  cosa  fu  per  lui,  «  para  mi  concideracion,  mas  de- 
lito  que  pasar  caballos  à  Francia.  »  Usci  nell'anno  1617.  Lo  stesso  Don  Luis 
de  Gongora,  in  una  Comedia  Venatoria  che  il  poeta  stesso  non  potè  ter- 
minare, perchè  la  morte  non  glielo  permise,  imita  o  meglio  traduce  VA- 
minta del  Tasso.  «  Los  que  hablan  en  la  comedia  »  sono:  Cupido,  Silvio, 
Florescio,  Camila  e  Cintia;  e  nel  prologo  Cupido  dice: 

Aunque  en  humildes  panos  escondido, 
y  disfragado  en  habito  villano, 
si  el  mismo  que  desnudo  soy  vestido. 

Aquel  Dios  soy  del  Coro  soberauo, 
cuya  dorada  flecha,  y  Ilama  ardieute, 
ha  quitado  mil  verzes  de  la  mano 

El  duro  rayo  al  Dios  Onnipotente, 
al  fiero  Marte  la  sangrieuta  espada, 
y  al  gran  Neptuno  el  umido  Tridente. 

Y  he  hecho  con  un  diesta  no  domada 
en  medio  el  fuyo  couocer  mi  fuego, 
al  negro  Dios  de  la  infernal  morada. 
Imitando  il  prologo  àeW  Aminta,  dove  Amore,  in  abito  pastorale,  dice: 
Chi  crederla,  che  sotto  umane  forme 
E  sotto  queste  pastorali  spoglie 
Fosse  nascosto  un  Dio?  ecc., 
(2)  Ecco  quanto  dice  Lope  de  Vega,  nel  Laurei  de  Apolo,  sul  gongori- 
gmo  e  sulle  sue  cause  : 


—  B30  — 
Noi  invece  siamo  inclinati  a  credere,  che  nelle 
relazioni  letterarie  clie  l'Italia  ebbe  con  la  Spa- 
gna, questa,  nel  genere  letterario,  ebbe  molto  da 
perdere  nel  sentimento  letterario  nazionale.  In 
Italia  nessuna  nobile  ptrotesta,  ad  eccezione  dello 
Stigliani  e  del  Testi,  s'innalzò  contro  questa  cor- 
rente clie  maltrattava  le  serene  concezioni  dell'arte, 
e  sviava  il  pensiero,  dando  troppo  facile  padro- 
nanza ad  una  fantasia  capricciosa  e  piena  di  false 
tendenze;  mentre  che  in  Ispagna  molti  e  valenti 
scrittori  vollero,  sebbene  inutilmente,  combattere 
queste  tendenze;  animati  in  ciò  dal  sentimento  na- 
zionale nella  letteratura,  che  si  trovava  sbalestrato 
nel  suo  cammino,  ed  obbligato  a  prendere  una 
piega,  che  non  solo   non  era  nazionale,  ma  falsa. 

Aqui  las  redondillas,  admiradad 
De  Italia,  nuestra  lengua,  ennoblccieron, 
Que,  corno  castellana,  no  sufrieron 
Ser  de  frasi  extranjeras  adnlteradas; 
Estas,  comò  doncellas  recatadas, 
Huyen  CuUerauismos 

Y  acabar  por   contrarios 
Si  bien  terminos  varios 
Como  vemos  che  suena 

Bien,  mal,  amor,  olvido,  gloria  y  pena. 

E  don  Agostino  de  Salazar  y  Torres,  nelle  sue  Siìras,  parlando  di 
Lope  de  Vega  e  della  sua  Arcadia,  fatta  ad  imitazione  di  quella  del  San- 
nazaro, dice: 

;  Que  sea  tan  desdichado,  que  no  tope 
Los  pastores  de  Lope 
En  su  Arcadia  fìngida! 
Bien  sé  lo  que  describe  Sannazaro, 
Porque  era  en  ellos  el  ingenìo  raro: 
Pues  decian  concetos, 
Compouifcudo  soiietos, 

Y  haciendo  lirab,  ritmas  y  canciones, 
Mucbisimo  raejor  que  requesones. 


—  331  — 

Né  in  Francia  la  letteratura  era  stata  privata 
di  questo  fenomeno  letterario. 

La  celebre  Plèiade  francese,  capitanata  dal  Ron- 
sard,  il  gentile  cavaliere  vendanimese,  e  composta 
dei  poeti  Remi  Belleau^  Gioacchino  Du  Bellay, 
Lazzaro  de  Baif,  Lancelot  Des  Carles,  Dorat  e 
tanti  altri,  fu,  sotto  certe  forme,  invasata  anche 
essa  da  quello  spirito  di  novità,  del  quale  s'era 
impossessato  tutto  il  mondo  letterario.  Ronsard 
creava  parole  nuove,  ringiovanendo  le  antiche, 
mentre  che  Gioacchino  Du  Bellay,  nella  sua  M- 
lustration  de  la  langue  franqaise^  esortava  gli  scrit- 
tori francesi  allo  studio  dell'antichità,  consiglian- 
doli a  foggiarsi  sui  modelli  greci,  latini  ed  ita- 
liani .  E  sebbene  già  in  Clement  Marot  e  in 
Mellin  de  Saint-Gelais  si  trovano  i  germi  della 
imitazione  italiana,  nei  poeti  della  Pleiade  l'imi- 
tazione italiana  si  rende  più  manifesta.  Questa 
Plèiade  ha  tuti  i  vizi  di  una  scuola  giovane  e 
troppo  esaltata,  la  quale,  nella  foga  dell'entusia- 
smo, si  slancia  a  voli  di  fantasia  che  fanno  troj)po 
contrasto  con  la  naturalezza  della  verità.  Ronsard 
avea  in  animo  di  dare  alla  lingua  francese  l'espres- 
sione ed  il  pensiero  che  ammirava  negli  antichi. 
Ed  anche  l'Italia  avea  luogo  comune  con  l'anti- 
chità negli  onori  della  imitazione.  «  Source-moi, 
diceva  il  teorico  della  nuova  scuola,  Gioacchino 
Du  Bellay,  ces  beaux  sonnets,  non  moins  docte 
que  plaisante  invention  italienne,  pour  lesquels 
tu  as  Pétrarque  et  quelques  modernes  italiens.  » 
E  cosi  s'introdussero  in  Francia  tutte    le    forme 


—  332  — 
della  poesia  antica,  specialmente  l'ode  e  l'epopea. 
Konsard  pindareggiava  mentre  clie  Du  Bellay, 
Bellau,  Baif  ed  altri  petrarcheggiavano.  E  tale 
era  l'entusiasmo  col  quale  fu  festeggiata  la  nuova 
scuola,  clie  Montaigne  dichiara,  senzar  esitare,  esser 
giunta  la  poesia  francese  al  più  alto  grado  di 
perfezione,  e  Ronsard  uguale  agli  anticiii.  Perfino 
Torquato  Tasso,  andato  a  Parigi  nel  1571,  lodava 
l'oramai  vecchio  poeta  vendamnese,  e  si  stimava 
felice  di  leggergli  alcuni  canti  della  sua  Geru- 
salemme. 

A  questa  scuola  appartengono  anche  Bertaut 
Desportes,  il  nipote  di  costui  Mathurin  Regnier, 
d'Aubigné  ed  infine  Du  Bartas.  L'imitazione  di 
costoro  per  la  letteratura  italiana  è  sempre  più 
manifesta.  Bertaut  e  specialmente  Desportes  (1)  si 
ravvicinano  specialmente  al  Petrarca  ed  ai  petrar- 
chisti del  Cinquecento  ;  Mathurin  E-egnier,  il  ce- 
lebre  satirico,    imita    specialmente  il  Berni;  Du 

(1)  lu  quest'epoca  Enrico  Estienne  pubblicava  un  libello  intitolato 
«  Dìt  ìatìyage  fran^ais-italUinizé  »  nel  quale  Introduce  tre  personaggi  : 
FilausoDio  che  parla  il  francese  italianizzato,  Celtofilo  che  parla  il  fran- 
cese puro,  e  Filatete  giuilice  nella  contesa  che  fanno  i  due  primi  per  sta- 
bilire quale  sia  il  linguaggio  da  adottarsi  nella  corte  ;  com'è  naturale  il 
grammatico  francese  dà  ragione  al  secondo.  Nel  l(j04  poi,  quando  Desportes 
era  ormai  vecchio  ed  inoperoso,  fu  pubblicato  un  opuscolo  «  Les  Kencontres 
<les  Mtises  de  Fi-<ince  et  d'Italie,  n  nel  quale  erano  messi  a  confronto  qua- 
ranta're  sonetti  italiani  con  altrettanti  del  fortunatissimo  poeta  francese. 
Desportes  finse  di  non  commuoversi  e,  dice  Tallement  des  Kéaux,  «  qu'il 
avoit  pris  aux  Italiens  plus  qu'on  ne  disoit  et  que,  si  l'auttur  l'avoit  con- 
sulte, il  lui  auroit  fournl  de  raémoire,  »  Del  resto  i  furti  fatti  da  Desportes 
sono  molto  al  di  sopra  di  questi  sonetti.  Enrico  Estienne,  mila  Pt-éeeìlenee 
<lu  langage  fmii^ois,  menziona  tre  di  queste  interpretazioni  che  il  critico  ha 
dimenticate.  Pasquier  ne  cita  delle  altre,  e,  si  se  volesse  cercare,  seguendo 
passo  passo  il  voluttuoso  poeta,  si  troverebbe  la  traccia  de'  suoi  passi  in 
una  quantità  immensa  di  sonetti  italiani,  che  clandestinamente  depredava. 


—  333  — 
Bartas  invece  è  della  scuola  italiana  cke  già  co- 
mincia ad  adottare  nella  poesia  le  stranezze  del 
Seicento. 

Guglielmo  de  Saluste  Du  Bartas,  di  nobile  fa- 
miglia, figlio  d'un  tesoriere  di  Francia,  nacque 
nel  i5il  nel  cuore  della  Guascogna. 

Il  suo  poema  la  «  Semaine»  o  la  «  Création 
du  Monde  »  che  rese  celebre  il  Du  Bartas,  ap- 
parve nel  1578  o  nel  1579.  In  piena  reazione 
cattolica  questa  poema  servi  come  di  proclama 
per  la  setta  calvinista,  e  ne  furono  fatte  trenta  edi- 
zioni in  dieci  anni  appena.  (1)  Non  si  può  negare 
che  questo  poema  giustificasse  quel  primo  entu- 
siasmo, per  una  cert'aria  di  grandezza,  per  delle 
tirate  eloquenti,  e  per  la  novità  del  genere.  «  La 
poesie  devote  du  moyen  àge  était  dès  longtemps 
oubliée,  dice  il  Sainte  Beuve  ;  la  B,enaissance 
avait  tout  envahi;  les  seuls  protestants  e  a  éta- 
ient  ancore  aux  maigres  Psaumes  de  Marot.  Voici 
venir  un  poéte  ardent  et  docte,  qui  célèbre  l'oeu- 
vre de  Dieu,  qui  racconte  la  sagesse  de  l'Eternely 

(1)  Ho  sott'eochlo  l'edizione  del  1623  {Oeuvres  poèiiques,  de  G.  de  Sa- 
luste, Seigneur  du  Bartas,  Prluce  des  Poetes  Francois,  à  Rouen,  chez 
I.  B.  Behourt,  1623).  Al  secondo  giorno  della  seconda  settimana,  il  Da  Bar- 
tas esamina  le  diverse  lingue  che  si  parlano  nel  mondo.  Giunto  all'ita- 
liana, esclama  : 

Le  Toscan  est  fonde  sur  le  gentil  Bocace  : 
Le  Pétrarque  aux  beaux  mots,  émaille  plein  d'audace  ; 
L'Arioste  coulant,  pathetiquc  et  divers  : 
Le  Tasse,  digne  ouvrier  d'un  Heroique  vers. 
Figure,  court,  aigu,  rime,  riche  en  laugage, 
Et  premier  en  honneur,  bien  que  dernier  en  aage. 
Di  tutto  il  poema,  pieno  di  allusioni  su  le  cose  italiane,   sarebbe  im- 
portantissimo uno  studio,  coi  dovuti  raffronti,    con  Le  sette  giornate    del 
Mondo  creato  del  Tasso. 


—  334  — 
et  qui  déroule  d'aprés  Moise  la  suite  et  les  beautés 
de  la  cosmogonie  hébraique  et  chrétienne.  »  (1) 
Però  il  poeta  guascone  guasta  questi  grandi 
pensieri,  questa  nobiltà  di  descrizioni,  con  tratti 
burleschi,  con  espressioni  strane,  fuori  di  posto  e 
di  cattivo  gusto;  egli  chiama  i  monti  della  Gua- 
scogna, «  monts  enfarinés  d'une  neige  éter- 
nelle.  »  Nella  fisica  degli  elementi,  al  secondo 
giorno,  mette  in  giuoco  l'Antiperistasi  per  spie- 
gare il  duello  tra  il  caldo  ed  il  freddo.  Egli  fa 
versi  come  questi,  i  quali  fanno  scorgere  facil- 
mente quanto  mai  fosse  ridicola  l'idea  che  si  avea 
in  quel  tempo  di  poter  rendere  nobili  i  concetti 
volgarizzandone  l'espressione  e  le  forma: 

ApolloD,  i3orte-jour  ;  Herme,  guide-navire; 
Mércure  échelle-ciel,  invente-art,  aime-lyre.... 
La  g'uerre  vient  après,  casse-lois,  casse  moeui-s, 
Rase  forts,  verse-sang,  brùle-bois,  aime-pleurs. 

Frattanto  la  scuola  creata  dalla  Plèiade  andava 
man  mano  indebolendosi,  e  E-egnier  già  tentava 
di  porre  un  argine  a  questa  mania  d'innovazione, 
col  ravvicinarsi  agli  antichi  poeti  francesi,  specie 
al  Villon  ■  ed  al  Marot.  Le  cause  di  questa  caduta 
sono  evidenti;  quella  scuola  peri  perchè  curava 
la  forma  senz'occuparsi  della  sostanza  della  poe- 
sia ;  perche  mancava  di  idee  generali,  perchè  non 
aveva  nulla  d'indipendente  e  voltava  il  dosso 
all'avvenire.  Essenzialmente  cattolica,  ostile   per 

(I)  Saiute-Beuve.  Tableau  histoi-ique  et  criti(jue  de  la  p'n'sie  fi-an- 
eaise  et  du  théatre  fran{ais  au  XVI siede,  Paris,  Gharpentier,  18ò9,  p&g.  384. 


—  335  — 

conseguenza  al  libero  esame,  essa  approvava  tutte 
le  persecuzioni  religiose,  tutte  le  violenze  reazio- 
narie, ch.e  desolarono  la  Francia  durante  il  regno 
dei  Valois.  Ba'if  oltraggiava  in  un  verso  lo  sven- 
turato Coligny;  B-onsard  ka  celebrate  le  vittorie 
riportate  sui  protestanti;  però  essa  era  cattolica 
solo  superficialmente  ;  amava  troppo  Marte  e  Ve- 
nere, Bellona  e  Giove,  Diana  ed  Apollo.  Cattolica 
in  apparenza,  essa  era  pagana  nel  fondo  del 
cuore  ;  e  siccome  seguiva  il  principio  del  re, 
essa  era  naturalmente  cortigiana  e  sommessa 
alla  autorità  reale.  Ma  quello  che  smontò  Ron- 
sard  fu  Francesco  Malherbe;  egli  riformò  tutto; 
grammatico  e  poeta,  severo  con  lui,  rigoroso  con 
gli  altri,  avendo  un  giorno  sotto  le  mani  un  esem- 
plare delle  poesie  di  E-onsard,  si  mise  a  criti- 
carlo verso  per  verso.  D'allora  in  poi,  non  si 
parlò  del  E-onsard  che  come  d'una  grande  fama 
usurpata;  screditato  alla  Corte  e  nelle  genera- 
zioni future,  non  ebbe  più  partigiani  che  nelle 
Università,  nei  Parlamenti  e  nei  gentiluomini 
campagnoli.  L'Accadèmie  Francaise  e  Boileau 
terminarono  l'opera  di  Malherbe,  e  sono  troppo 
noti  i  versi  di  Bodeau  sulla  Plèiade  francese, 
perchè  qui  vengano  ricordati. 

In  questo  mentre  il  Marino  andava  in  Francia 
e  vi  trovava  subito  nemico  Francesco  Malherbe, 
il  quale,  demolendo  l'opera  della  Plèiade,  accu- 
sava gl'italiani  di  questo  guasto  avvenuto  nella 
lingua  e  nella  letteratura  francese.  Il  Marino  però 
trovava  in  Francia  dei  poeti  come  Saint-Amant, 


—  336  — 

Tliéopliile  de  Viau,  Cottin,  e  tanti  altri,  clie  se- 
guivano la  scuola  del  E-onsard,  e  clie  accolsero 
con  gioia  il  poeta  napolitano;  il  quale,  nella  let- 
tera diretta  all'Achillini,  cita  come  suoi  imitatori 
Desportes,  il  quale  mori  però  nel  1606,  Vaugelas 
e  d'Urfé.  In  costoro  noi  troviamo  i  medesimi  con- 
cetti usati  dal  Marino,  ed  allorquando  Saint-A- 
mant  descrive  gli  infiniti  e  minuziosi  dettagli 
della  sua  passione  amorosa,  mostrando 

Le  jDetit  enfant,  qui  va,  sauté,  revient, 

E  joyeux,  à  sa  mère,  offre  un  caillou  qu'il  tient. 

copia  letteralmente  V Adone.  Il  Moise  sauvé^  dove 
viene  sviluppata  in  arabeschi  una  storia  biblica, 
è  composto  sopra  il  modello  di  questo  vasto  poema, 
e  si  crederebbe  di  leggere  le  poesie  del  Marino, 
quando  si  trova  in  Saint-Amant: 

Ces  nageurs  écaillés,  ce  sagette  vivantes 
Que  natui'e  empenna  d'ailes  sous  l'eau  mouvautes 
•   Montrant  avec  plaisir  en  ce  clair  appareil 
Ij'argoìt  de  leur  échine  à  Vor  du  beau  soleil. 

Come  nel  poeta  napolitano,  cosi  anche  in  Saint- 
Amant,  in  Théopbyle  de  Viau,  in  Cottin,  ecc., 
manca  la  grandiosità  del  pensiero,  la  serietà  del- 
l'anima, l'acutezza  del  sentimento,  l'energia  del 
buon  senso  e  la  parsimonia  del  gusto.  In  Saint- 
Amant,  eli'  è  il  discepolo  più  diretto  del  Marino, 
noi  troviamo  i  medesimi  concetti  del  poeta  na- 
poletano; chiama  la  neve  «  ce  beau  coton....  »; 
per  una  negra  incaricata  della  cura  della  toletta 
di  una  principessa,  Saint-Amant  ha  questo  verso  : 


—  337  — 
Le  hras  d'encre  est  lìropice  à  cles  memòres  de  lait, 
E  insomma  tutta  un'  imitazione  italiana  ch'ebhe 
maggiore  sviluppo  specialmente  per  l'andata  del 
Marino  in  Francia  e  per  la  fondazione  àeW Hotel 
de  Ramhouillet.  Colà  le  pastorali  del  Tasso  e  del 
Guarini  facevano  furore,  e  VAstrée  del  D'Urfé  è 
un'emanazione  della  coltura  italiana  trapiantata 
in  Francia. 

Contro  costoro  si  slancerà  l' iroso  padre  Ga- 
rasse  e  l'austero  Boileau,  il  quale  ultimo  s'avvede 
che  i  poeti  crottes,  come  chiamansi  allora,  seguono 
la  scucia  del  Ronsard  e  del  Du  Bartas.  E  furono 
guerre  aspre  alcune  delle  quali  ruinose  per  i  po- 
veri poeti  continuatori  della  Pleiade,  ma  il  regno 
dell'imitazione  durava  sempre;  solamente  agl'ita- 
liani ed  ai  latini  VHdtel  de  Ramhouillet  aveva 
aggiunti  gli  spagnoli,  e  Volture  rimetteva  in 
voga  lo  stile  di  Marot  e  de'  vecchi.  Da  ogni  lato 
tuttavia  soffiava  sordamente  un'aria  di  originalità 
e  di  nuovo,  e  qualche  ingegnò  altrettanto  impo- 
tente che  bizzarro,  come  Desmairets  ed  altri,  si 
sforzavano  a  ricercarlo.  «  E  allora  che  il  secolo 
di  Luigi  XIV  si  levò  per  questo  caos  letterario, 
lo  vivificò  del  suo  fuoco,  e  l'inondò  della  sua 
chiarezza.  »  (1)  Allora  vengono  Corneille,  Bacine, 
Boileau,  La  Fontaine  e  Molière  ;  il  quale,  nelle 
sue  commedie,  munitosi  dell'arma  del  ridicolo, 
colpisce  inesorabilmente  questi  poeti  goinfres  e 
questi  autori  di  romanzi  interminabili  ed  allego- 
rici, che  caratterizzano  i  précieux  e  le  précieuses 

(1)  Sainte-Beuvp,  loc.  cit. 

22 


—  338  — 
delVHótel  de  RamhouiUet ;  mentre  Corneille  fonda 
il  teatro  classico  francese,  dando  forme  e  concetti 
alla  lingua  ed  alla  letteratura  francese  ammira- 
bili per  giustezza  di  sentimente  ed  irreprensibili 
per  castigatezza  di  frase. 

Ecco  quanto  dice  Teofìlo  Gautier  sopra  la 
Plèiade  francese: 

Honsard,  dont  les  romantiques  ont  relevée  la 
statue,  tant  honnie  et  tant  conspirée,  par  une  es- 
pèce  de  condiction  qui  ne  manque  pas  de  logique, 
est  indubitablement  l'introducteur  du  classicisme 
en  France.  Il  a  rompu  violamment  avec  le  bon 
viel  esprit  gaulois  dont  CI.  Marot  est  le  dernier 
représentant.  C'est  bien  lui,  Pierre  de  E-onsard, 
le  gentilhomme  vandemois,  qui  a  pris  par  la 
•main  le  clioeur  des  Muses  antiques  et  qui  les  a 
présentées  en  cour  avec  un  liabit  mi-part  grec, 
mi-part  gaulois.  Il  a  cliangé  les  ballades,  les 
cliants  royaux,  les  rondeaux  et  toutes  les  formes 
nationales  de  notre  poesie  contre  les  stropbes,  les 
antistrophes,  les  épodes  et  les  formes  grecques  et 
latines;  il  a  forge  des  épithètes  barbares  dans  le 
goùt  de  celles  que  vous  venez  de  voir,  et  bien 
d'autre  encore;  il  a  fait  des  mots  à  deux  faces, 
Janus  difforme  que  la  grammaire  ne  peut  regar- 
der  sans  épouvante,  et  dont  Dubartas  a  si  étran- 
gement  abusé;  il  a  syncopé  des  verbes,  il  a  eflfilé 
en  diminutifs,  à  la  facon  antique,  une  quantité 
de  vocaboles  qui  semblent  fort  étonnés  de  la 
queue  de  mignardise  qu'on  leur  a  intempestive- 
ment  affutée  au  derrière,  tout  cela  est  vrai;  mais 


—  339  — 
il  a  donne  au  vers  un  nombre  plein  et  sonore, 
un  accent  male  et  robuste,  inconnu  avant  lui;  mais 
il  a  dessiné  les  muscles  et  fait  sentir  les  os,  dans 
les  formes  moUes  et  pàteuses  de  l'ancien  idiome. 
Il  a  mis  un  langage  plus  convenable  dans  la 
bouclie  de  la  muse  francaise,  déjà  un  peu  bien 
vieille,  pour  grasseyer  des  gentHesses  et  des  nai- 
vités  dans  le  sfcyle  enfantin  des  trouvères  et  des 
niénestrels;  mais  sous  une  croùte  épaisse  de  pe- 
danterie, à  tra  vers  le  vernis  jaune  de  la  vetuste, 
resplendissent  des  touch es  d'une  fraìclieur  et 
d'une  vivacité  non  pareille.  Derrière  ces  figures 
mythologiq^ues,  il  y  a  des  fonds  de  paysage  ac- 
cusés  avec  un  accent  de  nature  inimitable  ;  mais 
les  sonnets  ont  des  tendresses  que  n'ont  point 
ni  les  élégies  de  Tibulle  ni  celles  de  Properce; 
mais  il  est  bien  gaulois  au  fond,  malgré  toutes 
les  guerrilles  qu'il  s'en  va  ramassant  de  ca  de 
là  chez  les  auteurs,  et  son  style,  en  dépit  de  ces 
efìlorescences  grecques  et  latines,  adhère  parfai- 
tement  au  trono  robuste  du  vieil  idiome  et  en 
pompe  tonte  la  seve;  l'iiabit  est  différent,  mais 
le  corps  est  le  mème.  Ses  discours  en  vers  ont 
nombre  de  passages  que  vous  croirez  écrits  par 
la  piume  de  bronzo  du  grand  Pierre  Corneille. 
C'est  peut-ètre  un  pédant,  mais  à  coup  sur  c'est 
un  poéte,  et  tout  ce  q^^i  a  été  poete  en  Franca 
depuis  le  seizième  siècle  relève  directement  de 
lui.  Mathurin  Regnier  l'avoue  hautement  pour 
son  maitre.  Quelle  poete  est  celui-là  que  Regnier, 
admirable  lui-mème  proclamo  admirable  !  Corneille 


—  340  — 

n'écrit  pas  d'un  autre  style  une  tirade  politiqne, 
et  trouve  sa  farine  assez  solide  pour  y  couler  son 
vers  d'airain.  Molière  s'accomoda  de  ses  enjam- 
bcments,  de  ses  césures  mobiles,  et  ne  trouve 
point,  après  si  longtemps,  que  son  procède  soit 
vieilli.  La  Fontaine  s'y  rattache  par  les  arcliais- 
mes  et  les  idiotismes  nombreux  qui  donnent  tanfc 
de  saveur  et  de  gràce  à  son  style  si  francais 
qu'il  en  est  gaulois.  Sans  parler  de  ses  contem- 
porains,  tels  que  Rèmy  Belleau,  Antoine  Ba'if, 
Amadys  Janin  et  d'autres,  de  très-recommenda- 
bles  poètes,  conime  Théophile,  Saint-Amand,  etc... 
ont  subit  sa  puissante  influence  et  reilétè  quel- 
ques  raysons  de  ce  niagnifique  soleil  de  poesie 
qu'il  fìt  luire  sur  la  Trance.  Quelques  temps 
après  son  a|)parition,  il  s'eleva  une  autre  école, 
école  envieuse  et  improductive,  éplucbeuse  des 
mots  peseuse  des  syllabes,  une  école  des  gram- 
mairiens  contre  une  école  des  poètes,  comme  cela 
se  fait  toujours,  qui  s'est  mise  à  reviser,-stroplie 
par  strophe,  virgule  par  virgule,  tous  les  vers  de 
la  Plèiade,  et  eu  traiter  les  étoiles  de  bas  eii 
liaut.  Le  règent  de  cette  classe  était  le  sec,  le 
coriace  et-  filaudreux  j.Mallierbe,  sur  qui  Nicolas 
Desprèaux  Boileau,  esprit  de  méme  tempre,  a 
fait  ces  vers  triomphants  et  superlatifs  qui  ren- 
ferment  à  peu  près  autant  d'erreurs  que  de  sil- 
labes  : 

Enfin  Malherbe  vint,  etc.  (1) 

(1)  T.  Gauticr,  Lei<  grotcsques,  Lóvy,  1873,  pag.  184. 


—  341  — 

E  questa  evoluzione  del  pensiero  e  della  forma 
nella  letteratura  non  si  sparse  nelle  sole  lettera- 
ture neo-latine.  Anche  in  Germania  ed  in  Inghil- 
terra sorse,  o  meglio  ebbe  eco,  questa  scuola  che 
in  ciascun  paese  prendeva  il  nome  dal  suo  più. 
celebre  campione. 

Anche  in  Germania  fu  introdotta  la  pastorale 
italiana,  la  quale  ebbe  cultori  da  Opitz  fino  al 
Brockes  ed  al  Lohenstein.  Martino  Opitz  s'accostò 
al  Sannazaro  ed  ai  suoi  imitatori  stranieri,  special- 
mente francesi,  e  compose  un  romanzo  pastorale 
sul  genere  àelV Arcadia  e  che  intitolò  Die  Schà- 
f errai  der  Nymphen  Ercinie;  il  Brockes  ed  il  Lo- 
henstein per  contrario  imitarono  VAminta^  il  Pa- 
stor  Fido  e  le  poesie  pastorali  del  Marino,  tradu- 
cendo, specialmente  le  ultime,  nella  lor  lingua. 
Però  in  Italia  esisteva  innato  l'ingegno  artistico, 
anche  quando  questo  degenerava  ;  in  Germania 
invece  i  poeti  cultori  della  poesia  pastorale,  si 
perdettero  in  mille  mostruosità  (1). 

Nell'anno  1644,  cinque  anni  dopo  la  morte  di 
Opitz,  veniva  fondata  in  Norimberga  la  Società 
de'  Pastori  incoronati  e  dei  fiori. 

I  fondatori  furono  Giovanni  Ellai  e  Filippo 
Harsdorfer.  In  questa  Accademia  la  pastorale  venne 
foggiata  veramente  a  forma  letteraria.  I  membri  di 
quest'Accademia  ebbero  in  animo  di  ritornare  col 
pensiero  e  colle  forme  letterarie  alla  primitiva 
maniera  pastorale,  mentre  questa  non  poteva  esi- 
stere che  convenzionalmente.  Ed  allora  comincia- 

(1)  Roquette,  GescJtichfe  der  deutschen  literatiire,  pag.  450. 


—  342  — 

rono  ad  introdursi  nella  lingua  e  nella  lettera^ 
tura  tedesca  l'allegoria  della  frase,  i  piccoli  e- 
nimmi  rinchiusi  in  un  giro  di  parole  a  doppio 
senso,  infine  quei  pensieri  oscuri,  quelle  imma- 
gini e  tropi  gettati  l'uno  sull'altro  alla  rinfusa, 
maniera  che  in  Italia  prese  il  nome   di  concetti. 

Harsdòrfer,  che  neW Accademia  de'  pastori  e  dei 
fiori  (Hirten  und  Blumenorden  an  der  Pegnitiz) 
chiamossi  «  Sfrephon^  »  compose  una  specie  di 
arte  poetica,  nella  quale  dettò  le  norme  che  doveva- 
seguire  questa  nuova  scuola,  mentre  che  Klai, 
imitando  V Arcadia  del  Sannazaro  e  quella  del 
Sidney,  fece  la  fredda  allegoria  di  queste  azioni 
pastorali. 

Ma  chi  superò  tutti  nell'abuso  del  linguaggio' 
allegorico,  e  può  paragonarsi  al  Marino  della 
Germania,  fu  il  Birken  nato  in  Boemia,  nel  1626. 
Egli  è  autore  di  poesie  d'occasione  fatte  a  per- 
sone principesche,  ch'egli  adula  fino  all'esagera- 
zione. Nella  sua  ricerca  dell'inusitato  trova  l'e- 
spressione affettata,  tanto  che  la  lingua  umana 
non  gli  basta  più.  Egli  si  serve  perciò  di  voci  ani- 
malesche e  di  parole  tradotte  da  lingue  straniere^ 
dando  alla  sua  maniera  di  scrivere  qualcosa  di 
incomprensibile. 

Per  lui  i  «  soffi  di  venti  piacevoli  bisbigliano,, 
fischiano,  s'increspano  e,  come  le  onde  del  mare^ 
si  gonfiano,  s'infrangono;  i  pozzi  sussurrano,  bi- 
sbigliano, guizzano  ed  increspati  spruzzano,  ge- 
mono; »  ecc. 

Accanto  a   questa    scuola    nacque    quella    cosi 


—  343  — 
detta  slesiana,  distintivo  della  quale  è  la  sen-  , 
sualità,  perchè  parte  dal  concetto  che  la  poesia 
può  solamente  dilettare  allorquando  il  poeta  è  fan- 
tasticamente sensuale  ;  perciò  anche  questa  scuola, 
al  pari  di  quella  d'Opitz,  abbonda  di  una  lussureg- 
giante fantasia,  ed  usa,  forse  con  più  esagerazione 
della  scuola  di  Opitz,  i  concetti  del  Marino.  Essa 
non  ha  regole  limitate,  ne  confini  di  qualche  gusto 
estetico  ;  cerca  immagini  sopra  immagini  ;  le  me- 
tafore e  le  iperboli  si  seguono  l'una  all'altra  fino 
all'incomprensibilità;  la  lingua  insomma  cammina 
sui  trampoli.  Semplici  parole  come  mano,  bocca, 
occhio,  son  fuori  d'uso  ;  la  mano  diviene  «  il  de- 
licato pugno  della  padrona  di  vita  e  di  morte,  » 
la  quale  quando  scrive  una  lettera  all'amante 
«  dipinge  messaggi  di  fiamme.  »  Cosi,  «  cu- 
stodi corallini  innanzi  a  cavità  di  porpora,  » 
viene  designata  la  bocca  ;  gli  occhi  divengono 
«  fulmini,  anelli  di  fuoco,  palle  di  rubini,  nere 
notti  di  fiamme,  chiavistelli  le  cui  chiavi  pen- 
dono da  migliaia  di  cuori  umani;  »  l'amante  è 
un  «  arsenale  di  pene  e  di  affanni.  » 

Troppo  lungo  sarebbe  enumerare  le  strava- 
ganze nelle*  quali  cadde  la  scuola  slesiana,  capi- 
tanata dall' Hoffmannsvaldau.  (1)  In  essa  si  distinse 
specialmente  il  Lohenstein,  poeta  di  svariatissima 

(1)  Hoffmannsvaldau  introdusse  nella  letteratura  tedesca  le  epistole 
eroiche  ad  imitazione  di  quelle  del  Marino  e  del  Bruni;  sono  specie  di 
lettere  in  cui  personaggi  storici  od  immaginari  sfogano  reciprocamente 
la  loro  passione  in  lettere  poetiche.  Tradusse  anche  il  Pastnr  Fido,  ma 
la  traduzione  è  troppo  inferiore  all'originale,  perchè  ciò  che  nel  dramma 
pastorale  del  Guariui  è  tutta  grazia  e  tìuezza,  nella  traduzione  dell'Hofif- 
mannsvaldau  è  volgarità. 


—  344  — 
fantasia,  il  quale  riunisce  in  se  tutti  i  difetti 
della  sua  scuola.  Egli,  nell'abbondanza  d'imma- 
gini, superò  lo  stesso  Hoffmannsvaldau,  e  nei 
soggiorni  clie  fece  in  Italia  ed  in  Francia  ebbe 
occasione  di  conoscere  le  opere  del  Marino,  del 
quale  tradusse  la  Strage  degl'Innocenti.  (1) 

Fu  insomma  tutta  una  schiera  di  poeti  i  quali 
si  misero  ad  imitare  e  copiare  le  produzioni  ita- 
liane specialmente  pastorali,  e  la  letteratura  te- 
desca di  questo  periodo  non  mira  altro  clie  alla 
poesia  sensuale  del  Marino,  fincliè  j,Gottsclied 
fonda  la  letteratura  nazionale  tedesca,  dando  vita 
ed  energia  alla  poesia  lirica. 

L'Inghilterra  pure  ebbe  la  stessa  malattia  let- 
teraria, sparsa  nelle  altre  letterature  europee.  Gli 
imitatori  del  Petrarca  empirono  le  loro  compo- 
sizioni di  quell'amore  dolce  e  convenzionale  e  di 
quei  capricci  passeggieri  del  maestro.  Capo  di 
questa  scuola  fu  Giovanni  Lilly,  borghese  di 
Londra,  spirito  serio,  morale,  delicato  più  che 
appassionato,  e  cultore  della  poesia  italiana.  Prima 
di  scrivere  per  il  teatro,  Lilly  compose  un  ro- 
manzo ch'ebbe  lungo  e  durevole  successo,  oltre 
ad  essere  come  di  guida  pel  gusto  letterario  in- 
glese :  «  Euphuès,  opera  molto  divertente  da  leg- 
gersi da  tutti,  necessaria  a  ricordarsene,  opera 
dove  son  notati  i  |)i^ceri  che  segue  lo  spiiito  in 
gioventù,  grazie  agl'incanti  dell'autore  e  la  feli- 
cità ch'egli  riunisce  nell'età  matura  per  la  per- 
fezione della  saggezza.  »  Questo  è  il  lungo  titolo 

(1)  La  Strage  degli  Innocenti  è  stata  tradotta  anche  dal  Brockes. 


—  345    - 

dell'opera,  di  cui  la  prima  parte,  Euphuès  o  l'a- 
natomia dello  spirito  si  pubblicò  nel  1580,  e  la 
seconda  parte,  Eaphuès  e  l' Inghilterra  nel  1581. 
L'ispirazione  del  libro  viene  direttamente  dal- 
l'Italia, per  l'imitazione  che  Lilly  fa  àeW Arcadia 
del  Sannazaro,  sotto  la  falsariga  del  quale  ro- 
manzo pastorale  Filippo  Sidney  nel  1580  pub- 
blicava un  romanzo  clie  intitolò  anche  lui  V Ar- 
cadia, L'eufuismo  fu  in  Inghilterra  ciò  che  fu 
il  gongorismo  in  Ispagna,  l' esprit  précieux  in 
Francia,  il  marinismo  in  Italia.  Simili  ai  poeti 
della  pleiade  francese,  i  seguaci  di  Lilly,  ammi- 
ratori dell'antichità,  avevano  per  la  volgarità  un 
supremo  disprezzo  aristocratico.  Odiprofanum  vul- 
guss  et  arceo,  era  la  loro  divisa.  Essi  considera- 
vano la  poesia  come  un'arte  di  lusso  e  d'inge- 
gnoso raffinamento,  destinato  a  piacere  ad  un 
piccolo  numero  di  buongustai. 

In  questo  Shakespeare  apriva  la  sua  potentosa 
carriera,  e  l'antichità  classica  e  l'erede  di  questa, 
il  Rinascimento  italiano,  erano  le  grandi  scuole 
dell'arte  e  del  gusto  ;  sicché  è  con  l'imitazione 
italiana  e  dell'antichità  che  il  poeta  cominciò. 
Il  tragico  inglese,  come  commediografo  e  come 
poeta,  entrò  a  far  parte  della  scuola  deìVeiifuismo, 
aristrocratica  e  piena  di  ricercatezza,  di  amore 
per  l'antichità  classica  e  pel  Rinascimento  ita- 
liano. I  principali  amici  di  Shakespeare  nel- 
l'aristocrazia erano  il  conte  d'Essex  e  soprattutto 
il  conte  di  Southampton,  al  quale,  come  abbiam 
visto,  egli  dedicò  il  poema  di   Venere  e  Adone. 


—  346  — 
Shakespeare  segui  la  moda  e  fece  come  gli 
altri,  imitando  non  solamente  Virgilio  e  il  Pe- 
trarca, ma  gli  stessi  poeti  contemporanei  nazionali 
e  stranieri.  I  suoi  poemetti  sono  della  scuola  di 
Lilly,  e  Gervinus  dice  che  «  il  tragico  inglese 
per  questo  aspetto  è  nel  numero  dei  clienti  dei 
nobili  e  dotti  discepoli  della  scuola  italiana  alla 
testa  dei  quali  è  Edmondo  Spencer;  e  se  noi  non 
avessimo  di  Shakespeare  che  il  poema  di  Venere 
e  Adone  e  quello  della  Lucrezia,  egli  s'aggiun- 
gerebbe a  quella  schiera  in  cui  hanno  posto 
Drayton,  Spencer,  Daniel,  Lilly,  ecc..  »  (1) 

(1)  G.  G.  Gervinus,  Sìiali-espeare,  Leipzig,  1872,  voi.  I,  pag.  197. 


—  347  — 
Capitolo  XIII. 

n  seicenti  smo  e  la  poesia  pastorale. 

Questi  sono  i  vizi  clie  perturbano  le  letterature 
europee  nel  secolo  XVII  :  vizi  di  forma  e  di  lingua, 
perchè  non  è  cosi  che  s' intende  l'arte.  Conven- 
zionalismo nella  frase,  la  quale  è  limitata,  affet- 
tata ed  ampollosa:  convenzionalismo  nel  concetto, 
il  quale  è  costretto  a  spaziare  in  troppo  angusti 
confini,  perchè  qualche  volta  non  esca  in  una  corsa 
sfrenata. 

Ed  era  propriamente  l'Italia  che  dava  il  cat- 
tivo esempio  di  questa  strana  maniera  di  eserci- 
tare la  fantasia  e  l'immaginazione  poetica,  mentre 
che  le  altre  letterature,  già  da  lungo  tempo  nella 
via  dell'imitazione,  si  foggiavano  anch'esse  su 
questa  viziosa  maniera,  la  quale  fu  meno  sentita 
nelle  letterature  dove  quella  italiana  era  meno 
conosciuta  od  entrava  di  seconda  mano.  Era  il 
canto  del  cigno  di  questa  bella  letteratura,  prima 
di  cadere  sotto  i  colpi  dei  poeti  evirati  dell'Arcadia, 
i  quali  spogliarono  la  poesia  d'ogni  gusto  estetico, 
creando  un  antimarinismo  ancor  più  funesto  che 
il  marinismo  stesso. 

E  forse  sarebbe  da  studiare  se  l'uso  della  poesia 
pastorale  non  sia  stata  la  causa  del  seicentismo 
in  Europa.  Questa  poesia  nasceva  appunto  in  una 


—  348  — 
epoca  di  grande  risveglio,  quando  appunto  la  li- 
rica e  l'epopea  erano  al  loro  massimo  splendore. 
CoìVArcadia^  il  Sannazaro  apriva  all'Italia  un 
mondo  nuovo,  facendo  entrare  nella  poesia  uomini 
e  donne  camuffati  da  pastori  e  da  ninfe,  in  un 
ambiente  senza  varietà  ed  affatto  primitivo.  Crea- 
vasi  in  tal  modo  il  romanzo  pastorale  del  quale 
Lope  de  Vega,  Cervantes,  D'Urfé,  Racan,  Sidney, 
Spencer  e  Lilly  s'innamoravano;  e  la  Galatea, 
le  due  Arcadie  (di  Lope  de  Vega  e  di  Sidney), 
la  Asirée^  e  VEuphuès  s'  imponevano  al  mondo 
letterario  per  circa  mezzo  secolo,  come  i  soli 
modelli  su  cui  la  fantasia  del  poeta  doveva  ri- 
camar sopra;  e  tutti  erano  contenti  di  quest'im- 
posizione. 

Quasi  contemporaneamente  Agostino  Beccari  e 
Torquato  Tasso  creavano  il  dramma  pastorale, 
il  quale,  come  rappresentazione  scenica,  veniva  a 
rendersi  famigliarissimo  in  Italia,  mentre  che  le 
altre  letterature  s'avvicinavano  al  romanzo  pasto- 
rale del  Sannazaro,  poco  o  niente  curandosi  d'una 
rappresentazione  scenica. 

Di  fronte  al  sepolcro  già  cliiuso  della  lirica 
italiana,-  e  spettatrice  dell'agonia  lunga  e  stra- 
ziante dell'epopea,  la  poesia  pastorale  abbatteva 
le  ultime  parvenze  della  lirica,  come  scavava  la 
tomba  a  quel  gigante  meraviglioso  ch'era  l'epico 
cavalleresco.  Spegneva  la  idealità  di  un  mito  im- 
possibile per  la  sua  maestosa  e  qualche  volta 
troppo  ardimentosa  grandezza  per  le  coscienze 
umane  ;  ma  essa  stessa  ne  creava  uno  ancor  più 


—  349  — 
impossibile  ;  e  perchè  appunto  debole  ed  effimero 
ne'  suoi  principi,  aveva  vita  relativamente  breve. 

Le  egloghe  di  Teocrito  siracusano,  che  già  ave- 
vano subito  tanto  travestimento  nella  bucolica 
virgiliana,  ora,  nella  letteratura  italiana,  la  quale 
non  poteva  accettarle  cosi  semplici  e  prettamente 
pastorali,  subivano  altre  trasformazioni  e  scon- 
volgimenti. (1) 

Il  potente  soffio  dellla  civiltà  italiana  del  Ri- 
nascimento, che  accoglieva  nel  suo  grembo  la 
poesia  pastorale,  doveva  certamente  sorridere  da- 
vanti a  tanta  semplicità  della  vita;  tutto  il  mondo 
latino  risorto  e  rinnovellato  in  qualche  fonte,  ac- 
cerchiò questo  mito  pastorale  e  lo  raffinò  e  tra- 
sformò; mentre  che  la  società  italiana  si  spec- 
chiava tutta,  senza  ritrosia,  in  questo  semplicis- 
simo quadro,  e  lo  adombrava  della  sua  immagine. 

(1)  Questo  concetto  era  già  stato  espresso  da  Lope  de  Vega,  nella  sua 
«  Introduccion  à  las  églogas  amorosas  :  «  Las  églogas  contieneu  mas  de  lo- 
que  muesira  el  exteiior,  corno  se  ve  en  las  de  Virgilio,  que  son  alegóricas, 
y  en  alabanza  de  los  emperadores  ó  personas  ilustres,  y  à  otros  sugetos 
debajo  de  estilo  pastoril,  en  que  el  poeta  imitando  se  adelantó  à  Teocrito, 
de  quien  dice  Quintiliano  que  ignorò,  no  solo  las  plazas  de  las  ciudades, 
sino  las  mismas  ciudades.  Mas  discùlpale  haber  sido  el  primero  que  las 
escribió,  y  cuando  el  mundo  estaba  menos  poblado  y  mas  al  principio  de  su 
creacion;  y  asi,  naturalmente  los  pastores  erau  y  debian  pintarse  mas  rudos. 
Ya  que  son  mas  las  poblaciones  que  los  campos,  que  la  naturaleza  se  ballar 
tan  adelante,  y  se  ove  mejor  lo  que  no  se  entiende,  aunque  sea  malo, 
que  lo  bueno  dejàudose  euteuder,  imprimo  està  ègloga  en  estilo  algo 
realzado,  no  por  ignorar  el  que  le  toca,  sino  porque  à  los  oidos  de  nue- 
stra  edad  suenan  las  cosas  fài;iles  y  menores  comò  bajas,  quizà  porque 
se  atiende  mas  a  las  voces  que  à  la  sustancia.  Sea  està  muestra  de  algunas 
que  tengo  escritas  ;  que  siendo  mal  recibida,  de  provecho  sera  desenga- 
iìandome  ;  si  bien  servirà  de  premio  y  motivo  para  sacar  las  demàs,  no 
sin  recelo  que  daràn  todas  al  lector  ocasion  de  ser  piados  por  la  obligacion 
y  licencia  de  estilo  bucòlico  y  tener  parte  en  ellas  la  juveutud.  »  (Lope 
de  Vega,  Obras  no  clramaiicas,  op.  cit.,  pag.  306). 


—  350  — 

Cosi  la  bucolica  di  Dante,  del  Boccaccio,  del  Pe- 
trarca già  segna  un  passo  importantissimo  verso 
l'allegoria  ;  il  Petrarca  se  ne  serve  per  i  suoi 
fini  altamente  politici;  il  Boccacio  per  i  suoi  amori; 
Dante  per  l'arte  santissima.  Cosi  lo  storico,  ana- 
lizzando questa  poesia  pastorale,  analizza  i  costumi 
e  la  vita  del  secolo  cui  essa  appartiene  ;  è  un  ri- 
tratto fedelissimamente  storico  del  tempo,  perchè 
la  solitudine  dei  bosclii  e  il  sempre  verde  dei 
campi  rende  ingenuamente  espansivi  quei  colossi 
del  Rinascimento. 

E  dal  Boccaccio  in  poi  la  poesia  pastorale  va 
man  mano  assumendo  un  qual  certo  convenzio- 
nalismo bucolico,  che  poi  s'esplica  nel  dramma 
pastorale.  (2)  Ma  insieme  a  questa  trasformazione 

(2)11  Rossi  nel  suo  pregevolissimo  lavoro  sul  Pastor  Fidi  del  Guarini, 
analizza  le  diverse  fasi  per  le  quaU  passò  l'egloga  feocritana  fino  a  di- 
ventar dramma  pastorale  col  Sacrificio  del  Beccari.  E  noi  crediamo  che 
l'assoluta  mancanza  d  esame  degl'  idilli  marineschi,  che  pur  segnano  una 
grande  orma  nel  cammino  della  poesia  pastorale,  provenga  dal  solo  fatto 
che  1  A.  abbia  voluto  esaminare  le  sole  pastorali  fino  a  quella  del  Gua- 
rini. E  giacché  ci  troviamo  su  questo  punto  del  lavoro  del  Kossì,  non  pos- 
Biamo  esimerci  dal  dissentire  forse  troppo  nelle  ragioni  adotte  dall'autore, 
sull'origine  del  dramma  pasi orale  in  Italia.  Egli  osserva  che  se  l'egloga 
divenne  veramente  rappresentativa,  tanto  che  nelle  corti  italiane  si  rap- 
presentarono sulla  scena  ninfe  e  pastori,  questo  si  deve  in  parte  alla  pas- 
sione dei  principi  del  Rinascimento  per  quelle  rappreseniav.ioni  allego- 
riche, dtlle  quali  con  molta  facilità  si  poteva  prender  occasione  ad  esal- 
tare la  loro  j-randezza.  Ora  come  mai,  risuscitando,  in  qael'a  maniera  che 
tutti  conosciamo,  il  mondo  antico  e  collocandolo  nell  ambiente  dilKa  vita 
italiana  in  modo  che  le  tendenze  di  questa  vennero  quasi  totalmente  imi- 
tative, come  mai  potevasi  trasformare  legloga  virgiliana,  cosi  semplice  e 
niente  afTatto  lappresentativa?  Quando  si  sa  che  l'Alamanni  fa  il  Giron 
Cortese  imitando  letteralmente  VEneide,  e  s'evocano  le  commedie  di  Plauto 
e  di  Terenzio  in  quelle  del  Machiavelli,  dell'Ariosto  e  dell'Aretino? 

La  povertà  di  studi  sulla  poesia  e  sul  dramma  pastorale,  quest'ultimo 
prettamente  italiano  e  creazione  nazionale,  non  ci  permette  di  rispondere 
con  sicurezza  e  serenità  a  questo  grave  problema.  Certamente    però    cho 


—  351  — 

del  sentimento,  v'era  quella  della  lingua,  non  più 
atta  ad  esprimere  idee  ed  episodi  nuovi.  Quindi 
il  senso  della  ricercatezza  della  frase,  la  quale  poi 
divenne  ancL.'essa  convenzionale  come  convenzio- 
nale era  già  divenuto  il  concetto  originario.  E 
solamente  con  questa  ragione  si  può  spiegare 
l'invasione  di  quel  seicentismo  clie  tanto  tenace- 
mente s'abbarbicò  nelle  letterature  europee.  Per- 
chè sarebbe  inutile  il  non  riconoscere,  ammet- 
tendo una  più  o  meno  accentuata  depravazione 
di  gusto  in  tutte  le  epoclie  e  letterature  stra- 
niere, elle  la  letteratura  del  secolo  XVII  ha  una 
impronta  propria,  la  quale  non  si  riscontra  nelle 
letterature  anteriori.  Certe  tendenze  della  lingua 
e  della  letteratura  del  Seicento  risentono  forte- 
mente della  poesia  pastorale  cosi  in  fiore  in 
quell'epoca,  perchè  volendosi  camuffare  un  illu- 
stre personaggio  in  pastore  o  ninfa,  era  neces- 
sario un  qual  certo  linguaggio  allegorico  e  con- 
venzionale a  tutti  gli  scrittori.  Questo  linguaggio 
sul  quale  lavoravano  gì'  ingegni,  degenerò  in  abuso 
di  metafore  ridicole  e  strane;  e  cosi   si  venne  a 

il  bisogno  di  foggiare  l'egloga  in  modo  allegorico,  già  dà  principio  ad  una 
rappresentazione  della  vita  reale,,  la  quale  nella  commedia  mantiene  tutta 
la  sua  forza  d'espansione.  E  quando  s'osservi  che  il  dramma  pastorale 
nasce  appunto  in  un'epoca  nella  quale  rivive  la  commedia  latina,  non  può 
essere  che  queste  due  rappresentazioni,  l'una  solamente  dialogala  e  senza 
azione  drammatica,  laltra  risorta  allo  staio  di  perfezione,  siansi  fuse  in- 
sieme, dando  origine  al  dramma  pastorale,  «  che  portò,  come  dice  il 
Gravina,  le  capanne  anche  nel'e  corti,  ed  applicando  nel  Pastor  Fido  a 
que'  personaggi  le  passioni  e  i  costumi  delle  anticamere,  e  le  più  artifi- 
ziose  trame  de'  gabinetti:  con  ponere  in  bocca  de'  pastori  precetti  da  re- 
golare il  mondo  politico,  e  delle  amorose  ninfe  pensieri  sì  ricercati,  che 
paiono  uscite  dalle  scuole  de'  presentì  declamatori  ed  epigrammisti?» 


—  352  — 

quel  marinismo,  o  che  dir  si  voglia  gongorismo 
o  cultismo,  enfuismo,  concettismo,  o  preziosismo, 
comune  a  tutte  le  letterature  straniere. 

E  allorquando  noi  avremo  fatto  una  storia  della 
poesia  pastorale  italiana,  che  risulteranno  fuori 
le  cause  del  seicentismo  nella  letteratura  italiana; 
e  quando  noi  avremo  minutamente  analizzata 
questa  poesia,  vedendone  quanta  e  quale  parte 
trapiantò  in  Ispagna,  in  Francia,  in  Inghilterra 
ed  in  Germania,  noi,  serenamente,  potremo  dichia- 
rare chi  fu  il  grande  colpevole  in  questo  perver- 
timento nell'arte;  e  di  che  e  perchè  è  colpevole. 
La  poesia  pastorale  è  un  genere  di  poesia  che 
nata  tardi  nella  letteratura  antica,  ha  fin  dal 
suo  nascere,  preso  il  suo  posto,  la  sua  forma,  il 
suo  dominio,  iissati  i  suoi  limiti;  e  dopo  l'oscu- 
rantismo del  medio  evo  è  ritornata  a  germogliare 
appena  nato  il  Rinascimento;  quindi,  bruscamente, 
ha  invaso,  nel  secolo  XVI,  tutto  il  campo  let- 
terario: della  lirica,  dell'epopea  e  quindi  del 
dramma.  Egloghe,  poemetti  e  drammi  pastorali, 
queste  sono  le  produzioni  su  cui  ogni  ingegno 
lavora  di  fantasia.  Pastorale  romantica  e  pasto- 
rale drammatica  è  tutta  una  fioritura  novella  che 
si  sparge  sotto  il  cielo  d'Italia,  la  quale  fu,  con 
la  Grecia  e  con  Roma,  la  scuola  d'Europa. 

Fortunatamente  oggi  la  critica  analizza  oltre 
che  le  produzioni  letterarie  anche  lo  scrittore 
come  tipo  psicologico,  e  l'ambiente  come  produt- 
tore di  questo;  perchè  è  dal  momento  storico  nel 
quale  lo  scrittore  vive,  che  questo  prende  l'ispi- 


—  353  — 
razione  e  il  concetto    di  quanto    egli    vuol    trat- 
tare. Al  poeta  poi  quest'osservazione  s'attanaglia 
molto  eli  più  ;  come  abbiam    detto,    è  l' interme- 
diario fra  il  popolo,  del  quale    ba  comuni  gl'in- 
tendimenti, e  le  genti  avvenire.  È  lui  l'anello  di 
congiunzione  de'secoli  successivi,  ed  «  ogni  scrit- 
tore, se  meriti  questo  nome,  deve    molto   al  suo 
secolo  ed  alla  sua  nazione,   e    molto    il    secolo  e 
la  nazione  devono    a  lui;    si  dà    e    si    riceve;  e 
l'opera  di  arte  conviene  che  sia    il  risultamento 
di  tutte  queste  forze  morali  fuse  e  contemperate 
insieme,  lo  specchio  fedele  di   quelle    tre  anime, 
che  in  essa  si  mescolavano  e  si  confusero  in  un 
sol  punto.  È  una  doppia  vita  esteriore,  una  vita 
universale  e  una  vita  individua;    ma    è    sempre 
la  vita  umana.  »  (1) 

(1)  e.  M.  Tallarigo,  Introduzione  «Uà  Storia  della  Letteratura  ita- 
liana, Napoli,  1887. 

«  Prima  di  arrivare  alla  fine  dì  questo  mio  studio,  avrei  dovuto 
parlare  del  Pianto  d'Italia,  poesia  che  il  Mauso  crede  sia  del  Marino 
(Vedi  pag.  25  del  presente  volume).  Ma,  non  essendomi  pervenuti  al- 
cuni documenti,  i  quali  debbono  infirmare  questa  opinione,  chiedo  scusa 
al  lettore  se  non  mantengo  la  mia  promessa.  La  quale  adempirò  fra  non 
molto.  » 


DOCUMENTI 


357  — 


I. 


(Dalla  biblioteca  na:  lonale 
Vittorio  Emanuele  di  Roma). 

Uccisione  di  Concino  Concini    mauesciallo  d'Ancre, 
assassinato  addì  20  aprile  1g17. 

(Vedi  pag.    134) 


Il  Marescial  de  Ancre  hier  mat.''  entrando  nel 
Lovro  non  essendo  aperto  solo  il  portello  fu  aperta 
la  gran  porta,  et  essendo  entrato  nella  Corte  gli 
fu  'data  una  1/^,  che  andando  leggeva,  e  rincon- 
trato sopra  il  ponte  luogo  assai  stretto  Mons"'.  de 
Vitry  uno  delli  Cap.°'  delle  guardie  del  E,e  accom- 
pagnato da  circa  50  soldati  da  esso  gli  fu  detto,  che 
S.  M.'"  lo  domandava,  e  poi  messe  mano  alla  spada 
al  qual  cenno  da  suoi  furono  sparate  4  pistolet- 
tate al  d.°  Marescial,  che  tutte  lo  colsero,  et  fecero 
xiadere  in  terra  morto  senza  haver  detto  parola; 
questa  esecutione  fece  alterar  tutto  il  Louvro,  et 
ognuno  messe  mano  alla  spada  gridando,  viva  il 
Re,  il  quale  si  fece  ad  una  fenestra,  ringratian- 
doli,  et  dicendoli,  che  era  stato  lui,  ch'haveva  fatto 
il  colpo,  et  concorse  tanto  popolo  al  Louvro  che 
furono  fermate  le  porte,  fu  mandato  il  Colonello 
de  Ornano  alla  Corte  di  Parlamento  a  darne  la 
nova,  et  a  domandare  il  p.**  Presidente,  fu  man- 


—  358  — 
dato  il  luogotenente  civile  a  casa  di  Mons/  Bar- 
bin  intendente  g."*^'''''^^  de  finanze  a  far  inven- 
tariar ogni  cosa,  et  gli  fu  messo  guardie,  a  Mon- 
signor Mangot  Vicent.^*'  fu  mandato  a  prendere 
li  sigilli,  li  quali  sono  di  novo  stati  dati  al  Pre- 
side* Yert,  la  Maresciallo  d'Ancre  si  fece  por- 
tare in  una  seggia  nella  camera  della  Reg.^  Madre, 
la  guardia  della  quale  fu  subito  licentiata,  e  man- 
datali altra  guardia  de  Svizzeri,  hanno  mandato 
a  satir  tutti  li  beni  del  à."  Marescial,  suo  fi- 
gliolo e  prigione,  et  bieri  fu  mandato  crida  cbe 
tutti  li  suoi  ser.''  debbano  uscire  dalla  Città  de 
24  bore  sotto  pena  de  crime  laese,  bavendo  la- 
sciato alla  Marescialla  solo  un  buomo  et  una  donna 
hanno  sjDcdito  corrieri  da  per  tutto  per  dar  nova 
di  q.*'  successo. 

Il  cadavero  del  Marescial  hiersera  fu  sepolto 
nella  Chiesa  di  S.  Germano  dell'osseria  senza  altra 
cerimonia,  che  un  prete  solo,  et  anche  da  quel 
curato  fu  fatta  qualche  difficolta  nel  riceverlo^ 
per  tutta  la  città  se  e  ne  fatta  alegrezza/,  et  fuochi 
di  gioia,  ma  q.*  mattina  il  minuto  popolo  in 
grand."""  numero  e  concorso  alla  d/  Chiesa , 
dove  havendoli  tagliato  il  naso,  l'orecchie,  et  le 
dita  con  gran  derisione,  et  risa  l'hanno  appiccato 
per  i  piedi  nudo,  senza  che  le  guardie,  che  li 
mandò  il  B,e  habbino  potuto  impedirlo,  poi  l'hanno 
levato,  messo  in  pezzi,  et  strascinato  per  tutto  la 
Città,  et  Borghi,  la  Marescialla  e  stata  portata 
col  figliolo  nelle  stanze,  dove  fu  posto  il  Prin- 
cipe di  Conde,  quando  fu  fatto  prigione,  et  si  dice 


—  359  — 
che  li  faranno  il  processo;  S.  M.**  q.'*  mattina 
è  stata  alla  Messa  a  gli  Agostini  per  farsi  ve- 
dere, et  vi  e  concorso  grand."""  numero  di  popolo 
gridando  viva  il  E,e;  la  Regina  Madre  sta  nella 
sua  Cam."  con  guardie  ne  il  E-e  l'Iia  vista  poi  di 
q.'"  successo;  si  dice,  che  il  Re  mandasse  sub.'" 
a  vedere  il  Pr.^"  di  Conde,  et  che  li  fece  dire, 
che  stesse  di  buona  voglia,  poiché  era  morto  il 
loro  nemico  comune;  dicono  che  S.  M."'  habbia  di 
già  dato  il  governo  di  Normandia  al  Conte  di 
Suesson,  et  la  luogotenenza  e  Mons/  di  Luynes 
suo  favorito,  al  quale  ha  anco  dato  il  Marchesato 
di  Ancre,  et  il  stato  di  p.°  gentiluomo  della  Ca- 
mera a  Mons.*'  de  Vitry  il  Maresciallato,  et  la 
terra  del  Biopuy;  al  Card.'"  di  Vandomo  tutti 
li  beneficii  dell' Arci  vesc.'°  di  Tuors,  il  S.^""  di 
Villeroy  e  rientrato  nel  suo  carico,  et  il  Vesc.'^" 
de  Luson  dimesso,  (1)  il  Presid."  Janino  rimesso 
nel  carico  di  sopraintend.*^  gen.'^  delle  finanze, 
et  M.°'"  de  Mapion  Controllore  d'esse;  s'aspetta 
q.*^  sera  il  Card.'''  che  sarà  capo  del  Cons.,  et 
con  lui  M."'"  de  Pisicouls  suo  figliolo,  quale  si 
crede  che  ancora  sarà  rimesso  nel  suo  carico  di 
il  duca  di  Longavilla  si  aspetta 
q.'*  sera  qua  dove  si  faranno  le  sue  nozze;  si 
aspettano  tutti  li  Principi,  et  si  crede  che  per 
tutta  questa  S."^  S.  M.  mandò  hieri  a  dire  a  tutti 
l'Ambasciatori  che  dovessero  occorrendoli  qualche 

(I)  Armando  Duples-is,  aieur  de  Richelieu,  allora  semplice  vescovo  di 
Lucon,  doveva  dieci  anni  dopo  rientrare  alla  Corte,  e  avere  in  sue  mani 
l'avvenire  della  Francia.  Come  del  resto  si  vede  da  questa  lettera,  era 
all'ombra  del  Concini  che  il  Richelieu  diveniva  un  uomo  politico. 


—  360  — 
cosa  andare  a  dirittura  a  lui,  et  non  ad  altri  tutto 
questo    per    conclusione    si   crede,  clie  apportarà 
una    pace    generale  in  Francia,   et  la  liberatione 
del  Principe  fra  pochi  giorni. 

Il  S/  Card.'"  e  ritornato  et  e  stato  q.'*  matt." 
in  Cons."  come  capo  d'esso,  il  Presid.**  Vert  ha 
havuto  li  Sigilli  Regij  et  M."  de  Pisicouls  e  stato 
rimesso  nella  sua  carica  la  Reg.""  Madre  che  si  trova 
priggione  nelle  sue  stanze  con  buone  guardie,  et 
porte  murate  si  tratta  di  mandarla  nel  Borbonese 
quanto  p.*  non  volendo  il  Re  vederla  mai  più  poi 
che  haveva  risoluto  fare  il  Concini  Mere  di  Pa- 
lazzo, e  darli  l'autorità  antica  di  d."  mere,  vole- 
vano mettere  il  re  in  una  Cam.''  et  il  Concini  do- 
veva ha  ver  cura  di  lui,  et  del  fr."°.  il  Card,  de 
Guisa  doveva  esser  posto  nella  Bastiglia,  et 
Mons."""  de  Luj^nes  doveva  esser  guardado,  il 
Pr."''  e  stato  allargato  per  tutta  la  Bastiglia,  et 
il  Colonello  Ornano  ha  cura  di  lui,  tutti  gii  offi- 
ciali, et  altri  personaggi,  che  dependevano  dal 
d.°  Concini  sono  licentiati;  la  Concini,  et  l'Arci- 
vescovo suo  fratello  sono  prigioni,  et  il  figlio 
ancora.  Mons.'"'  de  Longavilla  ha  dormito  questa 
notte  a  S.an  Dionigi  dove  e  andato  questa  mat- 
tina il  Conte  di  Suesson  per  disnar  seco,  e  con- 
durlo doppo  dalle  M.  M.'^  e  dalla  sposa,  li  campi 
non  fanno  più  niente,  et  in  arrivando  la  morte 
del  Concini  a  Suesson,  li  grandi  dell'Armata  del 
Re  entrorno  dentro  a  bevere  alla  Sanità  del  Re 
col  Duca  d'Omena,  verso  il  quale  mandano  Mons."" 
di  Pieau,  et  un  altro    Cav."'"  per  farlo  venire   in 


—  361  — 
Corte,  et  l'istesso  faranno  con  gl'altri  Principi,  la 
luogotenenza  di  Normandia  non  l'hanno  avuta 
Mons/  de  Luynes  come  si  è  detto  ma  il  Duca 
di  Elbeuf  et  la  confìscatione  l'haverà  d.°  Luynes. 
Il  Re  attende  alli  Consigli  havendo  dato  libertà 
a  tutti  li  suoi  ucelli^  fatto  disfar  le  forgie,  et 
altre  hagatelle  che  haveva  per  trattenerlo  in  affari 
fanciulleschi,  et  questo  è  quanto  si  può  dir  per 
hora. 

A  Parigi  li  25  di  aprile  1617. 

L'Arcivescovo  di  Tuors  non  e  prigione  essen- 
dosi salvato,  la  Pr.^'^'"'  di  Condè,  la  moglie  è 
giunta  questa  sera,  e  questa  mattina  Mons^  di 
Longavilla,  et  Vandomo  saranno  qui  sabato,  et 
cosi  si  crede  di  Mons  .  di  Nives,  et  il  Duca  di 
Gkisa  ancora  Maienne  ka  mandato  p.  il  Conte 
di  Susa  suo  nepote  le  chiavi  al  E-e  di  Suessone 
et  domattina  S.  M.  andarà  alla  Corte  di  Parla- 
mento per  fare  una  dichiarazione  favorevole  a 
tutti  i  Pr''',  et  poi  tutti  verranno,  et  il  Condè 
che  è  assai  allargato  si  crede  debba  uscir  presto, 
et  la  moglie  lo  dovrà  vedere  forse  questa  sera. 
Il  Conte  di  Puemia  con  tutti  li  grandi  del  Campo 
del  E-e  sono  stati  in  Suessone  a  bevere  alla  Sa- 
nità del  Re,  et  Maiene  donò  all'armata  40  botte 
di  vino  per  fare  il  simile,  si  che  il  tutto  resta 
accomodato.  La  Regina  Madre  sarà  condotta  a 
Malines  in  Borbonese  per  vivere  il  resto  di  sua 
vita,  et  il  Re  non  la  vuol  più  vedere. 

A  Parigi  li  26  di  aprile  1617. 


—  362  — 


II. 


(Questi  tre  sonetti  furono  ricavati  da  un  manoscritto  esistente  alla 
biblioteca  nazionale  V.  E.  di  Roma,  posseduto  anticamente  dai  frati  della 
e  illesa  di  S.  Croce  in  Gerusalemme.  Pare  che  siano  stati  copiati  da  un 
segretario  di  qualche  nobile  diplomatico  o  cardinale  spagnolo.  Nel  volume, 
insieme  a  questi  sonetti,  vi  sono  versi  di  Don  Luis  de  Gongora,  di  Qua- 
vedo,  del  cavalier  Marino,  insieme  a  carteggi  importantissimi  dei  duchi 
di  Ossuna  e  di  Lemos.) 


Sonetto  sopra  la  Corte  di  Madrid 

Stronsi  odorati,  e  monti  di  pitali 
Versati  e  sparsi  in  liquidi  torrenti 
D'orine  e  brodi  fracidi  e  fetenti 
Da  non  poter  passar  senza  stivali. 

Acque  stercoregianti,  e  d'animali 
Morti  feconde  ;  pan  senza  fermenti, 
Pesce  che  amorba  da  lontan  le  genti 
Via  forte,  aceto  dolce,  olii  mortali. 

Fabriche  sontuose  in  su  le  stecche, 
Impiastrate  di  fango,  e  di  l'ordura  (sic) 
Senza  misura,  et  ordine  distinte. 

Donne  di  biacca,  di  verzin  dipinte 
Succide  senza  crin,  spolpate  e  secche 


Aquesta  es  la  hermosura 
Al  superbo  triompho  e  immortale 
Del  famoso  Madrid  Stanza  Reale. 


—  363  — 

Contro  gli  Spagnuoli 

Il  Papa  e  Papa,  e  voi  sete  Marrani 
Catolici  bastardi,  liebrei  legitimi, 
Delli  Stati  lontani,  e  de  i   finitimi 
Perfidi  usurpatori,  e  doppie  mani. 

Se  non  v'armano  i  Principi  Christiani 
Di  soccorsi  terrestri  e  di  marittimi, 
Voi  con  bravate,  e  modi  aspri  e  illegitimi, 
Gli  chiamate  hugonotti  e  luterani. 

Un  Papa  cha  (sic)  cervello  a  tutti  e  Padre, 
Rendete  il  titolo  voi  prima,  e  poi  dite, 
Qua  la  lega  ha  le  branche  ingiuste  e  ladre. 

Vaiarne  Uios  ancora  non  ardite 
D'uscir  in  campo  con  le  vostre  squadre 
0  di  gente  superba  arme  fallite. 

Altro  sonetto  contro  gli  Spagnuoli 

Principi  Italiani,  e  voi  Baroni 
Que  cantra  ogni  raggion  spagnollggiate 
Al  vostro  gran  Monarcha  homai  lasciate 
Gli  preggi  suoi  cavalereschi,  e  i  doni. 

Son  Insidie  moresche  i  suoi  Tosoni 
Quali  vi  dona  poi,  perchè  restiate, 
Tante  povere  pecore  tosate, 
0  per  meglio  parlar,  tanti  Castroni. 

Fatto  già  tauro  Giove,  Europa  bella 
Rapì  nel  patrio  lido,  e  rozza  putta 
La  fé'  di  casta  e  nobile  donzella. 

Ed  hor  con  Metamorphosi  più  brutta, 
Questo  che  Giove  Hispano  il  mondo  appella 
Rubba  (fatto  monton)  l'Italia  tutta. 


—  364 


ni. 


(Questo  madrigale  e    i   sonetti   segiieuti,    poesie    inedite    del   Marino, 
sono  uniti  con  i  tre  sonetti  da  noi  trascritti,  contro  la    Spagna.) 


Madrigale  del  cav.  Marino 

Ecco  già  mi  sommerge 
(Misero)  e  non  mi  vai  la  lira  e  '1  canto 
Tra  venti  di  sospir,  un  mar  di  pianto, 
In  naufragio  amoroso 
Fiè  gran  pietà,  perchè  resti  absorto 
Dalla  tempesta  al  porto 
Celeste  mio  Delphi  no 
Portar  sul  tergo  un  Arion  Marino. 

CONTRA    I    MODERNI    POETI    DEL    CavALIER    MaRINO 

Aventurosi  liquidi  cristalli 
Che  da  gorghi  sì  belli  uscendo  fupra 
Allo  spuntar  de  la  nascente  aurora 
Bagnate  il  bel  sol  perle  e  coralli. 

Beati  colli,  e  liete  ameue  valli 
Que  primavera  di  sua  mano  infiora, 
Ecco  l'idolo  mio  che  v'orna  e  honora, 
Pi-emendo  i  vostri  dorsi  hor  rossi  hor  gialli. 

Felici  campi,  ove  the  '1  cielo  aperse 
I  più  ricchi  d'amor  cari  tesori 
Di  bellezze  sì  rare  e  sì  diverse. 


—  365  - 

Que  lioggi  potrete  dir  qui  caccò  Glori 
Qui  della  orina  sua  tutti  v'aperse, 
Qui  mostrò  il  e...  a  mille  herbette  e  fiori. 


Sonetti  del  cavaliee  Marino  sopra  Ostenda  espugnata 

DAL    ECC."°    ET    InvIT."°     MaRQUESE    SpINOLA. 

Questa  que  per  lo  ciel  sì  vaghe  stende 
Le  penne  inteste  di  topazij,  e  d'oro, 
E  stringe  infra  le  man  sì  verde  alloi'o 
Bella  vittoria  ond'ora  a  noi  discende? 

Quel  chella  intende  nobil  maga  intende 
E  versavi  di  gloria  ampio  tesoro  : 
Certo  al  gran  nome  che  cotanto  onoro 
D'ai  Reno  il  corso  a  queste  rive  prende. 

Il  chiaro  albergo  del  mio  gran  Marchese 
Di  mille  rende,  e  mille  onori  adoi'no  : 
Pronta  a  tornarmi  ogn'or  co  l'ali  tese. 

Intanto  imprimo  a  l'alte  porte  intorno; 
Ostende  o  l'empie  mura  a  terra  stese, 
Del  Belgico  furor  perpetuo  scorno. 


Ha  lo  stesso  subietto 

Chi  e  costui,  che  con  guerriera  mano 
A  pena  impugna  l'onorata  spada; 
Che  fa  che  l'empia  Ostenda  a  terra  cada, 
Già  fier  contrasto  al  gran  guerrier  Romano. 

Come  tra  l'onde,  el  sangue,  el  ferro  insano, 
E  i  tocchi  (sic),  e  l'hasta  altier  sapre  la  strada? 
E  quasi  mietitor  seca,  e  dirada 
L'aspro  furor  de  l'infedel  Germano. 


—  :  66  — 

Non  io  più  scherno  al  caro  mio  tei'reno; 
E  indarno  a  sì  bei  lidi  è  il  soccorso. 
Virtù  si  grande  or  ci  richiama  al  freno. 

Tremò  fra  londe,  a  sì  grand'opra  il  corso 
Mesto  fermò  de  suoi  diluvij  il  Reno, 
E  d' ira  disse,  e  di  timor  rimorso. 

Ha  il  medesimo  subiuetto 

Aspre  mura,  superbe,  alte,  e  famose 
Di  strage  immensa,  o  di  guerriere  genti 
Acerba  tomba  ;  e  fra  pensier  dolenti 
Odio  di  tante  madri,  e  tante  spose. 

Quel  fier  che  sì  gran  speme  in  voi  ripose, 
Qual  fue  a  mirare  i  nostri  pregi  spenti? 
E  comò  a  rai  del  mio  Marchese  ardenti 
D'alta  virtute  il  mio  furor  dispose? 

Certo  ei  presago  di  suo  fine  in  parte 
Quai  teri-e  espugno,  e  quai  difendo  invano  ! 
(Disse)  0  qual  forza  omai  ritento,  od  arte? 

Se  mille  schiere  calpestar  sul  piano 
Uopo  sarà,  s'altre  gran  mura  sparte, 
Tutto  il  potrà  si  gloriosa  mano. 

H.V    LO    STESSO    SUBBIETTO 

Perchè  d'Italia  il  sovran  pregio  altiero, 
Que  Parma  cinse  d'immortali  allori. 
Tentar  non  volle  i  barbari  furori, 
Che  albergo  borrendo  entro  d'Ostenda  fero: 

Feroce  ella  ogni  duce,  ogni  guerriero 
Sprezzava,  e  l'armi,  e  l'inimici  ardori, 
E  paventava  a  quei  crudeli  orrori 
Il  fier  Tedesco,  el  valoroso  Ibero. 


—  367  — 

Ora  a  te  vinta  l'alte  mura  stende 
Spinola  invitto,  e  d'auree  fiamme,  e  vive 
Di  vera  gloria  a  te  gran  luce  accende. 

Va  fama,  e  conta  a  le  latine  rive 
Che  nulla  il  corso  a  nostri  onor  contende 
Mentre  si  gran  guerrier  fra  noi  si  vive. 


EMENDE  E  CORREZIONI 


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leggere 

il  urto?  a 

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28: 

cura 

» 

rima 

» 

72 

» 

1: 

Metamorphoscon 

;      » 

Melaniorphoseon 

» 

74 

» 

13: 

suo  suo 

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78 

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5  : 

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78 

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19: 

Guidiccioiii 

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Castiglione 

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22: 

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102 

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26: 

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3: 

Eneide 

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Eneide 

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353 

» 

26 

Manso 

» 

Mango 

Per  gli  aUri  errori  di  stampa,  mi  rimetto  con  piena  fiducia  alla  cor- 
tesia del  lettore. 


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PQ  Menghini,  Mario 

4628  La  vita  e  le  opere  di 

Z8M4  Giambattista  Marino 

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Sig.  Sam 

SIGMUND  SA-MUEL  LEBRAUY